"Il Governo ha due doveri, quello di mantenere l'ordine pubblico a qualunque costo ed in qualunque occasione, e quello di garantire nel modo il piu' assoluto la liberta' di lavoro."
Il Municipio di Cavour
"Le leggi devono tener conto anche dei difetti e delle manchevolezze di un paese. Un sarto che deve tagliare un abito per un gobbo, deve fare la gobba anche all'abito."
Tomba della Famiglia Giolitti
"Nessuno si puo' illudere di potere impedire che le classi popolari conquistino la loro parte di influenza economica e di influenza politica. Gli amici delle istituzioni hanno un dovere soprattutto, quello di persuadere queste classi, e di persuaderle con i fatti, che dalle istituzioni attuali esse possono sperare assai piu' che dai sogni dell'avvenire."
Il busto di Giolitti
"Agli uomini politici che passano dalla critica all'azione, assumendo le responsabilita' del governo, si muove spesso l'accusa di mutare le loro idee; ma in verita' cio' che accade, non e' che essi le mutino, ma le limitano adattandole alla realta' e alle possibilità dell'azione nelle condizioni in cui si deve svolgere necessariamente."
Cavour, la rocca e le Alpi
"Agli uomini politici che passano dalla critica all'azione, assumendo le responsabilita' del governo, si muove spesso l'accusa di mutare le loro idee; ma in verita' cio' che accade, non e' che essi le mutino, ma le limitano adattandole alla realta' e alle possibilità dell'azione nelle condizioni in cui si deve svolgere necessariamente."
Proposte
In questa sezione segnaliamo editoriali, articoli, note, recensioni e saggi brevi di interesse.
INTERFERENZE ELETTORALI? DA CHE MONDO È MONDO, ITALIA COMPRESA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 13 gennaio 2018, pagg. 1 e 11.
Dal declino dell'Impero Romano non c'è nella storia d’Italia un momento esente da interferenze straniere: scorrerie, invasioni, dominio di sovrani esteri e del papa, nemico storico della sua indipendenza. Per quanto ovvio, questo tragico passato va ricordato perché dilaga un allarme esagerato: gli italiani odierni sarebbero esposti a interferenze dirette o indirette di imbonitori d'Oltralpe, come non bastassero quelli nostrani.
I rimedi proposti contro influenze occulte sono peggiori del male. Per esempio, oggi dilaga la pretesa che, per intervenire in dibattiti elettorali, i giornalisti dovrebbero dichiarare da che parte sono schierati, in barba al principio costituzionale che garantisce la segretezza del voto e di quanto lo precede: l'opinione personale. A questo modo si confonde la libertà (di premettere, se si vuole e di volta in volta, la propria convinzione) con un obbligo. Una pretesa da regime. D'altronde, va ricordato, l'Ordine dei giornalisti fu istituito dal fascismo proprio per imbavagliare l'opposizione partitica, ideologica, culturale. Alla caduta del regime, i direttori d'età mussoliniana (molti dei quali professionalmente validi) furono cacciati e sostituiti con figure talvolta scialbe, altre volte con abili riciclati. Ciò che però più conta, l'Ordine rimase e perdura come l'Obelisco Mussolini dinnanzi al Villaggio Olimpico a Roma. Non da venerare, ma da meditare.
In secondo luogo occorre mettere in guardia da chi… mette in guardia.
È il caso del fatuo allarmismo imperversante contro le supposte “interferenze” del presidente della Repubblica federale russa, Vladimir Putin, nella imminente campagna elettorale italiana. Al riguardo va detto che, come ogni altro abitante del pianeta, Putin ha tutti i diritti di cercare di influenzare l'orientamento degli elettori italiani, così come quelli nostrani hanno o dovrebbero avere piena libertà di far altrettanto con le elezioni di casa sua e di ogni altro paese. Se proprio vogliamo parlare di “interferenze”, ricordiamo l'argomento principe agitato a sostegno di campagne militari devastanti intraprese da Stati che si arrogarono il diritto di “esportare la democrazia” e di trapiantarla a forza in altri continenti, saltando a pie' pari la storia: una pretesa, questa, che l'antico colonialismo non aveva mai accampato. Esso cercò di cancellare o almeno di contrastare le pratiche più ripugnanti, come la tratta degli schiavi, l'escissione del clitoride alle bambine…, ma si rese conto che occorreva tempo. Fu quanto l'Italia si trovò dinnanzi agli occhi in Eritrea, Somalia e in Libia tra il 1885 e il 1912.
Per capire il ridicolo dell'allarme in corso a tutela degli elettori nostrani da ingerenze straniere basta dare una spolverata alla memoria storica. Nel 1859 l'Italia era ancora sotto il peso di dominazioni straniere plurisecolari, con buona pace di neoborbonici, neopapisti e neoasburgici. In sintesi estrema, tra il 1848 e il 1870 l'Italia raggiunse l'unificazione nazionale (parziale) proprio grazie alla somma di interferenze delle maggiori potenze, che indebolirono l'impero d'Austria e lo costrinsero a cedere a Vittorio Emanuele II il Lombardo-Veneto (1859-1866), lasciarono mano libera al “Piemonte” nei Ducati Padani, in Toscana e nelle Legazioni pontificie e non batterono ciglio quando il Re di Sardegna invase il Mezzogiorno, senza dichiarazione di guerra, per imbrigliare la situazione che stava scappando di mano a Garibaldi, attorniato da patrioti inconcludenti (lo ricorda Nico Perrone in saggi magistrali).
L'Italia nacque da interferenze colossali. Sia pure con qualche esagerazione gli osservatori stranieri conclusero che la sua unificazione era dovuta a tre “Esse”: Solferino (vittoria di Napoleone III su Francesco Giuseppe d'Asburgo), Sadowa (della Prussia sull'Austria) e Sedan (di Bismark su Napoleone III). Fu una vittoria decisiva, questa, perché spinse il governo italiano a invadere il Lazio e a entrare in Roma previo bombardamento e assalto alla baionetta per piegare la resistenza dei papalini, ormai privi del supporto francese.
A parte il percorso militare che portò all'unificazione (proiettato sino al 1918, alla pace di Saint-Germain, alla marcia di d'Annunzio su Fiume, all'intricata politica estera del ventennio seguente, in controcanto con quella degli altri Stati, niente affatto teneri nei confronti dell'Italia), diamo uno sguardo alle “interferenze” nelle elezioni politiche. Nel 1890 venne alla luce l'ingente finanziamento accordato da Enrico Cernuschi (Milano 1821-Mentone, 1896) ai radicali italiani guidati da Felice Cavallotti, lanciato a testa bassa contro Francesco Crispi. Cernuschi meriterebbe un ampio ritratto. Appartiene a quel nucleo di italiani (come Costantino Nigra) che visse a lungo con un piede e mezzo all'estero, specie in Francia, e vi fece cospicua fortuna. Tra questi va ricordato il conte Francesco Arese (Milano, 1805-Firenze, 1881). Figlio di Antonietta Fagnani, molto cara al poeta Ugo Foscolo, cresciuto con Luigi Napoleone (futuro Napoleone III), carbonaro, poi mazziniano, volontario nella Legione straniera francese, impegnata a “normalizzare” l'Algeria con metodi oggi orripilanti, esploratore del Mississippi, eletto deputato a Torino, senatore del regno di Sardegna dal 1854, fu artefice della trama coronata dagli accordi di Plombières (luglio 1858) preludenti all'alleanza sardo-francese contro Vienna. Presidente del Consiglio designato alle dimissioni di Cavour dopo l'armistizio di Villafranca (luglio 1859), fu lui a ottenere che Napoleone III riconoscesse “obtorto collo” il regno d'Italia (6 giugno 1861). Dopo la forzata abdicazione Napoleone III gli affidò la cura dei suoi beni in Italia. In quella veste Arese negoziò la vendita delle immense proprietà napoleoniche sul Colle Palatino a Vittorio Emanuele II, che le donò alla Città Eterna. Quella è la Roma che suscita l'emozione di tanti pellegrini, come Emmanuel Macron, il cui elogio di Gentiloni (ben dato e ben meritato) è molto peggio che un'interferenza nella campagna elettorale...: suona ironica.
Cernuschi, federalista come Carlo Cattaneo e artefice delle Cinque Giornate milanesi contro Radetzky (marzo 1848), esule a Lugano, volontario a Roma nella Repubblica romana del 1849, antimazziniano, fortunato affarista in Francia (accumulò enorme ricchezza tra abili operazioni finanziarie e lucroso commercio di carni) ed esperto di questioni monetarie (fautore del bimetallismo). in vista delle elezioni italiane del novembre 1890 versò centomila lire “in nero” a sostegno dei candidati radicali e repubblicani, guidati da Felice Cavallotti, contrari al rinnovo della Triplice Alleanza di Roma con Vienna e Berlino e decisi a riportare l'Italia sotto influenza francese. Gli andò male. Grazie al convinto sostegno del ministro del Tesoro e delle Finanze, Giovanni Giolitti (secondo il quale i francesi erano costituzionalmente indeboliti dall'abuso di alcool), Crispi ottenne un clamoroso successo proprio nelle regioni settentrionali, ove si affermarono anche socialisti come Andrea Costa, allievo di Giosue Carducci, a sua volta legato a Crispi e allo stratega del “partito italiano”: Adriano Lemmi, gran maestro del Grande Oriente d'Italia. L'interferenza di Cernuschi ebbe effetto contrario alle sue speranze, perché gli elettori seppero decidere da sé.
La Francia imboccò allora altre vie per influire sull'elettorato italiano. Venne rispolverato un vecchio documento giudiziario per screditare Lemmi. Parigi incitò la sinistra filofrancese contro Carducci (fischiato dagli studenti a Bologna) e soprattutto sguinzagliò il prezzolato Léo Taxil, ex segretario della garibaldina lega anticlericale (ateo militante), che finse una clamorosa conversione alla fede verace. Dopo aver pubblicato “Gli amori segreti di Pio IX” e altri libelli anticattolici, Taxil si fece ricevere da papa Leone XIII che gli domandò quale fosse il suo desiderio e si sentì rispondere “Morire ai suoi piedi, Santità”. I romanzacci antimassonici di Taxil, Domenico Margiotta e di modesti scrittori di “La Civiltà Cattolica” suscitarono un'onda scandalistica con ricadute sulle elezioni italiane del 1892, 1895 e 1897. Alla fine Taxil confessò di essersi inventato tutto e si ritirò a scrivere ricette gastronomiche per una rivistucola di provincia. Aveva fatto la sua parte. Nel frattempo Roma aveva rinnovato la Triplice con Berlino e Vienna ottenendo dall'Austria la certezza che, in caso di espansione nei Balcani (con l'acquisizione di Bosnia, Erzegovina e altro), avrebbe riconosciuto “compensi” all'Italia: clausola alla base delle lunghe e vane trattative del 1914-1915 per tenere l'Italia fuori della Grande Guerra.
A cospetto di quanto è avvenuto nei secoli, è davvero sconcertante il malriposto scandalo odierno per presunte interferenze estere sugli elettori italiani. Basti ricordare, a conclusione provvisoria, quanto accadde nel 1946-1948. Il referendum che il 2-3 giugno 1946 segnò il passaggio dalla monarchia alla repubblica fu condizionato dal timore che l'Armata Rossa avrebbe rotto i confini in caso di vittoria monarchica. Venne diffusa ad arte la voce che fosse pronta l'insurrezione social-comunista: una leggenda, ma efficace. Nenni minacciò: “La repubblica o il caos”. Si aggiunse (e quella fu realtà dolente) l'inerzia degli anglo-americani, che non mossero un dito a sostegno della monarchia, perché preferivano un'Italia debole, alla quale imporre l'umiliante Trattato di pace del 10 febbraio 1947. Quanto alle elezioni del 1948, è noto che si risolsero nel duello pro o contro l'incubo di Stalin, pro e contro gli aiuti assicurati all'Italia dal piano Marshall. Interferenze? L'Italia era ed è in Europa, era ed è nel mondo. Non è al di fuori della storia. Se le interferenze si limitassero a pressioni sull'opinione degli elettori sarebbero poca cosa rispetto al massiccio spostamento del fronte Nato sempre più a est, nell'illusione che la Russia sarebbe rimasta inebetita a guardare.
Gli elettori sono adulti e sanno decidere. Se non lo sono o se non si recano alle urne, qualcun altro deciderà al posto loro. Gli assenti avranno comunque torto, come ha ammonito il Presidente Mattarella nel discorso del 31 gennaio.
Aldo A. Mola
GIACOMO TREVES EBREO MASSONE DANNUNZIANO PATRIOTA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 7 gennaio 2018, pagg. 1 e 11.
“Eja, eja, eja, Alalà!” fu a lungo il motto anche del torinese Giacomo Treves, personalità emblematica dell'aggrovigliata storia d'Italia dall'età emanuelino-giolittiana alla seconda guerra mondiale. Come la generalità degli ebrei dell'Ottocento, egli vide nell'unificazione italiana l'emancipazione definitiva del suo popolo da vessazioni ancora imperversanti in tutta l'Europa continentale, dalla penisola iberica all'impero di Russia, a inizio Novecento teatro di pogrom (del resto anche Stalin perseguitò gli ebrei, molti cui esponenti fece assassinare, da Kamenev a Trotzky).
Nell'antico regno di Sardegna, gli israeliti ebbero la piena parità civile e politica con i Regi Decreti di Carlo Alberto (29 marzo 1848) e del Luogotenente Eugenio (19 giugno). Il secondo precisò che “la differenza di culto non forma eccezione al godimento dei diritti civili e politici e all'ammissibilità alle cariche civili e militari”. Era il Piemonte di David Levi, Isacco Artom e poi di Salvatore Ottolenghi.
Nato a Torino nel 1882, diplomato ragioniere al “Sommeiller” (lo stesso di Vittorio Valletta, Giuseppe Saragat e Giuseppe Pella, come orgogliosamente ricordava il suo preside Gaetano Fiorentino, poeta satirico e 33° grado del Rito scozzese), nel 1914-1915 Treves fu tra i fautori dell'intervento dell'Italia nella grande guerra, per coronare il Risorgimento e sradicare l'oligarchia reazionaria asburgica. Per galleggiare al potere, questa ingigantiva il mito del complotto socialista-massonico-giudaico abbozzato da Pio IX (per il quale la massoneria era “sinagoga di Satana”) e poi divulgato dal francese Léo Taxil, prezzolato dai “servizi” del suo paese, la Francia che degradò Alfred Dreyfus con l'accusa di tradimento e lo deportò nell'Isola del Diavolo.
Italiano di profondo sentire patriottico, iniziato massone nella loggia “Ausonia” di Torino (matricola 42.909), il 17 dicembre 1918 Treves dette vita alla loggia “Guglielmo Oberdan” a Trieste, con recapito postale nel proprio ufficio. Il gran maestro del Grande Oriente d'Italia, Ernesto Nathan, aveva cercato di frenarlo, ma Treves aveva una visione strategico-poetica del tempo venturo: liberazione d'Europa non solo da vincoli diplomatici, militari, politici ma da quanto rappresentava il passato remoto, i ceppi dei bigotti. Il 20 dicembre 1918 egli invitò in loggia un oratore d'eccezione per commemorare Guglielmo Oberdan: Benito Mussolini, cresciuto nel convitto di Forlimpopoli diretto da Valfredo Carducci, fratello minore di Giosuè, anticlericale tutto d'un pezzo. Treves gli propose di affermare i “latini diritti dell'uomo, sulla rovina del diritto divino imperiale”. Nella circolare ai “fratelli” ordinò: “Nessuno deve mancare”.
Fu Giacomo Treves a ordire la “marcia di Ronchi” di Gabriele d'Annunzio l'11-12 settembre 1919 guidata da sette Granatieri di Sardegna, tutti “iniziati”. Non se ne trova cenno nel recente libro “Fiume. L'avventura che cambiò l'Italia” di Pier Luigi Vercesi (ed. Neri Pozza). L'ebreo torinese fece parte del Comitato segreto con Piero Pieri e Mario d'Osmo, poi forte del lasciapassare del Comandante che li autorizzava a “entrare e a uscire per i nostri posti di sbarramento in ogni ora e con qualunque mezzo”. Il 19 settembre, una settimana dopo la “marcia”, d'Annunzio gli espresse imperitura riconoscenza. Il difficile, però, doveva venire.
Nel maggio 1915 l'Italia era entrata in guerra contro l'impero austro-ungarico non solo per raggiungere i confini naturali ma per dominare l'Adriatico e liberarsi per sempre dall'assedio marittimo (sia “tedesco” sia franco-inglese, e prima che vi arrivassero gli Stati Uniti d'America) al quale era condannata dall'indifendibilità della sua costa orientale. Roma doveva necessariamente dominare Fiume, Zara, le isole della costa orientale e almeno Valona e Argirocastro, a continuazione e sviluppo della politica estera di Francesco Crispi e di Giovanni Giolitti che nel 1911, senza alcun preavviso ad alleati e a rivali, non aveva esitato a dichiarare guerra all'impero turco per la sovranità italiana sulla Libia e a occupare Rodi e il Dodecaneso, malgrado l'ostilità di Londra e Parigi.
L'accordo di Londra del 26 aprile 1915 non prevedeva la cessione di Fiume all'Italia. D'Annunzio andò a impadronirsene dinnanzi a un'Europa sbigottita e impotente. Presto, tuttavia, vi si sentì stretto. L'inverno incipiente recò difficoltà estreme. In suo soccorso andò anzitutto il presidente della Croce Rossa Italiana, Giovanni Ciraolo, massone. Il Grande Oriente d'Italia, con molte venature mazziniane ma leale verso Vittorio Emanuele III, appoggiò l'“impresa”. Altrettanto fece la Gran Loggia d'Italia, che contava nel suo Supremo Consiglio Paolo Thaon di Revel, Duca del mare e fidatissimo del Re. Quando però d'Annunzio pensò di organizzare una “marcia su Roma”, il Gran maestro Torrigiani lo sconfessò e intimò ruvidamente a Treves di richiamarlo all'ordine. Anziché laboratorio politico Fiume stava divenendo teatro di visionari. Vi accorse anche Cicerin, su mandato di Lenin. L'Italia aveva bisogno urgente di pacificazione interna per far valere le sue ragioni verso le Grandi Potenze mentre si stavano tirando le somme dei Trattati di pace: operazione lunga, intricata e foriera di nuovi conflitti, come poi si vide con il “revisionismo” e dieci anni di convulse rettifiche dei confini sino al fatale biennio1938-1939. Il progetto dannunziano di uno sbarco sulla costa adriatica con meta Roma avrebbe suscitato le masse socialiste e cattoliche e imposto al governo la repressione militare. L'Esercito che aveva sbaragliato l'Austria non si sarebbe fatto mettere in scacco da legionari armati di pugnali e spesso gonfi di stimolanti.
D'Annunzio, che a Treves scriveva su carta intestata “Ardisco e non ordisco”, capì e ripiegò le vele. Dopo lunghe vicissitudini si affidò al massone anarco-sindacalista Alceste De Ambris per la stesura della Carta del Carnaro, la cui copia Treves ebbe dalle mani del Vate-Reggente. Lì c'era tutto: libertà, divorzio, emancipazione femminile, immaginazione al potere (la vera, non quella dei “sessantottini” frustrati), una visione dell'uomo realizzabile in una villa romana nei secoli della decadenza dell'Impero, quando ancora era possibile tenere a distanza i barbari, le masse, quelle stesse “folle” di cui il Comandante sentiva bisogno per pronunciare le sue celebri orazioni, che erano anzitutto pubbliche confessioni di sé a sé stesso, monologhi da sacra rappresentazione.
Il 31 ottobre 1919 il gran Maestro Torrigiani esortò Treves a mettere d'Annunzio in guardia dalle “arti tenaci di squilibrati e monomaniaci”, come il “fratello” Edoardo Frosini, “commesso di commercio in cere da scarpe, autodidatta penetrato nei grandi studi spiritualistici per una forma di demenza razionante”. Il 29 aggiunse: “Sappiamo (e sa il Governo) che si sono ordite le fila della rivolta nell'Esercito, o, per essere esatti, specialmente nell'Esercito (…) La Democrazia n'è preoccupata e nelle sue forze più serie risolutamente avversa. Avversa è e deve essere la Massoneria”. Treves ne fu deluso.
Un anno dopo la Marcia di Ronchi venne stampato a Torino “Alalà” “per la notte di Ronchi e per l'alba del Carnaro” con l'annuncio: “L'Indipendenza di Fiume”, firmato da De Ambris. L'Album comprese scritti di una lunga serie di nobildonne e l'elenco dei “sottoscrittori per la causa”, “pro fiume e Dalmazia”. Tra i tanti vi comparvero Emilia Momigliano Tedeschi, Vittoria Viviani, il generale Angelo Chiarle, Luciano e Ida Coen, Leone e Alina Sinigaglia, Enrico Togliatti e la loggia “Propaganda Massonica” di Torino, che versò 70 lire contro le 1000 della marchesa Ester Medici del Vascello. Altrettanto avvenne a Genova e in molte altre città, grandi e piccole. Da Arturo Toscanini a Filippo Tommaso Marinetti tanti campioni dell'arte e della vita culturale vibravano per Fiume Italiana. L'impresa ebbe il sostegno delle contesse Sofia di Bricherasio e Sofia Della Chiesa di Cervignasco, poi stratega delle organizzazioni fasciste femminili radicate nella tradizione risorgimentale, libera da condizionamenti bigotti, come doveva essere ed è l'educazione fisica femminile, propugnata dai “fratelli” Michele Coppino e Francesco De Sanctis.
Il 29 novembre 1922 Torrigiani chiese a Treves carte per illustrare “quanto l'Ordine fece per Fiume (...) debbo difendermi dai nazionalisti. Raccontami e documentami più che poi”. Treves si fece mettere il bavaglio da d'Annunzio e non gli mandò nulla. L'anno dopo organizzò la crociera della “Nave Italia” che (sull'esempio di quella due anni prima organizzata da Giulio Aristide Sartorio e Leonardo Bistolfi) recò in America Latina il meglio della produzione italiana: vetrina galleggiante del genio italico. Come tanti correligionari, Treves fu e rimase un sincero Patriota. Commendatore della Corona d'Italia, vide in Mussolini il bastione contro l'avanzata del clericalismo dopo i Trattati del Laterano fra Stato e chiesa cattolica. Non per caso nel 1938 circa diecimila ebrei italiani su 40.000 erano iscritti ai fasci (circa il 25%).
Treves passò all'Oriente Eterno l'8 novembre 1947. Alla guida della Massoneria Unificata Italiana, riconosciuta dagli USA, in quel momento era Domenico Maiocco, nativo di Cuorgnè. Secondo Gabriellino Cruyllas d'Annunzio era stato designato al vertice dell'Ordine da Placido Martini, il gran maestro martire, catturato dai nazisti, torturato a via Tasso e assassinato alle Ardeatine il 24 marzo 1944. Gabriellino, figlio del Vate, era stato iniziato alla Gran Loggia nella stessa officina di Nino Valeri, futuro storico e all'epoca esperto di diritti cinematografici, dannunziano a sua volta, esponente di un mondo inquieto, di esperimenti artistici e culturali, che procedette per segmenti, con strappi e inversioni a “u”.
Alla tragedia del 1938, segnata dalle leggi razziali, l'Italia arrivò tredici anni dopo il forzato autoscioglimento delle Comunità massoniche, che non trovarono solidarietà in voci amiche. Nello stesso 1938 il Rotary in Italia fu costretto a sciogliersi. Solo allora alcuni capirono che la libertà non si perde un poco alla volta, ma tutto d'un tratto, spesso senza neppure percepirlo. L'asservimento viene dopo e diviene abituale. Nel 1919-1938 a scommettere sul Vate e sul duce furono tanti che se ne pentirono quando risultò tardi. È la lezione che ci insegna la storia vera d'Italia: da studiare, non da risolvere in linciaggi ideologici che non concedono i “termini a difesa” e assomigliano al macabro processo inscenato da papa Stefano VI al cadavere del predecessore, papa Formoso, dissepolto dall'avello a San Giovanni in Laterano, condannato e gettato a Tevere. Era il remoto remoto 896 dopo Cristo...
Aldo A. Mola
BERNAGOZZI VERSUS LA SALMA DI VITTORIO EMANUELE III
Gentilissimo Direttore,
nel prestare molta attenzione ai risvolti dell'evento storico che abbiamo recentemente vissuto, leggendo la rassegna stampa, ho notato che la Signora Daniela Bernagozzi esprime il suo totale dissenso nei confronti della traslazione delle salme di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena nel Santuario di Vicoforte, in una lettera al settimanale diocesano cuneese “La Guida” (28 dicembre 2017, pagina 48).
La Signora scrive: “Chi sa un po', ma proprio anche solo un poco di storia, lo sa benissimo perché la salma di Vittorio Emanuele III poteva continuare a stare in Svizzera...”.
La Signora insegna storia al Liceo scientifico “Giuseppe Peano” di Cuneo ed è componente del neonato comitato scientifico del centro Giolitti di Dronero.
“Chi sa un poco, ma proprio anche solo un poco di storia” sa benissimo che Vittorio Emanuele III non era sepolto in Svizzera ma nella Chiesa di Santa Caterina ad Alessandria d'Egitto.
Complimenti alla Signora Professoressa.
Davide Colombo - "FERT" (Roma)
L'EDITORIALE MASSONERIA E LIBERTÀ D'ASSOCIAZIONE
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 31 dicembre 2017, pagg. 1 e 11.
Avviso alla Commissione parlamentare d'inchiesta su Mafia e massoneria: se in Italia non esiste una legge a “tutela del nome”, la colpa non è dei massoni ma della perdurante distrazione di massa dei “politici” che si pascono di pappolate sui “segreti massonici”. L'unico vero complotto in atto è quello contro la libertà d'associazione. Vediamo perché.
Il 21 dicembre 2017 sull'Italia è sceso il buio pesto. Anziché festa del Sole Invitto, questo Solstizio d'Inverno rimarrà negli annali come sconfitta della civiltà giuridica e, più in generale, della libertà. Questo è il succo della Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, in relazione alle (presunte) infiltrazioni di Cosa Nostra e della 'ndrangheta nella Massoneria in Sicilia e Calabria. Due premesse, prima di addentrarci nel sommario esame della Relazione. Istituita con la legge 19 giugno 2013, n. 87, la Commissione ha operato con i poteri di corte di giustizia, incluso quello di ordinare il sequestro dei piedilista di loggia ai sensi degli articoli 247 e seguenti del codice di procedura penale. Tuttavia la Relazione non è una “sentenza” ma una sequenza di divagazioni ripartite in quattro sezioni suddivise in 21 paragrafi (alcuni dei quali frantumati in sottoparagrafi), completa di conclusioni e di proposte. Se, come suol dirsi, le sentenze non si discutono ma si applicano, la Relazione è una “opinione”, scritta in italiano talora zoppicante e soggetta a tutte le riserve del caso.
Sin dalla premessa i Commissari mettono a nudo i limiti del loro metodo e svuotano la validità scientifica delle loro conclusioni. La Commissione si propose di “avviare un filone di inchiesta dedicato ai rapporti tra mafia e massoneria”. Sennonché essa dà per scontata la nozione di “mafia” e non chiarisce cosa intenda per “massoneria” (Italiana? Universale? Con quali riconoscimenti internazionali e quali rituali?...). Essa mescola realtà diversissime, riferendosi “a tutte le forme e ai raggruppamenti criminali di questo tipo” (quale?), “che siano comunque di estremo pericolo per il sistema sociale, economico e istituzionale”. Fantasmi. Mentre afferma che in Italia esistono almeno un centinaio di organizzazioni sedicenti massoniche (in realtà se ne contano assai di più), la Commissione decise di concentrarsi su “una parte significativa della massoneria ufficiale o considerata 'regolare'”: classificazione possibile, codesta, solo nel presupposto che lo Stato abbia titolo e voglia di fissare ed enunciare i requisiti di legittimità e regolarità delle associazioni massoniche in Italia e all'estero. Sarebbe come decidesse se sono più cristiani i cattolici, gli evangelici, i riformati o gli ortodossi: tante sette in libera contesa. Sennonché il pubblico potere è del tutto incompetente a entrare nel merito delle chiese come delle logge. In Italia, infatti, la “massoneria” è poco e male conosciuta (molto chiacchierata, invece, sulla base di pregiudizi ottusi, frutto di incultura) e comunque non è “riconosciuta”. Quindi la scelta della Commissione di interpellare i rappresentanti legali di quattro Comunità (Grande Oriente d'Italia, Gran Loggia d'Italia di Palazzo Vitelleschi, Gran Loggia Regolare d'Italia e, chissà come mai, la Serenissima Gran Loggia d'Italia, detta sbrigativamente “Serenissima”) è del tutto arbitraria. Lo ha fatto dichiaratamente “a campione” (una parte per il tutto), accampando che “quelle associazioni di tipo massonico presentano talune peculiari caratteristiche che, insieme considerate, possono risolversi nell'agevolazione dell'accesso mafioso” (sic!). Lo si potrebbe dire anche della chiesa cattolica, visto che non sono mancati ecclesiastici in odore di mafia anziché di santità, e di innumerevoli altri “corpi” pubblici ed enti privati.
La Commissione ha cercato conforto nell'audizione dell'ex gran maestro Giuliano Di Bernardo. Sempre avvolto in aura mistica, ancora una volta questi ha vantato l’“abolizione dei cappucci e delle spade in quanto ritenuti ormai anacronistici”. Altri due “testi”, Stefano Bisi, gran maestro del Grande Oriente, e Antonio Binni, sovrano gran commendatore e gran maestro della Gran Loggia, hanno invano cercato di far comprendere ai Commissari, palesemente digiuni delle più elementari cognizioni di genesi e storia della massoneria, che per i Liberi Muratori il rituale non è un orpello bensì sostanza, come i paramenti liturgici nei riti religiosi, che “legano insieme” e separano il sacro dal profano (o “laico”, cioè “ignaro di cose sacre”, come stigmatizzato dal poeta: “odi vulgus profanum, et arceo”).
La Commissione ha affastellato informazioni di dettaglio su singoli affiliati risultati condannati per reati vari, si mostra scandalizzata perché in loggia non vi sarebbero “soggetti riconducibili ai mestieri più umili o al novero dei disoccupati” (già il saccente Enzo Biagi domandò a Manlio Cecovini quanti braccianti fossero in loggia) e, sulla scia di Cesare Lombroso, deplora la “segretezza che permea il mondo massonico” in specie in aree (geoetniche?) “fisiologicamente” tolleranti verso l’illegalità e quindi esposte a “infiltrazioni criminali”. Si tratta di induzioni, mentre non risponde affatto al vero che “il segreto costituisce il perno di alcune obbedienze”, circonfuse da “un alone di mistero”. La Commissione confonde crassamente la riservatezza con “segretezza strutturale” e stigmatizza la “chiara riluttanza” dei grandi maestri a “riferire i fatti”, “anche quando i fatti nascosti abbiano assunto astratto rilievo penale”. Per porvi rimedio essa invoca i “pilastri della trasparenza intesa come anticamera del controllo sociale” e lamenta che la massoneria conservi “talune usanze, consone ai momenti storici in cui furono introdotte” ma “inaccettabili con l'avvento della democrazia”, senza però specificare quali siano queste “usanze”: grembiule, guanti, sciarpa, distintivo all'occhiello, arcana stretta di mano, triplice bacio...?
In sintesi, la Commissione ammicca, strizza l'occhiolino e rimane nel vago: fa esattamente ciò che essa rimprovera agli esponenti della massoneria, come bene ha rilevato l'on. Daniele Capezzone, “vox clamantis in deserto” in un Paese a schiena china e genuflesso anche se nessuno glielo chiede. Per vocazione...
Dopo molte divagazioni, la Commissione constata “la mancanza di un regime generale che renda obbligatoria la diffusione di notizie concernenti qualsivoglia compagine associativa” e ripete il mantra: “le obbedienze, di fatto, operano in un vero e proprio regime di segretezza, che ben poco ha a che vedere con l'invocato diritto alla riservatezza”. La sua ricetta è semplice. Premessa la stupida asserzione di Felice Cavallotti (“non tutti i massoni sono delinquenti ma tutti i delinquenti sono massoni”: Cavallotti, in realtà, disse “farabbutti”, non “delinquenti”), essa ritiene che occorrano “una normativa statale con una portata generalizzata”, verifiche periodiche sull'appartenenza dei dipendenti pubblici ad associazioni, con pene severe per dichiarazioni reticenti o mendaci, e l'estensione dell'investigazione da Sicilia e Calabria all'intero Paese, su “reati spia” e sui “fattori di rischio derivanti dall'appartenenza alla massoneria o ad altre associazioni similari”.
Esattamente come fece il regime fascista, che nel 1925-1926 annientò la massoneria e nel 1938 impose l'autoscioglimento ai Rotary, sorti dal 1923 e rimasti sempre invisi alla chiesa di Roma. La Commissione ha ritenuto bene di farsi forte di padre Francesco S.J, saltem papa, ricordando che questi “ha respinto le credenziali di un ambasciatore straniero presso la Santa Sede perché iscritto alla massoneria”. E all'Italia che importa? Deve forse lo Stato prendere norma dalla condotta della Città del Vaticano?
In sintesi, la Relazione mira ad abolire la libertà di associazione che è tutt'uno con quella politica. Se manca una legge sulle associazioni non è certo colpa della massoneria, che la chiede da decenni, sull'esempio della Francia che se ne dotò dal 1901 e di Paesi quali la Gran Bretagna e le Americhe, ove la massoneria è libera, a differenza di quanto accade in quasi tutti i Paesi islamici, ove i massoni sono perseguitati.
La “Commissione antimafia” ha un antecedente illustre al quale sicuramente si ispira la sig.na on. Rosi Bindi: Tina Anselmi. Nel diario pubblicato a cura di Anna Vinci (“La P2 nei Diari Segreti”, ed. Chiarelettere) la famosa “staffetta partigiana” annotò il “compito storico” fatto proprio quale presidente della Commissione parlamentare d'Inchiesta sulla loggia massonica P2: “con la giustizia determinare il cambiamento di una parte della classe dirigente del paese, compresa quella della DC” (pag. 18). Dovevano sopravvivere solo i comunisti e i loro accoliti. Quella commissione fece da pedana al salto successivo: Tangentopoli. Epperciò si dotò anche di “quattro esperti, presi su indicazione del PCI e della DC”: non liberali, repubblicani, socialdemocratici o socialisti, né, semplicemente, storici senza etichetta. Gli “esperti” dovevano essere “all'obbedienza”: non del Grande Architetto ma dei partiti di potere. Della greppia. Di quali esperti si è valsa la Commissione Bindi?
La Relazione Anselmi, impastata di congetture e scientificamente irrilevante, passò solo a maggioranza: ne vennero pubblicate altre cinque “di minoranza”, in forte dissenso con la prima. La Relazione Bindi, invece, è stata approvata all'unanimità: il che conferma la fatuità culturale di tanti “rappresentanti della nazione”, inconsapevoli - per stanchezza? per indifferenza? per pochezza? – che all'estero (e quindi già a partire dall'altra riva del Tevere) tale Relazione raccoglie solo il plauso dei fondamentalisti.
Aldo A. Mola
MAESTRI STELLA D'ITALIA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 24 dicembre 2017, pagg. 1 e 11.
Nella Tradizione il “Divino Maestro” è uno solo: il Messia, figlio unigenito di Dio, a lui unito nello Spirito Santo: la Trinità, ignota alla generalità dei sedicenti cristiani. Solo tra gli Evangelisti, Luca scrisse della formazione di Gesù (2, 41-52). Narrò che, condotto come ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua, Gesù dodicenne (età puberale) si sottrasse alla sorveglianza di Maria e Giuseppe. I genitori lo ritrovarono tre giorni dopo (cifra simbolica), seduto nel Tempio, in mezzo ai “dottori”, intento ad ascoltarli e a interrogarli. Quelli che lo udivano erano stupefatti della sua intelligenza e delle sue risposte. Alla madre, che gli manifestava l'angoscia provata, Gesù rispose: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo attendere alle cose di mio Padre?”. Si riferiva al Padre Celeste ma, osserva l'Evangelista Luca, “essi non compresero ciò che egli aveva detto”. L'“adolescente” non insuperbì affatto: “scese con loro e tornò a Nazaret ed era sottomesso ad essi”. Crebbe in sapienza e statura e grazia presso Dio e gli uomini”. Silente sino al trentesimo anno.
Le parole dell'Evangelista sono parabola della “formazione”, del rapporto complesso tra padri e figli e viceversa, un processo all'insegna della continuità tra le generazioni e le epoche, senza cesure artificiose e al riparo da interferenze di poteri sovraordinati rispetto al rapporto pedagogico. In tale cornice la Scuola pubblica (o Tempio) non è antagonista rispetto alla “famiglia”. È però fondata sulla certezza dell'insegnamento come responsabilità morale dei docenti verso gli allievi e sui valori di cui il potere pubblico è depositario.
Accade ora che gli “insegnanti” vengano destituiti in massa dai diritti acquisiti se non mostrino di padroneggiare una delle tante lingue straniere (l'inglese: e perché non lo spagnolo, il portoghese, il cinese...?), mentre i maestri diplomati d'antant per salire in cattedra dovrebbero conseguire laurea e magari anche seguire specializzarsi in onerosi corsi di specializzazione: quei master di cui abbiamo scandalosi esempi.
È l'Italia della ministra Valeria Fedeli, pessima fra i tanti truci che si sono alternati alla Pubblica Istruzione. La Scuola statale declina da decenni; quella pubblica a gestione privata ma aperta a tutti non è mai veramente decollata, a vantaggio di collegi per privilegiati (dagli esiti non sempre costruttivi). La parabola discendente della Scuola, nel suo insieme, è tra gli esiti più deprimenti dell'Italia odierna. Ancorché oggi sia “festa”, bisogna parlarne perché il malato può guarire solo se prende atto di aver bisogno di cure, drastiche se occorre.
Dire, come oggi usa, che la Scuola è lo specchio della società significa capovolgere il rapporto tra Magistero e discepoli, tra pastore e gregge, tra sacerdote e profani. A cospetto della confusione dilagante va detto chiaro che non esiste uguaglianza tra bambino, adolescente, adulto e anziano. Ognuno ha l'età che “fa grado”. Non esiste uguale libertà perché non esiste uguale responsabilità. La legge, giustamente, distingue la responsabilità dei minori da quelle dei maggiori. Pretendere di concedere libertà a chi non è responsabile costituisce sovvertimento della legge comune. Eppure è quanto predica la sub-cultura dei “liberi e uguali” che da un canto abolisce ogni principio gerarchico e meritocratico e dall'altro prolunga gli anni necessari a conseguire il “pezzo di carta” abilitante a insegnare. È la contraddizione che da decenni imperversa in questo Paese che rimbambisce gli anziani e ingrigisce i giovani e denomina “ragazzi” uomini di trenta-quarant'anni: età mai raggiunta da Alessandro Magno.
La Nuova Italia, quella nata dal Risorgimento e dall'unificazione attuata 160 anni orsono, si fondò su schiere di uomini giovani che assunsero la guida pedagogica del Paese. I maestri salivano in cattedra a diciotto anni. I più bravi e lesti arrivavano al diploma anche prima. Fu il caso di Giovanni Giolitti, che ottenne il Diploma di Magistero a 15 anni e si laureò in legge a 19. Insegnavano a classi comprendenti sino a cinquantaquattro allievi ciascuna. Gli analfabeti erano una pletora. Con buona pace degli apologeti dell'Italia preuntaria (neo-borbonici, neo-asburgici, neo-papisti, ecc.) la maggior parte delle regioni centro-meridionali aveva tassi di analfabetismo spaventosi. Sino al 90%. Poiché i maestri scarseggiavano, i militari in congedo (da sergenti in su) furono abilitati a salire in cattedra. Chi aveva comandato un plotone di uomini che mettevano a repentaglio la vita era in grado di insegnare a leggere, scrivere e far di conto ai ragazzini negli anni del libro “Cuore” di Edmondo De Amicis. Lo stesso valeva per la maggior parte dei sacerdoti. Malgrado la leggenda che dipinge l'Italia postunitaria spaccata tra assatanati e bigotti, tanti sacerdoti continuarono a insegnare, soprattutto nei luoghi più disagiati, prima che vi approdassero maestrini spaesati. Quell'Italia venne costruita anno dopo anno da geometri (Politecnico e Architettura erano ancora un sogno) e ragionieri (Economia e commercio venne molto molto dopo), da agrimensori, dai “monsù Travèt” e, appunto, dai maestri. Le maestre, erba inizialmente rara, fiorirono tardi e tra molte traversie, nel Paese di Maria Montessori e di tante altre pioniere, sino a Grazia Deledda.
Quell'Italia crebbe perché fondata sul principio della responsabilità del maggiore verso il minore, codificata, e dell'unione civile tra i cittadini. Oggi la libertà si è tradotta nell'indifferenza. La maggior parte bada solo ai fatti propri. La demolizione del civismo è iniziata mezzo secolo addietro con la “contestazione”, grimaldello vincente dello svuotamento dello Stato. Cominciò con quella studentesca, cui seguì la “operaia” (ispirata e capitanata da personcine che non sapevano distinguere il chiodo dal martello) e via continuando sino al settarismo politico e infine armato e criminale degli Anni Settanta. Motus in fine velocior si passò da Lotta Continua alle Brigate Rosse, al caos quotidiano permanente: il sinistrismo che vorrebbe mettere il fazzoletto rosso anche al collo di Giovanni Giolitti e Luigi Einaudi. Quello di Cavour è tutelato da Nerio Nesi.
In “Torino di piombo” (ed. del Capricorno) Gianni Oliva, uno dei giurati del Premio Acqui Storia, ha ricostruito il brodo di cultura del sinistrismo d'accatto di gente che non ha mai letto Marx e ha messo piede nelle sacristie anziché nelle fabbriche, sa di incenso invece che di onesto sudore.
Risalire la china richiede consapevolezza, impegno e lo spirito di “Malachia”, forse mai esistito come profeta ma “Messaggero” del Messia, che dopo la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme (modello di ogni altro in tutti i tempi e Paesi) ammonì i padri a volgere il cuore verso i figli e i figli a fare altrettanto verso i padri. È la visione oggi necessaria del rapporto tra generazioni, dagli imberbi alle barbe bianche, con l'occhio rivolto alla Stella d'Italia: quella che suggella le arche dei monumenti funerari eretti nel Santuario di Vicoforte per accogliere le Salme di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena. Un mònito per l'Italia ventura.
Aldo A. Mola
ELENA DI SAVOIA RIPOSA NEL SANTUARIO DI VICOFORTE
Anticipiamo l'Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 17 dicembre 2017, pagg. 1 e 11.
Dalle 15 del 15 dicembre 2017 la Salma di Elena di Savoia, riposa nella Cappella di San Bernardo del Santuario-Basilica di Vicoforte (Cuneo), accanto alle spoglie di Carlo Emanuele I di Savoia, il Duca che nel 1596 volle la costruzione del maestoso Mausoleo dei Savoia, capolavoro di Ascanio Vitozzi e di Francesco Gallo.
Elena fu la Regina più amata dagli italiani: maestosa e affabile, riservata e onnipresente, ispirò artisti, poeti e suscitò l'affetto dei cittadini che la sentirono vicina.
Insignita da papa Pio XI della “Rosa d'Oro della Cristanità” (1937), onorificenza suprema pontificia conferibile a donne, da Pio XII fu definita “Signora della carità benefica”.
Sempre accanto al Re, Vittorio Emanuele III, condivise il dramma del popolo italiano. La sua secondogenita, la Principessa Mafalda, consorte del principe Filippo d'Assia, gravemente ferita durante un bombardamento aereo americano sul campo di prigionia ove era stata deportata dai tedeschi (1944), morì dopo un vano intervento chirurgico. Ne scrisse con delicatezza Mariù Safier, biografa anche di Jolanda di Savoia (“La Principessa del silenzio”, ed. Teca), consorte del conte Carlo Calvi di Bergolo.
Elena nacque a Cettigne l'8 gennaio 1873, sestogenita degli undici figli di Nicola I Petrovic Njegos, principe del Montenegro, e di Milena Vukotic. Suo padrino fu lo zar di Russia Alessandro II. Allieva dell'Istituto Smonly a San Pietroburgo, coltivò lettere, disegno, pittura e musica.
Nel 1895, all'Esposizione di Belle Arti di Venezia, conobbe Vittorio Emanuele di Savoia, principe di Napoli, già allievo del Collegio Militare della Nunziatella. Lo rivide quando il principe ereditario della corona d'Italia nel 1896 andò in visita a Mosca per l'incoronazione dello zar Nicola II. Recatosi a Cettigne, capitale del Montenegro, il 16 agosto il principe la chiese in sposa. Il 21 ottobre la principessa Elena, già di confessione ortodossa, professò la fede cattolica nella Cattedrale di San Nicola a Bari. Il 24 seguente venne celebrato il loro matrimonio civile nel Palazzo del Quirinale e quello religioso in Santa Maria degli Angeli. Seguirono anni di viaggi, sinteticamente documentati dall'“Itinerario generale dopo il 1896” scritto da Vittorio Emanuele III.
Dopo l'assassinio di Umberto I a Monza (29 luglio 1900) Elena ascese a Regina d'Italia accanto a Vittorio Emanuele III, salito al trono trentunenne. Gli dette Jolanda (1901), Mafalda (1902) e Umberto, principe ereditario, nato a Racconigi il 15 settembre 1904, seguiti da Giovanna, poi consorte di Boris III zar dei Bulgari e madre di Simeone II, la cui autobiografia (“Un destino singolare, ed Gangemi) è da pochi giorni comparsa in Italia, e infine Maria.
Nel 1908 accorse in aiuto delle vittime del catastrofico terremoto di Messina e Reggio. Fece adattare a ospedale la corazzata “Regina Elena”. Il 16 luglio 1915, dopo l'intervento dell'Italia nella Grande Guerra, allestì al Quirinale l'Ospedale Territoriale n. 1, capace di 250 letti per feriti gravi, con speciale attenzione per i mutilati e i grandi invalidi, alle cui cure sovrintese e concorse di persona. Istituì la Fondazione Elena di Savoia a sostegno dei figli di ferrovieri mutilati morti o mutilati in servizio o in guerra. Dette forte impulso alla Croce Rossa Italiana e promosse ricerche scientifiche e istituzioni filantropiche con partecipe sollecitudine.
Nel 1939 indirizzò una lettera alle sovrane di Danimarca, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Bulgaria e Jugoslavia sollecitando una iniziativa congiunta per fermare la guerra, cominciata da tre mesi. Il 9-12 settembre 1943 si trasferì da Roma a Brindisi con il Re e il figlio, Umberto, principe di Piemonte.
All'abdicazione di Vittorio Emanuele III (9 maggio 1946) Elena di Savoia lasciò l'Italia per Alessandria d'Egitto, ove visse a Villa Jela. Vi festeggiò cinquant'anni di matrimonio.
Dopo la morte del sovrano (che si spense ad Alessandria d'Egitto il 28 dicembre 1947, da cittadino italiano all'estero, tre giorni prima che la Costituzione potesse comminargli l'esilio) Elena di Savoia si trasferì per cure a Montpellier. Vi morì il 28 novembre 1952. Fu sepolta nel cimitero cittadino di Saint-Lazare, a lungo meta di italiani non immemori. Nel 1960 a Messina le venne dedicato un monumento in marmo bianco di Carrara. Nel 2002, cinquantesimo della sua morte, fu emesso un francobollo a ricordo della sua figura. Altrettanto fece nel 2013 il Montenegro, ove le spoglie dei suoi genitori vennero traslate dalla chiesa ortodossa di San Remo ove erano tumulate.
Nella memoria Elena di Savoia fu e rimane “La Regina Elena”. Per rallegrarsi del suo ritorno non è necessario essere monarchici. Basta essere italiani. È ormai lontano il “tempo del furore”. È tempo di pietas, di ricomposizione della memoria nazionale. Come ha dichiarato Luca Fucini, membro della Consulta dei senatori del regno, delegato a rappresentare la Casa alla estumulazione della salma a Montpellier, Vittorio Emanuele III avrebbe certo desiderato riposare accanto alla Regina, alla quale fu unito nella buona e nella cattiva sorte in cinquantun anni di matrimonio: un capitolo della travagliata storia d'Europa.
Alla ritumulazione, benedetta dal Rettore del Santuario-Basilica, mons. Meo Bessone, hanno assistito il delegato della Casa, Federico Radicati di Primeglio, e il presidente della Consulta dei Senatori del Regno.
Aldo A. Mola
L'EDITORIALE SULL'ORLO DEL LAGO DI FUOCO
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 3 dicembre 2017, pagg. 1 e 11.
Il mondo è sull'orlo del “lago di fuoco” predetto dall'Apocalisse? La Guerra si avvicina. Non perché lo dica Donald Trump. Lo si percepisce dalla cruda sequenza dei fatti. Senza un intervento preventivo, in Estremo Oriente crollano i già precari equilibri. Il Giappone non può rimanere spettatore inerte, disarmato e con l'incubo di missili con testate atomiche nelle mani di un nemico millenario quale la Corea. Altrettanto vale per la Cina. Si sa che dal 1945 le guerre non si dichiarano. Si fanno. Chi è vecchio abbastanza da ricordare i bombardamenti del 1940-1945 sull'Italia ha in memoria il lamento delle sirene, le corse verso i rifugi, gli schianti: sa per esperienza personale che cos'era la guerra quando ancora essa era “mite”. Il Piemonte e la Liguria furono i primi a conoscerli nel giugno 1940. Genova e Torino ne vennero devastate ripetutamente. Dopo settant'anni di distrazione, la Guerra bussa alle porte. Ed è di gran lunga peggiore e “amorale” di quelle d'antan. Gli italiani hanno una certa riluttanza a misurarsi con la realtà. Sbagliano il nome di Gerusalemme contando che lo Stato di Israele non se ne accorga. Scoprono i conflitti balcanici di un quarto di secolo addietro perché un generale croato si avvelena respingendo la legittimità etica del tribunale internazionale che lo condanna. Assecondando la dolciastra favola corrente, gli italiani spalmano la “domenica calcistica” su quattro giorni e a novembre spasimano per il festival della canzone del febbraio venturo..., felicemente dimentichi della storia. Che perciò va ricordata, nella sua ruvidità.
Esattamente cent'anni orsono, il 3 dicembre 1917, si chiuse la conferenza di Versailles che insediò il Consiglio superiore interalleato contro gli Imperi Centrali. Era in corso la stagione più drammatica della Grande Guerra. Nel 1917 Francia e Gran Bretagna non erano avanzate di un metro. Travolto dalla rivoluzione, l'Impero di Russia era uscito di scena. Gli Stati Uniti d'America avevano, sì, dichiarato guerra a tedeschi e austro-ungarici, ma non avevano ancora messo in campo uomini e risorse in misura determinante. Nella conferenza il governo italiano ebbe parte modesta. Viveva col complesso della recente ritirata dall'Isonzo al Piave (24 ottobre-9 novembre), narrata come “rotta”, anzi quale “disfatta”, elevata a paradigma della fragilità dell'Italia per la gioia perpetua dei nemici dell'unificazione e persino dell'unità ideale e civile, esistente da quasi 2500 anni quando nel 1861 fu proclamato il regno d'Italia.
A Versailles l'Italia era rappresentata dal generale Luigi Cadorna, il 9 novembre sostituito al Comando Supremo da Armando Diaz per pressione degli alleati, decisi a declassare l'Italia a paese sull'orlo della catastrofe, parente povero in cerca di aiuti caritatevoli. Agli alleati la narrazione disfattistica di “Caporetto” fece comodo proprio nei termini in cui la battaglia è stata nuovamente raccontata (con poche eccezioni) da una dozzina di libri ripetitivi usciti in queste settimane: autoflagellazione di un Paese incline alle genuflessioni.
Alla conferenza di Versailles il maresciallo francese Ferdinand Foch (“Vous taisez! Vous apprenez!...” soleva ripetere agli interlocutori, come fossero scolaretti) vantò di aver ideato tutte le mosse dell'Esercito italiano. Fu ruvidamente confutato da Cadorna, che ricordò la verità: gli italiani combattevano da due anni e mezzo, così bene da costringere Vienna a chiedere il massiccio soccorso germanico, avevano subito una sconfitta (una sola, a differenza di Russia, Francia e Gran Bretagna, che inanellò una serie di errori catastrofici) e la combattevano con rinnovata tenacia.
Ma ancora una volta si allargò la crepa tra la piccola politica romana e le Forze Armate, fra narrazione e storia. Il governo di Roma, presieduto da Vittorio Emanuele Orlando, preferiva acquattarsi in una trincea di remissioni di fronte agli alleati e di arroganza dei “politici” verso la “macchina militare”. Nel 1918 il contrasto tra Diaz e Orlando superò quello tra Cadorna e Boselli.
Chiamato da Cadorna a Versailles, il colonnello Angelo Gatti, già addetto all'organizzazione della “memoria” del Comando Supremo, narrò in un “diario” (aumentato nel tempo) la sua missione in Francia tra il 15 dicembre 1917 e il 17 febbraio 1918: tre mesi di passione, vissuti nell'intento di rialzare il prestigio dell'Italia a cospetto delle macchinazioni degli alleati, accomunati nel disegno di sminuirne l’apporto alla guerra e alla vittoria. Mentre si batteva in quella trincea avanzata, l'ex Comandante Supremo era bersaglio di polemiche roventi, coperte dal fatto che la Camera si radunò anche in “comitato segreto”, fonte di pettegolezzi d'ogni genere. Il 16 gennaio 1918 Gatti annotò che in un mese dalla sua costituzione il Comitato aveva tenuto dieci sedute, parte inutili, parte inconcludenti. L'idea di una guida unitaria del conflitto era proprio italiana. L'aveva propugnata Gatti stesso in un discorso alla Scala di Milano il 31 dicembre 1916 ed era stata ribadita da Cadorna in vari colloqui e nei convegni a San Giovanni di Moriana. Risultato? Zero. Mentre i tedeschi stavano approntando un'altra poderosa offensiva, precorrendo l'intervento massiccio degli “americani”, ogni stato maggiore dei Paesi dell'Intesa si crogiolava nei propri piani. La “politica” si appassionava ai “Quattordici punti” enunciati dal presidente degli USA, Woodrow Wilson. Celebrato quale profeta della pace universale perpetua, questi in realtà sfruttava l'idea di una Società delle Nazioni per disfare il poco di Europa ancora esistente e candidare gli USA all'egemonia sul Vecchio Continente. La sera del 17 gennaio 1918 la delegazione italiana a Versailles ricevette il telegramma che chiamava Cadorna a rispondere della sua condotta dinnanzi alla Commissione d'Inchiesta sugli avvenimenti dall'Isonzo a Piave. Gli venne letto l'indomani. La sera del 18 confidò che avrebbe fatto come suo padre, Raffaele, quando apprese senza preavviso di essere stato “messo a riposo”, quasi “cacciato”. Nel settembre 1870 aveva comandato la spedizione per espugnare Roma dal millenario dominio temporale dei papi. Nel ventennio seguente si dedicò a riordinare carte e a scrivere un libro, mai pubblicato. Altrettanto avrebbe fatto lui.
In visita a Parigi il principe Paternò-Castello, vicepresidente del Senato, ricordò ai delegati il progetto verso l'Italia di Léon Gambetta, venerato dalla sinistra italiana come nume tutelare: “Soprattutto conservarvi il potere”. Per i francesi l'Italia era una propaggine dell'Impero di Carlo Magno, terra di conquista per Carlo d'Angiò, Carlo VIII, Francesco I, Luigi XIV, Napoleone I e Napoleone III... Solo l'autolesionismo da boudoir spinse gli italioti a ritenere che bastasse una contessa di Castiglione per condizionare la Ragion di Stato verso paesi considerati vassalli.
Il 31 gennaio Cadorna partecipò alla Conferenza interalleata. Nel Diario Gatti schizzò la tavolata, dominata dai ritratti del presidente francese Poincaré e di Vittorio Emanuele III, il “Re Soldato” morto ad Alessandria d'Egitto il 28 dicembre di 70 anni orsono e là sepolto. Da un lato i franco-inglesi Wilson, Robertson, Clemenceau, “grossa testa di cane”, Pichon, Foch, “blageur”, Pétain, Weygand. Dall'altro sir Douglas Haig, il ministro della Guerra Vittorio Afieri (“grasso, enorme” attento a schivare gli occhi di Cadorna, seduto al suo fianco), il ministro degli Esteri, Sonnino (“nessuno lo guarda, nessuno dice nulla” benché egli si sbracciasse), Orlando, sempre con la testa tra le mani (del resto non conosceva l'inglese e poco il francese), e due americani taciturni, Bliss e Pershing. Era il ritratto di “alleati” niente affatto “amici”, di politici e militari espressione di un mondo al crepuscolo.
Nell'Ottocento l'Europa aveva saputo dosare guerra e diplomazia, come ricorda Hubert Heyrès in “Italia 1866” (ed. il Mulino, meritatamente Premio Acqui Storia 2017). Dall'estate 1914 non seppe coniugare né armi né arti diplomatiche. La catastrofe, però, non fu solo la Guerra. Continuò con le “paci cartaginesi” di Versailles, Saint-Germain, Trianon, Sèvres, Neully: cerotti su un'Europa devastata da rivoluzioni, impoverimento materiale e immiserimento morale, niente affatto bilanciati da scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche; la peggiore catastrofe dopo il diluvio universale, secondo il premier britannico Lloyd George. In realtà il peggio doveva ancora venire.
E altro incombe nel centenario della Vittoria, giustamente evocata e riproposta dal sempre meditato e accurato Calendario Esercito 2018. Potrebbe essere la Terza Guerra Mondiale, non “a pezzi” (come dal discorso di Redipuglia ripete papa Francesco), ma concatenata a livello planetario e con ampio impiego degli ordigni 72 anni orsono usati dagli USA per piegare il Giappone. La Storia riparte proprio dall'Estremo Oriente, dove si era fermata? Forse è già tutto previsto. Accadrà quando “sarà sciolto Satana dal suo carcere, e uscirà per ingannare le genti poste ai quattro angoli della terra, Gog e Magog, alfine di radunarle per la guerra: il loro numero è come la sabbia del mare...” (Apocalisse, 20, 7-8).
Aldo A. Mola
LO STATO DEGLI ITALIANI UNA NAZIONE ANTICA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 19 novembre 2017, pagg. 1 e 11.
Sarebbe facile se per fare una “nazione” bastassero la bandiera e un canto. Fatto è che oltre la “nazione”, vi è lo Stato. Quando il soldo valeva cinque centesimi, gli anziani dicevano che spesso ne mancava ancora uno per fare la lira, il minimo per “cominciare”. Quell'inezia faceva la differenza. Così è del rapporto tra due Entità del tutto diverse: la nazione (i diciannove centesimi) e lo Stato (la lira). La nazione era e rimane un’identità storica percepibile per somme e diversità. Lo Stato è la forma giuridica accettata dalla Comunità internazionale. La nazione è una bellezza. Lo Stato è la certezza. Ogni Stato europeo, antico o nuovo che sia, ha nel proprio ambito cittadini in larga maggioranza appartenenti alla “nazione” storicamente precipua e/o egemone, ma anche molti altri che invece non lo sono affatto e talora agognano a confluire in altri Paesi o addirittura a far parte per se stessi. La deflagrazione dell'Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche (URSS) ha impresso nel magma geopolitico dal Caspio all'Europa orientale sommovimenti non ancora assestati nel quadro internazionale (il Kossovo esiste solo per chi lo riconosce) né metabolizzati dalla cultura politica, in particolare la nostrana, che fa delle elezioni a Ostia la sfida tra il Male e il Bene, tra la Luce e le Tenebre. Provincialismo perpetuo di un Paese impastato di municipalismi, faide di quartiere beghe da balconi. In tanta parte d'Europa gli “Stati” rimangono lontani dal coincidere con le “nazioni”: una coincidenza pressoché impossibile nelle numerose zone mistilingue e plurietniche non solo della Vecchia Europa (che già tanto assilla) ma dell'intero pianeta, popolato di “tribù”.
In sé la distinzione tra nazione e Stato sarebbe meno preoccupante se ogni Stato fosse riconosciuto alla pari dagli altri Soggetti della comunità internazionale e se vedesse i propri “nazionali” rispettati come rispetta i “nazionali” altrui. Sotto questo profilo la Repubblica italiana è esemplare, sulla scia della legislazione d'avanguardia varata nel primo Novecento con la legge sulla cittadinanza e sull'obbligo dell'istruzione. L'Italia garantisce nel diritto e nei fatti il massimo di parità per tutte le “minoranze”, i cui privilegi, anzi, spesso vengono preposti a quelli dei cittadini quietamente “italiani”, numericamente maggioritari e talora perplessi perché si vedono precedere non da pecorelle smarrite (cioè “di ritorno”) ma da quanti, non richiesti né programmati, vi sopraggiungono. Oggi come ieri, il punto di riflessione sull'Italia (come su ogni altro Paese di lunga sedimentazione), non è se essa sia o no “nazione” ma se essa sia anche, quale nacque e/o si volle, uno Stato pienamente sovrano.
L'“Italia” è tra le nazioni più antiche del pianeta, ma come Stato (nato da un lungo processo, durato dal 1848 al 1918 e drasticamente/drammaticamente “revisionato” nel 1945-1953) è tra i più recenti persino del piccolo Vecchio Continente. Fu preceduta, per esempio, dal regno di Grecia, nato dalla lotta per l'indipendenza dal dominio turco-ottomano, e dal Belgio, un Paese “artificiale”, sorto per accordi tra grandi potenze, in linea con il Congresso di Vienna del 1815.
Le nazioni sono la Storia. Gli Stati sono frutto del sempre precario equilibrio tra le Potenze (realtà cangiante) e il Diritto internazionale (una mera convenzione). Una pletora di Stati oggi accreditati quali soggetti della comunità internazionale sono frammenti residuali di imperi arcaici e del colonialismo europeo (che ebbe tra le sue proiezioni maggiori quello russo, mirante tra Otto e inizio Novecento al dominio su Afghanistan e Corea). Quella convenzione esclude l'elevazione a Stati di realtà nazionali scomode (gli armeni e i curdi sono tra le più conclamate) e perpetua la disparità tra Stati e nazioni nella speranza (o cinico calcolo) che il tempo attutisca le differenze e omologhi gli abitanti del pianeta in un miscuglio indistinto di abitanti, giorno dopo giorno uniformati dal soddisfacinento dei loro bisogni elementari. L'Organizzazione delle Nazioni Unite è il caso più vistoso del “gioco delle tre carte” dominante: spaccia gli Stati per nazioni e viceversa, e si rivendica depositaria di una morale sovrannazionale, abusiva ed abusata.
Con buona pace di quanti (quasi tutti i “pensosi” non sempre “pensanti”) ritennero che essa costituisse la “fine della storia”, la dissoluzione dell'URSS un quarto di secolo addietro aprì una fase nuova, tuttora in atto, fondata sulla riaffermazione dei precordi delle nazioni, codificati nel primo Ottocento: etnia, lingua, senso di appartenenza e persino la religione, che costituisce uno dei pilastri della Federazione russa, degli Stati Uniti d'America (lo ricorda Sergio Romano nelle terse biografie di Putin e di Trump, e nell'Elogio della guerra fredda, trilogia edita da Longanesi). La storia, ci ricorda, ha più fantasia dei suoi studiosi.
L'invito a fare i conti con questa realtà pulsante viene perentorio da Brexit. La Sfida (ed. Giubilei Regnani), in cui Daniele Capezzone e Federico Punzi invitano a riflettere su “Il ritorno delle nazioni e la questione tedesca”, deponendo preconcetti di comodo, gli “idola tribus” predicati da élites e da “esperti” che da anni prevedono l'opposto di quanto poi accade, perché sono autoreferenziali. Amano darsi ragione e quando i fatti li smentiscono ne danno colpa alla “democrazia”, che, secondo loro, funziona solo se la “gente” dà loro ragione. Scritto prima che esplodesse il “caso Catalogna” (una mina per l'Europa: ne parleremo), il volume ricorda i tre pronunciamenti più emblematici degli ultimi tempi: l'uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea approvata da un referendum e la vittoria di Donald Trump su Hillary Clinton, data per trionfatrice persino a urne ormai aperte. Potremmo aggiungere la clamorosa sconfitta di Matteo Renzi al referendum del 4 dicembre 2016: un “no” secco a lambiccate riforme della Costituzione e, di riflesso, a una legge elettorale dagli esiti incontrollabili. Nessuna delle catastrofiche profezie ventilate dagli oppositori della Brexit si è effettivamente verificata. Però, al tempo stesso, osservano Capezzone e Punzi, si è verificata una sorta di paralisi nella capacità di prendere atto dello scenario nuovo. L'Europa rischia di essere sempre meno “occidentale”, più lontana dalla Gran Bretagna e dagli USA, che da decenni hanno trasferito le loro “batterie” dalla costa orientale a quella sul Pacifico, fronte Asia, e oggi fanno leva sul Giappone e sulla stessa Cina molto più che su un'Europa egemonizzata dalla Germania, da mesi in affannosa ricerca di una durevole maggioranza di governo (altra “novità” invano esorcizzata dai commentatori anche nostrani sino alla vigilia del voto).
L'incapacità di analisi e di sintesi si traduce nella ricerca di soluzioni alla crisi europea e nazionale esattamente opposte a quelle necessarie. L'“euroentusiasmo”, stigmatizzato da Roberto Caporale intervistato da Capezzone e Punzi, oggi spinge a chiedere “più Europa” e addirittura un unico ministro europeo delle finanze, cioè la sottomissione totale dei 27 Paesi dell'Unione a un solo “dominus”, succubo di interessi non sorretti da alcun voto popolare. “Più Europa” ha senso solo se si capovolge l'assetto attuale di una Unione inerte: lo strapotere della Commissione rispetto alla gracilità dell'Europarlamento e il recupero di sovranità statuale, imprudentemente ceduta senza contropartite, nella cieca (o complice?) illusione che gli altri Stati fossero e siano ispirati da “buoni sentimenti” anziché dalla grintosa difesa degli interessi generali permanenti dei loro cittadini (come fa la Francia contro l'Italia).
Giustamente Capezzone ammonisce dunque che, sic stantibus rebus, occorre rinegoziare tutto. “Federalismo - egli osserva in sintesi - vuol dire coesistenza di diversità, non imposizione di una omogeneità forzata. Bruxelles è un esperimento fallito: né buon federalismo, né un'identità comune riconoscibile”. A cospetto di un sistema “non democratico, non efficiente, non trasparente, costoso, capace essenzialmente di genere sfiducia”, occorre respingere ogni ulteriore cessione di sovranità, restituire ai parlamenti nazionali il potere di correggere i diktat delle autorità europee, per recuperare credibilità dinnanzi ai cittadini.
In questo quadro si riaffaccia la complessità del rapporto tra nazione e Stato. La nazione è il frutto di processi storici secolari (millenari nel caso dell'Italia, contraddistinta e, se si vuole, condizionata dalla geografia). Il riconoscimento di diritti a sopravvenienti non comporta automaticamente l'inclusione nella nazione: sarebbe non solo ingenuo ma profondamente falso asserirlo, in presenza del loro rifiuto di condivisione dei requisiti minimi della sua identità. Il conferimento della cittadinanza non è paragonabile alla richiesta del rispetto di regole della circolazione stradale, della “scorza” formale della quotidianità, della coabitazione in uno spazio geografico. Essa comporta la certificazione della volontà di coesistenza. Diversamente non fa che aggiungere materia esplosiva ai danni di una unità nazionale già troppe volte messa in discussione da frange chiassose invocanti “secessioni”, restaurazione di stati preunitari e altre facezie troppo a lungo considerate bazzecole mentre erano e sono tarli corrosivi.
Nell'Italia odierna il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è il tessitore dell'unità nazione-Stato: una tela robusta se ci lavorano i patrioti veri, che antepongono lo Stato degli italiani a lotte di fazioni e a concessioni opportunistiche di diritti anche a chi non li chiede.
Lo “jus soli” non è materia di decisioni affrettate da parte di un Parlamento al crepuscolo. Meglio riparlarne in una visione euro-atlantica, di civiltà.
Aldo A. Mola
IL DVD RIGUARDANTE GIOLITTI ON LINE SU YOUTUBE GIOVANNI GIOLITTI - LO STATISTA DELLA NUOVA ITALIA
Segnaliamo e consigliamo questo filmato, curato da Aldo A. Mola, contitolare della cattedra Théodore Verhaegen, all'Università Libera di Bruxelles, sulla straordinaria figura di Giovanni Giolitti.
MARCO AURELIO DI SALUZZO UN “UOMO DELLO STATO” MERITEVOLE DI MEMORIA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 12 novembre 2017, pagg. 1 e 11.
La classe dirigente di un grande Paese non è frutto di improvvisazione. Gli “uomini di Stato” non nascono per germinazione spontanea. La loro formazione richiede tempi lunghi: intere generazioni. La nuova legge elettorale propizia la discesa in campo di valori veri (spesso avanti negli anni, come si vide in Italia nel 1943-1948) anziché meri procacciatori di voti. I primi durano nel lungo periodo, sono i pilastri portanti della politica perché nutriti di solida cultura (ne fu esempio Sergio Paronetto, biografato da Tiziano Torresi in un robusto saggio edito da il Mulino e candidato al Premio Acqui Storia 2017). Gli altri sono randagi. Vagano con i loro pacchi di consensi, sempre più inaffidabili e a rischio di putrefazione. Nel frattempo, per quanto aleatori, contagiano chi li ha presi in carico, nell'illusione di trarne beneficio durevole.
La libertà di scelta del rappresentante non è affatto incompatibile con la qualità dell'eletto. Tutt'altro. La marea di chiacchiere quotidiane sulle supposte metamorfosi della democrazia in corso in Italia nasconde una sola verità: il Parlamento non ha ripristinato appieno i collegi uninominali, unico modulo generatore di una classe dirigente capace, meritevole e non autoreferenziale, come tanta parte dell'attuale.
I collegi uninominali mostrarono la loro validità dal 1848 e la confermarono nel 1913 con le prime elezioni a suffragio universale maschile (in nessun paese europeo vigeva il voto politico femminile). I conservatori erano convinti che il balzo degli elettori da meno di tre milioni a otto milioni e mezzo avrebbe scatenato una “rivoluzione parlamentare” e squassato le istituzioni. Invece non avvenne nulla di traumatico. I neo-deputati furono 146 su 508: in linea con le elezioni precedenti. Si registrò, anzi, un rafforzamento della qualità dei parlamentari. I migliori furono confermati, gli altri caddero.
Il ricambio della Camera venne propiziato dal presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, che propose al re, Vittorio Emanuele III, la nomina a senatori di molti deputati da tre o più legislature. Fra il 3 giugno 1911 e il 24 novembre 1913 si susseguirono quattro “infornate” per un insieme di 103 nuovi “patres”, con l'aggiunta dell'ammiraglio Enrico Millo. Particolarmente folte furono le nomine del 16 ottobre e del 24 novembre 1913, comprendenti, fra altri, Alfredo Frassati, proprietario e direttore di “La Stampa”, Gerolamo Gatti (poi sul punto di essere eletto gran maestro del Grande Oriente d'Italia), Eugenio Rebaudengo, il 33° Giovanni Francica Nava, Maggiorino Ferraris...
In quelle elezioni l'area liguro-piemontese confermò alla Camera deputati di lungo corso, accreditati dal consenso dell'elettorato che li conosceva “inctus et in cute”. Recentemente Alessandro Mella ha bene documentato il caso di Giovanni Rastelli, deputato del collegio di Lanzo Torinese. Analoga, e per molti aspetti anche più emblematica, fu la vicenda di Marco Aurelio di Saluzzo (Torino, 9 aprile 1866-Saluzzo, 19 ottobre 1928), marchese di Saluzzo e di Paesana, discendente della Casa che nei secoli aveva creato uno Stato, il Marchesato di Saluzzo, esteso dalla Valle Po alle porte di Cuneo, con domini nelle Langhe (Dogliani, Castiglion Falletto...) e nell'Astigiano. Nel 1548 i francesi di Enrico II imprigionarono e avvelenarono Gabriele, ultimo marchese, e soggiogarono il marchesato, poi strappato loro da Carlo Emanuele I di Savoia, che lo ottenne definitivamente con il Trattato di Lione(1601).
La Casa dei Saluzzo continuò per rami collaterali, sino, appunto a Marco Aurelio di Paesana. Re Umberto I gli restituì il titolo di marchese di Saluzzo. Avviato alla carriera delle armi (Scuola Militare e Accademia di Torino), raggiunse il grado di maggiore di artiglieria. Scelse poi di dedicarsi all'amministrazione della sua terra. Dal 1900 consigliere provinciale per il mandamento di Paesana, ricoprì numerosi uffici. Prestigioso e ascoltato membro della commissione bilancio, nel 1920-1925 affiancò come vicepresidente Giolitti, alla sua guida dal 1905 al 1925. All'amministrazione locale unì il mandato nazionale. Nelle elezioni politiche del 6 novembre 1904 fu eletto deputato del collegio di Saluzzo, nel clima di convergenza tra liberali e cattolici moderati: profonde riforme sociali ed efficienza dello Stato per consolidare le istituzioni. Confermato il 7 marzo 1909, il 26 ottobre 1913, dopo l'introduzione del suffragio universale maschile e l'aumento degli elettori del collegio da 6585 a 14031, ottenne 5622 preferenze contro i 2017 voti andati al radicale e massone Achille Dogliotti, mentre il radicale Federico Milano vinse nel collegio di Savigliano. Come ufficiale di Stato Maggiore, con i gradi di capitano e di colonnello, Marco di Saluzzo fu tra i primi a sbarcare a Tripoli per affermare la sovranità dell'Italia sulla Libia (ottobre 1911), liberata dal secolare dominio turco-ottomano, come poi Rodi e il Dodecanneso. Al termine della Grande Guerra Marco di Saluzzo fu nominato sottosegretario di Stato per l'assistenza militare e le pensioni di guerra nel secondo governo presieduto da Francesco Saverio Nitti (marzo-maggio 1919) e agli Esteri nel V e ultimo governo Giolitti, accanto a Carlo Sforza (giugno 1920-luglio1921). Il 6 ottobre 1919 fu creato senatore del regno.
Quando Giolitti nel dicembre 1925 si dimise da presidente del consiglio provinciale, per non cedere al ricatto di Mussolini (chiedere la tessera del Partito nazionale fascista contro la concessione di un milione di lire per opere pubbliche), Marco di Saluzzo fu tra quanti, per elementare dignità, rassegnarono le dimissioni, come Marcello Soleri, Giovanni Battista Fillia, Michele Gullino, Domenico Dotta, Andrea Miraglio e Paolo Enrico, da quarant'anni rappresentante del mandamento di Saluzzo. Con gli esponenti della tradizione liberaldemocratica si dimisero anche i socialisti, a cominciare da Domenico Chiaramello, eletto nel mandamento di Cavallermaggiore (dicembre 1925-gennaio 1926).
Alla morte Marco di Saluzzo fu ricordato in Senato dal presidente, Tommaso Tittoni, che ne elogiò l'opera di parlamentare ma insisté soprattutto su quella di militare e di amministratore locale. Visse e attualizzò l'ideale del “civis romanus”, al servizio dello Stato in armi e negli uffici pubblici, sulla scia degli antenati, come mostra il busto di Giuseppe Angelo di Saluzzo, conte di Monesiglio e fondatore dell'Accademia delle Scienze, nella chiesa di San Bernardino a Saluzzo, ove è raffigurato nei panni di antico romano, contornato dalle lapidi dei figli, i generali Alessandro, Cesare, Annibale, e della figlia, Diodata, autrice del poema Ipazia e così celebre che il suo busto figura nella Protomoteca del Campidoglio a Roma.
Marco Aurelio di Saluzzo rimane un modello della dirigenza nazionale tra Risorgimento e avvento del regime: formata da persone di grande competenza, rettitudine e dedizione allo Stato. All'occorrenza sapeva usare il tono giusto. In una interrogazione chiese al governo di assicurare un servizio “almeno decente” sulla linea ferroviaria Saluzzo-Savigliano (recentemente smantellata nel quadro del depauperamento dei servizi di pubblica utilità). Manca una sua biografia, non certo la documentazione per scriverla. La doverosa intitolazione al suo nome di uno spazio pubblico in Saluzzo potrebbe indurre a colmare la lacuna. Riscoprire la statura nazionale ed europea della classe dirigente postunitaria può essere valido integratore per quella ventura.
Aldo A. Mola
CATASTROFE DELLA SCUOLA PUBBLICA COME RIMEDIARE?
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 5 novembre 2017, pagg. 1 e 11.
“La mia casa sarà chiamata casa di preghiera, voialtri invece ne fate una spelonca di briganti!”. Lo scrissero gli Evangelisti Matteo (21, 13), Marco e Luca, con identiche parole. Matteo aggiunse: “Guai a voi scribi e farisei ipocriti, che siete simili a sepolcri imbiancati: sono belli all'apparenza, ma dentro sono pieni di ossa di morti e d'ogni immondezza… di ipocrisia e di iniquità”. È il ritratto di tante scuole italiane, da decenni alla deriva. L'ultima seria legge sulla scuola è quella varata nel 1923 da Giovanni Gentile, ministro della Pubblica istruzione nel governo di coalizione nazionale in carica dal 31 ottobre 1922, sulla traccia di quella approntata da Benedetto Croce due anni prima col governo Giolitti. Scuola è disciplina: studio, preparazione e applicazione, come la Scuola dell'Esercito all'Arsenale di Torino, comandata del gen. Claudio Berto. Scuola è educazione dalla ferinità all'umanità, attraverso lungo tirocinio. È palestra (ginnasio): il dominio di sé si raggiunge con impegno e sacrificio.
Nel 1944-1946 furono i “vincitori/liberatori” a imporre in Italia la “nuova scuola”. Ordinarono persino l'epurazione dei manuali, ma non poterono sostituire con i loro “sergenti” presidi e docenti che continuarono la loro “missione”. Il Sessantottismo perpetuo ha poi portato allo sfascio attuale, documentato dal bulletto che tira il cestino dei rifiuti contro la professoressa inerte e rassegnata in un Istituto intitolato a Galileo Galilei, genio perseguitato dalla curia pontificia. Presidi (oggi avvolti nella mantelletta di “dirigenti”, nocchieri di sedi centrali, staccate e periferiche autocefaliche), docenti (alla mercé di allievi e genitori spesso spaesati e spaiati) e personale amministrativo (dalle palpebre quotidianamente abbassate su circolari inapplicabili) celebrano le esequie della Scuola pubblica, ancora per alcuni mesi nelle mani di un ministro immeritevole di menzione.
Dalla buffa zazzera e dallo sguardo più spiritato che ispirato, codesta ministro ha l'attenuante: decenni di invenzioni devianti. Per primo si esibì Giuseppe Bottai, con la “Carta della Scuola”, tanto celebrata dai “fascisti di sinistra” poi transitati in partiti accomunati dal mito dei soviet, di Mao e, perché no?, del socialnazionalismo fatto proprio dal “socialismo reale”. “Fascista critico”, già Bottai mescolò la cura degli orti scolastici alla traduzione dal greco e alla comprensione di un sistema filosofico, come oggi accade con la fatua alternanza scuola/lavoro: due fantasmi evanescenti mentre la disoccupazione giovanile non si schioda dal 36% e i “ni-ni” aumentano.
Lo sfascio fu accelerato dai famigerati decreti presidenziali che nel 1974 istituirono i Consigli scolastici elettivi provinciali, distrettuali e di istituto, dalle elementari alle superiori, in nome di una parità spacciata per democrazia. La Scuola non è né può essere “paritaria” né “democratica”. È trasmissione di cognizioni da chi sa a chi non conosce. È educazione del discepolo da parte del maestro. È responsabilità del maggiore verso il minore. Quei consessi furono la fiera delle vanità. A caccia di chissà quale popolarità e in vista di non si sa quali mete, genitori rampanti organizzarono liste elettorali e stamparono manifesti con le loro faccette per raccattare preferenze. Altrettanto fecero i figli, mentre il personale amministrativo-tecnico-ausiliare (Ata: segretari, assistenti di laboratorio, bidelli) si contese il “posto” riservatogli dalla legge.
Quell'orgia di scambisti fu sterile, perché le scuole tanto ricevevano dallo Stato, tanto potevano spendere. Per di più quei decreti abolirono le benemerite Casse scolastiche che da un secolo avevano fatto beneficenza vera, con tatto e discrezione, aiutando chi davvero ne aveva bisogno: ciò che non fa la Repubblica, che dal suo carrozzone carnevalizio lancia soldi/bonus come coriandoli o caramelle invecchiate.
Il resto è sotto gli occhi. Gli esami di maturità hanno cambiato norme e volto varie volte in pochi anni. Così come sono non servono a nulla. I “test” per la verifica del sapere scolastico nazionale sono un rito come le candelore. L'insieme della pubblica istruzione è un caleidoscopio di istituti che si barcamenano, scuole in abbandono, classi allo stato brado, accampate in edifici ancora solidi se sottratti tempo addietro a monache e a frati, in caserme dismesse o di anteguerra. Quelli di costruzione recente spesso paiono usciti da menti obnubilate che o non sono mai state a scuola o non ne hanno mai capito le necessità fondamentali. Aule per conferenze e palestre nella generalità dei complessi scolastici rimangono aspirazione insoddisfatta.
Così stando le cose, la scuola pubblica muore. Essa nacque con l'unificazione nazionale, con ministri quali Pasquale Villari, Quintino Sella, Michele Coppino, Francesco De Sanctis, Ferdinando Martini..., quasi tutti massoni con buona pace dell'altra riva del Tevere che continua a vedere la Massoneria come “lobby”, quasi i papi non abbiamo mai maneggiato potere, denaro e altro. Per restituire la Scuola alla sua identità originaria occorrono tre rimedi: un ministro serio (una persona colta e competente, come furono Vittorio Emanuele Orlando e il fossanese Balbino Giuliano...) in un governo durevole e dal progetto politico e civile altrettanto serio; il ripristino della sovranità educativa dei collegi docenti presieduti da persone colte e competenti, responsabili della formazione scientifica nella libertà; l'adeguamento delle retribuzioni del personale scolastico al valore della sua missione., mentre oggi più che misere sono offensive. Chi forma il cittadino va remunerato più di chi ne cura gli acciacchi fisici. I malanni del corpo passano, con la guarigione o con la morte. Quelli della personalità di adolescenti e di giovani durano e creano danni irreparabili, come mostra il fanatismo oscurantista di tutti i culti. Per curarli va letta “La Porta Magica di Roma, simbolo dell'Alchimia occidentale” (ed. Olschki) di Mino Gabriele, eccellente candidato al Premio Acqui Storia 2017.
Diversamente le famiglie hanno il diritto/dovere di provvedere in proprio alla scolarizzazione dei figli, trattenendo però dalle tasse quanto allo scopo debbono spendere per scuole private: un mondo,codesto, sempre all'anno zero, anche e soprattutto per la colpevole ignavia della borghesia di recente fortuna, doviziosa per caso, inconsapevole e incapace di un progetto culturale di lungo periodo.
È significativo che nella competizione elettorale in corso in Sicilia il tema dell'istruzione sia pressoché ignorato. Accadrà altrettanto alle elezioni politiche nazionali? Nel frattempo gl'insegnanti vengono mortificati dagli allievi, da genitori incoscienti e da quella parte di scalcinata opinione pubblica che si gonfia le gote con chiacchiere su democrazia e onestà. È la stessa che condannò a morte Socrate, perché rinfacciava agli ateniesi di non capire che la classe politica, i “governanti”, deve essere il meglio della “città”: non espressione di pulsioni tumultose, della “balda gioventù”, di giocose e oscure “piattaforme”, ma anziani fatti saggi dalla vita, dallo studio, dalle armi.
Sarà benemerito chi caccerà i mercanti dal Tempio della Pubblica istruzione, come fece Gesù appena entrato in Gerusalemme, e lo restituirà ai suoi sacerdoti: la Scuola ai docenti. Se lo Stato latita, lo facciano i cittadini, moltiplicando le scuole private.
Aldo A. Mola
L'ORIENTE E' ROSA LA MASSONERIA FEMMINILE
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 29 ottobre 2017, pagg. 1 e 11.
Non lasciamo passare in sordina un 150° memorabile: l'elezione della contessa Giulia Caracciolo Cigala a venerabile della loggia massonica “Vessillo di Carità e Anita”, costituita a Napoli tre anni prima. Nel 1867 le “sorelle massone” si prodigarono nell'ultima spedizione di Giuseppe Garibaldi per debellare il papa-re e fare di Roma la capitale d'Italia. L'impresa finì male, a Mentana, il 3 novembre (verrà ricordato dalle “istituzioni”?). La tragedia fu l'alto numero di garibaldini abbattuti con fucili di precisione dai francesi accorsi in aiuto degli zuavi pontifici (150 morti e 240 feriti, contro 2 caduti francesi e 30 zuavi pontifici) e dei 1.600 prigionieri (incarcerati a Roma in pessime condizioni), ma soprattutto il completo fallimento politico del progetto. Garibaldi contava sull'insurrezione dei romani, che invece non mossero paglia. La colonna di volontari mandata in loro aiuto fu annientata a Villa Glori. Enrico Cairoli cadde nello scontro. Suo fratello Giovanni morì per le ferite. Garibaldi aveva circa 6.000 uomini. Nel bel mezzo della battaglia una buona metà lasciò il combattimento perché sognava Roma capitale della Repubblica universale ispirata da Giuseppe Mazzini mentre il Generale voleva unirla alla corona di Vittorio Emanuele II re costituzionale.
Garibaldi scommetteva sulla benevola comprensione del governo, presieduto dall'alessandrino Urbano Rattazzi, espressione della sinistra democratica, con alto tasso massonico. Ma Napoleone III, antico carbonaro e circondato da massoni come già suo zio, Napoleone il Grande, tenne duro: Roma doveva rimanere al papa, non perché egli fosse devoto alla “sacra pantofola” ma per equilibrio europeo. Nel 1866 Vittorio Emanuele II già aveva avuto il Veneto senza vincere la guerra, come scrive Hubert Heyriès in “Italia 1866” (ed. il Mulino), Premio Acqui Storia 2017. Rattazzi fu sostituito dal generale Luigi Federico Menabrea. Le lancette della politica si fermarono. La Sinistra tornò al governo solo dieci anni dopo, nel marzo 1876, col “fratello” Agostino Depretis.
L cosa più sorprendente è che il Grande Oriente d'Italia non spalleggiò affatto l'impresa di Garibaldi. Il facente funzioni di gran maestro, Ludovico Frapolli (da tempo avviato allo squilibrio mentale), scrisse che la massoneria aveva scopi molto più elevati. Due anni dopo non aderì al Concilio anticlericale di Napoli. Furono “massone” ( o “mopse”), come Enrichetta e Giulia Caracciolo, Angiolina Mola, la Lascaris e Angela Huber Mengozzi a premere per una svolta profonda e immediata. Il 15 maggio 1864, quando fu eletto gran maestro, Garibaldi scrisse che bisognava costituire logge di donne. In tutte le battaglie ne aveva avute al fianco, a cominciare dalla moglie, Anita Ribeiro, morta di stenti nella marcia da Roma verso Venezia nel luglio-agosto 1849. Il suo vice Francesco Crispi nella spedizione dei Mille portò con sé la seconda moglie, Rosalia Montmasson. Nello stesso 1867 Garibaldi accelerò il passo. Iniziò la figlia Teresita e un manipolo di donne convinte che la modernizzazione della società italiana esigeva il concorso femminile. Non era una novità. Lo avevano fatto aristocratiche e borghesi filantrope cattoliche osservanti, come Giulia di Barolo, nata Colbert. La “rivoluzione” non fu monopolio dei maschi. A uccidere il sanguinario Marat fu una donna. E vittima del “populace” parigino, fu Maria Teresa di Savoia-Carignano, principessa di Lamballe, linciata dalla plebe, che ne spiccò la testa dal busto e la portò in trionfo su una picca sotto le finestre della regina Maria Antonietta: lugubre mònito. La principessa di Lamballe era la seconda gran maestra delle logge massoniche “di adozione”,cioè collegate alle Obbedienze “regolari”, come il Grande Oriente di Francia.
La massoneria moderna (o “simbolica”) nacque nel 1717 dalle antiche corporazioni di mestiere, non per edificare ma per educare: il mestiere più difficile, come Seneca capì dalla condotta del suo discepolo, Nerone. La costituzione dell'Ordine, nel 1723, riservò l'iniziazione agli “uomini liberi”. Ma le “donne curiose” (messe in scena dal commediografo Carlo Goldoni) vollero sapere e capire. Il Settecento fu il secolo della parità uomini/donne ai livelli alti della società. La svolta fu segnata dalla “Prammatica sanzione” con la quale il Sacro romano imperatore, Carlo VI d'Asburgo, abolì la legge salica, che prescrive la successione di maschio in maschio a prescindere dal grado di parentela, e assicurò il trono anche alle donne. Ne beneficiò sua figlia, Maria Teresa, nata nel 1716, imperatrice apprezzatissima dal 1740 al 1780. A condurre i “salotti” e/o le accademie in quel secolo di intelligenze brillanti furono sempre le “dame” (che si spupazzavano i Giacomi Casanova di passo, illusi di fare chissà che). In passato, come documenta Paola Bombardi in “I Quattro Coronati” (ed. Tipheret) non erano mancate gilde muratorie femminili. Mentre nel Settecento la cultura e la civiltà fecero passi da giganti, l'età franco-napoleonica (vent'anni di guerre e cinque milioni di morti) lasciò alle spalle una società militarizzata, fondata sulla repressione del dissenso: un rosario di cospirazioni, insurrezioni, moti, conflitti tra pretendenti (in Spagna e Portogallo) e guerre per l'indipendenza (Grecia e Italia: l'Impero di Germania proclamato nel Salone degli Specchi del Castello di Versailles è tutt'altra cosa). Le donne non stettero alla finestra della storia. Né quindi potevano rimanere ai margini degli Ordini, come non lo erano con la miriade di congregazioni religiose della chiesa cattolica e la moltitudine di associazioni e società pullulanti nell'area riformata ed evangelica.
In massoneria, va però constatato, esse incontrarono ostacoli pressoché insormontabili.
In Italia tra il 1867 e fine Ottocento, l'iniziazione femminile e la legittimazione di logge miste fu affidata ripetutamente allo studio d apposite “commissioni”, il modo più elegante per rinviare la risposta. Di decennio in decennio l'emancipazione femminile avanzò tuttavia per altre strade, dalla scuola al lavoro, in un paese grondante pregiudizi arcaici. Basti ricordare che le ragazze non potevano iscriversi ai licei classici e quindi non avevano accesso alle università. A inizio Novecento le laureate in medicina erano erba rara. A Torino (ricorda Daniela Bosetti in uno studio accurato) fu l'israelita Lavinia Holl, affiancata dalla giornalista Anna Franchi, a promuovere la Gran Loggia Mista Simbolica.
La Grande Guerra impose di fare nuovi conti con la realtà. Se in passato la figura femminile era stata interpretata da Anna Maria Mozzoni, Maria Montessori, Ada Negri, Annie Vivanti e da tante “eroine” che le dettero voce e volto, in quegli anni le donne sostituirono in tutto e per tutto gli uomini mobilitati al fronte, lavorarono nei campi e nelle fabbriche. Non erano l'“altra metà del cielo” ma della terra, della vita quotidiana. La massoneria non ebbe tempo di metabolizzare in pieno la svolta perché nel 1925 fu costretta ad autosciogliersi.
In Francia, però, da fine Ottocento era stato creato l'Ordine del Diritto Umano, una massoneria mista, maschile e femminile, guidata da Marie Deraisme. Poi nacquero Grandi logge esclusivamente femminili. Nel dopoguerra identico cammino fu intrapreso in Italia, da Marisa Bettoja, suocera di Ugo Tognazzi e, anni dopo, da Lia Bronzi Donati e da Anna Sartini. Alla Gran Loggia Tradizionale Femminile seguì la Gran Loggia Massonica Femminile, che oggi annovera diciannove officine, esattamente quante ne aveva il Grande Oriente Italiano nel dicembre 1861, quando tenne la sua prima assemblea costituente. Vanta anche un efficiente Centro studi diretto da Stefania Pavan, specialista di storia e letteratura russa.
Nel 300° della Gran loggia di Londra (24 giugno 1917) la massoneria femminile in Italia ha tre volti: le “Stelle d'Oriente” all'interno del Grande Oriente d'Italia (ne ha scritto Guglielmo Adilardi in un saggio edito da Pontecorboli); l'iniziazione i Officine della Gran Loggia d'Italia (sin dal 1956-1960, con Tito Ceccherini e Giovanni Ghinazzi), oggi presieduta da Antonio Binni, e, appunto, la Gran Loggia Massonica, partecipe dei circuiti liberomuratori internazionali incardinati sul Grande Oriente di Francia, che a sua volta da qualche anno pratica l'iniziazione femminile.
Alla nascita anche i Rotary, i Lions e gli altri clubs di servizio erano esclusivamente maschili. Poi si aprirono all’apporto femminile e le presidenti (anche in Distretti, come i liguro-piemontesi) oggi sono assai numerose. In molte confessioni cristiane occidentali la funzione pastorale è al femminile. All'interno della chiesa di Roma si dibattono temi talora appariscenti ma irrilevanti sotto il profilo istituzionale e sacramentale (l'“ambiente”, i “migranti”, persino alcune “intemperanze” pro e contro natura, come fossero novità nell'Istituzione che ebbe papa Leone X). Forse è un modo per eludere e rinviare il vero nodo: rispondere alla richiesta di sacerdozio femminile, “questione” fondamentale del Terzo Millennio per chi voglia guidare la Storia e riaffermare il primato della civiltà greco-romana, fatta rivivere nel Rinascimento da Sandro Botticelli con “La Nascita di Venere” e “La Primavera”. Dopo decenni di confusione (dal Concilio Vaticano II, che fu il “Sessantotto” della chiesa romana), l'Occidente deve tornare alle radici e scoprire che era giù tutto chiaro. L'iniziazione forse femminile precede e contiene quella maschile. Magna Mater da un canto, Mitra dall'altro. L'Oriente è rosa...
Aldo A. Mola
L'EDITORIALE DA CAPORETTO ALLA VITTORIA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 22 ottobre 2017, pagg. 1 e 11.
Cent'anni dopo diciamo la verità: Caporetto non fu affatto “Caporetto”, “la madre di tutte le disfatte”, la condanna dell'Italia a sentirsi “bella e perduta”, da sempre e per sempre. Chi lo scrisse e lo ripete è disinformato o in malafede. Tanti manuali echeggianti il Sessantottismo perenne, ripetono la litania di un'Italia perpetuamente perdente: Custoza (1848 e 1866), Novara (1849), Lissa (1866), Adua (1896), Sciara-Sciat e poi, appunto, la ritirata dall'Isonzo al Piave (24 ottobre-8 novembre 1917) e, s'intende, l'8 settembre 1943, la “fuga di Brindisi”, ecc. ecc. Così l'Italia viene avvolta in lugubri panni anziché nel tricolore.
Caporetto? Venne già scritto tutto nella famigerata “Inchiesta” varata nel gennaio 1918, in piena guerra. Mentre l'Esercito preparava la riscossa, una Commissione presieduta dal generale di esercito Carlo Caneva (nel 1912 esonerato dall'inconcludente comando della guerra contro l'impero turco) mise alla gogna il Comandante Supremo, Luigi Cadorna, quello della Seconda Armata, Luigi Capello, e molti generali e ufficiali superiori, rimossi dagli incarichi e “messi a disposizione”. Da mesi Cadorna rappresentava l'Italia a Versailles. Godeva della massima stima a livello internazionale (anche da parte dei condottieri nemici, che lo attestarono nelle loro memorie) ma i politicanti nostrani volevano azzannare l'osso. Morso dopo morso, sarebbero arrivati al comandante della Terza Armata, Emanuele Filiberto di Savoia duca d'Aosta, e al re stesso, Capo dello Stato e garante dell'unità nazionale all'interno e all'estero, in un mondo nel quale l'Italia aveva alleati ma nessun amico. Il re, come mostrò nell'incontro di Peschiera l'8 novembre 1917, tenne nervi saldi mentre tutto sembrava crollare. Lo documentano le introduzioni alla ristampa anastatica dell'Inchiesta su Caporetto, pubblicata dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito col contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo e dell’Associazione di Studi sul Saluzzese. Il re aveva una visione chiara delle sorti dell'Italia: dopo il cattivo, arriva sempre il bel tempo. Dopo la siccità arriverà la pioggia. Bisogna resistere, come dopo Caporetto dissero orgogliosamente alla Camera Vittorio Emanuele Orlando e Giovanni Giolitti, con il consenso del socialista Filippo Turati (“anche per noi la patria è sul Piave”) e dei cattolici, capitanati dal milanese Filippo Meda, memori che “bastone tedesco Italia non doma”. Nei giorni drammatici l'ormai anziano Leopoldo Franchetti, patriota a 24 carati e senatore del regno, si uccise col rimorso di aver voluto l'intervento. Anche il socialriformista Leonida Bissolati fu sull'orlo dell'abisso. Erano persone colte e responsabili. Contrariamente a quanto si è detto e ancora si ripete in evocazioni ripetitive, a reggere fu proprio la “macchina militare”, che attuò la manovra da anni messa messa a punto da Cadorna e conclusa con la battaglia di arresto del nemico “sulla Piave”, come egli amava dire.
Caporetto non fu ha ritiata, non una “disfatta”. Fu una battaglia perduta come ne ebbero tutti gli eserciti in lotta. Con una profonda differenza, però. L'Italia era entrata in guerra per una decisione discutibile e persino deprecabile, sulla base dell'accordo (arrengement) del 26 aprile 1915 con l'Intesa contro gli imperi centrali, suoi alleati dal 1882. Il governo (Salandra-Sonnino) azzardò l'intervento il 24 maggio nell'illusione che il conflitto sarebbe terminato entro l'autunno stesso. Povera di risorse per il suo sistema industriale e persino per l'alimentazione, con domini coloniali remoti e indifendibili (Tripolitania, Cirenaica, Eritrea, Somalia...), essa era presa alla gola da alleati e avversari, chiusa tra Gibilterra, Malta, Cipro e Suez, tutte “piazze” in mano inglese. Per capirne le scelte bisogna guardare la carta geo-storica dell'epoca. Da quando l'Italia scese in campo al novembre 1918 i suoi nuovi alleati non compirono alcuna azione navale contro la flotta astro-ungarica nell'Adriatico. Decisero di aiutarla solo quando ne temettero il crollo: a le loro divisioni rarrivarono quando gli italiani si erano già riorganizzati.
Per comprendere quanto accadde dopo Caporetto bisogna poi osservare una carta del dopoguerra. Con una premessa, però: la vittoria nacque dalla resistenza del “Paese Italia”, dalla sua tenacia, dal ferreo comando di Armando Diaz (niente affatto più “tenero” di Cadorna, come attesta l'amministrazione della giustizia militare nel 1917-1918) e per molti aspetti persino più aggressivo e con determinazione più spietata, dagli Arditi ei corpi speciali degli Alpini e via continuando, inclusa l'aviazione che tra i molti eroi contò Francesco Baracca.
Chi guardi quella carta vede un fatto inoppugnabile. Esattamente dodici mesi dopo Caporetto l'Esercito italiano passò all'offensiva, travolse l'armata nemica e impose l'armistizio all'impero asburgico con la clausola strategica: la facoltà di attraversare in armi l'Austria per aggredire la Germania da sud. Ma i tedeschi avevano tutte le loro forze schierate sul fronte occidentale, contro i franco-anglo-americani. Perciò chiesero l'armistizio a confini inviolati. Il kaiser dovette riparare in Olanda. Il Paese collassò tra ammutinamenti, insurrezioni, rivoluzioni: il caos generò il mito del tradimento e l'ascesa del nazional-socialismo, tenuto per le dande dal feldmaresciallo Hindenburg, massonofago. Quella stessa carta mostra l'altra evidenza: la Grande Guerra vide sparire l'impero russo, dilaniato dalla guerra civile tra comunisti e armate bianche, l'impero turco ottomano, il germanico e quello d'Austria-Ungheria, il cui sovrano, Francesco Giuseppe, mostrò cocciuta incapacità di trattative diplomatiche con l'Italia, caldeggiate da Giolitti. Se le avesse riconosciuto “compensi” in cambio della neutralità, come suggeriva il pleipotenzirio di Berlino, prncope Bulow, avrebbe salvato l'impero e risparmiato all'Europa la catastrofe della “repubblicanizzazione”, accelerata dal 1917.
Nel dopogerra unica monarchia “pesante” del continente rimase quella d'Italia, del “re Soldato” che il 25 maggio 1915 trasferì i poteri a suo zio, Tomaso di Savoia, in veste di Luogotenente, per seguire di persona le operazioni belliche e mediare con pazienza e sagacia tra governo, Comando Supremo e Alleati: quarantun mesi durante i quali si susseguirono tre diversi presidenti del consiglio (Salandra, Boselli, Orlando), decine di ministri e un centinaio e più di sottosegretari. Il ministero meno stabile fu proprio quello della Guerra, il più bisognoso di continuità. Dall'avvento di Salandra vi si alternarono Domenico Grandi, Vittorio Zupelli, Paolo Morrone, Gaetano Giardino, Vittorio Alfieri e ancora Zupelli. Il 18 gennaio 1919 fu la volta di Enrico Caviglia. Ma il peggio venne dopo: una mezza dozzina di ministri in un paio d'anni. Il Paese che aveva vinto la guerra perse la pace. La pubblicazione dell' “Inchiesta” su Caporetto nell'agosto 1919 (in vista delle elezioni, a tutto vantaggio di socialisti e clericali) fu la pugnalata dei “politici” nella schiena dell'Esercito. Alimentò la rivolta contro la “vittoria mutilata” e accelerò l'impresa di d'Annunzio a Fiume. La polemica contro i “generali” (anzitutto Cadorna) mirava a stendere un velo pietoso su un dato oggettivo. Nella battaglia detta di Caporetto l'esercito contò 30.000 morti (poco più di quelli avversari) ma circa 300.000 prigionieri. Troppi. Il che spiega quel che fu subito chiaro. Da molti l'avanzata austro-germanica venne inesa arretramento quale fine della guerra: si arresero. Rispetto ai caduti in divisa percentualmente furono più numerose le vittime civili, brutalizzate dal nemico che in troppi casi si condusse in modi bestiali, stuprando e rubando nella certezza di dominio perpetuo: la vittoria avrebbe coperto le tracce delle loro malefatte. Per capire Caporetto occorre andare oltre la trita “lamentela” contro Cadorna, Capello, ecc., e affrontare la storia di quella guerra, di quella Europa. Nel 1914-1918 (né poi...) nessuno fu “innocente”.
Cent'anni dopo la lezione dell'“evento” è duplice. In primo luogo occorre documentare i fatti. L'Ufficio Storico dello Stato Maggiore della Difesa diretto dal col. Massimo Bettini ha pubblicato l'“Inventario del fondo H-4, Commissione d'Inchiesta - Caporetto” e l'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito conserva un'enorme quantità di carte per chi voglia davvero capire e spiegare. In secondo luogo la ormai secolare polemica su quella battaglia (non disastro irreparabile, non catastrofe , non apocalisse...: sennò non ci sarebbe stata Vittorio Veneto) invita ad aprire gli occhi dinnanzi a quanti continuano a brandire le “sconfitte” militari del passato remoto come clava nel confronto politico attuale e drammatizzano esasperatamente la vita quotidiana degli italiani inventando Caporetto climatiche e di altro genere per distrarre l'opinione pubblica dalla loro incapacità di amministrare, di far quadrare piccoli conti in tempo di pace. È lo storico francese Hubert Heyriès (vincitore del Premio Acqui Storia 2017) a ricordarci che nel 1866 l'Italia vinse al tavolo delle trattative una guerra non feice sul campo: gli scacchi militari (a Cstoza e a Lissa, non bilanciate dall'avanzata di Garibaldi vittorioso a Bezzecca) furono capovolti dalla diplomazia nel quadro europeo. Anziché di polemiche sterili gli italiani hanno appunto bisogno di storia vera, di restaurare i monumenti ai caduti e i sacrari militari, di tutelare i confini e di ripetere “l'Italia innanzi tutto”: il messaggio che quotidianamente arriva dal Quirinale, oggi come un secolo fa, contro i seminatori di zizzania, spesso unicamente ispirati da capriccio personale.
Aldo A. Mola
L'EDITORIALE RIPRENDIAMOCI IL MARE NOSTRUM
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 15 ottobre 2017, pagg. 1 e 11.
Ottone II di Sassonia, “Imperator Romanorum”, spese la vita per liberare l'Italia dagli islamici. Li cacciò da Taranto, ma fu sconfitto a Capo Cotrone (982). Salvò la vita a stento. Quasi non ne parla James Bryce nel poderoso volume “Il Sacro Romano Impero” (un “classico” cresciuto lungo mezzo secolo di studi, tra il 1860 e il 1904), curato da Paolo Mazzeranghi per D'Ettoris Editori. Eppure tanta parte della storia d'Europa è lì: nella lotta millenaria tra Carlomagno e Maometto, come scrisse Henri Pirenne.
Ora, nell'Europa dei trenta denari, Filippo VI di Borbone, Re di Spagna, mostra il ruolo della monarchia costituzionale: il richiamo, pacato e fermo, all'unità nazionale. Come gli altri grandi Paesi europei, la Spagna ha una storia complessa. In gran parte soggiogata dagli islamici dal 711 d.Cr., eliminò l'Emiro di Granada solo nel 1492, l'anno dell'approdo di Cristoforo Colombo in “America”. La “riconquista” cristiana richiese otto secoli. Invece di liberarsi dall'invasore a ovest, la chiesa di Roma, dopo secoli di scandalosa depravazione, promosse spedizioni in Terrasanta, dirottò la Quarta crociata contro l'impero di Bisanzio anziché volgerla alla liberazione dei Luoghi Santi e concorse alla creazione di potentati precari in terre lontane.
Finalmente libera dai “mori”, la Spagna creò l'impero coloniale più ampio e durevole della storia universale, dai Caraibi alle Filippine, dal Messico alla Terra del Fuoco. Durò tre secoli. Quello inglese, tanto decantato, è vissuto meno di cento anni. Da inizio Cinquecento Carlo I d'Asburgo, sacro romano imperatore e re di Spagna, aggiunse alle Fiandre e alla “Germania” l'egemonia sull'Italia, da Milano alla Sicilia. I suoi eredi, Filippo V di Borbone e via continuando, ebbero le alterne fortune delle monarchie in un'Europa che contava due soli Stati “nazionali”, la Francia e la Spagna, caratterizzati da una lingua e da una confessione religiosa prevalente, la cattolica. Neppure questi due paesi erano veramente compatti. Lo si vide in Francia nel 1792-93 quando la Vandea insorse contro la repubblica di Robespierre. Quella guerra fratricida franco-francese superò in orrori ogni altra guerra civile. Il resto dell'Europa era fatto di conglomerati sotto giogo imperiale (gli Asburgo di Vienna, il Sultano di Istanbul, che dominava l'intera penisola balcanica, Bulgaria e Romania con metodi brutali) o di staterelli caleidoscopici, come in “Germania” e in Italia.
Nella Spagna odierna la monarchia costituzionale garantisce il massimo di unità possibile tra regioni diverse come Andalusia e Asturie, Aragona e Galizia, Bilbao e Valencia..., esattamente come fa la corona britannica in Gran Bretagna, divisa non solo tra inglesi, scozzesi e irlandesi, ma tra le varie “genti” dell'Inghilterra. Lo stesso vale per il piccolo Belgio, inventato nel 1830 come “Stato cuscinetto” comprensivo di litigiosi valloni e fiamminghi.
Filippo VI di Borbone svolge in Spagna il ruolo di Macron in Francia, successore di Napoleone I e di Luigi XIV (perciò ha ricevuto Trump a Versailles e a Les Invalides) e di Elisabetta II a Londra. Il depositario costituzionale della sovranità non ha neppure bisogno di “parlare”: “parlano” per lui il paesaggio, i monumenti, la vita quotidiana dei cittadini, la miriade di simboli che esprimono il senso di appartenenza a una Comunità, che va oltre ogni particolarismo.
In Spagna la friabile minoranza di una regione periferica e in sé niente affatto compatta, qual è la “Catalogna”, da decenni esaspera il provincialismo, chiede rumorosamente il ritorno a un passato remoto che potrebbe parere fiabesco (o farsesco) se non prospettasse risvolti antistorici e tragici. Unico antidoto alla deflagrazione dei regionalismi estremistici in quel grande e composito Paese è appunto la monarchia costituzionale, richiamo perenne all'unità nella complessità. Lo aveva compreso bene in Italia il mazziniano e garibaldino Giosuè Carducci quando dichiarò che l'Italia aveva bisogno vitale di una Forma unitaria, proprio perché arrivava da secoli di frantumazione, tra dominazioni straniere, microstati e repubbliche declinanti, da Genova a Lucca e alla stessa assopita Venezia.
Come ha scritto Domenico Fisichella (Premio Acqui Storia alla carriera: gli viene consegnato il prossimo 21 ottobre all' “Ariston” della Città termale) la nascita dell'Italia unita ha davvero i requisiti di un “miracolo”. Nel 1859-1860 Vittorio Emanuele II di Savoia, perciò ricordato “Padre della Patria” al Pantheon, riuscì a fondere insieme i principi della legittimità, della nazionalità e dell'equilibrio internazionale dello Stato che dette forma alla “itala gente da le molte vite”.
L'eredità della monarchia costituzionale, che arriva dallo Statuto di Carlo Alberto, re di Sardegna (4 marzo 1848), non è affatto terminata con il cambio della forma costituzionale. Essa vive nella Costituzione della repubblica. Il Presidente è “Capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale (…) Promulga le leggi ed emana i decreti aventi valore di legge (…) Accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, ratifica i trattati internazionali (…) Ha il comando delle Forze Armate, presiede il Consiglio supremo di difesa (…) dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere, presiede il Consiglio superiore della magistratura. Può concedere la grazia e commutare le pene. Conferisce le onorificenze...” (art. 87), “non è responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione”. La Carta in vigore dal 1° gennaio 1948 ha tradotto in repubblicano lo Statuto albertino, come ripetuto da Tito Lucrezio Rizzo in “Parla il Capo dello Stato” (Gangemi). Il Presidente è il Principe costituzionale, custode e vindice della coscienza del Paese. Questa, va detto sin che siamo in tempo, si staglia al di sopra di chi vorrebbe appiccare fuochi di divisione, come è avvenuto con la stolida invenzione della “Giornata della memoria per le vittime meridionali dell'Unità d'Italia”, deliberata dal Consiglio regionale della Puglia e stigmatizzata dall'Associazione mazziniana italiana, presieduta da Mario Di Napoli, con parole condivisibili da qualunque cittadino fedele ai destini del Paese, inclusi i fautori della monarchia costituzionale.
A quanti (non facciamo nomi di agitatori in caccia di popolarità, né di chi se ne fa megafono) innalzano nel Mezzogiorno lo stinto vessillo dell'anti-unitarismo va ricordato che Napoli e Palermo furono regni distinti e ripetutamente contrapposti in lotte sanguinose anche quando divennero “Due Sicilie” (per umiliazione di Napoli), mentre le Calabrie e le Puglie (al plurale come le Marche) erano realtà al loro interno profondamente diverse. Prima dell'unificazione nazionale non esistevano strade costiere da Reggio di Calabria a Salerno, né litoranee in Basilicata e sulla costa ionico-adriatica, né carrozzabili interne né, meno ancora, ferrovie. I popoli delle terre già appartenute a Ferdinando di Borbone (IV di Napoli, I delle Due Sicilie) e a suo nipote Ferdinando II cominciarono a conoscersi e ad avere una visione organica dei loro problemi (a cominciare dalla politica estera e dalla difesa) solo dopo l'unificazione nazionale. Perciò tra i fautori del regno d'Italia furono in prima linea meridionali come l'irpino Francesco De Sanctis, docente alla Nunziatella di Napoli, autore dell'appassionato “Discorso ai giovani (ripubblicato da Giuseppe Catenacci) e della vivida storia della letteratura italiana, il lucano Giustino Fortunato, Silvio e Beltrando Spaventa, Pasquale Stanislao Mancini e una moltitudine di patrioti che i Borbone suppliziarono, incarcerarono, costrinsero all'esilio. Quei “meridionali” furono anche profeti dell'Italia europea e dell'Europa delle nazioni. Basti, fra i molti, il nome di Gaetano Martino, il ministro degli Esteri che fu artefice precipuo del Trattato di Roma dal quale nel 1957 nacque il Mercato Comune Europeo, non abbastanza ricordato in questo smemorato 2017. Fu il siciliano Francesco Crispi a pronunciare nel 1864 alla Camera le parole famose, “la monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe”: un motto che l'Italia liberale ed europeista odierna (memore di averne usato la Costituzione di Cadice del 1812) può prestare alla Spagna di Filippo VI di Borbone, anche per ribadire il profondo legame tra i due Paesi, impegnati in prima linea nella difesa del Mare Nostrum, consapevoli di quanto poi sia lunga e dolorosa la “reconquista”. Lo sa bene proprio il Mezzogiorno d' Italia, ove si logorò sino a morirne il sacro romano imperatore Ottone II di Sassonia, marito della bizantina Teofano, in lotta contro gli invasori islamici. Sognava un Mediterraneo cristiano, la “Renovatio Imperii Romanorum”, proclamata da suo figlio, Ottone III. Un millennio fa. E ora? La frantumazione degli Stati per capricci localistici accelererebbe la disfatta dell'Europa dei trenta denari. L'euro non basta a fare storia. La fecero i sacri romani imperatori, dai Sassoni a Federico II Staufen, che dal Mezzogiorno d'Italia scrutarono con occhi azzurri l'orizzonte della civiltà greco-romana e lo rivendicarono italo-europeo. I monarchi costituzionali e i presidenti di repubblica fondati sul consenso dei cittadini ne sono i continuatori.
Aldo A. Mola
IN CHE ERA SIAMO? TENIAMOCI LA “CRISTIANA”
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 8 ottobre 2017, pagg. 1 e 11.
“O tempora, o mores!”. In Gran Bretagna viene proposto di datare gli anni non “prima” o “dopo” Cristo ma da una “Era Comune”: da un “anno uno”, che comunque dovrebbe essere, salvo ripensamenti, quello (convenzionale) della nascita di Gesù Cristo Redentore. Cambiare il 2017 in chissà quale altro comporterebbe di introdurre una datazione nuova in tutti i "documenti", non solo nei siti telematici ma anche nelle banche, nell'efficacia dei contratti, dalla vendita di un biglietto aereo a impegni finanziari, ad atti notarili e via continuando. Una catastrofe. Ecco allora la soluzione più semplice per accontentare multiculturalisti d'accatto, ormai ginocchioni dinnanzi alle invasioni: cancellare l'Avvento. Così le moltitudini di eurozeri non si sentiranno più offesi dal riferimento a Cristo, falso messia per alcuni, uno dei tanti profeti per altri, un sovversivo per chi ne chiese la crocefissione al Proconsole romano Ponzio Pilato, che se ne lavò le mani e lasciò fare. "Un poco di buono", insomma.
Se passasse la proposta britannica, la storia avrà un prima e un poi senza sapere per chi e perché. Avrà una “ data comune”. Transgenica. Questa, però, davvero nuova e... frutto di allucinogeni.
Senza immergerci nell'archeocalendarite, ricordiamo che la Repubblica francese dal 1792 datò la Storia dal proprio avvento e impose una nuova Era. Cambiò nome ai mesi, sostituì le feste tradizionali con altre. Introdusse novità negli orari del lavoro, negli abiti, nelle consuetudini alimentari. Tutto doveva essere nuovo, “repubblicano”. Un delirio. Si affacciarono persino vegetariani e protovegani. Sappiamo come finì: Robespierre, Saint-Just, d'Herbois furono ghigliottinati. Dalle macerie del giacobinismo nacquero le immense fortune dell'oligarchia del Direttorio. L'Era Nuova resse sino a quando Napoleone si fece proclamare e si autoincoronò imperatore dei francesi. Da lì, appena dieci anni dopo quella repubblicana, iniziò una seconda Era Nuova. L'Impero. Durò solo due lustri, che però sono paradigmatici, proprio perché mettono a nudo la pochezza degli Innovatori. I Calendari ufficiali dell'Impero (imposti nelle regioni italiane direttamente annesse: Piemonte, Liguria, indirettamente Toscana, Lazio...) elencarono le “époques rémarquables” della storia: il 1809 risultò l'anno 2583 dalle Olimpiadi, il 1809 l'inizio dell'era cristiana, il 1187 quello dall'Egira di Maometto, il 1053 l'inizio del potere temporale dei papi. Il 1009 era l'anno dalla fondazione del Sacro Romano Impero, il 356 quello dalla conquista di Costantinopoli da parte dei turchi di Maometto II e via continuando sino al VI anno del regno di Napoleone, con inizio il 18 maggio. Tutto fu appiattito. In quella "corbeille" di date ognuno sceglieva la preferita; e spesso rimaneva corbellato. Le feste ufficiali dell'Impero erano il 15 agosto, San Napoleone (sostitutivo di Maria Assunta in Cielo), e il 2 dicembre (alternativo al Natale), a ricordo della vittoria napoleonica di Austerlitz sull'imperatore d'Austria e sullo zar di Russia.
Quell'Epoca che sembrava eterna durò poco. Un po' più lunga fu l'Era fascista. Si protrasse sino al 1943, anno XXI. La agonica Repubblica sociale italiana non tentò di imporre una propria Era né un suo calendario. Negli anni postbellici gli uffici pubblici continuarono a usare la carta stampigliata con fasci littori e date fasciste. Bastavano due righe a penna per oscurare l'orpello del' "odiato regime" e vergarvi gli atti amministrativi nella lunga transizione da Vittorio Emanuele III al Luogotenente Umberto e alla Repubblica. La carta costava e non andava sprecata. Quella intestata "Regno d'Italia" fu utilizzata per almeno un paio d'anni della gracile repubblica. Che male c'era?
Al di là delle transitorie fortune delle datazioni artificiose, un fatto rimase comune: prima e dopo Cristo. L'anno uno dell'Era cristiana tardò secoli a imporsi come religione di riferimento, prima "tollerata" (editto di Licinio e Costantino), poi "ufficiale dello Stato " (Teodosio: e siamo già alla fine del IV secolo d. Cr.), non solo perché il cristianesimo ne impiegò altrettanti per affermarsi, ma anche perché esso era e rimase diviso, litigioso, spesso lacerato in eresie contrapposte in conflitti atroci (come poi furono, sono e a lungo rimarranno gli islamici: sunniti, sciiti, salafiti, etc., con secoli di ritardo sulla via della indifferenza, madre della civiltà) e per secoli si massacrarono fraternamente, come poi fecero cattolici e ortodossi, evangelici e riformati.
Nel Sei-Settecento finalmente nacque lo Stato libero da vincoli religiosi e garante delle libertà di culto non in contrasto con le leggi. Le culture moderne adottarono datazioni proprie, ma le affiancarono sempre a quelle dell’“Era Volgare”, cioè a quella in uso, “a.Cr.” e “d. Cr.”. Fu il caso della Massoneria che aggiunse 4.000 anni tondi alla datazione cristiana, contrapponendole la “Vera Luce”, sicché, per esempio, il Grande Oriente d'Italia venne datato Milano 5805 anziché 1805, anno effettivo della sua nascita. Un gran maestro famoso anche come scultore, Ettore Ferrari, a volte datò i suoi atti “ab Urbe còndita”, cioè dalla nascita di Roma, nel 753 a.Cr. Non ebbe un gran successo, perché i destinatari delle sue lettere dovevano fare sottrazioni e addizioni per capir bene quale fosse la data vera, tanto più che l'anno massonico non inizia il 1° gennaio ma il 1° marzo, che poi non è neppure l'equinozio di primavera (21 marzo, secondo la convenzione), usato dagli antichi romani con un calendario sbilenco e confusionario sino a Giulio Cesare.
Lenin volle imprimere il pollice del bolscevico nel calendario. Ma lo fece nel modo più ragionevole. Adottò la datazione introdotta da papa Gregorio XIII in Occidente (sempre ospitale verso i rivoluzionari, criminali compresi), al posto di quella “giuliana” vigente nell'Impero zarista. Così la “rivoluzione bolscevica” entrò in memoria come “d'ottobre” anziché “di novembre”, quale all'inizio fu ricordata in Russia. La sua riforma, però, non scalfì la tradizione ecclesiastica ortodossa, oggi più vitale che mai in un Paese che vive la sacralità con intensità smarrita nell'Europa centro-occidentale.
Come ovvio, ogni civiltà (Cina, India, Maya, Aztechi, Incas...) ha avuto uno o più calendari, con scansioni ordinarie e festività solenni al proprio interno. Per passare dai piani alti della antropologica storica alla affollata “hall” della vita quotidiana, le tre religioni monoteistiche hanno la loro festività settimanale in tre giorni diversi: il venerdì gli islamici, il sabato gli ebrei, la domenica i cristiani delle varie "sette". Lo “Stato” le rispetta tutte, ma funziona ogni giorno e non prevede alcuna “vacanza” nei suoi servizi. L'acqua, la luce, i trasporti, la sicurezza (e, quando accade, la guerra difensiva) sono necessità vitali 24 ore al giorno. Lo Stato è. Si fonda su una civiltà: gli antichi templi greci e romani, le chiese, gli edifici pubblici, le piazze... un percorso millenario scandito dall'Avvento anche per chi non è credente, perché i campanili, segnacolo di vita, non costituiscono più irruzione nella vita personale dei cittadini, ma semmai sono richiamo al senso della storia in un mondo "ove tutto passa e quasi orma non lascia". Per sottrarlo alla labilità, la datazione rimane bisogno vitale. Essa è un cardine dell'Euro-America, non un ristretto “Occidente” ma uno spazio che va dalla Patagonia al Canada, da Capo Finisterre a Vladivostok. È l'Europa nel suo sviluppo storico, antico e attuale, orgogliosa di Giulio Cesare (Kaiser, czar), di Augusto (ma oggi alcuni vorrebbero cancellare il nome del mese di agosto perché.. ..imperialistico) e di Costantino il Grande che adottò la Croce per sconfiggere Massenzio ai Saxa Rubra, sulle porte di Roma, il 28 ottobre di tanti anni orsono...
Perciò, con buona pace dei britannici, va tenuta in vita la datazione “a.Cr.” e “d. Cr.”: non è offensiva se non per chi è nemico dell'Euro-America, un realtà infinitamente superiore alla dimensione di chi oggi annaspa nel vuoto e mira alla disintegrazione degli Stati esistenti senza capire in quale abisso rischia di precipitare. È il caso della Catalogna, porzione minuscola e da secoli capricciosa del "continente iberico". Dinnanzi alla confusione culturale e politica galoppante, anche l'Italia deve recuperare coscienza della Grande Politica, politica estera e difesa. Lo spiega bene l’attualissimo saggio di Calogero Di Gesù, Dietro le quinte della Farnesina. Cinquant’anni di illegalità, sperperi e intrallazzi al Ministero degli Esteri (ed. Aracne).
I primi segnali di risveglio dovrebbero essere la difesa dei monumenti degli italiani in Italia e all'estero, a cominciare da quelli a Cristoforo Colombo, da qualche tempo aggrediti negli Stati Uniti e in Venezuela da fanatici oscurantisti. Nel numero di ottobre 2017 del mensile “Storia in Rete” ne scrive bene Emanuele Mastrangelo, spumeggiante membro di giuria del Premio Acqui Storia.
Dopo il medioevo, che fu di arretratezza con buona pace dei laudatori dei barbari (come oggi dei “profughi”), l'età moderna nasce con i “grandi navigatori”, la scoperta dei Mondi Nuovi e la scienza. L'Europa ha motivo di esserne e rimanerne orgogliosa; e di chiedere a chi vuol viverci di condividerne i capisaldi civili, che essa ha conquistato attraverso secoli di errori e di orrori, o di tornarsene da dove viene, se preferisce altro. Certo l' "alieno" non può imporre il suo “calendario”. Noi teniamoci il nostro, con le sue feste e i suoi riti. Non fa male a nessuno. Neppure ai pagani. Ai quali anzi ricorda l'inimitabile mondo nel quale vissero felici.
Aldo A. Mola
IL GIOLITTIANO GIOVANNI RASTELLI PARADIGMA DELL'ITALIA VENTURA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 1 ottobre 2017, pagg. 1 e 11.
Il Parlamento, una volta tanto all'unanimità, ha stanziato cento milioni per salvare dal declino quasi 5.000 “piccoli comuni”. Sono coriandoli, rispetto ai bisogni effettivi, agli sprechi permanenti, a leggi, leggine e scaricabarile che paralizzano la vita pubblica e privata di un Paese nel conflitto tra Stato, Regioni e Tar, salva riserva di ricorso a Corti europee e internazionali. Il problema numero uno dell'Italia odierna è il groviglio dei “poteri”. Chi vorrebbe investire rinuncia a farlo in un Paese ove la proprietà è considerata un furto (come insegnava un certo Jean-Jacques Rousseau) e chi ha qualche risparmio vive sotto la scure di un fisco rapace che s'intrufola nella vita privata oltre ogni decenza.
La modesta legge ora varata in difesa dei borghi decadenti invita a difendere la “memoria”, che però non è fatta solo di enogastronomia: è nei nomi di chi ha speso la vita per il progresso scientifico e civile e non va cancellato. Semmai va attualizzato. È il bivio al quale si è trovato il Liceo Plana-Deodata di Saluzzo dinnanzi alla proposta di intitolarlo al suo ex allievo Umberto Eco. Da una parte la storia, dall'altra una fama recente. L'Italia ha scuole intitolate a Tacito, Orazio, Ovidio, Virgilio, Foscolo, Pellico, Manzoni, Azeglio, Carducci, scrittori in parte dimenticati. Le intitoliamo a Fabio Fazio da vivo? Cambiamo Dante Alighieri con Roberto Benigni che ne recita la “Comedia”? Plana fu matematico e astronomo di fama europea. Deodata, che scrisse il celebre Ipazia, ha il busto nella Protomoteca del Campidoglio. I loro nomi insegnano a rispettare il presente, noi stessi, che istante per istante siamo già “passato”. Solo i barbari e i fanatici (come fecero gli islamici nella loro avanzata) abbattono tutto. La vera difesa delle reliquie borghigiane non sta solo nella ristrutturazione di muri cadenti (il fisco artiglia anche le baracche più abbandonate) ma nella memoria di chi ha dato corpo alla storia organizzando le risposte ai bisogni della società, secolo dopo secolo.
È il caso di Giovanni Rastelli, un deputato liberale di età giolittiana, la cui vita è narrata da Alessandro Mella nel succoso libro “Dalle Valli di Lanzo alla Nuova Italia” (Ed.Chiaramonte).
Già autore di Viva l'Imperatore! viva l'Italia! (Bastogi), Mella conduce alle radici dell'idea dell'indipendenza e dell'unificazione nazionale e svela il segreto della Terza Italia, monarchica, liberale, democratica: un regime fondato su una classe dirigente diffusa e devota alle istituzioni, non per feticismo ma per l'orgoglio di concorrere giorno dopo giorno alle fortune dello Stato, nella buona e nella cattiva sorte, sull'esempio del motto dei britannici - “giusto o sbagliato, è il mio Paese” – i quali da un'isola frastagliata hanno costruito un impero in tutti i continenti. Lo fece anche la Spagna, però afflitta da due morbi: il separatismo eterodiretto (è il caso della Catalogna: dopo il referendum Barcellona rivendicherà Perpignan, il Rossiglione e magari anche Alghero, suo antico dominio sulla costa occidentale della Sardegna?) e l'infantile odio tra simili.
Nell'età tra Vittorio Emanuele II, Padre della Patria, e Vittorio Emanuele III, l'Italia conobbe la più grande trasformazione sociale della sua storia. Media e piccola borghesia ebbero accesso alle cariche più elevate, prima monopolio dell'aristocrazia. Vi giunsero, però, attraverso il “tirocinio”. Lo illustra bene Mella attraverso la figura di Rastelli (Viù, 1858-1917), paradigma della Nuova Italia: consigliere comunale, consigliere provinciale, deputato per tre legislature, amministratore locale e “politico”, attento alla sua terra e al tempo stesso rappresentante della Nazione, in forza dello Statuto.
Rastelli non scrisse saggi di dottrina politica, né pronunciò discorsi memorabili. Come la miriade di sindaci e parlamentari della sua epoca apprese bene il consiglio di Giovanni Giolitti al deputato esordiente che gli domandava come dovesse regolarsi in Aula: alzarsi, dire quel che doveva e sedere. Così si comportò quella insuperata classe dirigente. In principio vi era lo Stato; poi le urgenze del territorio (a volte impellenti: le calamità naturali fanno parte del “destino delle Alpi”); infine, ma niente affatto ultimi, i cittadini, da collegare alla modernità con tutte le possibili innovazioni. Un tempo erano ferrovie, tramvie e telegrafo; oggi è la telematica, che lascia al buio vaste plaghe, con grave danno economico per i cittadini e il Paese.
Quell'Italia primeggiò. Tra gli aneddoti gustosi Mella cita il collegamento telefonico instaurato nel 1913 a beneficio dell'immagine di Rastelli. Era l'“Italietta” di Guglielmo Marconi: all'avanguardia nel mondo, come è stato ricordato al Teatro del Casinò di Sanremo nella somma tra Premio Acqui Storia, coordinato da Carlo Sburlati, e Martedì Letterari, diretti da Marzia Taruffi. Mella esplora tutte le pieghe delle lotte tra liberali delle varie correnti e ascrizioni: un caleidoscopio di tendenze, correnti, personalità. Ci pone dinnanzi a un mondo diverso e uno, come l'Italia istoriata all'Altare della Patria. Le tante Esposizioni Universali e Nazionali che si sono susseguite nel corso dei decenni hanno cercato di imitare quel capolavoro, ma hanno lasciato alle spalle padiglioni deserti e molte beghe giudiziarie. Là, invece, la lezione dell'unità dei “popoli d'Italia” è fissata per sempre. Occorre propiziarne la visita, come da tempo chiesto dal presidente dell'Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Romano Ugolini, storico e patriota.
Mella insiste sulla lunga e sofferta lotta di Giolitti per tenere l'Italia fuori dalla fornace della guerra europea, l'“intervento” del 24 maggio 1915 che sprofondò il Paese in una crisi istituzionale, materiale, sociale e culturale irreversibile, come attestano i fatti e si sconta nel presente: il declino e la riduzione ai minimi della sovranità nazionale.
Rastelli non vide la fine della “inutile strage”. Nato il 30 novembre 1858, morì neppure sessantenne il 24 gennaio 1917. L'Italia avrebbe avuto bisogno di politici come lui per la ricostruzione postbellica, soprattutto nel 1920-1922 che registrò il crepuscolo dell’età liberale.
Dal 1919 e nel 1921 il collegio uninominale di Lanzo da lui fedelmente rappresentato a Roma fu gettato nel calderone della circoscrizione ampliata, con assegnazione dei seggi in proporzione ai voti riportati dai partiti; poi, dal 1924, nel collegio unico del Piemonte e successivamente (con le elezioni del marzo 1929) scomparve col “listone” prefissato dal Gran Consiglio del Fascismo: una cesura non solo del regime statutario (come Giolitti dichiarò nel suo ultimo intervento alla Camera) ma anche del rapporto tra territorio e Parlamento.
Di Rastelli quasi si perse memoria. Altrettanto accadde per la maggior parte dei sindaci, consiglieri provinciali e deputati piemontesi della Terza Italia. Il loro repertorio meriterebbe la passione che Telesforo Sarti e altri storici (Vittorio Bersezio, Edoardo Arbib...) dedicarono alla Camera subalpina e alle prime legislature del Regno.
Mella evoca il fascino del variegato territorio delle valli di Lanzo e in specie di Viù attraverso i ricordi di quanti vi vissero e dei turisti di rango e degli scrittori che scoprirono e decantarono la superlativa bellezza dei suoi luoghi incontaminati. Guido Gozzano è uno tra i più noti. Vi soggiornò anche Giovanni Piumati (Bra, 28 maggio 1850 - Viù, 6 ottobre 1915). Allievo dell'Accademia Albertina di Torino a diciassette anni, dottore in legge, lettere e filosofia, musicista, precettore dei figli dell'imperatore di Germania Guglielmo II, editore del Trattato di Anatomia e del Codice Atlantico di Leonardo da Vinci, il 12 ottobre 1896 Piumati venne iniziato massone nella loggia “Rienzi” di Roma (matricola 11.254). Fu lui a introdurre in loggia il conterraneo Beniamino Manzone, eroico organizzatore della storia del Risorgimento.
La biografia di Rastelli invita a riscoprire le “anime” dei piccoli comuni, dei borghi, di un mondo che non è fatto solo di specchietti per le allodole dei turisti in cerca di chissà quali sapori e sopori. Deve fondarsi sulla tutela dei monumenti e sulla memoria degli Uomini.
La realtà va riorganizzata partendo appunto dalla memoria della miriade dei Giovanni Rastelli che costruirono l'Italia: un repertorio panoramico della dirigenza liguro-piemontese dal Settecento di Plana e Deodata Saluzzo a oggi. È un compito che, nel crepuscolo delle Università, potrebbe avere capifila il Premio Acqui Storia e i Martedì Letterari di San Remo, per “ricucire” la IX Regione dell'Italia di Augusto.
Aldo A. Mola
SINERGIE CULTURALI ACQUI TERME E SAN REMO SOMMANO LE FORZE
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 24 settembre 2017, pagg. 1 e 11.
Il 20 settembre Camillo Cavour è stato rievocato a Santena. Una lapide ricorda che il Castello fu elevato a Monumento nazionale, come la Casa di Vittorio Alfieri ad Asti e altri tre edifici storici in Piemonte. “Monumento” non significa reliquia inerte, ma “ammonimento”: insegnamento vivo e attuale. Lo hanno ricordato il presidente della Fondazione Cavour, Nerio Nesi, “testimone del tempo” al Premio Acqui Storia (sabato 21 ottobre all'“Ariston”, nella città della Bollente), Luigi La Spina e gli altri relatori, concordi che il “politico vero” è una persona “competente”, che assume il ruolo pubblico conscio della responsabilità dinnanzi ai cittadini, al Paese e, diciamolo, alla Storia. Sennò è meglio per tutti che continui a fare il suo mestiere, se ne ha uno. Da ragazzino Cavour annotò che avrebbe presieduto il governo d'Italia. Ci arrivò. Studiando, viaggiando all'estero, progettando, sperimentando di persona il futuro programma economico dell'Italia nascente. Sulla fine del 1850 Cavour assunse il ministero dell'Agricoltura, vacante per la morte di Pietro de Rossi di Santa Rosa (gli furono negati i conforti religiosi perché non ritrattò il voto a favore delle leggi Siccardi, che parificarono il clero dinnanzi alle leggi: quella era la chiesa di Roma). Cavour aveva alle spalle le cure dedicate alle terre di famiglia a Grinzane e a Leri, trasformate in aziende agricole d'avanguardia nella viti-vinicoltura e nella risicoltura. Per migliorare la concimazione mentre per motivi bellici dal Cile non arrivava il guano ordinariamente utilizzato promosse a San Pier d'Arena il primo stabilimento per la produzione di fertilizzanti chimici. Seguì con attenzione i Congressi degli Scienziati Italiani ideati da Carlo Luciano Bonaparte, principe di Canino. Era l'Italia di Ascanio Sobrero, inventore della nitroglicerina, un Paese geniale e competitivo perché si fondava, appunto, sulla competenza della classe dirigente: non una manciata di ambiziosi, arroganti e arruffoni ma migliaia di studiosi collegati l'uno con l'altro e a continuo contatto con l'estero per il progresso civile dei connazionali.
L'elevazione del Castello di Santena a monumento nazionale indicò la continuità tra il governo presieduto da Luigi Luzzatti (economista di fama universale e ideatore della Lega monetaria, che antivide la necessità di una moneta unica europea) e quello di Giovanni Giolitti, tornato per la quarta volta alla presidenza del Consiglio. Il 27 marzo 1911 Luzzatti celebrò il cinquantenario della proclamazione di Roma capitale d'Italia e si dimise subito dopo; Giolitti assunse la regia delle grandi manifestazioni del cinquantenario del regno, culminate con lo scoprimento della statua equestre di Vittorio Emanuele II all'Altare della Patria e con l'Esposizione di Torino, orchestrata da Teofilo Rossi di Montelera, come narrato da Tomaso Ricardi di Netro nel volume a più mani edito dal Centro Studi Piemontesi.
“Competenza” era l'insegna che accomunava l'intera dirigenza dell'epoca, a prescindere dalle opzioni dottrinarie e partitiche. L'antica Regione Liguria disegnata da Augusto (dal mar Ligure alla riva destra del Po) ne era esempio. Si andava da Ventimiglia, rappresentata da Giuseppe Biancheri, diciotto volte presidente della Camera dei deputati, esponente della Sinistra democratica in gioventù, poi conservatore, a suo nipote, Orazio Raimondo, socialista, affiliato alla locale loggia massonica “Giuseppe Mazzini” (come il floricoltore Mario Calvino) e sindaco di San Remo. In “Uno, cento, mille Casinò di San Remo, 1905-2015” (Ed. De Ferrari) Marzia Taruffi, direttrice dell'Ufficio Cultura, documenta che Raimondo puntò sul Casinò quale volano per l'economia non solo della città ma dell'intero Ponente ligure, perché esso avrebbe attratto investimenti e migliorato i collegamenti in un'ottica europea. Il turismo avrebbe accelerato la modernità attraverso le scienze. La realizzazione del progetto richiese tempo. La Grande Guerra si mise di traverso.
Al di là degli Appennini liguri stava intanto lievitando un'altra importante centrale di turismo qualificato, fondata sulla valorizzazione delle risorse del territorio: Acqui Terme. Il suo patrono era Giuseppe Saracco (Bistagno, 1821-1907). Di famiglia piccolo borghese, consigliere comunale di Acqui nel 1853 e sindaco dal 1858, deputato dal 1849 al 1865, ministro dei Lavori pubblici fu nominato senatore regio e vitalizio, stretto collaboratore di Urbano Rattazzi e di Quintino Sella, nel 1887 rifiutò la presidenza del Consiglio in successione a Depretis. Nuovamente ministro dei Lavori pubblici nell'ultimo governo Crispi (1893-96) e presidente del Senato dal 1898, alle dimissioni di Pelloux presiedette il governo. All'assassinio di Umberto I (29 luglio 1900), mentre il trentunenne Vittorio Emanuele, principe di Napoli, era in navigazione nell'Egeo con la consorte Elena di Montengro, l'ottantenne Saracco resse la somma dei poteri. Cavaliere della SS. Annunziata, si dimise nel febbraio 1901, dopo aver impostato le riforme poi attuate dal governo Zanardelli-Giolitti. È tuttora in attesa di una biografia scientifica. Dovrebbe essere la storia della grande dirigenza dell'Italia unita, impostata da “Il Parlamento Italian, 1861-1992” (ed. Nuova Cei) che si fermò al 23° volume per insipienza di doveva provvedere al suo completamento, com spesso accade in Italia.
Nella 27^ dispensa del primo volume di “La Patria” pubblicato dalla UTE di Torino l'insuperato Gustavo Strafforello descrisse Acqui in pagine entusiastiche. Capoluogo di circondario, la città andava orgogliosa dello Stabilimento Nuove Terme. Sue attrazioni erano le rovine del grandioso acquedotto romano sul Bormida e la fontana “La Bollente” che sgorga “con impeto per due tubi di bronzo da una rupe calcare” ed era utilizzata dagli abitanti per usi domestici. Saracco ottenne la ferrovia Asti-Acqui-Ovada-Genova (meriterebbe più attenzione, come tutte le linee secondarie”: le più utili al traffico minuto se si vogliono alleggerire “autostrade” che tali sono solo per il pedaggio, non per quello che offrono…) e il trasferimento dal governo al Comune dello Stabilimento Civile dei Bagni, propugnato da Saracco sin dal 1868.
Le Terme fiorirono dopo la Grande Guerra, quando ospitarono congressi medici di rilievo anche internazionale e furono meta di turismo stanziale di qualità e di importanti iniziative culturali. Il suo splendore è documentato da monumenti insigni come Villa Ottolenghi, ove viene celebrata la premiazione dell'AcquiAmbiente, presieduto come l'Acqui Storia da Carlo Sburlati, saggista a volte polemico perché, scrisse Eraclito, “essere è guerra”.
Ora Acqui e San Remo uniscono le forze in un progetto culturale sinergico. La prima manifestazione è in programma al Teatro del Casinò martedì 26 settembre, con la partecipazione di Stefano Zecchi, vincitore dell'Acqui Storia per il romanzo storico e dell'AcquiAmbiente, di Sburlati e di Marzia Taruffi, che illustrerà il denso programma dei Martedì Letterari, scandito da ospiti insigni quali Louis Godard, introdotto da Maria Teresa Verda Scajola, su “Dall'antica alla nuova via della seta”, l'editorialista del “Corriere della Sera” Angelo Panebianco, il procuratore della Repubblica di Catanzaro Nicola Gratteri, affiancato da quello di Imperia, Grazia Pradella. Interverranno anche Marisa Bruni Tedeschi (sessant'anni di storia in “Care figlie vi scrivo”), Dacia Maraini e Nicola Gardini, che evocherà Ovidio a duemila anni dalla morte: un programma ricco e vario, nel ricordo, anche, di Luigi Pirandello, legatissimo a San Remo, e del decreto che il 22 dicembre 1927, novant'anni orsono, segnò la seconda nascita del Casinò, come documenta Marzia Taruffi in un Quaderno di imminente pubblicazione.
Nel centenario della Vittoria del 4 novembre 1918 San Remo e Acqui sommeranno le forze in iniziative convergenti: la memoria storica non è contemplazione inerte di eventi trapassati, ma alimento dell'azione presente, che richiede le doti esemplate dalla dirigenza del secolo virtuoso che unificò l'Italia e la elevò a Paese di rango europeo: non “Italietta” ma Grande Italia, vegliata sul confine italo-francese dalla Regina Madre, Margherita di Savoia, cantata da Carducci in “Eterno femminino regale” e meta di un “pellegrinaggio culturale” da rivisitare criticamente.
Il Premio Acqui Storia 2017 dà un' indicazione precisa con i vincitori della sua 50^ edizione. Di respiro internazionale. Con serenità e libertà di giudizio la giuria della sezione scientifica ha premiato “Italia 1866. Storia di una guerra perduta e vinta” dello storico francese Hubert Heyriès (ed. il Mulino): studio acuto e accurato che intreccia vicende politiche, diplomatiche, militari e ci ricorda che l'Ottocento fu il secolo della formazione delle Nazioni in Stati, come avvenne in Italia e in Germania. Nella stessa epoca emersero Romania e Bulgaria. Quel processo va ricordato mentre particolarismi locali, abbarbicati a una lingua nota all'1% di quanti parlano quelal “madre”, rischiano di far deflagrare Stati dalla storia millenaria. Il coronamento del Risorgimento italiano è recente. Solo l'anno prossimo festeggeremo l'unione di Trento e Trieste alla madrepatria (ed evocheremo sommessamente quanto purtroppo non è più compreso nei confini politici del Paese: parte di Gorizia, l'Istria, Fiume, Pola, Zara...). La lezione di Heyriès e il Premio Acqui Storia sprovincializzano la riflessione politica: invitano a riflettere sulla visione augustea delle regioni, dell'Italia e dell'Europa, l'unità civile e culturale dell'Impero Romano.
Aldo A. Mola
CITTA' CAPITALI DELLA CULTURA ANCHE IL PIEMONTE E' IN GARA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 17 settembre 2017, pagg. 1 e 11.
Senza un'“idea” forte, un progetto, un “mito” non si va in alcuna direzione e non si costruisce nulla. Lo si scopre quando ci si mette in gioco. Un Paese, una città, una persona... non valgono perché lo dicono altri, ma di per sé. Ne sono consapevoli e sanno dimostrarlo. Sono quarantasei le città d'Italia candidate a Capitale della Cultura 2020. Tre del Piemonte (Asti, Casale Monferrato e Cuneo), nessuna della Liguria né della Valle d'Aosta. Entrare nelle dieci finaliste vuol dire richiamare i fari dell'attenzione non solo nazionale. La designazione finale, entro il gennaio 2018, assicura fondi e al tempo stesso comporta oneri. Chi prevarrà? I criteri per la selezione del vincitore sono quelli oggi in voga. Per “cultura” la gara non intende le “scienze” ma un miscuglio di creatività, innovazione, sviluppo economico individuale e collettivo, valutato su parametri molto opinabili. Gareggiare con Agropoli, Bellano, Bitonto, Lanciano, Pieve di Cadore, Telese Terme, Tramezzina e Villa Castelli apre spiragli di successo alle città piemontesi. Però esse debbono misurarsi anche con Agrigento (la Valle dei Templi e l'olivo cinerario di Pirandello), Capaccio Paestum (altri incantevoli Templi della Magna Grecia), Caserta (una tra le Regge più belle d'Europa), Catania… sino a Parma e Piacenza, Salerno (dalla celebre Università fridericiana) e Siracusa, cioè la storia millenaria greco-romana.
Scendere in campo comporta di avere un patrimonio di memorie e di progetti per convincere le giurie e, ne valga o meno la pena, essere decretati vincitori, un po' come per le aspiranti miss di questo o quel concorso, che alle loro “forme” (ormai seriali) aggiungono varie amenità.
Casale Monferrato ha all'attivo la guerra narrata da Alessandro Manzoni e, ancor meglio di lui, da Guido da Verona nella spassosissima versione dei Promessi sposi pubblicata all'indomani dei Patti Lateranensi. In una robusta biografia dello scrittore, Enrico Tiozzo ricorda che all'autore di “Mimì Bluette, fiore del mio giardino”, quell'innocuo “divertimento” costò la messa al bando dal regime fascista, improvvisamente bacchettone (la facciata era una, ma la faccia era un'altra: retro-stante). Città fortificata, obliviosa verso Ugo Cavallero, il Maresciallo d'Italia “suicidato” da Albert Kesselring a Frascati perché rifiutò il comando di un esercito vassallo dei tedeschi, e verso Cesare Maria de Vecchi di Val Cismon, Casale ha orgogliosamente risalito la china dopo lungo declino. Patria di Vittorio Alfieri (“fulvo, irrequieto” profeta dell'Italia nuova, come cantò Carducci in Piemonte), Asti aveva suoi banchieri a Londra prima che ci arrivassero “lombardi” e fiorentini”. Lo scrisse Ito De Rolandis in una ghiotta storia pubblicata qualche anno addietro.
E Cuneo? Città militare, si guadagnò le palme per l'eroica resistenza ai nemici più disparai, dai francesi ai gallo-ispani, assedio dopo assedio, dai tempi di Emanuele Filiberto (“Testa di Ferro”) a Carlo Emanuele III. “Caput Pedemontis”, dalla geografia la carducciana città “paziente e possente” venne elevata (o destinata) a baluardo verso la Francia e, all'inverso, contro le invasioni d'Oltralpe. A Palazzo Lovera, affacciato su via Roma, una lapide ricorda ospite Francesco I di Francia. Il re conquistatore non aveva motivo di distruggere. Sottometteva, come avevano fatto e fecero i Savoia, in lunghe tenzoni con i “cugini” d'Oltralpe. Lo stesso Palazzo ospitò Pio VII nel transito da Nizza a Savona (la costiera ligure non esisteva e il valico del Tenda era la scorciatoia, passando per Cuneo e Mondovì).
A cambiare volto e destino di Cuneo fu Napoleone che ne fece abbattere le mura. Come città fortificata in Piemonte gli bastava Alessandria, avamposto di una guerra continentale che avrebbe dato tempo ai francesi di arroccarsi a Marsiglia e contrattaccare. A quell'epoca Cuneo pensò in europeo, con rappresentanti come Francesco Giacinto Caissotti di Chiusano che cambiò casacca quattro volte in pochi anni perché lì aveva i suoi beni immobili ed era meglio adattarsi al vento per difendere sé e la popolazione che fare l'esule chissà dove e forzatamente a servizio di potenze ancor più voltagabbana. Altrettanto fece il meglio della aristocrazia e della borghesia dei Dipartimenti della Stura, del Po e di Marengo, raccolto in logge italo-francesi.
L'“idea di Cuneo” maturò nell'Otto-Novecento ed è legata a due personaggi chiave: Tancredi Galimberti e suo figlio, Tancredi Olimpio. Cresciuto alla scuola di Nicolò Vineis, massone, direttore della “Sentinella delle Alpi”, Tancredi sr fu consigliere comunale e provinciale, deputato, sottosegretario e ministro. La politica per lui era vocazione, passione e umori, battaglie e ideali, niente affatto “professione” (come invece scrisse una sua biografa). Giolittiano, antigiolittiano, anticlericale, catto-moderato, interventista ma soprattutto “galimbertiano”, Tancredi sr nel 1916 si offrì agli industriali torinesi per pugnalare alle spalle Giolitti. Le sue lettere furono rinvenute e pubblicate durante l'occupazione delle fabbriche del 1920. Proto-fascista e senatore del regno, indossò sino all'estremo la camicia nera. Però nel 1898, nel VII centenario della città, fu proprio lui a inventare il mito di Cuneo “capitale della libertà”. “Vir bonus, dicendi peritus” mostrò di avere genio. Ingrata, Cuneo non lo ricorda in alcun modo.
Suo figlio, Tancredi jr, “Duccio”, mazziniano, militante del partito d'azione, nel settembre 1943 organizzò la prima banda partigiana del Cuneese, “Italia Libera”, comprendente anche Dino Giacosa, europeista, e due ebrei, i frateli Riccardo ed Enzo Cavaglion. Col viatico di Ferruccio Parri Duccio imbastì gli accordi tra i partigiani italiani e la Resistenza francese: i “Patti di Saretto” dalla cui firma, però, venne tagliato fuori all'ultimo momento da compagni di partito che lo detestavano, convinti che volesse farne piedestallo per carriera politica. Sempre esposto in missioni pericolose e con in tasca troppe carte compromettenti, catturato a Torino su delazione e tradotto a Cuneo da “repubblichini”, venne ucciso in circostanze tuttora oscure. A differenza di altri, troppo tardivamente ne venne abbozzato lo scambio. Il processo a carico degli imputati incappò in un vizio di forma clamoroso: l'errore di datazione dell'assassinio. “Duccio” divenne e rimane insegna della libertà. Nel Progetto di Costituzione confederale europea e interna (1943) pubblicato da Antonino Repaci, che collaborò alla sua redazione, oltre a vietare i partiti politici e a “impdire la disoccupazione”, egli riservava il diritto di voto ai maschi alfabeti e l'eleggibilità a cariche nazionali ai soli diplomati e laureati. Ci aveva pensato a lungo. Il voto (come la cittadinanza) non è un diritto ma un dovere. Presuppone consapevolezza e responsabilità.
Come per suo padre e per l'intera dirigenza cuneese tra metà Ottocento e il 1947, anche per Duccio Galimberti il mondo non finiva a Cuneo: la città era terra di frontiera e crocevia d'Europa. Da secoli era fulcro tra l'Italia e la Francia, come Alessandria lo è fra Milano-Torino e Genova. La geografia condiziona. Perciò, a differenza di quanto oggi avviene a scuola, essa va studiata. E' “morale”, come insegnò Carlo Denina. Consapevole di tale retaggio nel 1940 il podestà di Cuneo, Michele Olivero, propose l'autostrada Torino-Nizza passando per Cuneo: una linea retta. Tutti quei patrioti avevano alle spalle Luigi Parola, clinico illustre, sindaco della città, deputato, venerabile della loggia “Roma”, in controcanto col consigliere provinciale e deputato Alerino Como, fondatore della “Vagienna” di Alba: due modi di costruire il rapporto tra locale, nazionale e universale.
Quell'antica insuperata dirigenza spese la vita per costruire un'“idea”, creare un mito, fornire una ragion d'essere per un'aspirante “capitale”. Anche perché Cuneo doveva liberarsi dalle storielle circolanti sul suo conto, raccolte sessant'anni fa da Piero Camilla, direttore della Biblioteca Civica e studioso di garbo. Una narra che in onore di Vittorio Emanuele II in visita alla città il Comune accese in pieno giorno i lumi di cui Cuneo era orgogliosa. La sua dirigenza, invero, sapeva che Illuminati sono quanti vedono nelle tenebre. Non hanno bisogno di accensioni occasionali. Perciò a lungo il collegio deputatizio di Cuneo fu rappresentato alla Camera da politici di rango nazionale (come Carlo Brunet, Pier Carlo Boggio, Vittorio Bersezio, Cesare Correnti...), sino a quando scese in campo Marcello Soleri, col sostegno determinante della “Vita Nova” di Angelo Segre ed Eugenio Cavaglione. E così venne varato il viadotto che fece di Cuneo una città di pianura, dominata dallo svettante faro della Stazione, ideato dall'ingegnere comunale. Non ornata da alcun monumento di straordinaria bellezza, Cuneo è irrorata dalla razionalità che alimenta sentimenti duraturi, come, appunto, l'idea della libertà. Lo ripeté Dante L. Bianco quando il 18 settembre 1948 Luigi Einaudi vi andò per il conferimento di ricompense al valor militare. Ma per capire meglio la città candidata a capitale della cultura e il territorio che la sostiene in questa avventura (l'Albese appare defilato...) occorrerebbe una storia generale della dirigenza della Provincia. Sarebbe una carta da giocare; l'ultima sua “storia”, però, fu pubblicata nel lontano 1971; e si fermò al 1925. Oggi la “Granda” è pressoché isolata. Sospeso il collegamento ferroviario con Ventimiglia-Nizza, interdetto al traffico “pesante” l'unico “Tenda” ereditato dal passato remoto, il Cuneese ha strade sempre più dissestate e pericolose. Come spiegò Antonio De Rossi in La costruzione delle Alpi (ed. Donzelli), ottimo Premio Acqui Storia, le montagne sono lì da sempre. Tocca agli uomini vederle, capirle, viverle e farne una risorsa anziché subirle quale ostacolo come fortilizio in perenne stato d'assedio e senza sbocchi.
Aldo A. Mola
MARCIA SU ROMA IL FALSO MITO DELLA MARCIA SU ROMA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 10 settembre 2017, pagg. 1 e 11.
La disputa sulla “Marcia su Roma” programmata da Forza Nuova per il prossimo 28 ottobre salirà ancora di tono, anche per le improvvide dichiarazioni del sindaco della Capitale, Virginia Raggi, che intima: “Non può e non deve ripetersi”, quasi “il duce” fosse alle porte. L'occasione è propizia per sfatare un “mito” abusato. Chiariamo subito che la famosissima “marcia” non avvenne il 28 ottobre 1922 e che, se per tale si intende l'assalto armato alla Città Eterna, essa non ebbe mai luogo. Solo il 31 ottobre, invero, circa 25.000 “militi”, stanchi e per niente soddisfatti, sfilarono per il centro di Roma e furono subito spediti a casa. Il governo Mussolini era già insediato e non ne aveva alcun bisogno. I mestatori, però, continuano a rinfocolare una leggenda che fece comodo a fascisti e ad antifascisti: a beneficio dei professionisti della “guerra civile” e a scapito della verità storica.
In un Paese bisognoso di “normalità”, narriamo i fatti, con ordine. Il 24 ottobre Mussolini aprì al teatro San Carlo di Napoli il secondo Congresso del partito Nazionale Fascista. Il precedente (Roma, novembre 1921) aveva segnato il passaggio dal movimento al partito. A presiederlo era stato il generale Luigi Capello, massone, all'epoca “in bonis” con il Duce e molto apprezzato dalla Milizia. Passato poi all'opposizione, il 4 novembre 1925 Capello fu incastrato nell' “attentato Zaniboni” alla vita di Mussolini e condannato senza prove convincenti a trent'anni di carcere, tre dei quali in isolamento.
Quel 24 ottobre 1922 da un palco del Teatro di Napoli si affacciò anche Benedetto Croce. Da storico, amava “vedere”. Applaudì persino. Mussolini aveva tre obiettivi: accelerare la crisi del governo presieduto da Luigi Facta ed entrare nell'esecutivo con alcuni ministri prima che iniziasse il declino del suo sempre caotico partito, con un piede nello squadrismo e uno sulla soglia di un potere. Aveva messo le mani avanti nel discorso di Udine (20 settembre) in cui aveva precisato che il fascismo, per allora, non poneva in discussione la monarchia. Il secondo scopo era tagliare la strada a Gabriele d'Annunzio che stava progettando con Facta un raduno patriottico all'Altare della Patria per il 4 novembre, festa della Vittoria. Sapeva bene, infine, che, forte di appena 37 deputati su 543 e di squadristi “a noleggio”, il tempo giocava contro di lui. Come si entusiasmano, così gli italiani presto si stufano. A Cesarino Rossi Mussolini confidò che il suo vero timore era il ritorno di Giolitti al governo: in tal caso, egli disse, “siamo fottuti” (sic!). Lo Statista aveva sgomberato a cannonate d'Annunzio da Fiume; altrettanto avrebbe fatto con i fascisti se avessero tentato l'assalto alle Istituzioni.
Il Parlamento non si radunava dal 7 agosto, quando aveva concesso la fiducia al secondo governo presieduto da Facta, nel quale erano entrati due ministri di polso: PaolinoTaddei all'Interno e Marcello Soleri alla Guerra. Abituato a fiutare il pericolo (era anche rabdomante, secondo Angelo Gatti), Vittorio Emanuele III incalzò invano il primo ministro a convocare le Camere.
Il 18 ottobre i quadrumviri del fascismo (il generale Emilio De Bono, Italo Balbo, oratore della loggia Gerolamo Savonarola di Ferrara, Cesare Maria De Vecchi, monarchico indefettibile, e Michele Bianchi, repubblicano) si radunarono a Bordighera. I primi tre resero omaggio alla Regina Madre, Margherita di Savoia, che non nascondeva simpatie per un governo “di ordine”. Lo stesso giorno gli industriali di Milano (esasperati da scioperi e non dimentichi dell' “occupazione delle fabbriche” del settembre 1920) ebbero un incontro rassicurante con esponenti del PNF. Poiché Mussolini minacciava di lanciare le squadre all'assalto della capitale per imporre il cambio di governo, Soleri impartì al generale Emanuele Pugliese, comandante della divisione militare di Roma, l'attivazione delle misure predisposte da un mese.
Il 24 ottobre Facta rassicurò il re: “Credo ormai tramontato progetto marcia su Roma”. Si destò alle 0.10 del 27 quando telegrafò al sovrano che le squadre avevano iniziato la mobilitazione in alcune città dell'Italia settentrionale (da Cremona, sotto la guida di Roberto Farinacci, “il più fascista”, ad Alessandria) e in Toscana, ove l'ordine pubblico venne ferreamente mantenuto dal generale cuneese Ernesto De Marchi.
Al prolisso telegramma di Facta il re rispose ruvidamente con due parole. Partì da San Rossore e arrivò alla Stazione Termini alle 19.40. Fu ricevuto da Facta. Nel frattempo il governo aveva deliberato le dimissioni, quindi era in carica solo per l 'ordinaria amministrazione. La città di Roma era tranquillissima. L'esercito effettuò blocchi ferroviari a Civitavecchia, Orte e Velletri, togliendo i binari e mettendo carrozze di traverso. Aveva sconfitto l 'Austria-Ungheria, completa di alleati germanici. Non temeva i “marciatori su Roma”.
La mattina del 28 due liberal-nazionalisti (Aldo Rossini e Giuseppe Bevione) svegliarono Facta di buon ora. Il governo si radunò senza un ordine del giorno e decise di sedere in permanenza. Alle 6.30 Taddei trasmise al capogabinetto Efrem Ferraris il testo della proclamazione dello stato d'assedio in tutte le province a decorrere dalle 12 e l'ordine ai prefetti e ai comandanti militari di “arrestare immediatamente, senza eccezioni, capi e promotori del movimento insurrezionale contro i poteri dello Stato”. Voleva dire la legge marziale in tutto il regno.
A vegliare furono Vittorio Emanuele III ,e il suo primo aiutante di campo, il generale Arturo Cittadini. Verso le 9 Facta andò dal re con il decreto dello stato d'assedio, già diramato. Vittorio Emanuele lo mise in un cassetto e gliene impose la revoca. Senza la sua firma valeva zero. Facta fece quanto ordinato. Sconcertati dalla clamorosa auto-smentita del governo, molti prefetti chiesero conferma in cifra.
Il re si sarebbe valso volentieri di Giolitti, che però stava festeggiando l'80° compleanno a Cavour, in Piemonte, e non fu in grado di raggiungere Roma. Lo stesso avvenne per il cattolico milanese Filippo Meda altro possibile presidente del Consiglio. Tramontata la candidatura di Antonio Salandra, non gli rimase che rimettersi al consiglio di tutte le personalità consultate: incaricare Mussolini. Accompagnato forse da Raoul Palermi, sovrano della Gran Loggia d'Ialia, il messaggero riservato del duce, Ernesto Civelli, assicurò che i fascisti non costituivano alcun pericolo per la monarchia. Ottenuto il preincarico, la sera del 29 ottobre Mussolini partì da Milano in vagone-letto. A Civitavecchia sostò forzatamente. Nel cambio di treno e nel breve viaggio seguente gli venne spiegato dai nazionalisti romani che doveva depennare dalla lista dei ministri Luigi Enaudi, liberale liberista, e il socialista Gino Baldesi. Ricevuto dal re a fine mattina del 30, nel tardo pomeriggio presentò l'elenco dei ministri. Convocati per telefono o telegrafo, l'indomani questi si presentarono per giurare. Lo fece anche Mussolini, che, presente il re, prese le consegne da Facta. Poi corse al ministero dell'Interno e agli Esteri, ove scelse come capogabintto Giacomo Barone, massone.
E le squadre? Ne ha scritto Roberto Vivarelli, Premio Acqui Storia alla carriera, nell'esemplare “Storia delle origini del fascismo” (il Mulino). Partite il venerdì per “marciare” il sabato, festeggiare la domenica e trovarsi a casa il lunedì mattino, armate di bastoni, pugnali, rivoltelle, qualche fucile, ormai da giorni erano a corto di “munizioni da bocca”. Pioveva; faceva freddo. Solo a governo nominato, nella notte tra il 30 e il 31 poterono avvicinarsi alla città. Nel quartiere di San Lorenzo si registrarono scontri tra neri e tossi, e vittime, come da anni in varie città piccole e grandi.
La sfilata partì da Piazza del Popolo arrivò all'Altare della Patria (ove erano schiarati i deputati nazionalisti), salì al Quirinale, dal cui balcone si affacciarono il re e i ministri della Guerra e della Marina,Armando Diaz e Paolo Thaon di Revel, e raggiunse Termini. Di lì gli squadristi vennero mandati a casa con 45 treni speciali. Nella seduta inaugurale del Consiglio dei ministri, l'1 novembre, Mussolini assicurò che in 24 ore Roma sarebbe stata tranquilla. Così fu.
Ad aprire la parata del 31 (e non 28) ottobre, il sindaco di Roma mandò la banda musicale della città. I fascisti sfilarono nell'indifferenza della popolazione. Era un martedì. Il 5 novembre, reso omaggio al Milite Ignoto, il re partì per San Rossore.
L'Italia si avviava alla normalità. Nessuno poteva immaginare quanto sarebbe accaduto dieci, quindici, vent'anni dopo. Niente di quanto avviene, infatti, è già scritto. Sono gli uomini a fare, bene o male, giorno dopo giorno. Tante “storie” raccontano gli eventi partendo dalla fine anziché seguendo i fatti uno dopo l'altro. Scrivono profezie del passato, non la storia.
Il sindaco Raggi, se vuole, può affidare a una banda musicale il compito di sdrammatizzare qualunque prossima sfilata in una città che, come l'intero Paese, ha ben altre priorità che la rievocazione di un evento storico. La “leggenda” della “marcia su Roma” fece comodo ai fascisti, che vantarono una vittoria in realtà ottenuta “a tavolino” (il PNF oltre a Mussolini ebbe tre ministri in un governo di coalizione nazionale comprendente nazionalisti, cattolici, demosociali e il giolittiano torinese Teofilo Rossi di Montelera); ma quel falso mito giovò anche agli antifascisti che si dipinsero vittime della proterva aggressione di centomila squadristi armati sino ai denti. L' Italia ha bisogno di storia vera, non di fiabe, né di polemiche strumentali.
Aldo A. Mola.
VITTORIO VALLETTA IL "FRATELLO" PATRIOTA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 3 settembre 2017, pagg. 1 e 11.
Oggi non molti ricordano Vittorio Valletta. Dal 4 luglio però lo evoca un francobollo emesso dal ministero dello Sviluppo Economico. Dallo stesso giorno circola il francobollo commemorativo di Giuseppe Di Vittorio (Cerignola, 1892-Lecco,1967), sindacalista generoso, ripetutamente in contrasto con Togliatti, in specie sulla repressione dell'Ungheria da parte dell'Armata Rossa (“una banda di assassini” confidò ad Antonio Giolitti, che uscì dal Partito comunista italiano).
Mentre divampa la vieta polemica su fascismo e antifascismo e sui monumenti da abbattere o da elevare su piedistalli più alti, Valletta merita memoria, in attesa che il Dizionario Biografico degli Italiani, arrivi, lento pede, alla lettera “V”. Valletta è stato protagonista della storia d'Italia. Nacque il 28 luglio 1883 a San Pier d'Arena (poi quartiere di Genova) da padre siciliano e madre della Valtellina. L'Italia era unita. Frequentando i corsi serali si diplomò ragioniere al “Sommeiller” di Torino. Il preside Gaetano Fiorentino, autore di “Diavoli e Frammassoni” (ed. Longo) ne collocò la gigantografia all'ingresso, accanto a quelle di altri allievi insigni: Giuseppe Saragat. Giuseppe Pella... Da studente-lavoratore Valletta si laureò all'Istituto Superiore di Commercio di Torino. Ufficiale del Regio esercito, suo padre morì improvvisamente nel 1915. Vittorio era da poco tenente in servizio alla Direzione tecnica dell'Aviazione Militare. Conobbe Antonio Chiribiri, proprietario di una delle molte industrie automobilistiche fiorenti in Piemonte (come quella dei Ceirano, fratelli di carne e di loggia).
Dopo l'occupazione delle fabbriche del settembre 1920 (che vide mediatore il deputato Gino Olivetti, fiduciario degli industriali e apprezzato dal ministro del lavoro, Arturo Labriola), nel 1921 Valletta venne chiamato direttore centrale nella Fiat da Giovanni Agnelli, che lo aveva “sotto osservazione” da quando era un “tenentin” e lo apprezzò negli anni cruciali, quando l'Italia dovette scegliere tra il caos e il ritorno all'ordine. Direttore generale nel 1928, nel 1939 Valletta ascese ad amministratore delegato. Tiravano venti di guerra. Con l'annessione dell'Austria da parte della Germania, da un anno l'Italia confinava con Hitler. Con un impero coloniale esorbitante (più costi che benefici), senza veri alleati né amici, l'Italia doveva navigare guardando lontano. Certo è doloroso migrare all'estero o chiudersi in casa per non contaminarsi con il potere, come molti fecero. Era invece impossibile trasferire all'estero un'industria che anno dopo anno aveva conquistato primati in tutti i settori, coniugando produzione, profitti e attenzione per le maestranze, a tutti i livelli. Bisognava difenderla “lì e ora”. Una certa polemistica ha imputato alla Fiat di Valletta l'occhiuta emarginazione di militanti dell'Estrema rivoluzionaria, prima e dopo la seconda guerra mondiale. Ma la “Fabbrica” era strategica. Non solo. Quella stessa “storiografia” lascia tra parentesi quanto avveniva nell'URSS di Stalin. Si accanisce sulla pagliuzza eludendo la trave, che poi cadde sull'Europa orientale occupata dai sovietici. Ne ha scritto Francesco Bigazzi nel meditato saggio “Il primo Gulag” (ed. Mauro Pagliai), ottimo candidato al Premio Acqui Storia 2017.
Per meglio comprendere il ruolo protagonistico di Vittorio Valletta va ricordato quanto accadde alla “liberazione”, all'inizio del maggio 1945. Il comunista Giorgio Amendola tenne un comizio nella sala-mensa di Mirafiori. Vi annunciò che “il “collaborazionista” Valletta era nell'elenco dei condannati a morte del Comitato di Liberazione Nazionale piemontese e snandì: “le forze partigiane erano incaricate di arrestarlo e di assicurare che la sentenza fosse eseguita”. In realtà l'amministratore delegato della Fiat il 23 marzo era stato proposto per l' “epurazione”: una formula sinistra. Può significare revoca dall'incarico o eliminazione fisica: secondo il buon cuore degli interpreti...Raggiunto a casa e ringraziato dal col. Stevens per quanto aveva fatto, Valletta visse qualche giorno clandestino mentre una squadra di azione partigiana lo cercò a San Mauro, ove abitava sua madre, e altrove. Furono ore drammatiche. Nella biografia di Valletta (ed. Utet, 1983), Piero Bairati ricorda che per sentirsi più al sicuro Giovanni Agnelli trascorse la notte tra il 4 e il 5 maggio alle “Nuove” di Torino e ne uscì a piedi la mattina dopo. Il Senatore presiedette ancora l'assemblea dell'Istituto Finanziario Italiano, rassegnò le dimissioni e chiese poteri speciali per Valletta. Questi riprese in pugno le sorti della Fiat. Aurelio Peccei, del Partito d'Azione, ricordò di averlo difeso contro tutti gli estremisti e giacobini, più o meno miti, del suo stesso partito. Convocato il 15 agosto dalla Commissione di epurazione rispose il 21 seguente. Ci vollero mesi di pazienza.
Giovanni Agnelli, invece, fu “epurato”: dichiarato decaduto da senatore del regno e privato dei diritti politici e civili, come centinaia di altri notabili dell'Italia monarchica, intrinsecamente liberali. Morì senza poter rimettere piede neppure nella sede primigenia dell'industria che aveva fondato. Valletta la riportò al successo produttivo e commerciale. Secondo un rapporto dei servizi segreti degli USA in quei frangenti in Italia era stata allestita una loggia segreta comprendente gli ex presidenti del Consiglio Nitti e Orlando, il futuro presidente della repubblica De Nicola, il generale Bencivenga, Luigi Einaudi e altri.
L'informativa non trova conferma. E' invece documentato che Valletta fu iniziato massone il 24 novembre 1917 (un mese dopo Caporetto) nella loggia “XX settembre” di Roma, “officina” della Gran Loggia d'Italia, guidata da Leonardo Ricciardi. Salì i gradini del Rito scozzese antico e accettato a passo cadenzato: 30° il 3 gennaio 1918; 31° il 18 luglio seguente; 32° il 20 giugno 1919. Passò poi alla “Nuova Italia” di Torino, ove nel febbraio 1921 lo raggiunse Luciano Jona, amico fraterno e socio di studio commercialista.
Nel memoriale difensivo presentato al Comitato di Liberazione Nazionale del Piemonte nel 1945 Valletta scrisse parole che vanno ricordate ai giovani e meno giovani: “A nessuno può essere chiesto di fare olocausto del proprio onore quando si ha coscienza di avere operato sia segretamente sia palesemente nel più puro spirito patriottico con fede, con coraggio, correndo tutti i rischi che dovevano essere necessariamente affrontati”.
Valletta resse la Fiat da presidente tra il 1946 e il 1966, quando apprese che alla sua guida si sarebbe insediato il quarantacinquenne Giovanni Agnelli jr, anziché il suo fido Gaudenzio Bono. Morì per emorragia cerebrale a Le Focette (Pietrasanta) il 10 agosto 1967. Il 28 novembre 1966 Saragat lo aveva nominato senatore a vita per alti meriti, in linea con la tradizione monarchica. Tra le sue ultime imprese vi fu l'apertura dello stabilimento automobilistico in Russia. Anche per lui l'Europa andava dall'Atlantico agli Urali.
Salvo errore, a differenza di Di Vittorio, dedicatario di vie, piazze e parchi, Vittorio Valletta non è ricordato da alcuna luogo pubblico né a Genova né a Torino... Timidezza? Smemoratezza?
Basta un francobollo per ricordare chi due volte resuscitò e diresse una grande industria italiana per gli italiani?
Aldo A. Mola
UNIRE LE FORZE LIBERTÀ, SALUTE E FRATELLANZA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 27 agosto 2017, pagg. 1 e 11.
Prima l'uovo o la gallina? Prima l'intesa politica per sollevare l'Italia dal pantano o gli stratagemmi della legge elettorale. Prima il Paese o i “professionisti del potere”? Sicilia a parte (un “caso” che non merita tutta l'enfasi, da politicanti di provincia), la posta in gioco delle elezioni vere, le politiche della primavera 2018, è la conquista del 40-
-50% di cittadini che disertano le urne in attesa di un progetto convincente e dei tanti che votarono Cinque Stelle e ora si strappano i capelli per averlo fatto. Credevano nel miracolo: vedono il disastro, da Roma a Torino.
Dunque: prima le idee, un “patto” tra forze omogenee, poi l'applicazione tecnica (con occhi bene aperti su norme e arzigogoli). Come foglie secche, s'affollano proposte di leggi elettorali. Molte ricalcano modelli stranieri, dimenticando la legge italiana del 1953: un decoroso premio di maggioranza al partito o alla coalizione che avesse raggiunto il 50%+1 dei voti validi. Essa fu azzoppata non alle urne ma “da rancori e recriminazioni”, da personalismi e dalla pochezza di chi non seppe anteporre l'Italia al proprio “particolare”. Quella riforma, approvata malgrado l'opposizione veemente dei socialcomunisti, fu demonizzata come “legge truffa”. Essa, in realtà, avrebbe salvato l'Italia dalla lunga deriva dal centrismo all'agonia del “grande centro” vent'anni dopo capitanato da Francesco Cossiga. Ne scrisse Gabriella Fanello Marcucci in “Scelba, Il ministro che si oppose al fascismo e al comunismo in nome della libertà” (Mondadori).
Con la vendemmia anticipata arriva l'autunno della XVII legislatura della Repubblica. Già l'ordinale non prometteva nulla di buono. Pessimo auspicio, nel 2013 essa fu aperta il 15 marzo: giorno sacro ai pugnali che trafissero Caio Giulio Cesare nell'Aula del Senato. Arriverà alla fine “naturale” o finirà traumaticamente per una sfiducia improvvisa e un “incarico tecnico” per traghettare il Paese al voto? L'importante è che questo Parlamento non faccia altri guai. I governi Renzi e, per trascinamento, l'attuale, sono andati avanti a voti di fiducia, cioè con la certificazione quotidiana che non disponevano di una maggioranza politica vera e convinta. La lunga crisi tuttora in corso è il frutto della manipolazione brutale della politica italiana da parte di interessi stranieri: un processo iniziato con l'“invenzione” del terrorismo politico sin dal 1974-1978 (dal sequestro Sossi all'assassinio Moro), proseguito tra il 1981 al 1992 (dal'artificioso “scandalo P2” a Tangentopoli: e ricordiamo la sciagurata imputazione, da parte dei comunisti, di Francesco Cossiga per attentato alla Costituzione) e culminata con l'orgia mediatica di “mani pulite” che nel 1994 fu sul punto di consegnare il Paese all'egemonia dell'ex Partito comunista italiano. Avvenne il miracolo: la vittoria del Polo delle Libertà e del Buon Governo, capitanata da Silvio Berlusconi. Ventitrè anni dopo siamo alla verifica.
Nel frattempo l'Italia ha subito molte pesanti “guerre”: l'ingresso nell'euro senza adeguata valutazione delle sue conseguenze, né contromisure a tutela dei cittadini; la ripercussione dell'erosione della sovranità nazionale sulla vita quotidiana; la devastazione del sistema scolastico, un tempo orgoglio del Paese e ora motivo di scherno; il declino dell'oirdine e della sicurezza in intere regioni e di ampi quartieri delle principali città; la sfacciata violazione delle norme più elementari; un sistema fiscale sempre più esoso...
Quasi un quarto di secolo fa a decidere la vittoria della Libertà furono gli elettori. L'Unione sovietica era già crollata. L'Italia era impegnata con la Nato nel Medio Oriente. I cittadini non si fidarono dei comunisti e dei loro accoliti: questi avevano tolto la stella rossa dal berretto ma usavano ancora i vecchi sistemi per liquidare gli avversari interni e quanti si opponevano al loro trionfo: insinuazioni, calunnie, intrusioni nel privato. Da stalinisti mai pentiti. Solo gli ignoranti credono che la manipolazione della verità fattuale sia un'invenzione odierna. Lo è stata sempre. Tacitò scrisse che nel 64 d.C. Nerone riuscì a convincere i romani che l'Urbe era stata incendiata dalla “setta” dei cristiani.
Rabbiosa per la mancata vittoria della “gioiosa macchina da guerra” allestita da Achille Occhetto, la Sinistra ha provato e riprovato a impadronirsi della somma dei poteri, ma è ripetutamente rimasta vittima della sua malattia genetica: la divisione, il bisogno di un “nemico” da azzannare e annientare, lontano o vicino che sia.
Tocca dunque al centro-destra dimostrare che ha tutt' altra coscienza civile. Deve rialzare le insegne antiche e perenni: unione, salute, fratellanza. Unificata da neppure un secolo (solo nel 2018 festeggeremo il centenario della Vittoria e della liberazione di Trento e Trieste) l'Italia deve ritrovare sé stessa. Se ancora volesse essere ricordato, con uno scatto finale di dignità questo Parlamento potrebbe e dovrebbe darsi una legge elettorale confacente alla stabilità di governo, come da un anno con sommessa fermezza raccomanda il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Ma la legge elettorale, con i suoi cavilli e le “mille trappole”, non è il vero banco di prova politico.
Prima viene l'unione franca e leale delle forze politico-partitiche che si sentono affratellate da un cammino più che secolare: i liberali (poco per cento ai seggi, una miriade nella coscienza dei cittadini), i radicali, i socialriformisti, i repubblicani memori di Randolfo Pacciardi, che volle l'Italia nella NATO contro le esitazioni di De Gasperi e i dubbi dell'“altra riva del Tevere”, e la grande massa critica dei “moderati”, che nel Paese hanno sempre fatto la differenza. Questi sono la maggioranza.
In Antonio Segni. La politica e le istituzioni (il Mulino, candidato meritorio al Premio Acqui Storia 2017) Salvatore Mura documenta che nel 1946 il futuro sfortunato presidente della Repubblica nella sua Sardegna ottenne un successo travolgente contro i “rossi” e i loro alleati (incluso Emilio Lussu del Partito Sardo d'Azione) e contro i liberali di Cocco Ortu. Stravinse perché non disse una parola sulla questione istituzionale, tantoché (scrive Mura) “sembra comunque evidente che non percepì negativamente l'ipotesi di vittoria della monarchia”. La “prudenza” di Aldo Moro nel suo caso “sfiorò la reticenza assoluta”. Segni ebbe la saggezza di evitare temi divisivi. Alzò la bandiera dell'unità contro il nemico principale. È una lezione di grande attualità. Nelle ore difficili, come quelle che si annunciano, bisogna accantonare i motivi di contrasto e far quadrato su quanto unisce: la difesa dello Stato, della sua unità, della sua dignità, della sua Storia.
Tra gli appuntamenti vi è la legge sulla cittadinanza. La più significativa legge organica al proposito fu quella firmata da Giovanni Giolitti e da Benedetto Croce che nel 1921 identificarono cittadinanza e “obbligo dell'istruzione”: non solo “scuola obbligatoria” ma istruzione ed educazione, cardini dell'italianità, di una “civiltà”. Ora, nella duplice veste di sovrano della Santa Sede e di vescovo di Roma, papa Francesco enuncia una idea di “cittadinanza”. Il suo è un discorso politico, come politici furono gli interventi di tanti papi nel corso dei tempi. Qualche giorno fa ricorreva San Bartolomeo. Ogni anno la memoria ricorre al 24 agosto 1572, svolta delittuosa nel corso delle undici guerre di religione che lacerarono la Francia tra il 1560 e il 1594. Invitati a Parigi per le nozze di Enrico di Navarra, ugonotto, e Margherita di Valois, cattolica, quella notte nella sola Parigi vennero assassinati (gettati dalle finestre, pugnalati...) almeno 3.000 evangelici, mentre molte altre migliaia furono massacrati nelle province. A Roma il papa festeggiò quell'orrore con un “Te Deum” di ringraziamento e una medaglia commemorativa. Alcuni esponenti di una famosa Compagnia religiosa legittimarono il tirannicidio. Re Enrico III di Valois fu assassinato dal domenicano Jacques Clément; il suo successore Enrico IV di Borbone fu ucciso dal cattolico fanatico François Ravaillac: “Tantum religio potuit suadere malorum...”. Vicende antiche, ma da non dimenticare. Ognuno è libero di proporre “ricette”. Però lo Stato d'Italia, rispettoso di tutte le fedi e le opinioni se stanno nei confini delle leggi, è garante della libertà dei cittadini di pieno diritto. Ha doveri anzitutto verso se stesso. Italiani sono quanti risultano tali per scelta certificata, non “per caso”. Vale il motto antico: unione, salute, fratellanza. In un Paese drammaticamente friabile, questo è il terreno solido di un durevole “patto per l'Italia”.
Aldo A. Mola
ELENA DI SAVOIA LA REGINA AMATA DAGLI ITALIANI
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 20 agosto 2017, pagg. 1 e 11.
Elena fu a lungo tra i nomi femminili più diffusi in Italia: omaggio di ogni ceto alla consorte di Vittorio Emanuele III. Elena Petrovic-Niegos nacque dal principe (poi re) di Montenegro, uno Stato piccolo ma pugnace, bastione della cristianità contro l'islamizzazione della penisola balcanica, giunta sino alle porte di Vienna e respinta col soccorso dei polacchi. Più tardi a ricacciarli fu Eugenio di Savoia, uno dei grandi condottieri della storia.
Elena di Montenegro studiò alla Corte dello zar Nicola II, che aveva alle spalle l'assassinio del nonno, Alessandro II (1881), autore di importanti riforme, come l'abolizione delle arcaiche servitù dei contadini. Anarchici ed estremisti colpiscono sempre i riformatori perché questi falciano l'erba nel prato dei fondamentalisti. Ogni epoca, tragicamente, ha i suoi fanatici. Così oggi Erdogan oscura il ricordo di Ataturk, massone e padre della Turchia moderna.
Vittorio Emanuele, principe di Napoli ed erede al trono d'Italia, conobbe Elena quando tutto aveva in mente (storia, geografia, numismatica, viaggi...) tranne che la Corona. Per il fidanzamento andò a Cettigne, capitale modesta e tuttavia avamposto dell'Europa cristiana in una visione storica matura. Poliglotta, Elena coltivava pittura, musica ed esoterismo. Nelle prime pagine dell' Itinerario generale dopo il 1° giugno 1896 Vittorio Emanuele annotò: “(1896) Agosto. 5, Gaeta e Napoli; 6. A Napoli; 12. Da Napoli; 16. Da Antivari a Cettigne”. Ricordò la gran festa il 18, onomastico di Elena nel calendario cattolico, e il rientro, da Cettigne a Napoli, alla volta di Firenze e Monza. Dopo settimane di viaggi (Stresa, La Spezia per il varo della “Carlo Alberto”) e Firenze, ripartì per Cettigne. Vi giunse il 19 ottobre. Il 21 era a Bari. Nel viaggio verso l'Italia Elena passò dal culto ortodosso a quello cattolico, perché così esigeva lo Statuto. Il 24 ottobre, finalmente, il “Marriage”, come nell'Itinerario annotò raggiante il futuro re.
Da sposi, Vittorio ed Elena servirono lo Stato con un seguito vertiginoso di missioni ufficiali in Italia e all'estero, ma furono anche liberi di vivere la vita privata, che riservò loro la “media di felicità”, secondo la formula usata da Giovanni Giolitti in una lettera alla moglie. Ebbero cinque figli: Jolanda, sposata dal conte Calvi di Bergolo; Mafalda, andata in sposa al principe Filippo d'Assia e morta nel 1944 per le conseguenze di un bombardamento dei “liberatori” sul campo concentramento ove era detenuta dai nazisti (ne ha scitto Mariù Safier in una sua eccellente biografia, edita da Bompiani); Umberto principe di Piemonte (15 settembre 1904, poi Umberto II, re d'Italia), Giovanna (sposata da Boris III, zar dei Bulgari, e madre di Simeone ora gagliardo ottantenne, esecutore testamentario di Umberto II) e Maria.
La Regina Elena fu insignita da Papa Pio XI della Rosa d'Oro: benemeritata per la sua carità. Ne è in corso la causa di beatificazione. Dopo l'intervento dell'Italia nella Grande Guerra allestì al Quirinale l'Ospedale Territoriale n. 1 per curare i feriti gravi. Si prodigò per lenire le conseguenze del conflitto. Promosse innumerevoli iniziative umanitarie, coinvolgendo aristocratiche, borghesi e popolane, unite in un sacrificio dalle dimensioni impreviste. Visse sempre con regale discrezione il suo rango, consapevole degli immensi pesi gravanti sul regno d'Italia, unica grande monarchia dell'Europa continentale sopravvissuta alla tragedia della Grande Guerra che spazzò via lo zar di Russia, il kaiser di Germania, l'imperatore d'Austria-Ungheria e il sultano turco. Accanto a Vittorio Emanuele III, tutto mente, nervi e alto senso dello Stato e della Dinastia, la Regina governò l'“altra metà” di un regno che era fatto di simboli, sentimenti, emozioni e “religiosità”, cioè vincolo tra cittadini. Gli emblemi e i monumenti, come insegna il Premio Acqui Storia, che armonizza vincitori, premi alla carriera (Giuseppe Galasso due anni orsono e Domenico Fisichella questo 2017) e “testimoni del tempo”, non sono orpelli, ma sostanza di un Paese. Vanno rispettati e onorati, quale ne sia l'origine. Sono la Memoria. Toccarla significa condannarsi a subire la medesima sorte. È quanto accade proprio a Napoli ove si oscurano le statue di Enrico Cialdini e di Camillo Cavour e si cancella via Vittorio Emanuele III, nel silenzio costernato dei monarchici locali. Tanto vale abbattere il pino marittimo che da sempre orna la cartolina con vista sul Rosso Maniero della Nunziatella, San Martino, Castel dell'Ovo e il Vesuvio. La rivendicazione di una memoria capovolta nella città dell'Istituto Italiano per gli Studi Storici di Benedetto Croce e dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Gerardo Marotta, degli Illuministi e del principe Raimondo Sangro di San Severo, primo gran maestro di una gran loggia massonica italiana, è avvilente scippo della storia, messo a segno da sprovveduti smemorati e, diciamolo, di “parricidi”.
Nel 1936 anche Elena donò l'anello nuziale nell'offerta dell'“oro alla Patria”. La guerra per la conquista dell'Etiopia era stata decisa dal governo, con plauso delle Camere. Era un'impresa dell'Italia, come lo erano state quelle coloniali di Francia, Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Stati Uniti... Anche Benedetto Croce si associò. A ragion veduta, nessuno glielo rimprovera. I fatti vanno capiti nel loro contesto storico, non con il preteso “senno di poi”. Diversamente dovremmo radere al suolo tutti i monumenti del pianeta (incluse basiliche d'ogni tempo e di ogni culto), perché in massima parte frutto di imprese discutibili (come la “vendita delle indulgenze”). Ma chi ce ne dà diritto? Non è meglio “capirli”?
Nel 1940-1946 Elena di Savoia condivise le sofferenze degli Italiani. Sua figlia Mafalda, come detto, ebbe tragica sorte. Il 9 maggio 1946 partì col Re, abdicatario, alla volta di Alessandria d'Egitto. Come in passato la Regina fu al suo fianco: letture, fotografie, brevi escursioni, la pesca, i pensieri non detti, i lunghi silenzi in attesa di una visita del figlio Umberto, partito dall'Italia il 13 giugno 1946 alla volta del Portogallo, ove dal 6 precedente aveva inviato la Regina, Maria José, e i quattro figli, Maria Pia, Vittorio Emanuele, Maria Gabriella e Maria Beatrice: tutti piccini, inconsapevoli che il padre sarebbe stato condannato all'esilio perpetuo. Ora che siamo tanto solleciti verso migranti, profughi, clandestini ed esuli un po' di riflessione va fatta anche sulla nostra storia...
Vittorio Emanuele III si ammalò la vigilia di Natale del 1947: una infreddatura, poi una trombosi (secondo il generale Paolo Puntoni, già suo aiutante di campo, che ne scrisse “de relato”) e, in breve, il decesso. Morì il 28 dicembre. Era un cittadino italiano all'estero. Tre giorni dopo la Costituzione decretò l'esilio per “gli ex re di Casa Savoia, delle loro consorti e dei loro discendenti maschi”, identificando “discendenti” ed “eredi” alla corona: una differenza formale e sostanziale sfuggita ai costituenti. La salma del Re Soldato riposa nel retro dell'altare della chiesa cattolica di Santa Caterina ad Alessandria d'Egitto. Una lapide lo ricorda sobriamente: “Vittorio Emanuele di Savoia, 1869-1947”. Non lasciò memorie. Quelle pubblicate da giornali di breve respiro e recentemente riproposte sono apocrife. A serbarne il ricordo più vivido fu Elena, che poi si trasferì a Montpellier, nel clima mite del Mezzogiorno di Francia. Vi morì nel 1952. È inumata sotto una lapide che ne ricorda il nome e, in caratteri romani, le date.
In Oriente Elena è Santa Elèna, moglie di Costanzo Cloro e madre di Costantino il Grande. Di umili origini, tenne salda la rotta. Le si attribuisce il rinvenimento della Santa Croce. I solenni cori del culto ortodosso la associano al figlio con accenti che volgono alla meditazione. Senza devozione per il passato non vi è prospettiva di futuro. Perciò esso va recuperato, custodito, tramandato: patrimonio di civiltà. Tutto intero. Anche quello troppo a lungo trascurato, come la memoria di Vittorio Emanuele III e di Elena di Savoia.
Aldo A. Mola
AGOSTO 1917 AL BIVIO TRA MATERIALISMO E UMANESIMO
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 13 agosto 2017, pagg. 1 e 11.
Mentre tempestosi venti di guerra sferzano l'Estremo Oriente come altre volte in agosto (1914, 1939...), ricorre il centenario del mese cruciale della Grande Guerra. In poche settimane si consumò l'estremo tentativo di fermare l'Europa sull'orlo della catastrofe. Dopo tre anni di conflitto tutte le potenze erano al collasso. A marzo lo zar Nicola II fu spazzato via. I tedeschi propiziarono l'arrivo di Lenin in Russia: una mina ai danni del governo provvisorio e di Kerenskij, che a fine luglio represse duramente la sollevazione armata a Pietrogrado e ogni opposizione alla prosecuzione della guerra, alimentata da pressioni anglo-francesi e da un cospicuo prestito da parte degli USA, scesi in lotta il 6 aprile ma ancora lontanissimi da incidere direttamente sul suo esito. In aprile-maggio la Francia fu sconvolta da ammutinamenti al fronte e da scioperi a Parigi. La protesta dilagò in Ungheria. Il 19 luglio il Parlamento tedesco propose la “pace sulla base di accordi”. Il 3 agosto si registrarono ammutinamenti anche nella marina germanica.
In quel quadro di crisi papa Benedetto XV (il genovese Giacomo della Chiesa, 1854-1922, asceso al Sacro Soglio a conflitto appena iniziato) pubblicò l'appello a fermare con trattative diplomatiche l'“inutile strage”. Non era solo la parola di un “capo di Stato”, qual era riconosciuto, con o senza “scettro”, ma anche l'estremo sforzo per bloccare la deriva verso l'“ateismo materialistico” ormai incombente. Atee non erano solo le “tesi di aprile” di Lenin. Lo erano anche la conduzione della guerra come annientamento reciproco dei contendenti e la riduzione dei popoli in macchine belliche lanciate in un fratricidio planetario privo di prospettive politiche.
Dopo un anno di forzato silenzio, trascorso nella solitudine a Cavour, il 13 agosto 1917 Giovanni Giolitti parlò dall'unica tribuna rimastagli dopo il forzato allontanamento da Roma, sotto la minaccia di attentato mortale alla sua vita. Dal seggio di presidente del Consiglio provinciale di Cuneo (che avrebbe dovuto ricordarlo), si associò al premier inglese Lloyd George: la guerra era “la più grave catastrofe dopo il diluvio universale”, con la differenza che essa era opera dell'uomo, non di una volontà imperscrutabile per punire gli uomini della loro malvagità (Genesi, 6, 5-8) o della “invidia degli Dei” evocata da Erodoto per spiegare la caduta degli imperi. Convinto che fosse ormai chiusa l'età della “politica estera a base di trattati segreti”, Giolitti ammonì: i reduci (“milioni di lavoratori delle città e delle campagne, la parte più virile della nazione, affratellati per anni dai comuni pericoli, sofferenze e disagi sopportati per la patria”) al rientro dal fronte avrebbero reclamato “ordinamenti improntati a maggiore giustizia sociale, che la patria riconoscente non potrà loro negare”. Monarchico e liberale, fautore di riforme per salvaguardare le istituzioni, propose il riconoscimento universale delle nazionalità, libere di darsi il proprio governo: Pax in iure gentium... “L'Italia, sorta in nome di quei principi, ne sarà certamente efficace sostenitrice nel consesso delle nazioni”. Lo statista italiano precorse di sei mesi i “quattordici punti” enunciati dal presidente americano Woodrow Wilson l'8 gennaio 1918. Far leva sulle nazionalità era anche il concetto-guida del Comandante Supremo, Luigi Cadorna, il cui piano strategico originario era infatti l'irruzione nell'impero austro-ungarico per suscitarvi la sollevazione contro Vienna: un progetto che aveva radici nel Risorgimento italiano e nel Quarantotto, “primavera dei popoli”. Malgrado incomprensioni e lontananze, all'opposto di quanto asserito dal liberalofago Angelo d'Orsi in “1917: l'anno della rivoluzione” (ed. Laterza), l'insieme della dirigenza politico-militare italiana rimaneva ancorata all'umanesimo e contraria alla riduzione del conflitto a “guerra dei materiali”.
All'opposto, nei due incontri di San Giovanni di Moriana (aprile-giugno 1917) i governi di Londra e di Parigi ribadirono il programma originario dell'Intesa: nessuna pace separata sino all'annientamento degli Imperi Centrali. L'Italia andò al traino. Non aveva scelte.
Il colonnello Angelo Gatti, chiamato da Cadorna a organizzare la “memoria storica” del conflitto, tra il 21 e il 23 giugno 1917 stese un “Promemoria” e lo consegnò al generale Roberto Bencivenga (massone) per il Comandante Supremo in partenza per l'incontro con il francese Ferdinand Foch e con il generale inglese Radcliffe. Segretamente Gatti ne dette copia anche al comandante della II^ Armata, Luigi Capello, che non faceva mistero della sua affiliazione al Grande Oriente d'Italia. Secondo Gatti, dopo 26 mesi di guerra e di perdite altissime bisognava “ricominciare da capo. È necessario inculcare uno spirito nuovo; fare nuova organizzazione; trasformarci col tempo (…); non bisogna credere che sia tutta insipienza dei capi, o cattiva tattica, o cattivo spirito (…); è tutto l'insieme che non va, c'è qualcosa di intimo, di profondo, che si rompe”. Soprattutto occorreva “guardare in faccia le compagini (militari) come composte d'uomini, non come materia”. Cinque giorni dopo si fece iniziare nella loggia “Propaganda massonica”. Tornato da San Giovanni di Moriana, Cadorna non gli disse una parola del “Promemoria”. Oltralpe era prevalsa la visione materiale del conflitto.
Il 17 agosto 1917 la II Armata iniziò l'XI battaglia dell'Isonzo. In due settimane avanzò di circa 8 chilometri sull'altipiano della Bainsizza, ma non riuscì a sfondare. Cadorna percepì che l'Impero austro-ungarico, duramente provato, era al collasso. Lo confermarono le memorie postbelliche dei generali avversari. Però in agosto mancò il successo finale. Alle strette, Vienna chiese il soccorso massiccio della Germania, facilitato dalla ormai ampia smobilitazione del fronte russo. Le perdite dell'Esercito italiano nella battaglia sommarono a 40.000 morti,108.000 feriti e 18.500 dispersi. Come ricorda lo storico militare gen. Oreste Bovio, nelle trincee circolava un motto amaro: “massimo sforzo col minimo di risultati”. Cadorna reagì con quattro severe lettere al presidente del Consiglio, Paolo Boselli: il Comando Supremo teneva in pugno lo strumento militare (enormemente cresciuto) con ferrea disciplina. Toccava però al governo coprirgli le spalle. Boselli non rispose. Due mesi dopo fu messo in minoranza alla Camera, prima ancora che a Roma arrivasse notizia dell'avanzata austro-germanica nella conca di Caporetto. Malgrado tutto l'Italia tenne, proprio perché la sua guerra aveva radici in quel Risorgimento che aveva forgiato lo Stato nazionale. Lo ricordò Gioacchino Volpe in “La guerra 1915-1918” (ed. Pagine, concorrente al Premio Acqui Storia 2017). L'insigne storico evocò le parole di Vittorio Emanuele III agli italiani, soldati e civili, dopo la ritirata dall'Isonzo al Piave (non una “rotta”, né una catastrofe, ma una lunga “battaglia di arresto”): “Siate un esercito solo”. Ma dopo la Vittoria italiana dell'ottobre-novembre 1918, risolutiva dell'intero conflitto come documentò Luigi Gratton nella bella biografia di Armando Diaz (ed. Bastogi), venne il diktat della “pace” di Versailles. Questa gettò le premesse per il ritorno alle armi. La Grande Guerra risultò solo l'inizio della nuova Guerra dei trent'anni (1914-1945), che ha segnato l'eclissi d'Europa e il primato del materialismo sull'umanesimo, del “mercato” sullo “spirito”, il lungo predominio dei profanatori del Tempio.
Aldo A. Mola
L'EDITORIALE SALVARE IL TRIANGOLO EQUILATERO
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 6 agosto 2017, pagg. 1 e 11.
L'Italia è un Paese “normale”. La Costituzione fissa gli equilibri tra i Poteri. La disputa aperta a freddo da Giorgio Napolitano contro Silvio Berlusconi sul ruolo svolto dall'Italia nell'aggressione alla Libia di Gheddafi (dal 17 marzo 1911), causa del caos tuttora imperversante a tutto danno del nostro Paese, ripropone un nodo istituzionale, oltre che politico e storico. A chi gli rinfaccia di avere esercitato pressione determinante sul presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, per estorcerne l'assenso, l'allora presidente della Repubblica, Napolitano, risponde sdegnato che fu il governo a decidere la partecipazione dell'Italia a una impresa militare senza avallo dell'ONU e a dir poco stupida, perché priva di prospettive politiche locali e globali. Dal canto suo Berlusconi ribatte quanto tutti sanno benissimo: egli e la generalità dei ministri erano contrari all'intervento, nel timore di quanto più volte profetizzato da Gheddafi: il crollo del non encomiabile regime del “Colonnello” avrebbe creato un vuoto incolmabile. Gran Bretagna e Francia andarono oltre e si assunsero la responsabilità dell'assassinio di Gheddafi, ammazzato in una maniera che fa vergogna ai sedicenti esportatori della democrazia. I quali (Obama, Blair, Sarkozy, etc.) dovrebbero spiegare quali siano i frutti liberaldemocratici (o “occidentali”) della “primavera araba”. Del pari, i tanti giornalisti italiani che si spellarono le mani ignorando storia e realtà dell'altra sponda del Mediterraneo dovrebbero ammettere di aver scritto su emozioni anziché per scienza. Si veda, per contrasto, il denso saggio di Tanda Kassis e Alexandre Del Valle, “Comprendere il caos siriano, Dalle rivoluzioni arabe al jihad mondiale” (D'Ettoris Editori).
Il punto fondamentale della dilagante disputa Napolitano/Berlusconi però, non riguarda ciò che l'Italia ha fatto o non ha fatto in Libia correndo dietro alla Nato e senza un voto dell'ONU, ma l'interrogativo principe: Napolitano esercitò o travalicò i poteri della Presidenza della Repubblica? Vezzeggiato e corteggiato quale “King George”, quasi l'Italia non avesse, come per fortuna ha, un assetto equilibrato (Capo dello Stato, Governo, Parlamento, Corte costituzionale), egli si attenne alla prudenza o invece forzò la mano a un presidente del Consiglio all'epoca aggredito da una forsennata campagna di stampa distruttiva della immagine sua e del governo? Nell'agosto seguente Mario Monti spiegò che, in caso di emergenza, occorreva ricorrere al “podestà forestiero”: ovvero commissariare la politica con un “tecnico” garante del Paese verso terzi.
Tutti ricordano che Napolitano prese a ceffoni le Camere inaugurando il suo secondo mandato presidenziale (breve, per buona sorte). Aveva ragione, perché tanti gli avevano chiesto di accettare, prolungando l'agonia di una rappresentanza parlamentare la cui elezione venne dichiarata in parte illegittima dalla Corte Costituzionale. I presenti ebbero due scelte: applaudire o alzarsi e uscire. Rimasero, scommettendo di essere più durevoli del Catone che li fustigava. Alcuni di essi (i grillini e i fautori di Matteo Renzi, astro nascente del partito democratico) prefiguravano lo stravolgimento dell'assetto costituzionale; altri subirono perché in quel momento erano alle corde.
Ora il “caso Libia” di alcuni anni fa ripropone la questione istituzionale. L'Italia non è un triangolo scaleno e non vuole affatto divenirlo. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, esercita i poteri costituzionali con scrupolo e con pazienza di Statista lungimirante. Il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, ha ereditato partite interne e internazionali complesse, dispone di risorse risicate (non parliamo di quelle militari, dalle Sinistre callidamente impoverite negli anni, ma anche di quelle finanziarie, fondamento di ogni progetto politico) e soprattutto si è sobbarcato l'onere di reggere il Paese dopo il fallimento clamoroso del referendum sulla riforma costituzionale spocchiosamente voluto da Matteo Renzi, che, sonoramente sconfitto e dimissionario da presidente del Consiglio, riacciuffò la guida di un PD in frantumi. Infine, terzo lato del triangolo, vi è il Parlamento. Da rinnovare prima possibile ma con una legge elettorale che restituisca ai cittadini la fiducia di esprimere, col loro voto, il governo. E qui il discorso torna non solo sulla Libia ma sulla manovra finanziaria internazionale che affossò il credito dell'Italia e aprì le porte al “commissariamento” dell'Italia: la litania di Monti (“ce lo chiede l'Europa”!!!), la sterzata su Enrico Letta per poi planare sul Giglio Miracolato: Matteo Renzi, completo del sorriso vacuo di Maria Elena Boschi, della zazzera di Lotti, di amici e amici degli amici (vari petali, un solo pistillo).
Ma l'Italia odierna non è più quella di King George. È quella della Costituzione: un triangolo equilatero. Mentre il Presidente della Repubblica fa egregiamente la sua parte, Gentiloni è al timone di un'Italia che avanza tra i marosi delle tensioni USA-URSS, con l'eredità della guerra strisciante in Ucraina, il caos che da Cuba al Venezuela può incendiare l'America Latina, il sempre inquieto Vicino Oriente e i tanti conflitti ricordati dai “media” solo quando sono al calor rosso (dalla Corea all'Iran e al sempre latente contrasto tra India e Cina). E il Parlamento? Oggi ognuno vede che esso è la gamba tarlata del tavolo costituzionale. Non perché sia bicamerale (anzi! per fortuna il Senato veglia sulle abnormità approvate a Montecitorio) ma perché non lo è abbastanza: non ne sono differenziate composizione e funzioni. Siamo lontani anni luce dal “senato della scienza”, prospettato pochi anni orsono, memori del Senato del regno e consapevoli che rappresentanti dei cittadini non ci si improvvisa nell'Italia dei Cola di Rienzo, dei Masaniello, dei terroristi che si spacciavano per espressione diretta del “popolo”...
Nei prossimi quattro mesi l'Italia sarà contagiata dal “fattore S”, le “regionali” della Sicilia. È il ritorno alla prima repubblica. Anzi alla sciagurata concessione dello Statuto speciale. Questa fu necessaria per fronteggiare le mire dell'EVIS (Esercito volontario per l'indipendenza siciliana) e di quanti (non tutti limpidi) ne chiedevano l'annessione agli Stati Uniti d'America. Per settimane assisteremo al mercatino della sotto-politica, il teatrino dei pupi che si offrono a chi prometta qualche seggio di qua e di là del Faro: uno spettacolo avvilente. Poi, finalmente, gli Italiani potranno votare, dall'arco alpino a Capo Passero e a Santa Maria di Leuca. Diranno la loro: con gli occhi al Triangolo Equilatero, contro chi ha tentato, cerca e mirerà a deformarlo in triangolo scaleno, consegnando tutto il potere a chi sta fuori delle Camere, a chi vuole piegare le Istituzioni a interessi di parte, ad ambizioni personali e persino ad appetiti stranieri. In questi mesi sarà fondamentale la correttezza dell'informazione, quanto meno da parte di “emittenti” che vivono del denaro dei cittadini, a cominciare dai programmi della RAI. La verità su quanto accadde nel 2011 non può attendere “storici accademici” che impiegano decenni a capire quanto è stato scritto da ricercatori indipendenti: è il caso dei caduti a Cefalonia, conteggiati e stabiliti parecchi lustri addietro da Massimo Filippini, perciò autorevole ospite del Premio Acqui Storia, importante non solo in sé ma anche quale osservatorio sulla distanza logico-cronologica tra ricerca “sul campo” e sua “codificazione”.
La storia del Paese, però – quella che si vive, non la sua tardiva narrazione, spesso distorta e lontana dai fatti –, non può attendere i comodi dell'“accademia”. La verità urge. È la lezione della disputa in corso tra due vertici dello Stato di sette anni addietro.
Aldo A. Mola
L'EDITORIALE DEMAGOGIA E ANTIPOLITICA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 30 luglio 2017, pagg. 1 e 11.
Il voto per il ridimensionamento dei vitalizi dei Parlamentari è un misto di demagogia e di antipolitica. È anche una palese violazione di uno dei capisaldi della civiltà giuridica: l’irretroattività delle leggi. Il suo vero bersaglio sono i “politici” quali protagonisti della storia d'Italia. Prendendo a pretesto condizioni oggettivamente assurde (ma create da norme approvate dal Parlamento e dai consigli regionali), quel voto ha lo scopo di “dare una lezione” a chiunque abbia rappresentato i cittadini alle Camere e nelle Regioni. In sintesi è una “legge” profondamente antidemocratica.
Essa ripropone al centro dell'attenzione l'interrogativo antico: chi sono i “politici”? Secondo il pregiudizio corrente, gonfiato ad arte dall'ormai trentennale polemica contro la “casta”, essi sarebbero una congrega di parassiti, che, occupato il potere, se ne sono assicurati e se ne scambiano profitti e benefici, come fossero feudatari.
In “Ribelli d'Italia” (ed. Marsilio, finalista al Premio Acqui Storia) Paolo Buchignani insiste su un aspetto solitamente trascurato del “sogno rivoluzionario da Mazzini alle Brigate Rosse”: come la “conservazione illuminata”, anche la “rivoluzione” è una professione, sia “di fede”, sia di “tecnica”. Richiede studio, attitudini, lunga esercitazione, dottrinale e pratica, e solitamente si risolve in “partito d'azione”. Perciò a volte il rivoluzionario mancato (o clamorosamente fallito) sopravvive a se stesso come profeta. Nei corsi e ricorsi della storia, a distanza di tempo il suo “insegnamento” può essere riletto, aggiornato, rilanciato. Mazzini stesso, prima di ideare la Giovine Italia e di intraprendere un quarantennio di agitazioni per l'avvento dell'Italia unita in forma repubblicana, si fece iniziare alla Carboneria, una tra le società segrete più intricate d'inizio Ottocento, contenitore di programmi e catechismi diversissimi e persino opposti. Per di più, come egli stesso narrò, un alto dignitario massonico, con lui detenuto nel carcere di Savona, prima di confidargli segreti importanti, battendogli le dita sulla fronte gli conferì l'iniziazione “sul campo” (poi detta anche “sulla spada”), praticata dai grandi maestri e/o da loro plenipotenziari in circostanze eccezionali.
Buchignani non cita il capofila dei rivoluzionari europei, Filippo Buonarroti, già a fianco di “Gracco” Babeuf nella Cospirazione degli Eguali, finita nel maggio 1797 con il loro quasi completo annientamento. Sulla sua traccia, rivoluzionari di lungo corso furono poi tutti i protosocialisti, anarchici, promotori della prima, seconda e terza Internazionale, come dei movimenti e delle correnti che agitarono l'Europa sino al crollo dei totalitarismi del secolo scorso.
Fu il caso, per stare all'Italia, di Enrico Bignami (fondatore di “La Plebe”), di Andrea Costa (discepolo di Giosue Carducci, deputato dal 1882 del partito socialista rivoluzionario di Romagna, poi via via meno intransigente e morto gran maestro aggiunto del Grande Oriente d'Italia). Anche Filippo Turati, che nell'agosto 1892, profittando degli sconti ferroviari concessi per le feste in onore di Cristoforo Colombo (cadevano i quattrocento anni dalla “scoperta” dell'America), fondò a Genova il partito dei lavoratori, poi partito socialista italiano, rimase deputato sino a quando fu dichiarato decaduto dal Parlamento, con una tra le leggi più discutibili del governo Mussolini: l'esclusione degli “assenteisti”. Alla misura iniqua scampò la pattuglia liberale guidata da Giovanni Giolitti, morto deputato in carica il 17 luglio 1928. Alla Camera era entrato il 29 ottobre 1882: quarantasei anni prima. In quasi mezzo secolo aveva imparato a conoscere uomini e cose e a capire (lo spiegò in una famosa lettera alla figlia Enrichetta) che, se deve tagliare un abito per un uomo che ha la gobba, per riuscir bene il sarto bravo deve tener conto della deformità del suo cliente.
Così era (ed è) la legislazione più adatta agli italiani: occorreva (e occorre) pensarla non per “uomini” in astratto, ma per come essi sono, plasmati da una storia millenaria. Deve mirare a migliorarli, ma in una prospettiva di lungo periodo, senza scorciatoie illusorie.
Appena eletto deputato, nel 1882, Giolitti fece parte della commissione incaricata di decidere l'introduzione del voto femminile, almeno amministrativo. Lo ricorda Vincenzo Pacifici in un bel saggio pubblicato dalla “Rassegna storica del Risorgimento”, la rivista più che centenaria ottimamente diretta da Romano Ugolini. Tutti convinti dell’opportunità di approvarla, i deputati furono però d'accordo che, al momento, le donne erano succube dell'influenza “del padre, del fratello, del marito, del figlio e talora del confessore”, sicché il loro voto era “inutile o pericoloso”, come argomentò l'albese Annibale Marazio, barone di Santa Maria Bagnolo, deputato per quasi mezzo secolo e senatore dal 14 giugno 1900.
La longevità della classe dirigente (la rivoluzionaria, ora narrata da Buchignani, e la moderata o conservatrice, già studiata da pensatori quali Vilfredo Pareto, Gaetano Mosca e Roberto Michels) è tra i capisaldi della riflessione sulla scienza della politica e, ancor più, sulla filosofia politica, oggi quasi del tutto smarrita a Montecitorio. Lo prova appunto la legge (palesemente incostituzionale) sulla riduzione delle pensioni ai parlamentari. Demagogica e antipolitica, essa declassa la rappresentanza e l'esercizio della sovranità. La sottrae all’investitura da parte degli elettori e la sottopone a gruppi (o “ditte”) più o meno occulti, che si arrogano il diritto di decidere candidature, appartenenza, espulsioni, durata in carica, emolumenti, ecc., in manifesto contrasto con la Costituzione.
Il legislatore ha certo titolo per correggere errori, ma non può cancellare i cosiddetti “diritti acquisiti”. Nello specifico, così com’è configurata, questa “riforma” ha un amaro sapore di “punizione” della dirigenza del primo settantennio della Repubblica, quasi essa sia stata composta solo da inetti e profittatori.
Non v'è dubbio (e le cronache ne furono e ne sono zeppe) che taluni parlamentari abbiano esercitato poco e male la carica e che talora abbiano compiuto reati: ma questo non ha nulla a che vedere con la legittimità dei benefici fissati dalle leggi. Il rispetto per il mandato elettorale ispirò la decisione dell'Assemblea Costituente (contro il parere di Luigi Sturzo) di proclamare senatori di diritto per la prima legislatura repubblicana i deputati dichiarati decaduti dal governo Mussolini. Fu una scelta saggia e dalle ripercussioni politiche importanti, perché proprio quei senatori (in massima parte liberali, democratici, laburisti e repubblicani e, talora, dai significativi trascorsi massonici) privarono la Democrazia Cristiana della maggioranza assoluta alla Camera Alta e indussero Alcide De Gasperi (gli piacesse o meno) ad ampliare la maggioranza di governo, comprendendovi liberali, repubblicani e socialdemocratici): non un suo “dono grazioso”, ma una necessità ineludibile per garantire stabilità. Anzi, furono proprio alcuni di quei “senatori di diritto” a propugnare poi la riforma elettorale passata sotto il polemico nome di “legge truffa”, cioè il piccolo premio di maggioranza attribuito alla coalizione che nelle elezioni del 1953 avesse superato il 50% dei voti più uno. La coalizione fu varata, ma purtroppo fallì di poco l'obiettivo. La sua sconfitta segnò l'inizio del declino del “centrismo”, sfociato sette anni dopo nei fatti del luglio 1960, seguiti dalla lunga gestazione del Sessantotto e dal suo lungo contorto cammino, accennato da Buchignani.
Dalle macerie causate da quella insoddisfatta “voglia di rivoluzione”, che eccitò operisti, cattolici e destre radicali, occorreva uscire col ripristino dei capisaldi dello Stato di diritto: gerarchia e meritocrazia. La storia, però, ebbe altro corso. Ora, in un Paese affannato e in presenza di eventi di gravità estrema (il razionamento dell'acqua nella Città Eterna, l'annunciato fallimento di aziende di trasporto pubblico...), il Paese non ha davvero bisogno di aprire un altro contenzioso tra suoi poteri apicali: a tutto danno dell'immagine della “politica”, patrimonio indivisibile dell'intera storia d'Italia, dalla sua unificazione a quel poco che di coscienza nazionale ancora sopravvive.
Ma un po' ovunque si affacciano i nuovi mostri dell'Apocalisse, demagoghi che annunciano di voler “far nuove tutte le cose”. La risposta sta nel ritorno al primato della politica e del suo vero fondamento: la Storia.
Aldo A. Mola
MAX GALLO NIZZA, CULLA DELL'UNITA' GRECO-LATINA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 23 luglio 2017, pagg. 1 e 12.
Il presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, ha accolto Donald Trump, presidente degli Stati Uniti d'America, a Versailles. L'ha ospitato a pranzo con vista sui Champs Elysées e l'ha condotto dinnanzi al sarcofago di Napoleone a Les Invalides. Gli ha mostrato in sintesi la grandezza della Francia, uno Stato millenario: storia e modernità, identità condivisa nei secoli, malgrado feroci guerre franco-francesi, da quelle di religione alla Fronda, dalla Vandea al “regolamento di conti” tra “liberatori” e “collaborazionisti” all'indomani dell'occupazione germanica, venti volte più sanguinoso di quello italiano dell'aprile-maggio 1945 e nondimeno accuratamente rimosso. Il novantaduenne Pétain, eroe della Grande Guerra, fu condannato alla fucilazione (risparmiata solo per l'età). Però, quand'è il momento, la Francia sta “al di sopra della mischia”. Così vicina all'Italia e così diversa. Anche l'Italia ha monumenti strabilianti. Ovunque. E ne ha di eccelsi in Roma. Ma stenta a farsene vanto e vetrina. Ha una storia unitaria recente. Solo l'anno venturo festeggerà il centenario dell'unione di Trento e Trieste alla Patria: coronamento dell'antico “Patto di Ausonia”.
La differenza tra la Francia e l'Italia è evidenziata anche dalla narrazione storica. Lo mostra bene il caso di Max Gallo (Nizza, 7 gennaio 1932 - Cabris, 18 luglio 2017). Ricordato frettolosamente dai “media” all'indomani della morte, Gallo narrò la propria formazione nell'introduzione al volume “Cuneo-Nizza: storia di una ferrovia” (Cuneo, 1982), su invito di Franz Collidà, giornalista di rango: un libro da rileggere mentre la TAV si arresta, la linea Cuneo-Nizza langue e il Tenda è una vergogna.
Della sua famiglia, Gallo disse che gli rimaneva il ricordo della povertà. A cinque o sei anni sua nonna lavorava in una fabbrica di ceramica, forse a Mondovì. Trasportava pile di piatti “e quando uno di essi si rompeva, c'era il rimprovero e la trattenuta sul salario, così che i bambini talvolta dovevano dei soldi al datore di lavoro, invece di riceverne”: appena un secolo fa... Figlio di un piemontese con i baffi alla Umberto I, suo padre era migrato a Nizza per fame: a piedi, tappa dopo tappa. Ma sempre fedele alla Patria. Vi tornò per fare servizio militare negli Alpini. La strada ferrata da Breil saliva sino a Vievola (raggiunta nell'età di Giolitti), poi si proseguiva alla bell'e meglio. Altrettanto valeva per chi da Cuneo puntava alla mitica Costa Azzurra. I piemontesi a Nizza, ricorda Gallo, continuavano a preferire l'Asti spumante allo champagne, i formaggi delle loro valli originarie, il dolcetto… e a sognare gli antichi portici: soprattutto quelli di Cuneo, che con la imponente Stazione Nuova, monumento della Terza Italia, aveva un Consolato francese e rimaneva “Caput Pedemontis”, con statisti quali Giolitti e Marcello Soleri e politici come Angelo Segre, venerabile della “Vita Nova”.
Ma chi fu Max Gallo? Italiano? Francese? Fu appassionatamente nizzardo, come Giuseppe Garibaldi la cui biografia scrisse nel centenario della morte (1982). Dalla città di Caterina Segurana (la cui italianità è rivendicata da Giulio Vignoli in saggi documentati) assimilò l'“idea della Francia” quale sintesi della latinità e la narrò in opere di storia e in romanzi che gli assicurarono popolarità e il seggio n. 24 all'Accademia di Francia, tra gli Immortali: invidiato dagli eruditi che passano la vita a lucidare la loro miserabile piastrella senza alzare gli occhi alle pareti, né immaginano il Cielo al di sopra dell'“aiuola che ci fa tanto feroci”.
Max Gallo ha restituito ai francesi Luigi XIV, Robespierre, la figura gigantesca di Napoleone I e le altre epoche della Grande Nation. Perché ricordarlo anche in Italia? Tre motivi. In primo luogo dai suoi lavori Oltralpe sono nate opere di divulgazione televisiva, come la serie “Napoléon” di Yves Simoneau. Sinora l'Italia non ha saputo fare altrettanto con i suoi re e non ha dedicato alcuna lettura filmica a nessuno dei presidenti della Repubblica, salvo lamentare che le Istituzioni sono ignorate dal “grande pubblico”. Come guida valga il bel libro di Tito Lucrezio Rizzo, “Parla il Capo dello Stato” (ed. Gangemi). Molti sciocchini rivendicano il primato della “territorialità” dimenticando la Patria. In secondo luogo, Gallo “nacque” militante del Partito comunista francese, il più settario dell'Europa occidentale. Ma, come Renzo De Felice e altri storici e politici italiani (fu il caso di Antonio Giolitti), dopo il 1956 si liberò dalle tossine, “capì” Mitterrand (decorato di Vichy) e divenne un liberale europeo. Infine, a differenza di quanto scritto da frettolosi autori di epicedi, non ebbe proprio nulla a che vedere con certi “divulgatori ” nostrani che si accanirono contro i difetti degli italiani e non ne seppero cogliere la grandezza al di là delle miserie, né la voglia e la capacità di riscossa dopo secoli di dominazione straniera. In una stagione irripetuta della storiografia italiana si misurarono la “Storia d'Italia” diretta per la Casa Einaudi da Ruggero Romano e Corrado Vivanti e quella orchestrata per la Utet da Giuseppe Galasso, meritatamente Premio Acqui Storia alla carriera. Ma il richiamo alla forza delle idee è poi stato corroso dal particolarismo, oggi trionfante, che ha impoverito e frantumato la coscienza nazionale. Oscurati e dimenticati i “Costruttori dello Stato” ripercorsi da Domenico Fisichella (ed. Pagine), prevalsero l'elogio di un “vate” politicamente arruffone come d'Annunzio, dell'“arci-italiano” Malaparte, “intellettuale” girevole come i pannelli solari, e di scrittori dalla penna svelta, corrosiva ma infine girevole, come quella di Indro Montanelli. E l'Italia? Troppo spesso fu irrisa e umiliata. Max Gallo ha invece insegnato la via maestra della Storia: liberarsi dalle divisioni e farsi Nazione, in una visione superiore. Però, a differenza dell'Italia, la Francia fa leva su Istituzioni, come la Massoneria, che da secoli ne alimentano la coscienza civile. L'Italia ha Rosy Bindi...
In vista del centenario della Vittoria, il prossimo 4 novembre 2018, vi è tempo e modo di ricucire l'unità della storia nazionale .Lo fa il presidente Sergio Mattarella, forte delle virtù cardinali che quotidianamente spende da capo dello Stato, mentre il Parlamento offre uno spettacolo desolante proprio nel 70° della nascita della Repubblica. Garibaldi, che vedeva lungo, propose Nizza areopago sovrannazionale per dirimere le contese tra gli Stati con soluzioni pattizie. Ve n'è bisogno mentre l'Unione Europea è un'etichetta stinta sulle divisioni tra Stati nazionali. Perciò è vivida la “lezione” di Max Gallo, italo-franco-nizzardo: emblema dell'unità greco- latina del Mediterraneo.