"Il Governo ha due doveri, quello di
mantenere l'ordine pubblico a qualunque costo ed in qualunque
occasione, e quello di garantire nel modo il piu' assoluto la liberta'
di lavoro."
Il Municipio di Cavour
"Le leggi devono tener conto anche
dei difetti e delle manchevolezze di un paese. Un sarto che deve
tagliare un abito per un gobbo, deve fare la gobba anche all'abito."
Tomba della Famiglia Giolitti
"Nessuno si puo' illudere di potere
impedire che le classi popolari conquistino la loro parte di influenza
economica e di influenza politica. Gli amici delle istituzioni hanno un
dovere soprattutto, quello di persuadere queste classi, e di
persuaderle con i fatti, che dalle istituzioni attuali esse possono
sperare assai piu' che dai sogni dell'avvenire."
Il busto di Giolitti
"Agli uomini politici che passano
dalla critica all'azione, assumendo le responsabilita' del governo, si
muove spesso l'accusa di mutare le loro idee; ma in verita' cio' che
accade, non e' che essi le mutino, ma le limitano adattandole alla
realta' e alle possibilità dell'azione nelle condizioni in cui si deve
svolgere necessariamente."
Cavour, la rocca e le Alpi
"Agli uomini politici che passano
dalla critica all'azione, assumendo le responsabilita' del governo, si
muove spesso l'accusa di mutare le loro idee; ma in verita' cio' che
accade, non e' che essi le mutino, ma le limitano adattandole alla
realta' e alle possibilità dell'azione nelle condizioni in cui si deve
svolgere necessariamente."
Proposte - Archivio 20202
In
questa sezione segnaliamo editoriali, articoli, note, recensioni
e saggi brevi di interesse.
“RINVIO ITALIA” SCUOLA, ELEZIONI.... - FINO A QUANDO? Editoriale
di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della
Liguria” di domenica 27 Dicembre 2020, pagg. 1 e 11.
L'eredità non è un gioco di parole Il
2020 lascia una pesante “eredità” all'anno venturo. Qualunque ne sia
l’esito, il verboso duello tra l'italovivente Matteo Renzi e il
presidente Conte non finirà con la pace ma con un fragile armistizio,
intervallato da scaramucce in vista di altre ostilità e della battaglia
finale. Però, a differenza delle tante crisi di governo che si sono
susseguite nella prima come nella seconda repubblica, l'attuale non
prevede che tutte le parti in lotta si possano proclamare più o meno
vincitrici. Alcuni suoi protagonisti finiranno nella polvere senza
speranza di riscossa. Possono prendere per insegna l'elogio del
valoroso Jacques II de Chabannes de la Palice (1470-battaglia di Pavia,
1525):“un quarto d'ora prima di morire era ancora vivo”.
Il Soggetto del 2020 è stato il “rinvio”. In passato l'Italia ha avuto
governi di coalizione. Dopo quelli nel 1944 imposti dal Comitato di
liberazione nazionale, che confiscò temporaneamente la rappresentanza
nazionale, dal 1947 nacquero ministeri incardinati sulla Democrazia
cristiana, un partito di centro che secondo alcuni guardava a sinistra
ma si voltò anche a destra e dopo i governi della “non sfiducia”
divenne il perno del Grande Centro, dai liberali ai socialisti.
All'inizio degli Anni Novanta (dei quali si è perduta memoria)
implosero tutti i partiti prefascisti e ciellenistici. La DC risaliva
al Partito popolare italiano fondato da don Sturzo nel 1919, i liberali
che si dettero nome ma non sostanza nel 1922, i socialisti di varia
osservanza derivavano dal Partito dei lavoratori italiani del 1892, i
repubblicani erano sorti a fine Ottocento. Fondati cent'anni prima,
radicali disparvero una seconda volta, spossati da Cicciolina. In lutto
per la dipartita dell'URSS e la caduta del Muro di Berlino il partito
comunista intraprese il cammino: da DS sino al PD odierno, all'insegna
della botanica e in omaggio alle Metamorfosi di Ovidio, dalla Quercia
all'Ulivo, ma a differenza della narrazioni mitologiche non ebbe mai un
Adone. Oggi ha Zingaretti. L'introduzione del
maggioritario fu corretto e corrotto con cospicue quote di
proporzionalismo da scaltri democristiani. Così il “sistema” favorì la
sopravvivenza di partiti medi, piccoli e minimi, vassalli del
sottogoverno e della burocrazia che tengono a guinzaglio la democrazia
formale e impedì l'avvento di maggioranze solide e durevoli. Per
portare alla presidenza del Consiglio il comunista Massimo D'Alema
bastò inventare un micropartito di cui si è persa memoria. Al potere si
alternarono coalizioni opposte, ma di breve periodo. Impossibilitati a
procedere nel tempo, i governi hanno giocato di rimessa. Strappata la
palla all'avversario ogni nuova compagine ha giocato al centro campo:
tanti passaggi da una zona all'altra, palle fuori, palle in tribuna,
parecchi falli, mai una vittoria netta. Esauriti anche i tempi
supplementari di quelle sceneggiate, gli spettatori hanno perso la
pazienza. Una parte cospicua non è andata alle urne. Altri hanno
regalato quattrocento seggi a un Movimento nato “contro tutti”, privo
di programma, dirigenti sperimentati, relazioni con le grandi famiglie
politiche dell'Unione Europea (popolari, socialisti, liberali e persino
i verdi, che in Italia non esistono), ma pronto farsi carico
dell'universo mondo. Novelli Ercole, promettevano di pulire le cloache
della politica.Ma poi?
Il seguito è sotto gli occhi di tutti. La crisi che si
trascina sin dalla proterva liquidazione del governo Berlusconi l'11
novembre 2011, pronubo Giorgio Napolitano: anni scanditi da fuochi
d'artificio spettacolosi, come avviene a fine anno, a carnevale, per le
feste patronali. Spenti gli sprazzi torna il buio. Cominciò la
luminaria di Monti Mario, “salva Italia”, pallida controfigura
eurodiretta del nostrano Lamberto Dini. Dopo la mesta vicenda del
governo Enrico Letta, sorretto da Forza Italia nel timore del peggio,
Matteo Renzi e Maria Elena Boschi s’intestarono la riforma della
Costituzione sottoposta a verifica referendaria, con esito per loro
mortificante. Passarono come comete, alcune delle quali portano bene,
altre male. La loro lasciò alle spalle la massa gassosa scambiata per
stelle: cinque e in disordinato moto perpetuo. Dopo le
sventurate elezioni del 2018, in assenza di una maggioranza politica
vera e a conclusione della più lunga stasi post-elettorale della
Repubblica il capo dello Stato incaricò un governo basato su un
“contratto” con punti programmatici anticostituzionali (non rilevati).
Il governo Conte-Di Maio-Salvini non contò su una maggioranza politica
ma semplicemente numerica. Vivacchiò un anno, succubo dell’esasperata
polemica sull'approdo in Italia di clandestini che per taluni erano
(del tutto impropriamente) “migranti” da assistere caritatevolmente
(quasi il loro arrivo fosse pianificato dal governo stesso) per altri
semplicemente “criminali” da fermare alla partenza “manu militari”:
operazione possibile solo se l'Italia ancora fosse quella di Vittorio
Emanuele III e di Giolitti, ma del tutto fuori portata dell'attuale,
dalla influenza modestissima sulla’“quarta sponda”. Dall'imprevedibile
e caotica mossa di Salvini, che nell'agosto 2019 dichiarò sfiducia nel
presidente del Consiglio, nell'illusione di rapido ritorno alle urne,
contro ogni previsione nacque il governo attuale, quadripartito
(pentastellati, democratici, “leucociti ”e italiviventi), fondato sul
“vedremo”, “faremo”, “studiamo”, indeciso a tutto e sempre più
boccheggiante. E' Italia del rinvio. A prescindere
dalla forma dello Stato, monarchia (in Europa se ne contano una decina,
in buona salute: Elisabetta II insegna) o repubblica, nelle democrazie
parlamentari i governi sono come un edificio. Hanno fondamenta, alcuni
piani e un tetto. Alla base vi è il consenso dei cittadini. I pilastri
portanti sono il programma. Il tetto è la convergenza tra l'azione del
governo (qualunque colore abbia, è erede del Trattato di pace del 1947)
e i vincoli politici, militari ed economici dello Stato, dai quali
nessuno, può prescindere se non a rischio di fratture e ritorsioni
micidiali, anche per via del nostro mostruoso debito pubblico. Orbene,
l'attuale governo Conte è nato dalla somma di debolezze, senza un
programma proprio, con prospettiva di breve periodo.Doveva solo arare
una nuova legge elettorale: non l'ha fatto. In compenso ha sperperato e
sperpera risorse, senza un piano condiviso. Il suo tetto è
scoperchiato, i pilastri sono corrosi come quelli di certi viadotti e,
come indicano tutti i sondaggi, l'elettorato non si riconosce affatto
nel governo. L'edificio sta per crollare di schianto. Si regge su una
maggioranza numerica in un Parlamento dichiarato morto e sepolto dalle
Camere stesse e dal referendum confermativo dello scorso 20 settembre,
quando si votò sotto schiaffo del covid-19. Non solo: quelle votazioni
furono “celebrate” a scuole aperte da pochi giorni e poi chiuse in
tutta fretta per la manifesta incapacità del governo di garantire
l'afflusso degli allevi in sicurezza, come dovrebbe avvenire per tutti
i cittadini ovunque vadano, in fabbrica come in ufficio o in giro per i
fatti loro. La sgangherata maggioranza ancora al
governo non è affatto una coalizione. Per tale infatti s’intende
un’alleanza nata da una convergenza su principi politici e con un
programma organico di ampio respiro. Esattamente l'opposto
dell'attuale, che senza l'inizio dell'epidemia/pandemia si sarebbe
sfasciata da tempo. Nata dall'equivoco vive nell'ambiguità: fondata sul
rinvio, è in tutto e per tutto inconcludente. Sfidando il ridicolo, il
suo presidente Conte Giuseppe adesso ripete il mantra che non bisogna
più perdere tempo, è il momento di correre e, addirittura, sarebbe “una
ignominia” perdere la grande occasione di presentare all’Unione Europea
le proposte per accedere al riparto delle risorse previste dal Piano
per la ripresa (“Recovery”). Chi gli ha impedito di farlo sino a oggi? Abbiamo
sotto agli occhi la “task force” costituita da Sua Emergenza a inizio
aprile 2020 per “favorire la ripresa delle attività produttive, anche
con modelli organizzativi che garantiscano la sicurezza”, la tanto
celebre quanto volatile Commissione presieduta da Vittorio Colao, di
cui furono componenti di diritto l'onnipresente Domenico Arcuri (detto
“Siringa”) e Angelo Borrelli, capo della protezione civile. Dopo averci
ben ponzato, i diciassette taskforzisti consegnarono il “piano”. Finì
tra i tanti fascicoli che, fronte inutilmente aggrottata e ciuffo al
vento, Conte sfoglia a beneficio dei televedenti e accantona. Verso la resa dei conti Adesso
siamo al giro di boa. Comunque agisca “il senatore di Scandicci”, i
fatti sono ostinati e presenteranno il conto. La verifica non sarà tra
Palazzo Chigi (col codazzo di centinaia di esperti nominati dal
premier) e i partiti oggi accampati al governo, ma tra le promesse e la
realtà. Gli italiani hanno dato e stanno dando una grade prova di
lealtà civica. Hanno accettato e subiscono pazientemente limitazioni di
libertà costituzionalmente garantite nella convinzione che valga la
pena. Però ormai sono al limite della sopportazione. C'è un motivo.
Benché da tempo informato della pandemia in corso, quando il 31 gennaio
di quest’anno deliberò lo stato di emergenza Conte assicurò che tutto
era stato previsto e preparato per fronteggiarla. Invece, va ricordato,
non erano disponibili mascherine, camici e tamponi neppure per il
personale sanitario. Il governo mascherò le magagne parandosi dietro
gli “esperti”, i cui verbali però vennero secretati.Più passarono i
mesi, meno risultò credibile. Incalzati dai decreti del presidente del
consiglio dei ministri, i famigerati Dcpm messi in discussione da tutti
i costituzionalisti e ora demoliti con la sentenza del 16 dicembre
emessa dal Tribunale civile di Roma, saponi solidi e liquidi a parte,
gli italiani (che sono tra i popoli più puliti d'Europa) ricorsero al
“fai da te”, fiduciosi che anche il governo facesse la sua parte. Ma
questa ancora non si vede: è mascherata sotto la pioggia delle
limitazioni imposte sino al 7 gennaio 2021. Un bel dì rivedremo: ... la scuola...? In
primo luogo la scuola. Quanti docenti saranno in cattedra alla ripresa
delle lezioni? A che punto sarà la riformulazione degli orari delle
lezioni, con o senza doppi turni, con o senza didattica a distanza, con
o senza la possibilità di fare i conti con la prevedibile inclemenza
del clima invernale, che in molte regioni sconsiglia di far lezione a
finestre aperte: unico modo per “sanificare” l'ambiente messo a punto
dalla ministra-preside Azzolina Lucia (leggendaria per i farseschi
banchi a rotelle provveduti da Arcuri Domenico)? Da
quanto al momento si sa, l'organizzazione dei trasporti è quella di un
mese e mezzo fa, quando, dopo varie tergiversazioni, gli istituti medi
(tranne che per la prima classe) e superiori vennero chiusi. I
prefetti, sui quali la ministra il governo ha scaricato il nodo
gordiano del raccordo fra afflusso degli allievi e orari delle lezioni,
hanno ricevuto risposte pacate ma ferme dal personale dirigente e
docente: la scuola non è solo “parcheggio orario” di scolari e allievi.
È studio, è una “comunità educante” (si diceva una volta). Se,
come purtroppo prevedibile, l'inizio delle lezioni “in presenza” verrà
rinviato all'11 gennaio e poi, con ogni probabilità, nuovamente sospeso
per la sopravveniente “terza ondata” (calcolata su quali parametri?)
per il governo sarà una disfatta senza appello. A differenza di altre
vicende, lasciate correre con beneficio d'inventario, questa non
potrà passare inosservata al Quirinale, il cui titolare fu ministro
della Pubblica istruzione. ...e le urne...?
Il secondo appuntamento incombente è il rinvio del rinnovo delle
amministrazioni civiche ormai in scadenza, incluse quelle di città
emblematiche quali Roma, Milano, Napoli e Torino. Un sordo tam-tam
annuncia da fuori campo che “qualcuno” preferisce rimandare la
consultazione perché non si può votare sinché dura la pandemia.
L'argomento è del tutto improponibile da parte di un governo che ha
portato il Paese alle urne lo scorso 20 settembre, che promette di
vaccinare entro fine 2021 e che (come tutti oggi nel mondo) non è in
grado di prevedere se e quando il contagio sarà vinto o se ne andrà
“per i fatti suoi”, com’è sempre accaduto per tutte le peggiori
pestilenze. Si può sospendere la democrazia elettorale a tempo
indeterminato? Lo Stato di Israele(ancora una volta un modello di
democrazia non solo per l'Asia) a marzo va alle urne, con o senza
covid-19, perché se si deve si può. L'Italia che bene o male ancora
funziona, sia pure a singhiozzo e malgrado limitazioni scientificamente
stolide (la chiusura di bar e ristoranti, di teatri e musei, di circoli
culturali e via elencando), è in grado di garantire l'apertura dei
seggi, le votazioni e lo spoglio delle schede. Sennò che paese è?
Ma questa “maggioranza” ha un obiettivo supremo: arrancare sino a
quando il Capo dello Stato non può sciogliere le Camere. Il famigerato
“semestre bianco” è una delle tante norme che mostrano le “rughe” della
nostra Costituzione. Venne concepito settant'anni fa quale argine
contro “manovre di palazzo” (ormai insistenti) miranti a insidiare la
democrazia parlamentare. Lo scopo ultimo dell'attuale ammucchiata di
governo è di svalicare così l'intero 2021 e di eleggere da sé il futuro
“inquilino del Quirinale”. Questo intento mette a nudo il modo distorto
di intendere il ruolo del Presidente della Repubblica, concepito quale
garante di una esigua maggioranza numerica che sopravvive al taglio dei
parlamentari da queste stesse deliberato, alla riforma dei collegi
elettorali e alla sua asimmetria rispetto all'elettorato, come
evidenziano tutti i sondaggi. È bene ricordare,
allora, che il Capo dello Stato “rappresenta l'unità nazionale”, non un
partito o una coalizione di partiti, né, tanto meno, una
raccogliticcia, precaria e caotica congrega di parlamentari destinata
comunque a scomparire nelle acque reflue della storia. Il Presidente
della Repubblica voluto dalla Costituzione vigente ricalca la figura
del Re secondo lo Statuto Albertino: è “il capo supremo dello Stato”. È
il “primo magistrato”. Ingabbiare oggi e per un altro anno
ancora la vita politica del Paese in vista dell'elezione del Presidente
futuro significa evidenziare l'aspetto deteriore della forma
repubblicana dello Stato: l'identificazione del suo “Capo” pro tempore
con una o più forze partitiche e quindi la sua subordinazione ad
appetiti di parte: altro che i “poteri forti” sbandierati come
spauracchio da catto-comunisti e loro soci parimenti liberticidi! Un
Capo dello Stato eletto da un’artificiosa maggioranza parlamentare che,
secondo tutti i sondaggi, sin dalla sua nascita non rappresenta affatto
l'elettorato sarebbe divisivo anziché unificante, quale invece
dev’essere. Sarebbe frutto di un colpo di Stato strisciante e ne
vulnererebbe la rappresentatività, aprendo una crisi istituzionale
senza precedenti. Sino a ora, anche in elezioni molto disputate il
Presidente non è mai stato eletto “contro” una parte dell'elettorato ma
per garantire le regole istituzionali condivise. A fronte
di questo preoccupante scenario ben venga qualunque iniziativa
parlamentare capace di fermare l'attuale congrega al potere, che non è
un governo vero, come mostra la penosa faccenda della urgente richiesta
del Mes, il cui rinvio alle calende greche evidenzia la pochezza
politica del Partito democratico. Ecco perché, lasciando
tra parentesi lo sfortunato La Palisse, è l'ora di un Baiardo,
“cavaliere senza macchia e senza paura”, senza dimenticare che quando
tra Quattro e Cinquecento, complici i tanti Grajano d'Asti, l'Italia
cadde sotto la dominazione straniera, ebbe anch’essa i suoi campioni
intrepidi: da Ettore Fieramosca, rievocato nel 1833 da Massimo
d'Azeglio in La disfida di Barletta, a Giovanni de' Medici “delle Bande
Nere”, a Francesco Ferrucci. Proverà un senatore toscano a emularli?
Evitare la crisi di governo oggi, potrebbe generare tra un anno la
crisi senza precedenti del regime costituzionale, tante volte paventata
dal profetico Marco Pannella.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA:
Francisco Goya, Rissa a bastonate. Quando manca l'arbitro
imparziale, i duellanti si ammazzano di botte, sprofondando nel fango.
ITALIA ALLA CARBONARA Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 20 Dicembre 2020, pagg. 1 e 11.
Per stomaci forti Silvio
Pellico (Saluzzo, 1789-Torino, 1854) era di stomaco debole. Chissà se
mai gustò una carbonara. E chissà se i carbonari, suoi “buoni cugini”,
quand’erano nella foresta, al riparo dai Lupi mannari (venduti al
potere, spioni e traditori), cuocevano una carbonara per l'agape
rituale? Se ne sa sempre meno. L'Istituto per la
Storia del Risorgimento Italiano è da troppo tempo allo sbando. I suoi
comitati provinciali tentano di riemergere da tre anni di forzato
stallo, nel silenzio del ministro archeologo. Ma ormai nessuno più si
occupa di epoche, temi e personaggi che in passato costituivano
patrimonio comune dei cittadini sin dall’esame di quinta elementare.
Adesso siamo tutti presi dal recovery: chirurgia estetica del debito
pubblico spaventoso, profondo rosso per chissà quante generazioni,
mentre imperversa il calo demografico e incombe il tramonto
dell'Occidente. Di Risorgimento poco o nulla si dice e ancor meno si
scrive in questo bicentenario della grande fioritura di “vendite”
carbonare diffuse nel primo trentennio dell'Ottocento da un capo
all'altro d'Italia, a cominciare dalla Sicilia. Peccato questo oblio,
perché le “società segrete” sono state il sale dei moti per
l'indipendenza, la libertà e l'unità nazionale e sono più che mai
necessarie oggi per consentire ai cittadini di vivere al riparo dalle
quotidiane violazioni dei loro diritti costituzionalmente garantiti da
parte di un governo che vivacchia imponendo voti di fiducia ma con
credito declinante sia nel Paese, sia all'estero. Come sospirava Mario
Monti, un loden addietro, “Ce lo dice l'Europa”: se l'Italia non si dà
una mossa non ci resta che la troika, Stella Cometa verso una capanna
spazzata da venti tempestosi. La Costituzione di Cadice e l'Italia Le
società segrete sono state la prima organizzazione unitaria dell'Italia
contemporanea, complete di tutto l'armamentario di cui poi si sono
dotati partiti politici e sindacati, sino a quando hanno svolto una
funzione costruttiva per il progresso scientifico e civile: ricordo del
tempo che fu. Quanti iscritti contano oggi partiti e sindacati? Chi li
certifica? Sull'onda del 150° dell' “unità d'Italia” (in
realtà era “del regno”) un decennio addietro molto si parlò di
Carboneria. Era anche vicino il bicentenario della costituzione
spagnola detta di Cadice perché in quella città andalusa affacciata
sull'Atlantico le Cortes elaborarono la Carta che fece da filo
conduttore di un trentennio di cospirazioni, moti e insurrezioni
liberali dalla periferia (Spagna, Portogallo, Napoli, Sicilia,
Piemonte...) verso l'Europa centrale e la sua roccaforte: Vienna,
capitale dell'Impero d'Austria, vincitore delle guerre contro Napoleone
I, con l'indispensabile aiuto dello zar di Russia, Alessandro I, a
conferma che l'Europa di allora era unita dall'Atlantico agli Urali
(come diceva De Gaulle) più di quanto sia oggi. La Costituzione di
Cadice è la più bella bel mondo: affermò che i cittadini devono essere
buoni. Oggi potrebbe “raccomandarlo fortemente” Sua Emergenza Conte
Giuseppe con un Dpcm o con un decreto-legge firmato dal
Presidente Mattarella, poi imposto con voto di fiducia. Passato quel bicentenario, di costituzionalismo liberale ottocentesco non si parlò più. Issato
dagli inglesi sul trono di Madrid dopo la cacciata di Giuseppe I
Bonaparte, fratello maggiore di Napoleone I, Fernando VII di Borbone
giurò fedeltà alla Costituzione di Cadice, ma solo per il tempo
necessario ad afferrare le briglie del potere e a trasformarlo in rullo
compressore delle libertà. Appena possibile, la revocò. Nel frattempo
l'immenso impero coloniale spagnolo nelle Americhe andò in frantumi,
travolto dalle guerre per l'indipendenza, dal Messico di Iturbide
all'America meridionale di Simón Bolívar, Miranda e Martí, tutti
iniziati a logge lautarine (non massoniche) e benvoluti dai britannici,
ai quali non parve vero di veder andare in polvere l'antico impero di
Carlo V e di Filippo II e di prenderne il controllo, come nel 1823
sentenziò Monroe, “l'America agli Americani”. Era presto per dirlo,
però gli europei si condussero da perfetti imbecilli e spianarono la
strada. “Fernando VII” (era detto “il Desiderato” finché
non tornò sul trono) trascurò che non era stato lui a cacciare i
francesi, bensì gli spagnoli che per liberarsi dalla tracotanza dei
gallici che li trattavano da dominatori anziché da liberatori dettero
vita, senza ordini del re, alla prima guerrilla di massa d'Europa. Lo
ricordano i celeberrimi quadri di Goya sul “Dos de mayo”. Perciò la
Spagna pullulò dell'unica forza di resistenza all'assolutismo di
ritorno: le società segrete, popolate di militari, aristocratici,
borghesi e anche ecclesiastici, un mondo ampiamente esplorato da
Alberto Gil Novales e da José Antonio Ferrer Benimeli per il versante
massonico. Altrettanto avvenne in Italia dopo l'effimero
tentativo di Gioacchino Murat di prendere in mano la “questione
nazionale” con la chiamata alle armi contro la restaurazione degli
Asburgo, dei Savoia e del papa nell'Italia centro-settentrionale dopo
il ritorno di suo cognato Napoleone I a Parigi. Il “proclama di Rimini”
(una strizzatina d'occhio a vari “popoli d'Italia” ) fu spazzata via
con la sua sconfitta militare, il ripiegamento nel Mezzogiorno, la
rovina, il tentato rientro nel regno a Pizzo di Calabria, la sua iniqua
fucilazione. Restaurato a Napoli, Ferdinando di Borbone (da
IV retrocesso a I “delle Due Sicilie”: un ceffone ai neoborbonici
partenopei che lo rimpiangono), quale erede presuntivo alla corona di
Spagna imitò Fernando VII: restaurò l'assolutismo. I sopravvissuti alle
stragi anti-liberali di fine Settecento e al nuovo regime liberticida
che identificò murattiani e costituzionali come nemici pubblici da
annientare suscitò il fronte unico antiborbonico nell'unica forma
possibile: la cospirazione settaria. Nel “Napoletano” già
durante l'effimero regno di Giuseppe I e quello, più costruttivo, di
Murat prese vigore la Carboneria: un mantello importato da cospiratori
francesi, come Joseph Briot, che a loro volta lo avevano preso dalle
spalle del Compagnonaggio (completo dei rituali tipici delle
corporazioni medievali) e ritagliato per usi politici. Sotto l'identico
mantello tornarono attivi i massoni, come documentò Giuseppe Gabrieli
nel 1982. ...e il Risorgimento d'Italia È
arduo, ai confini dell'impossibile, sintetizzare la ragnatela del
settarismo politico dilagante nell'Italia della Restaurazione. Se ne
conoscono bene le organizzazioni via via cadute nelle reti della
polizia. Emerge dal lavoro gigantesco degli inquirenti, dai delatori,
che stanno ai cospiratori come Satana è accovacciato in grembo a Dio
(Antico Testamento, Giobbe,6-12), e dalla corrispondenza tra i governi
uniti nella Santa Alleanza, sorta proprio per impedire il ritorno di
rivoluzionari, società segrete e “arrières loges” di cui aveva scritto
Augustin Barruel nei “Mémoires pour servir à l'histoire du jacobinisme”. Era
l'internazionale della reazione contro quella della rivoluzione. Sotto
le ceneri dei regimi crollati in Italia pullularono dunque le “sette
segrete” passate in rassegna in opere un tempo famose e oggi
dimenticate come Massoneria, Carboneria ed altre società segrete nella
storia de Risorgimento del calabrese Oreste Dito (Scalea, 1866- Reggio
di Calabria, 1934), pubblicato nel 1905 quale “manifesto” della
massoneria social-progressista (e ristampato in anastatica con
documenti inediti, Forni, 2008). Vent'anni dopo ne scrisse Giuseppe
Leti in Carboneria e massoneria nel Risorgimento italiano, scritto nel
1925 proprio mentre venivano sciolte le logge per incompatibilità con
il divieto ai pubblici impiegati di iscriversi ad associazioni
“segrete”. Stampato a Genova nel 1926 dalla Libreria Moderna, il libro
rimase chiuso nei pacchi. Anni dopo, segretario della Concentrazione
antifascista a Parigi, Leti continuava a lamentarsene, non per i
quattro spiccioli mancati di “diritti d'autore” ma perché la vera
storia d'Italia veniva cancellata dal regime. E oggi? La carne lascia le ossa, ma l'Acacia rifiorirà La
Carboneria, come la Massoneria, non era “segreta” ma “di segreti”, “à
secrets” scrive Pierre-Arnaud Lambet nel saggio sulla
Charbonnerie française, 1821-1823. La sua esistenza era nota. Non
se ne conoscevano però la struttura e i programmi. Anzi, per la verità,
questi non erano completamente noti neppure agli affiliati alle sètte.
La ragione è semplice. Perseguitati come nemici dei troni e degli
altari, i loro adepti erano ripartiti secondo il “grado”. All'origine,
in Francia e altrove i carbonari erano apprendisti e maestri, come i
massoni erano solo apprendisti e compagni. Questi poi aggiunsero il
grado di Maestro, incardinato sulla leggenda di Hiram, l'architetto
chiamato da Salomone a edificare il Tempio di Gerusalemme, depositario
dei segreti dell'Arte Reale, assassinato per non averli rivelati ai
“discepoli” che si affrettarono a occultarne il cadavere sotto un
cumulo di terra, dal quale però spuntò un virgulto che svelò l'orrendo
misfatto, sintetizzato nella formula di cui molto si sente bisogno
mentre il morbo infuria: “la carne lascia le ossa, ma l'Acacia
rifiorirà”. Il complesso intreccio morte/resurrezione è
antichissimo. Fu e viene celebrato in forme estreme. Fra le molte
spicca il “battesimo” del fedeli del Dio Mitra (da Marco Travaglio
spacciato per “Dea Mitra”, forse in ossequio alle pari opportunità). Ne
scrisse anche Marguerite Yourcenar nelle “Memorie di Adriano”, ignorate
da chi vive di fatti quotidiani. Senza scannare tori per esserne
sommersi dal sangue, a loro volta i carbonari italiani elaborarono
l'iniziazione quale trapasso morte/resurrezione aggiungendo ai due
gradi originari quello di Grande Eletto, documentato da Saint-Edme
(1785-1852) sulla traccia di ampia esplorazione di documenti carbonici. Le
“vendite” carboniche si popolarono di murattiani e antimurattiani,
napoleonici e antinapoleonici. Catechismi e simbologia divennero sempre
più aggrovigliati e intriganti, perché l'Ordine, ispirato alla figura
di Cristo e posto sotto la protezione di San Teobaldo, moltiplicò le
paratie stagne tra i diversi livelli di cognizione e di obiettivi
ultimi: per alcuni la monarchia costituzionale, per altri la repubblica
espressione della volontà generale e per altri ancora il “comunismo”,
con radici profonde negli “Illuminati di Baviera” (nei cui templi si
erano affacciati Wolfgang Goethe e forse persino l'Amadeus Mozart del
Flauto magico). Ma le “vendite” carbonare erano congreghe di quattro
gatti? In città come Reggio di Calabria e Messina si contavano migliaia
di affiliati, nulla a che vedere con il settarismo elitario del
visionario Filippo Buonarroti. “Post fata” lo studiò Alessandro Galante
Garrone. Accade di volgersi al passato remoto per comprendere ciò che
si è fatto. Il 1° gennaio 1820 reparti militari comandati
da Quiroga e Riego anziché salpare dalla Spagna per reprimere la
rivoluzione in corso nelle Americhe insorsero e chiesero il ripristino
della Costituzione di Cadice. Impaurito, Fernando VII si piegò. Su loro
esempio, il 1° luglio nel regno delle Due Sicilie due tenenti di
cavalleria, Michele Moretti e Giuseppe Salvati da Nola si incamminarono
verso Napoli inneggiando alla Costituzione di Spagna, con don Menichini
per cappellano. Mandato a schiacciarli, Guglielmo Pepe (glorioso
allievo della Nunziatella) si unì ai rivoltosi. Comune
denominatore tra i militari e i borghesi come Orazio de Antellis (o de
Atellis o De Tellis), che nel Gran Circolo costituzionale di Bologna
nel 1796 pronunciava orazioni rivoluzionarie nell'ora della messa
domenicale, furono la libertà di parola e di stampa e la laicità dello
Stato: capisaldi enunciati nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e
del cittadino del 1789 e diffusi ovunque in Europa nell'età
franco-napoleonica. Ferdinando I di Napoli concesse la
Costituzione e giurò che era inviolabile. Altro però gli premeva: la
rivoluzione secessionistica e indipendentistica della Sicilia,
combattuta e repressa duramente. Dopo il congresso della Santa Alleanza
radunato a Lubiana, ove andò promettendo fede alla parola e tornò
spergiuro, dilagò la repressione. Morelli e Salvati furono fucilati,
come molti altri. Il glorioso 1821: Santorre di Santarosa Virus
inarrestabile, dal Mezzogiorno la rivoluzione costituzionale contagiò
il Milanese e il Piemonte. A Milano operava il nucleo culturale
incardinato sul conte Federico Confalonieri, iniziato massone dal
fratello del re d'Inghilterra durante un viaggio in Gran Bretagna, sul
conte Luigi Porro Lambertenghi e su Silvio Pellico, iniziati in
carboneria da Piero Pietro Maroncelli, massone e carbonaro, poeta,
compositore, genio e sregolatezza, con una vena goliardica che non lo
abbandonò neppure durante e dopo la terribile detenzione a Venezia (ove
fu incastrato dall'inquisitore Antonio Salvotti, massone pentito) e
nella cupa prigione-fortezza dello Spielberg, a Brno, in Moravia.
Traditi dal “servizio postale” (i veri cospiratori si confidano solo
all'orecchio, perché bene sanno che anche i “pizzini” lasciano
traccia), i congiurati furono arrestati, processati, condannati a
morte, a eccezione di Porro che, allertato per tempo da Pellico, riparò
in Svizzera, come Felice Bossi di cui scrive Franco Ressico nella
succosa biografia di Carlo Cadorna (ed. BastogiLibri). “Spes
ultima dea” del costituzionalismo liberale affiorato tra il luglio 1820
e il marzo 1821 fu il regno di Sardegna. Anche lì a guidare il moto
furono due militari, entrambi di famiglia aristocratica: il braidese
Guglielmo Moffa di Lisio e il saviglianese Santorre di Santarosa, le
cui “memorie” (Della rivoluzione piemontese nel 1821) meritano di
esser ristampate nell'opaco bicentenario dell'alba del
costituzionalismo italiano. Non erano propriamente carbonari, ma
“adelfi”, cioè “fratelli” in una società segreta. Il pronunciamento
dette vita a due correnti: in Alessandria fu innalzato il tricolore,
con pulsioni repubblicane. Torino (con Cesare Balbo, Roberto d'Azeglio
e Giacinto di Collegno) conservò orientamento leale verso la Corona.
Per non mancare al giuramento di non concedere mai una costituzione,
Vittorio Emanuele I abdicò al trono, a favore del fratello minore,
Carlo Felice (come lui senza senza diretto erede al trono, in forza
della legge salica vigente nella Casa, ieri come oggi), in quel momento
in visita alla figlia e al genero, un Asburgo-Este, duca di Modena e
campione dei reazionari. Nominato reggente, Carlo Alberto di
Savoia-Carignano, parente in tredicesimo grado di Carlo Felice,
concesse la Costituzione spagnola con due riserve. Anzitutto che
venisse approvata dal sovrano. In secondo luogo, che a differenza della
costituzione spagnola, la quale ammetteva solo la religione cattolica e
vietava ogni altra, confermò la liceità dei culti ammessi nei limiti
delle leggi vigenti: a beneficio degli israeliti e dei valdesi. Era
stato dragone di Napoleone I e conte dell'Impero...Era il profeta delle
libertà costituzionali, come si vide nel 1848-1849. Carlo
Felice non riconobbe affatto la Costituzione. Intimò a Carlo Alberto,
“se aveva ancora nelle vene una goccia di sangue dei Savoia”, di
recarsi immediatamente a Firenze e lasciò libero corso alla repressione
dei “compromessi” nella cospirazione. Questa si concluse con una
settantina di condanne a morte. Ne vennero eseguite due: un militare,
un docente. Colpirne uno per educarne cento... I più scamparono. Come
Santa Rosa che, dopo anni di esilio tra fame e mortificazioni, accorse
in difesa della Grecia insorta e morì a Sfacteria combattendo
contro il secolare dominio turco, “che intender non lo può chi non lo
prova”. In quegli anni Silvio Pellico, carbonaro, settario
e cospiratore er detenuto allo Spielberg. Usava cifrari segreti, come,
con genio precoce, documentò Domenico Chiattone che per studiarlo andò
a esplorare gli archivi in Moravia. Ma chi lo ricorda? In attesa di un Messaggio alle Camere Eppure
quelle antiche storie sono attuali per l'Italia odierna, priva di un
governo all'altezza delle crisi imperversanti, come ha deplorato il
presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. E' subissata
da leggi, leggine, decreti, ordinanze, transenne, armigeri, vigilanti,
gufi impagliati, una normativa caotica che, come nei giochi infantili
d'antan, recita: “dire, fare, baciare, lettera, testamento”. A questo
punto è decaduta l'Italia. Tra poco il giacobino insperatamente
ministro “alla sanità” ci dirà quanti passi possiamo fare al giorno,
quanti colpi di tosse, quanti starnuti e altro senza passare per
pericoli pubblici. Così non può durare. Per respirare i cittadini
debbono chiudersi in cantina o fuggire nei boschi come i Carbonari,
comunicare con messaggi di fumo, azzurri, rossi e blu, colori della
sètta segreta, o andarsene all'estero in cerca di salvezza, come fecero
il carbonaro Giuseppe Mazzini e, a piedi per le cime, Giuseppe
Garibaldi in fuga da Genova dopo il fallito moto del 1834. Gli
italiani sentono forte bisogno di una parola chiara. Ma non da un
aruspice quotidiano. Il 18 luglio di centocinquant'anni orsono il
Concilio Vaticano stabilì che il papa è infallibile, ma solo quando
parla “ex cathedra”, non nei colloqui o nelle “prediche a braccio”. Era
il papa-re. Da re poteva sbagliare senza tema di essere contraddetto,
perché i capi di stato non sono infallibili. Meno ancora se parlano
troppo e su tutto anziché pronunciarsi sullo stato delle Istituzioni.
L'Italia di fine 2020 non attende scontati auguri per
l'anno venturo ma un “messaggio alle Camere” (da tempo un po' animose)
previsto dal comma 2 dell'articolo 87 della Carta, debitrice al
costituzionalismo liberale di inizio Ottocento, promosso da “società
segrete”, senza le quali l'Italia sarebbe ancora solo una “espressione
geografica” .
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Piero Maroncelli (Forlì, 1785-New York, 1846), massone, carbonaro, patriota.
ITALIA IN ATTESA DI STORIA VITTORIO EMANUELE III, TRE ANNI DOPO Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 13 Dicembre 2020, pagg. 1 e 11.
Il Re che venne dal mare
Tre anni fa arrivò in Italia la salma di Vittorio Emanuele III,
sul trono dal 29 luglio 1900 al 9 maggio 1946. Era tumulata nella
Chiesa di Santa Caterina ad Alessandria d'Egitto, ove il re morì il 28
dicembre 1946. Giunse a Vicoforte, in provincia di Cuneo, Vecchio
Piemonte, verso le 12 del 17 dicembre 2017, una domenica. Cielo
azzurro, neve abbacinante. Avvolto in tricolore con scudo sabaudo
il feretro fu portato a spalle nella Cappella di San Bernardo, cuore
del Santuario-Basilica voluto quale Mausoleo della Casa da Carlo
Emanuele I, duca di Savoia dal 1580 al 1630.
Lo attendeva la salma della consorte, la regina Elena nata
principessa del Montenegro, sposata nel 1896, madre di quattro figlie
(Jolanda, Mafalda, Giovanna e Maria) e del principe ereditario,
Umberto, re dal 9 maggio al 13 giugno 1946. Rimase sovrano sino
alla morte (Ginevra, 18 marzo 1983), perché non riconobbe mai l'avvento
della repubblica. Ritenne illegale l'assunzione delle funzioni di Capo
dello Stato da parte di Alcide De Gasperi, sorretto da tutto il
governo, a eccezione di Leone Cattani. Avrebbe potuto resistere al
“gesto rivoluzionario” (come egli scrisse) o al “colpo di stato” (come
dissero altri), arroccandosi nel Quirinale o riparando in altra terra
del regno oppure protestare e lasciare il suolo patrio, senza
riconoscere il “fatto compiuto” né abdicare. Preferì la seconda via per
risparmiare una guerra civile a un Paese che ne aveva alle spalle una
durata due anni, fidando nella certezza di una “riconciliazione”. Lacerata
in fazioni che contavano su appoggio militare di potenze ormai con le
armi al piede all'indomani della “cortina di Ferro” da Stettino a
Trieste, l'Italia era sotto l'incubo del Trattato di pace, che De
Gasperi aveva implorato non fosse reso noto perché duramente punitivo
nei confronti del contributo dato dal Paese alla vittoria delle Nazioni
Unite e della stessa non sempre limpida “guerra partigiana”. Quanto il
Trattato fosse inaccettabile venne confermato a Parigi il 10 febbraio
1947, quando il rappresentante di Roma, Antonio Meli Lupi di Soragna,
lo firmò con la propria stilografica e impresse sulla ceralacca lo
stemma dell'anello di famiglia. La salma della Regina era
giunta a Vicoforte verso le 18 del giorno 15 precedente, recata con un
furgone da Montpellier ove la mattina presto il feretro era stato
estumulato e deposto in una “custodia” appositamente approntata.
Affiancato dal rappresentante della Casa, nella breve cerimonia
di commiato, convocate televisioni, il sindaco d’Oltralpe vi appose una
coccarda francese. Alla sua tumulazione presenziarono il Rettore del
Santuario, don Meo Bessone, vicario diocesano, il sindaco Valter
Roattino, il conte Federico Radicati di Primeglio per Casa Savoia e uno
studioso. Nel gennaio 2013, di concerto con la Principessa Maria
Gabriella di Savoia, aveva chiesto al vescovo di Mondovì, Luciano
Pacomio, teologo e catechista insigne, se le salme dei sovrani che
avevano vissuto insieme mezzo secolo e da 65 anni erano sepolte non
solo in due città lontane ma addirittura in due diversi continenti
potessero essere congiunte proprio nel Mausoleo voluto da Carlo
Emanuele I. La risposta era stata affermativa. Era tempo di pietas e di
riflessione. Diverso progetto era stato coltivato da
altri, che per vari motivi non avevano raggiunto lo scopo. Al termine
di un lungo iter preparatorio, in quel dicembre di tre anni fa il
proposito della Casa fu coronato: traslazione e congiungimento delle
salme “in Italia”. Come noto, dopo la
proclamazione del Regno d'Italia, approvato dalle Camere il 14 marzo
1861 e all'indomani dell'annessione di Roma, i Re non ebbero nella
Capitale una propria “Tomba”, come del resto non ebbero una reggia
nuova. Abitarono il Palazzo dei Papi sulla sommità del Quirinale, oggi
Presidenza della Repubblica. Alla morte di Vittorio Emanuele II,
confortato da monsignor Valerio Anzino, come ha documentato Aldo G.
Ricci, sovrintendente emerito dell'Archivio Centrale dello Stato,
preoccupazione precipua del governo Depretis, con Francesco Crispi
all'Interno (entrambi massoni), fu di dargli degna sepoltura in Roma.
Nella Basilica di Superga, sovrastante Torino, riposavano i Re di
Sardegna: una storia superata dall'avvento dell'Italia. Perciò le
spoglie di Vittorio Emanuele II, morto nel 1878, a soli 58 anni, furono
deposte al Pantheon, con l'insegna “Padre della Patria”, anziché “Re
d'Italia”, per non esasperare il conflitto con Pio IX che, come i suoi
successori sino all'11 febbraio 1929, non riconobbe la debellatio dello
Stato Pontificio del 1870 e dal 1860 scomunicò Vittorio Emanuele II,
Cavour e tutti i loro ministri e collaboratori. Nel
1885, un anno dopo il grande pellegrinaggio nazionale al Pantheon, ebbe
inizio la costruzione dell'Altare della Patria, possibile
Mausoleo dei Sovrani. Il Vittoriano, tuttavia, era lontanissimo dal
compimento quando Umberto I, scampato a due attentati nel 1879 e nel
1897, fu assassinato a Monza il 20 luglio 1900 a soli 56 anni. Fu
sepolto a sua volta al Pantheon, ove nel 1926 lo raggiunse la Regina
Margherita. Solo nel 1927 l’Altare della Patria ebbe compimento. Dal
1921, però, vi riposava il Milite Ignoto, simbolo della Vittoria sorta
dall'unione sacra tra la Casa regnante e il popolo italiano.
Nell'Italia repubblicana quale poteva dunque essere il luogo
propizio per congiungere le Salme di Vittorio Emanuele III e della
Regina Elena? Qualunque lembo dell'Italia che nel 1924, con
l'annessione di Fiume, conseguì la quasi completa coincidenza dei suoi
confini statuali con quelli geografici, pur senza Corsica, ceduta alla
Francia dalla repubblica di Genova nel 1768, Malta occupata dagli
Inglesi nel 1798, e contea di Nizza, ceduta alla Francia sin dagli
accordi di Plombières tra Cavour e Napoleone III (1858) con
trasferimento legittimato da plebiscito nel 1860. Vicoforte
era uno dei tanti luoghi possibili, appunto; ma aveva il pregio di
essere originariamente proprio un mausoleo sabaudo, nel cuore della
Provincia Granda che i Savoia vivevano quale seconda “culla”
della Casa, tanto che Vittorio Emanuele III scelse il castello di
Racconigi per la nascita del principe ereditario (1904) e da lì andava
a vegliare i poderi modello avviati a Pollenzo dal bisnonno Carlo
Alberto, morto esule in Portogallo. Per lui e per la regina Elena
era anche la terra di cacce al camoscio, pesca di trote e vacanze
serene in decenni di torbidi d'ogni genere e, va aggiunto, di attentati
alla loro vita, come quello che il 12 aprile 1928 mancò di poco il
bersaglio mentre Vittorio Emanuele III andava a inaugurare la Fiera
campionaria di Milano, come soleva fare sin dalla prima edizione. Il
tritolo collocato nella base di lampioni di ghisa fece venti morti e
decine di feriti. Ma quanti altri attentati vennero progettati e
sventati nel tempo... Funerale di Famiglia per il Capo dello Stato Cerimonia
di Famiglia, tumulazione del 15-17 dicembre 2017 si svolse in forma
rigorosamente privata. Quando il 28 dicembre 1947 morì ad Alessandria
d'Egitto Vittorio Emanuele III era “cittadino italiano all'estero”: non
“in esilio”, dunque, bensì nel pieno esercizio dei diritti civili e
politici e con lo status di ex Capo dello Stato e comandante delle
forze di terra e di mare, a norma dell'articolo 5 dello Statuto
albertino, formalmente vigente sino al 1° gennaio 1948, quando entrò in
vigore la Costituzione della Repubblica italiana. Nulla di abnorme,
quindi, se al trasferimento della salma abbia concorso lo Stato, se
attorno al feretro, debitamente ornato, vi fossero Carabinieri e se un
caporale della Fanfara della Brigata Taurinense abbia suonato il
“Silenzio” mentre il feretro scendeva nell'avello, sul quale sovrasta
l'arca con la Stella d'Italia. All'arrivo della salma
della Regina uno dei presenti disse che per rallegrarsene non è
necessario essere monarchici. Basta essere italiani. Era il compimento
di un “gesto umanitario”, come fece sapere il Quirinale quando la
Principessa Maria Gabriella di Savoia ringraziò il Presidente Sergio
Mattarella per aver propiziato la traslazione col riserbo perfettamente
compreso dalle decine di giornalisti che la mattina del 17
pazientemente affollarono l'immenso sagrato tra il Santuario di
Vicoforte e la Palazzata, identica nei secoli dai tempi di Carlo
Emanuele. A rito concluso (quod factum est, infectum
fieri nequit...), si susseguirono alcune deplorazioni. Con l'opinabile
senso di opportunità che ne ha ridotto il consenso dai 10.700.000 del
2-3 giugno 1946 a molti meno, taluni “monarchici” protestarono contro
la sepoltura dei Reali in una “chiesetta di campagna” e chiesero
l'immediato trasferimento delle salme al Pantheon. Per oscuri motivi
altri non le visitarono affatto. Taluno addirittura asserì che
bisognava lasciarle dov'erano: forse ultimo appiglio per lagnarsi della
Repubblica. I conti con la Storia Sfuggì
proprio ciò che invece più avrebbe dovuto contare e conta. La
Traslazione doveva far riflettere sul ruolo della monarchia nella
storia d'Italia e in specie sulla figura di Vittorio Emanuele III, il
“re isolato”. Invece, pronubi stucchevoli polemiche e incomprensibili
silenzi, siamo sempre al punto zero. Il 5 dicembre 2020 in risposta a
un lettore che domandò quali sarebbero i “meriti” di quel re, sul
“Corriere della Sera” - quotidiano che si batté per l'intervento
dell'Italia, impreparata, nella Grande Guerra e appoggiò l'avvento di
Mussolini – Aldo Cazzullo scrisse che il sovrano bene fece a valersi di
Giolitti nel primo Novecento ma, poiché il suo regno non finì nel 1922,
ebbe responsabilità successive imperdonabili: il cedimento al fascismo,
le leggi razziali, l'alleanza con la Germania e la disastrosa gestione
dell'8 settembre 1943. In poche righe è impossibile
ripercorrere vent'anni e più. Nondimeno va ricordato che il 29 ottobre
1922, mentre in Roma non era ancora entrata alcuna “squadra” fascista e
non c'era alcun bisogno di “stato d'assedio”, il Re incaricò Mussolini
di formare il governo su parere unanime di politici navigatissimi,
industriali, banchieri, massonerie, del partito popolare e della Chiesa
cattolica, che aveva già patteggiato intese con il “duce”. Il nuovo
governo comprese nazionalisti, liberali, cattolici, democratici
sociali, il giolittiano Teofilo Rossi di Montelera, il filosofo
Giovanni Gentile alla Pubblica istruzione, Armando Diaz alla Guerra e
il massone Paolo Thaon di Revel alla Marina. Non era affatto un
“regime”. A metà novembre venne approvato dalla Camera con favore
straripante, ove i fascisti erano appena 37, e dal Senato ove erano 2
su 400. Che cosa poteva fare un re costituzionale? Sciogliere le Camere
perché prone a Mussolini? Abolire il diritto di voto perché gli
italiani votavano da bestie come ormai pensava Giolitti? Non fu il re
ma l'Italia a cedere a Mussolini perché, occhi roteanti come recitasse
a fare la faccia feroce, gestacci, ed eccessi d'alcova, ne sintetizzava
aspirazioni e frustrazioni, come documenta il seminario sul
“Fascismo magico” organizzato dall'Istituto Storico Politico e
Internazionale diretto da Giorgio Galli. Che colpa vi ebbe il re? Leggi
razziali del 1938. Padre Tacchi Venturi S.J. da un decennio metteva in
guardia Mussolini dalla piovra giudaico-massonica. In Senato il
cattolico Filippo Crispolti chiese solo di “discriminare” i “matrimoni
misti” tra cattolici ed ebrei convertiti. Ma ormai la partita era
persa. Benedetto Croce non presenziò alla votazione decisiva e nessuno
chiese la verifica del numero legale.La legge passò con 150 voti su 400
senatori in carica. Che cosa poteva fare da solo un re costituzionale?
Ignave e opportuniste le Camere (una confezionata dal Gran Consiglio
del fascismo, l'altra ora succuba ora rassegnata) votavano tutto quello
che Mussolini chiedeva, pretendeva, imponeva. Furono loro ad
approvare le leggi razziali. Lì è il punto. Sino a poco prima Vittorio
Emanuele III aveva nominato senatori molti ebrei. Alleanza
con la Germania di Hitler? Fu decisa dal governo e votata dalle Camere,
con il nazionalista Federzoni presidente del Senato, che non riuscì a
opporsi neppure alla indecente invasione fascista di Palazzo Madama che
intimò ai patres il conferimento del grado di Primo Maresciallo
dell'Impero a Mussolini e, bontà sua, anche al Re, che da capo delle
forze di terra e di mare non ne aveva alcun bisogno. Quanto
all'8 settembre, Cazzullo ammette che il groviglio era tale che
Vittorio Emanuele III non può essere imputato della sua gestione non
ottimale. Fu però il re l'unico garante dell'armistizio del 3/8
settembre 1943 e della continuità dello Stato d'Italia. Fu
bersaglio della feroce campagna antimonarchica scatenata da Mussolini,
prelevato dall'albergo Imperatore al Gran Sasso, trasferito in
Germania, issato a capo di uno Stato vassallo della Germania e finito
come sappiamo. Ma due anni di contumelie repubblichine contro la
monarchia lasciarono il segno. Lo si vide il 2-3 giugno 1946 quando,
facendo “saltare i tombini”, tornarono a galla tutti gli odi contro
l'unificazione italiana e Casa Savoia rimasti sotto traccia dal
1859-1870 e oltre e, al netto delle migliaia di brogli, decretarono la
vittoria della repubblica che dovette alla propaganda antimonarchica
della RSI più di quanto abbia ammesso la storiografia, compresa quella
di una “destra” più succuba di alleanze elettorali che dedita alla
verità. Anno zero, dunque. Motivo in più per studiare la
storia, quella che ancora non passa nei manuali e nei media. Richiederà
decenni per essere capita e forse non accadrà mai. Però quella è. Per
meglio comprenderla, quando torni la libera circolazione dei cittadini
almeno in Italia, val la pena una visita alle Tombe di Vittorio
Emanuele III e della regina Elena a Vicoforte. Non hanno alcun bisogno
di essere vegliate da “guardie”. Avvolte nel silenzio dicono
sommessamente: Hic manebimus optime. Lì, nel silenzio dei secoli,
merita raccogliersi in meditazione. Tempo è venuto per il
“cantico nuovo” dell'Apocalisse: non la apologia della monarchia
o di un re, ma la storia d'Italia. Quella vera.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Vittorio
Emanuele III, il Comandante Supremo Armando Diaz ed Emanuele Filiberto
di Savoia, Duca di Aosta. Tempera di Duilio Cambellotti (Roma,
1876-1960), Palazzo del governo di Ragusa. Versatile in arte e
nelle propensioni, Cambellotti fece parte della commissione del
concorso per l'emblema della Repubblica, vinto due volte da Paolo
Paschetto.
DEMOCRAZIA PERCHÈ AVERE PAURA DELLE ELEZIONI? Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 6 Dicembre 2020, pagg. 1 e 11.
Ma i 20 settembre le votazioni non erano un babàu? Il
20 settembre 2020, settantacinque giorni fa, gli italiani, tutti, dalla
A alla Z, in ogni comune d'Italia, sono stati chiamati alle urne per
confermare o cassare il “taglio “ dei parlamentari approvato quasi
all'unanimità da Camere suicide. Ultimi barbagli d'estate, appena dopo
le scandalose “pance al sole”, le perverse “movide”, le “discote-covid
19” a tutto contagio. Su disposizione del governo “Conte II” i seggi
furono aperti. Debitamente mascherati gli italiani si misero in fila
longobarda, certificato elettorale in una mano, carta di identità
nell'altra. Acciuffarono la matita e la scheda e a lume di una fioca
lampadina, in una sorta di confessionale, appoggiati su un rettangolo
di squallido compensato, tracciarono la loro croce. Lì non aleggiavano
né esalavano virus? Mistero, mistero... Votare dunque si
poté, tra l'una e l'altra ondata di una pandemia che non sappiamo donde
venne, come vaghi come foglia frale e sino a quando scorrazzerà. Alcuni
sussurrano che circolerà a tempo indeterminato. Campa cavallo, allora,
se per votare un'altra volta dovessimo aspettare il benestare di Sua
Emergenza, del Comitato tecnico-scientifico, dell'OMS e di chissà chi
altri. Quindi: chi sono mai Conte e tutti i suoi “esperti” per decidere
la democrazia in Italia? Secondo la Costituzione vigente
(al riguardo abbastanza ingarbugliata e pertanto disattesa, sicché
sulla forma prevale la prassi) la cosa funziona così: il governo deve
avere la fiducia dei due rami del Parlamento. Se viene sfiduciato, il
Capo dello Stato, consultati i rispettivi presidenti, può sciogliere le
Camere o anche solo una di esse (articolo 88 della Carta). Non è
neppure tenuto alle estenuanti consultazioni rituali di delegazioni di
partiti, movimenti e compagnia cantante, croce e delizia di
quirinalisti, spesso sedicenti. Non può sciogliere le Camere negli
ultimi sei mesi del suo mandato (art. 88 comma 2). Oggi mancano nove
mesi abbondanti all'inizio del “semestre bianco” e quindici mesi
all'elezione del Presidente venturo. Il Paese, però, non può attendere
tempi biblici; ha urgenza di capire dove stiamo andando, o meglio dove
veniamo trascinati a suon di decreti del presidente del Consiglio dei
ministri, i famigerati Dpcm. Dall'estero ci guardano con preoccupazione
crescente. Non vogliono essere trascinati nel “cupio dissolvi” del
Conte bis. Perciò proprio non si capisce perché le
elezioni anticipate sarebbero chissà quale attentato alla democrazia.
Semmai vale l'opposto. Tutti concordano che l'attuale parlamento non
rappresenta più il Paese. I motivi sono tanti e noti, ma conviene
ripeterne un paio per chiarezza. A parte la asimmetria fra quanto da
due anni emerso dai rinnovi dei consigli regionali, che oggi vedono il
centro-destra al governo in 15 regioni su 20, a cominciare dalle più
popolose e prospere (dalla Lombardia alla Sicilia, per intenderci),
tutti i sondaggi degli orientamenti di voto concordano sul fatto che il
numero dei probabili astenuti è stabilmente attestato intorno al 40%.
La partita si giocherà quindi tra il restante 60% degli aventi diritto.
Nel frattempo con il consenso bulgaro delle Camere il Parlamento si è
tagliato 230 deputati e 115 senatori: un'amputazione che rende sempre
meno accettabile la sopravvivenza dei patres nominati dal presidente
della repubblica, che corrispondono al 3% circa dei futuri senatori
elettivi: un “partitino” tutt’altro che trascurabile. La nuova
geografia dei collegi (dei cui nuovi confini gli elettori poco o
nulla sanno) ha stravolto settant'anni di storia delle elezioni e
riserverà molte e clamorose sorprese. Infine siamo sempre in attesa
della nuova legge elettorale, che potrebbe anche non decollare per
incapacità dei partiti, a cominciare dal Partito Democratico, che ne
fece una malattia prima del 20 settembre ma ora tace (su questo come su
ogni altro tema fondamentale) e non cava un ragno dal buco. Con
o senza di essa questo governo non può durare perché manca di un minimo
di coesione e quindi non è in grado di darsi un programma vero,
politico. Vive di rinvii su partite vecchie (Alitalia, Ilva,
Autostrade...). Figurarsi se è capace di prospettive. Ora ha perso ogni
credibilità anche nelle prevenzione contro il contagio, unico appiglio
che gli ha consentito di vivacchiare ansimando di mese in mese. Il ballo in mascherina nel Castello di carte Una
verità va detta. A differenza di quanto strepitano Speranza,
Orlando e altri Savonarola da strapazzo, i morti per covid-19 di questi
giorni non sono imputabili alle immaginose scostumatezze di Ferragosto!
Il 31 gennaio di questo bisestile 2020 Giuseppe Conte dichiarò
che il governo assumeva pieni poteri nella lotta contro il misterioso
contagio (i cui segnali c'erano, eccome: prima o poi la storia verrà
scritta) e comunque rassicurò: tutto era pronto per affrontarlo.
Settimane dopo agli italiani fu “fortemente raccomandato” di lavarsi le
mani (non lo facevano? Non discendono da Ponzio Pilato?) e di tenere le
distanze “sociali” (cosa raccomandabile anche in tempi normali, onde
non essere scippati all'angolo della strada). Infine, per arginare il
contagio occorreva coprire naso e bocca con mascherine. Quali? Dove
trovarle? Il governo non ci pensò proprio. Il loro approvvigionamento
divenne pascolo sterminato di improvvisazioni e di truffe. Prevalse
quindi il “fai da te”: fazzoletti, sciarpe, pizzi di Bruges. Ancora
oggi se ne vedono di tutti i colori, in assenza di una normativa chiara
e univoca, come sulla “distanza” e sui detergenti. Meno ancora governo
e regioni provvidero a dotare almeno il personale sanitario di
protezioni adeguate. Poi fu la volta dei tamponi per accertare lo stato
di infezione, altro capitolo dominato dalla confusione perenne e
perdurante. Anziché in strutture sanitarie oggi ci si può tamponare
anche nei parcheggi aeroportuali. In poche settimane
il Paese precipitò dalla beata incoscienza d’inizio gennaio al baratro
della chiusura totale da marzo a maggio, delle misure estreme e delle
sottovalutate coartazioni di libertà costituzionalmente garantite. Sono
trascorsi appena sette mesi dal quel “blocco”. Un incubo. Sembra il
passato remoto, eppure è solo ieri. Nel frattempo, mentre all'ora dei
vespri ogni giorno veniva recitato, come fosse il rosario, il numero
dei contagiati, dei ricoverati in terapia intensiva e dei morti, il
governo assicurava che dal male nasce il bene e che gli italiani
avevano motivo di sperare in un'estate tranquilla, grazie... ai raggi
ultravioletti. Tutto andrà bene si leggeva sulle cantonate. Conte
si trincerò dietro i “pareri” (che non sono affatto vincolanti) del
fantomatico comitato tecnico-scientifico, i cui verbali furono
secretati (e in parte tuttora indisponibili), mentre sono sotto gli
occhi di tutti le liti furibonde tra epidemiologi, virologi,
infettivologi e i tanti addetti a “dare i numeri”, divisi su tutto
tranne che sulla constatazione più banale: non si sa dove il virus sia
“nato”, donde sia giunto, quanto durerà, se e quando se ne andrà e
quali conseguenze lascerà. Eravamo e restiamo nel vago. Dopo
esami farsa e la promozione in massa di studenti non valutati da mesi,
per l'intera estate venne assicurato che le scuole sarebbero state
riaperte senza più ricorrere alla sciagurata e socialmente
discriminante “didattica a distanza”, con aule spaziose, banchi
monoposto (dalle fogge più bizzarre e a costi di cui prima o poi si
dovrà rendere conto) e, se di necessità, con utilizzo di edifici e
spazi pubblici in abbandono. L'Università statale di Milano noleggiò
per anni sale cinematografiche per lezioni “di massa”. Sappiamo come è finita. I
media hanno imperversato con immagini distorcenti della realtà: le file
di bagnanti (persino con mascherina) in acqua solo fino al ginocchio in
questo paese che ama il mare e i laghi solo per pediluvio e farsi la
foto ricordo, non per nuotarci; le passeggiate sui lungomare o sui
sentieri di collina e di montagna: materiale di riserva per poi
demonizzare le malefatte di cittadini scavezzacolli. Nel
frattempo, come noto, tramite i comitati (alla Colao) e le girandole di
esperti (stile Villa Pamphili) il governo assicurò che avrebbe badato a
tutto. Ma il ministro dei Trasporti, De Micheli (PD), scordò di
organizzare il trasporto degli allievi. Una dimostrazione da manuale
della totale assenza di strategia. In un paese serio, i responsabili
sarebbero stati non solo rimossi ma messi ai ceppi, da tempo. Da noi
invece restano in carica. Intoccabili. Insostituibili. Perché questo
governo è un castello di carte. Ne togli una, crolla tutto. Alla
fine l'appuntamento fatale. Il governo s’incaponì a riaprire le scuole
il 14 settembre, cosa mai vista da anni in Liguria e nel Mezzogiorno.
La fretta era del tutto ingiustificabile perché pochi giorni dopo, come
già ricordato, gli italiani furono convocati alle urne per rinnovare
consigli regionali e dire la loro sul taglio dei parlamentari: una
consultazione nazionale, dunque, quando da settimane erano chiuse le
famigerate discoteche accusate di tutti i mali del mondo e i pochi
italiani rientrati dalle vacanze all'estero erano stati sottoposti a
tutti i controlli di rito. Conte imitò Sanchez che scatenò il contagio
in Spagna con l'8 marzo e Macron che non rinviò le elezioni
amministrative in Francia. Tutte teste d'uovo. A
scatenare questa “seconda ondata” non sono state la movida, le cene
all'aperto, la tarantola e i pochissimi convegni di studio tra
fine settembre e inizio ottobre, bensì la totale assenza di un piano
strategico governativo. Da allora, con la macabra scusa del
contagio virale e malgrado la modesta capacità offensiva
dell'opposizione, la coalizione di governo non è avanzata di un
millimetro nelle scelte politiche vere. Dopo mesi di chiacchiere sui
Piani dell'Unione europea per rimettere in sesto l'economia e al tempo
stesso segnare una svolta di lungo periodo, l'Italia non ha un progetto
chiaro e condiviso, a parte vaghe linee guida che dicono tutto ma non
contengono nulla. Il covid-19 fa forse comodo a qualcuno? Per ora è
solo un dubbio. Domani potrebbe divenire una triste constatazione. Alle urne e una legislatura Costituente per salvare il salvabile Da
mesi il sistema politico-istituzionale è allo sbando: una deriva che
non può essere ulteriormente ignorata. Lo ripetono decine di
costituzionalisti illustri, non per carrierismo (sono in massima parte
docenti emeriti) ma per obiettività. Lo ha detto anche il presidente
del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, seconda carica dello
Stato, che ha rivendicato il ruolo del Parlamento troppe volte eluso
dal governo o con l'imposizione di voti di fiducia, o con il giochino
degli emendamenti infilati in decreti legge di tutt'altra natura: un
malcostume deplorato persino dal taciturno Capo dello Stato. Che questo
avvenga con un presidente del Consiglio avvocato (non più “del popolo”,
ma di sé medesimo) è paradossale. Ma è tragicomico anche che il capo
del governo per la prima volta nella storia sia costretto a narrare in
Parlamento i fatterelli privati per “giustificare” le piroette della
sua “scorta”. Il punto della crisi è però un altro:
dalle cronache che ne rimbalzano all'esterno, le sedute del Consiglio
dei ministri (quando ne leggeremo i verbali?) sono ridotte a piazzate
furibonde dominate da alcuni giacobini in servizio permanente
effettivo, a cominciare dal ministro della Sanità, rappresentante dei
leu-cociti, e i suoi emuli, quali il titolare dei rapporti con le
regioni e il ministro agli scavi archeologici, con piddini e
pentastellati divisi su tutto. Solo sotto il tallone di
giacobini da strapazzo è possibile che in un'Italia in ginocchio,
tartassata, con milioni di cittadini senza lavoro e senza indennizzi o
tenuti a carico delle imprese per decreti legge ma prima o poi
condannati alla disoccupazione, con una miriade di aziende piccole e
grandi prossime al fallimento e alla chiusura, con un presidente del
consiglio prono dinnanzi ai “duri e puri”, venga proposta la
“patrimoniale”, ora sponsorizzata anche dal comico redivivo, Grillo
Giuseppe, “che tutti chiamavan Beppe”. Solo in presenza di
questo stravolgimento delle regole le parole di buon senso che si
levano dall'interno e da fuori del governo (da Renzi, Calenda e
Della Vedova, per esempio) vengono messe a tacere come lesa maestà. Ma
qualcuno dovrà pur chiarire perché, a parità di sicurezza, bar e
ristoranti debbono restare chiusi la sera anziché la mattina; perché,
malgrado le misure adottate, rimangano chiusi cinema, teatri, musei e
circoli culturali; perché, sempre eseguite le sanificazioni del caso,
le chiese debbano chiudere a una certa ora di un certo giorno. Qualcuno
dovrà spiegare perché un cittadino può percorrere centinaia di
chilometri all'interno dei confini (meramente amministrativi e spesso
indistinguibili) della propria regione e non può valicarli di cinque
chilometri se gli vien bene di farlo, magari per visitare un parente o
chissà chi altro, anche se non decrepito. E qualcuno dovrà ricordare a
Conte e ai giacobini che gli tengono bordone (Zingaretti incluso) che
vi sono Comuni con aree minime, senza servizi di sorta e dai quali è
pertanto può essere necessario muoversi anche a Natale, Santo Stefano e
Capodanno senza incappare in alabardieri frustrati. Già che
siamo sotto le feste, doniamo loro una Carta d'Italia, con l’invito a
studiarla bene, magari mentre cenano in camera d'albergo in attesa
della fatidica Mezzanotte... Alla resa dei conti, non tiriamo in mezzo il Quirinale Con questo governo l'Italia non è più un paese da G7 ma di spaventapasseri. E qui si viene al punto politico. Il
governo che rivendica pieni poteri, raggira regioni e comuni e gonfia
il petto con Commissari tuttofare, ancorché “della domenica”, tipo
Arcuri, non è stato in grado di fornire per tempo una quantità
sufficiente di vaccini anti-influenzali ordinari. Avvolto nei candidi
manti dei plenipotenziari nostrani dell'OMS (che diventano
extraterritoriali quando vengono richiesti di render conto del loro
operato), Conte rinvia alle calende greche l'erogazione del vaccino
anti-covid 19, benché (dichiara il solito Commissario) ne sian state
ordinate quantità stratosferiche e di varie marche e sottomarche,
sicché alla fine saranno come le pizze: ognuno potrà scegliere il gusto
che gli pare e farsi fare il richiamo con uno diverso. Ma
vogliamo fissare un giorno per la verifica della bontà di tutte le
privazioni imposte ai cittadini o si andrà avanti all'infinito perché
Sua Emergenza continuerà a prorogarle ad libitum? C'è una data di
verifica o si andrà da una ondata all'altra? Il decreto legge in
Gazzetta Ufficiale del 3 dicembre curiosamente indica il 15 gennaio
2021 quale termine delle sue norme. Pendiamo quella data come limite
per la resa dei conti? Che cosa fa più male all'Italia? Il virus o l'inconcludenza del governo? L'elezione
del prossimo presidente della Repubblica, altro spauracchio tirato in
campo, è un falso problema, per di più oltraggioso nei confronti
dell’attuale capo dello Stato. Il solo fatto che venga accampata quale
motivo di sopravvivenza dell'attuale Parlamento dimostra che i deputati
e i senatori che oggi lo compongono non meritano di rimanere in carica:
ove fossero loro a eleggere il nuovo Presidente, infatti, ne
pregiudicherebbero la credibilità e l’autorevolezza.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Il governo di Sua Emergenza Conte: l'abisso.
CHI HA PAURA DEL RISORGIMENTO? IERI, OGGI, PER IL DOMANI D’ITALIA Editoriale
di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della
Liguria” di domenica 29 Novembre 2020, pagg. 1 e 11.
La lunga genesi e il prezzo del Risorgimento Chi oscura la memoria non ne merita. Che cosa dire dell'Italia oggi? Nel
150° di Porta Pia e dell'annessione di Roma l'Istituto per la storia
del Risorgimento italiano (Isri) è in un cono d'ombra. Tre anni orsono
venne improvvisamente commissariato e affidato a un prefetto, cultore
di Giuseppe Garibaldi. Che cosa è stato fatto ha fatto per risolverne i
problemi? Dal 23 luglio è cessata la prorogatio del commissario. E ora?
Arroccati sulla sommità dell'Altare della Patria il 24 novembre gli
impiegati dell'Isri lamentano che da cinque mesi sono senza stipendio.
L'Archivio dell'Isri, il più importante per lo studio della storia
patria, è da tempo impraticabile, con grave nocumento per gli studi
storici. Il Museo Centrale del Risorgimento, gioiello di inestimabile
valore, è chiuso da un anno e mezzo, a danno non solo dei “quattro
gatti che si occupano di storia” ma dell'immagine dello Stato. Non è un
problema di repubblica o di monarchia, ma di Italia.
Se fosse vivo, Giosue Carducci si rivolgerebbe al Capo dello Stato, già
docente universitario, ministro della Pubblica Istruzione, solitamente
attento alle sorti della Cultura, alla formazione dei
cittadini, alla memoria di una Patria che ha due millenni e mezzo di
storia (e quale storia!), fatta di ascese e di cadute, come insegna la
sorte di Vittorio Emanuele III tre anni orsono restituito all'Italia
con la Regina Elena: un Restauro memoriale necessario. I comitati
dell'Isri scrivono al Presidente della Repubblica. Avranno
risposta? Senza Risorgimento, l'Italia
non esisterebbe. Ci vollero quattro generazioni per metterla insieme,
dall'età franco-napoleonica alla Grande Guerra, dai patiboli di
Ferdinando IV di Borbone che nel 1799 annientarono le più alte menti
del Mezzogiorno alle società segrete (massoneria, carboneria,
adelfi...) che cospirarono malgrado feroci persecuzioni e condanne a
morte mutate all'ultimo momento in carcere durissimo. I patrioti
rinchiusi allo Spielberg, Silvio Pellico e Piero Maroncelli, Antonio
Villa e Antonio Fortunato Oroboni, che vi morirono letteralmente di
fame, Federico Confalonieri che vi fu ripetutamente seviziato, non sono
nomi per un dizionario biografico ma persone in carne e ossa che si
sacrificarono per un'Italia migliore, civile, europea. Per capirlo, si
rileggano “Le mie prigioni” e “Dei doveri degli uomini” di Pellico.
Dopo la Restaurazione austro-papista gli italiani dovevano scrollarsi
di dosso la cappa della dominazione straniera diretta e indiretta. Si
susseguirono moti, guerre per l'indipendenza e ancora patiboli e
fucilazioni: don Ugo Bassi, don Enrico Napoleone Tazzoli, impiccato
sugli spalti di Belfiore a Mantova, Amatore Sciesa a Milano e via
continuando. Nella Roma di Pio IX Monti e Tognetti, colpevoli di
attentato alle truppe papaline, furono ghigliottinati.
Le loro vicende non sono “quadretti” per gli esami di quinta
elementare. Sono i pilastri sui quali anno dopo anno è nata l'Italia
indipendente, unita e libera. Migliaia di patrioti hanno irrorato
l'humus della Nuova Italia, nata dall'utopia di Giuseppe Mazzini, dalle
visioni di Vincenzo Gioberti, dalle imprese di Giuseppe Garibaldi e del
re di Sardegna, Carlo Alberto di Savoia, che, come promesso a Massimo
d' Azeglio, mise in campo se stesso e tutti i suoi averi per
l'indipendenza nazionale e il 23 marzo 1849 abdicò e partì per
l'esilio: non una “fuga in Portogallo”, a differenza di quanto ha
scritto Aldo Cazzullo nel “Corriere della Sera”, ma la scelta
dell'esilio, estremo sacrificio per sciogliere le mani al
successore,Vittorio Emanuele II, che in soli dieci anni portò l'Italia
dalla “brumal Novara” all'unificazione nazionale.
Questo e molto altro è il Risorgimento: i Congressi degli
scienziati italiani, la piena coscienza di essere Europa, di poter
superare arretratezza e sottosviluppo, provvedere alla difesa,
all'alfabetizzazione di massa, all'educazione civica, alla sanità e di
costruire le infrastrutture inesistenti prima dell'unità, a cominciare
da strade ferrate, porti, acquedotti, scuole, ospedali. Con buona pace
dei laudatores dei regimi preunitari e della Borbonia felix, nel 1861
metà dei binari di tutt'Italia erano in Piemonte e Liguria, oggi tra le
regioni più neglette dal governo centrale, con una politica miope e
autolesionistica, come si vide l'estate scorsa col blocco delle
autostrade per lavori eternamente in ritardo e con il declino dei
trasporti su binari. E dunque, perché mai
mettere la mordacchia all'Istituto per la storia del Risorgimento
italiano? L'Altare della Patria, che custodisce il suo Archivio e il
Museo, non può essere solo meta di deposizione di corone una tantum in
solitudine pensosa dinnanzi al Sacello del Milite Ignoto.
Le sorti dell'Istituto e del Museo sono lo specchio dell'Italia
che rinnega e cancella la propria fama e si vuole infame. Non è
questione di maggioranze e minoranze, di parlamentari più o meno
numerosi, di ministri rotanti, di commissari e di “esperti” sparsi come
erbe indigeste su pizze insapori. È questione politica nel senso alto
del termine: la “polis”. E di dignità nazionale. Quando la si perde è
difficile recuperarla. I guai attuali hanno alle spalle tempi
lunghissimi. Da decenni è invalso il principio: sono buono
non se lo sono davvero ma se lo dice qualcuno. Virtù per certificazione
di terzi, come ai tempi delle dominazioni straniere. Nei secoli andati
si attendeva il placet di Carlo V, dei Napoleone, I e III, o di
Francesco Giuseppe d 'Asburgo. Ultimamente bastano la Thatcher, la
Merkel (in duetto con Sarkozy), Putin, Xi Jinping, Trump, Biden,
Erdogan. Mancano solo Maometto II, l'Isis, Castro, Maduro: ognuno con
la sua statuina e le sue figurine da scambiare al mercatino della
memoria. E la storia d'Italia? Finisce È tra le cianfrusaglie a Porta
Portese. Il Comune della Capitale, quello degli autobus
caracollanti in fiamme giù dai clivi e dai colli, ha intimato
all’Istituto storico italiano per il Medio Evo di pagare gli arretrati
dell'affitto e di sgomberare la sede entro novanta giorni, liberandola
da libri, riviste, documenti antichi: tutte scartoffie, care a
Ferdinando Gregorovius, non cattolico e massimo storico della Roma
papale nel Medioevo, ma inutili anticaglie che agli occhi degli
amministratori d'oggidì. Romano Ugolini, storico del Risorgimento A
cospetto dello scempio della memoria nazionale va ricordata la
splendida figura dell'ultimo presidente eletto dell'Istituto per la
Storia del Risorgimento Italiano: Romano Ugolini, storico insigne morto
settantaquattrenne a Roma il 23 giugno di quest’anno. Fiero di essere
nato e di aver studiato sino alla maturità a Torino, prima capitale del
regno d'Italia, si formò nel decennio dalla celebrazione del centenario
dell'unificazione nazionale a quello dell'annessione di Roma
(1961-1970): una stagione ricca di mostre, convegni, pubblicazioni,
dibattiti e della diffusione, anche nelle scuole, di volumi documentati
e spesso bene illustrati, che orientarono molti giovani a capire radici
e fortune del Risorgimento. Assistente della cattedra di storia del
Risorgimento alla “Sapienza” di Roma a soli 24 anni e docente ordinario
a 34 anni, nel 1980-81 a Palermo e dal 1982 a Perugia (ove fu anche
preside della Facoltà di Scienze della formazione), Ugolini unì
all'insegnamento l'impegno di segretario dell'Istituto per la Storia
del Risorgimento italiano a fianco di Presidenti che gli furono
Maestri: Alberto Maria Ghisalberti ed Emilia Morelli. Quando
già s'intravvedeva il crepuscolo della Risorgimentistica (le cui
cattedre vennero inabissate in quelle di “storia contemporanea”) e
l'Istituto da tempo faticava a tenere aperta la sede al Vittoriano (era
leggendario il funzionamento a singhiozzo dell'indispensabile
ascensore), Ugolini, nominato presidente, lo rianimò, proprio in
coincidenza con il 150° della proclamazione del regno d'Italia (2011),
quando il Museo Centrale del Risorgimento ebbe un numero
straordinariamente elevato di visitatori da ogni parte d'Italia e
dall'estero, con speciale beneficio per studenti e scolari. Ugolini
accompagnò gli oneri della docenza a ricerche archivistiche e
pubblicazioni sui temi che più lo appassionarono. Anzitutto Giuseppe
Garibaldi, la cui formazione indagò per decenni, liberandola da
incrostazioni mitologiche, e approfondì anche quale presidente della
Commissione per l'edizione nazionale dell'Epistolario (vi attendeva
alla vigilia della morte); inoltre la Roma postunitaria, con speciale
attenzione per gli anni del Blocco popolare guidato da Ernesto Nathan,
gran maestro del Grande Oriente d'Italia e indimenticabile sindaco
nell'età giolittiana; e la diffusa dirigenza politico-culturale
italiana dagli albori del Risorgimento alla Grande Guerra. Particolare
cura Ugolini dedicò all'approntamento degli strumenti per la ricerca:
il poderoso aggiornamento della ricca Bibliografia dell'età del
Risorgimento italiano, la direzione della “Rassegna storica del
Risorgimento”, con le rubriche dedicate a recensioni,
segnalazione di saggi e articoli e alla “vita dell'Istituto”, che
sentiva come grande famiglia, grazie alla Consulta, che fungeva da
tramite fra il consiglio di presidenza e le migliaia di abbonati in
Italia e all'estero. Animatore dei Congressi biennali dell'Istituto,
consegnati a corposi volumi, e direttore della sua Biblioteca
scientifica, divisa in più sezioni e forte di epistolari e di saggi di
ampio respiro, Ugolini non ne trascurò nemmeno gli aspetti minuti.
A quel modo, con appassionata dedizione, senso profondo
dell'amicizia leale e del servizio disinteressato a beneficio degli
studiosi venturi, come ricorda la motivazione del Premio Acqui Storia
alla Carriera conferitogli nel 2019, tenne “alti e vivi gli studi del
Risorgimento e dello Stato unitario, sia con sue opere innovative,
frutto sempre di accurate esplorazioni archivistiche, sia con la
promozione di Comitati dell'Istituto in Francia, Belgio, Germania,
Spagna, nelle Americhe e in Giappone, concorrendo alla miglior
conoscenza della storia d'Italia nella comunità scientifica
internazionale.” Nel convegno di Vicoforte su Vittorio Emanuele III (10
ottobre 2020) Cristina Vernizzi, che lo affiancò anche alla guida del
Centro internazionale di studi risorgimentali e garibaldini con sede a
Marsala, ne ha tracciato un profilo esauriente, di imminente
pubblicazione. Il Risorgimento unisce
In Chi ha paura del Risorgimento? Cento anni di “Libero Studio” e
”fedeltà al culto del vero”, un “editoriale” che è anche testamento
culturale, nel numero speciale per il centenario della “Rassegna
storica del Risorgimento”, Ugolini rivendicò orgogliosamente quanto
fatto e indicò la via. Parafrasando Garibaldi ammonì: “il Risorgimento
è un principio e non un partito, e come tutti i principi unisce e non
divide, non invecchia e non muore”. Come non morirà il suo magistero
storiografico. Nel 1948 Togliatti e Nenni
presero Garibaldi per insegna del Fronte Popolare, nel quale
confluirono i voti di tanti ex militanti del Partito d'Azione. Dai
Quaderni del Carcere di Antonio Gramsci, messi in salvo anche grazie
all'economista Piero Sraffa, figlio di illustre massone, con
operazione filologicamente opinabile ma politicamente accorta Togliatti
trasse il volume “Il Risorgimento”, sul quale per decenni si formarono
storici “di sinistra” sempre più vicini alle posizioni del pensiero
laico e unitario, alla sinistra hegeliana risorgimentale, guariti dalla
malattie infantile dell'estremismo antiunitario poi divampante come
febbre terzana quando neppure più i clericali se ne valevano. Lo si
vide quando il cardinale Angelo Bagnasco concelebrò il 150° dell'Unità
con Giorgio Napolitano a Genova, non lontano dallo Scoglio dei Mille.
L'unificazione e la proclamazione del regno d'Italia con Vittorio
Emanuele II sovrano costituzionale erano ormai terreno di conciliazione
e di impegno civile accomunante. Lo attestano le opere di Giorgio
Candeloro, Alberto Caracciolo e Franco Della Peruta, membro del
Consiglio di presidenza dell'Isri con Gabriella Ciampi, Cosimo Ceccuti,
Carlo Ghisalberti, Bianca Montale... Facit indignatio versum Dinnanzi
all'ennesima protesta del personale dell'Istituto sta scattando la
mobilitazione dei comitati, pronti all’autoconvocazione per salvare il
salvabile dell'Istituto e della Risorgimentistica, che è tutt'uno con
la memoria e la dignità nazionale, al di là di qualsivoglia distinzione
ideologica o politico-partitica. L'appello registra adesioni da tutte
le regioni. Il presidente del comitato di Piacenza, Corrado Sforza
Fogliani (autore del recente “Libera Chiesa in libero Stato”,
pubblicato nella collana “Libro Aperto”, diretta da Antonio Patuelli)
esorta a portare la questione nella sede appropriata: il Parlamento. Si
aggiungono i comitati esteri a conferma che il Risorgimento unisce,
come avvenne in passato. Accadde persino a Luigi Federzoni, carducciano
per tradizione domestica, massonofago per incomprensibile
strabismo ma poi presidente del Comitato ordinatore dell'Edizione
Nazionale delle opere di Giosue Carducci, fondatore della loggia
“Felsinea” di Bologna nel 1866 e vent'anni dopo richiamato in servizio
da Lemmi nella “Propaganda Massonica ” con Aurelio Saffi, Agostino
Bertani, Giuseppe Ceneri e Giuseppe Zanardelli, futuro presidente del
Consiglio. Quel passato, l'ancoramento obbligatorio dell'Italia al
Risorgimento, va ricordato alla massonofoba ex presidente della
commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi e magari anche al
suo successore. Il Risorgimento non è la salma
di Patroclo da contendere a strattonate tra scugnizzi. E' l'Italia.
Perciò la sede dell'Isri e il Museo Centrale del
Risorgimento non possono rimanere sbarrati, come oggi accade.
Sono patrimonio nazionale. Il Risorgimento va riscoperto e attualizzato
a duecento anni dalla morte di Napoleone (al quale tanto deve
l'unificazione nazionale) e nel settimo centenario della morte di
Dante, che ne fu alimento dall'età di Vittorio Alfieri e di Ugo Foscolo
a quando l'Esercito Italiano nel 1921 rese omaggio al Divino Poeta nel
Sacello di Ravenna. Da lì arriva l'Italia odierna e ventura. E da lì
deve ripartire se vuol rimanere universale quale la vollero i suoi
Padri fondatori nella lunga sofferta età del Risorgimento.
Aldo A. Mola
IL TRIANGOLO SCALENO A CHE PUNTO E' L'ITALIA? Editoriale
di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della
Liguria” di domenica 22 Novembre 2020, pagg. 1 e 11.
Il triangolo scaleno al tempo che fu Dalla
nascita, nel 1861, al 1948 lo Stato d'Italia ebbe un regime
costituzionale paragonabile a un triangolo scaleno. Il lato
dell'altezza era Sua Maestà il Re. Per grazia di Dio. Il lato
verticale, addossato “all'asta della Storia”, fu più o meno alto,
secondo la personalità dei titolari della Corona e i tempi nei
quali la calcarono. Vittorio Emanuele, padre della Patria, era secondo
di quel nome come re di Sardegna e tale si volle e rimase come re
d'Italia, con buona pace di mazziniani, garibaldini, federalisti,
neoguelfi, ex borbonici, ex asburgici, papisti pentiti...e magari anche
bonapartisti in sonno o in servizio permanente effettivo. Era lui il
garante dello Stato d'Italia nella Comunità internazionale. Altrettanto
fu Vittorio Emanuele III, il re delle due guerre europee e poi
mondiali. Molto se ne parla, in termini quasi sempre ingenerosi,
provincialotti, settari. Spesso si dimentica che a volere quelle
conflagrazioni non fu mai l'Italia. Essa vi entrò per calcolo e per
timore. La prima volta andò bene, la seconda male. Se fosse andata
meglio, sarebbe stato peggio. Tornando
all'Asta della Storia, il secondo lato del triangolo scaleno, quello
obliquo, era il “governo del re”. L'Esecutivo era nominato motu proprio
dal sovrano e a questi doveva rispondere. Solo con il tempo i “ministri
segretari di Stato” si differenziarono rispetto ai titolari delle altre
cariche (ministri di Stato, ambasciatori e funzionari pubblici civili e
militari dei vari gradi ), tutti nominati dal Re in forza dell’articolo
6 dello Statuto albertino. Il lato inferiore
del triangolo la Camera dei deputati, dalle malelingue detta “Bassa”
per distinguerla da quella dei senatori che, nominati ad almeno
quarant'anni compiuti, vi rimanevano a vita. La “Camera Alta”, aveva un
numero illimitato di componenti. Il Senato passò così dai circa
sessanta componenti iniziali (quando era del solo regno di Sardegna) a
circa quattrocento. Proprio perché composto da membri vitalizi e
tendenzialmente longevi, esso conobbe un modesto ricambio
generazionale. In tutto e per tutto lungo un intero secolo, dal 1848 al
1948, i senatori furono poco più di duemila quattrocento: il meglio
della dirigenza pubblica, imprenditoriale e culturale del Paese. Forse
proprio perché era al di sopra dei marosi, a differenza delle più
sparute associazioni partitiche, sindacali e dei circoli parrocchiali,
il Senato del Regno continua a mancare di un affresco storiografico
esaustivo. Rispettoso di Sua Maestà, esso deliberava la convalida dei
membri via via nominati. Sia pure di rado, alcuni, benché già avallati
dal sovrano, furono rigettati. La Camera dei
deputati, come già detto, era dunque il lato inferiore del
triangolo scaleno. Aveva un numero di seggi fissati non dallo Statuto
ma da leggi a misura dell'ingrandimento del regno, sino a quella dei
508, che durò dall'acquisizione di Roma e del Lazio alla fine della
Grande Guerra. Ma quali erano i suoi poteri? In forza dell'articolo 10
dello Statuto “ogni legge d'imposizione di tributi, o di approvazione
dei bilanci e dei conti dello Stato sarà presentata prima alla Camera
dei deputati”. Questa precedenza formale non intaccò il bicameralismo
perfetto voluto da Carlo Alberto di Sardegna perché le leggi chiedono
debita ponderazione. Devono essere chiare e durare nel tempo. Non per
caso tante norme odierne citano in premessa (“visto...”) quelle del
Regno d'Italia. Qualunque legge approvata dalla Camera doveva passare
al vaglio del Senato, a rischio di bocciatura. Perciò i parlamentari
elettivi ebbero margini stretti di iniziativa.
Secondo molti opinionisti per i quali “il numero è potenza”, la
forza del lato inferiore del triangolo scaleno sarebbe stata maggiore
in proporzione al parco degli elettori. E' lecito dubitarne. Molte tra
le leggi più coraggiose e lungimiranti furono varate dal Parlamento
quando l'elettorato era di appena 600.000 o meno di 3.000.000
cittadini. Proprio perché non doveva dare conto a moltitudini succube
di superstizioni e di pregiudizi e malgrado maggioranze a volte
risicate la Camera approvò leggi innovative, in specie su diritti
civili. In molti casi, d'altronde, queste vennero anticipate da regi
decreti che ampliarono e sancirono le libertà dei cittadini molto più
di quanto avrebbe concesso l’“opinione pubblica” coeva, conformista o
assente, e perché tanta parte dei regnicoli, non certo per colpa loro,
era di analfabeti costretta a vivere e a testa china in condizioni
spaventosamente arretrate, come documentano i quindici volumi
dell'“Inchiesta Jacini” sulle classi agrarie. Un quarto di secolo dopo
l'unità nazionale anche in Piemonte i proprietari di dieci ettari di
terra coltivata e di stalle ben fornite lavoravano sino a
sedici-diciotto ore al giorno e riposavano buttandosi poche ore vestiti
come erano su un “paglione”, spesso di foglie. L'acqua potabile era
estratta da pozzi poco profondi. Metà dei nati non superava i 15 anni
di vita. A ben vedere, dunque, nel lato basso
del triangolo scaleno erano ammassati i regnicoli, “uguali dinanzi alla
legge” e tenuti a contribuire indistintamente ai carichi, “nella
proporzione dei loro averi” e soprattutto attraverso le tasse sui beni
rimari di consumo, la cui introduzione suscitò rivolte nelle terre che
prima dell'unità nazionale ne erano esenti. Anzitutto, “fare l'Italia” Mentre
divampa la dialettica fra governo centrale e consigli regionali, molti
tornano a domandarsi perché all'indomani dell’unificazione l'Italia non
abbia imboccato la via del regionalismo. Si cita a proposito e spesso a
sproposito Carlo Cattaneo, federalista. Studi, progetti e disegni di
legge di impostazione favorevoli al “dis-centramento” (come all'epoca
si diceva) abbondarono all'indomani della proclamazione del regno. Non
solo l'emiliano Marco Minghetti e tanti economisti e politici del
Mezzogiorno elaborarono una visione organica della miglior armonia tra
potere centrale e amministrazioni locali, disciplinate da Urbano
Rattazzi nell'ottobre 1859 con una legge destinata a durare
settant'anni. Ma come si poteva concretamente e seriamente credere che
il federalismo non covasse il ritorno delle divisioni secolari tra le
diverse Italie e la prevalenza dei “compartimenti” più avanzati su
quelli più arretrati? I censimenti decennali svolti
dal 1861 dicono che, unita “sulla carta”, l'Italia era e rimase
lacerata. Il quadro è anche peggiore sotto il profilo della storia
politica. Sino alla morte, sopravvenuta il 10 marzo 1872, Giuseppe
Mazzini continuò a cospirare per rovesciare la monarchia. Tanti suoi
seguaci ritenevano che bastasse eliminare Casa Savoia perché gli
italiani vivessero felici e contenti. Fu lo storico Pasquale Villari
(Napoli, 1846- Firenze, 1917), deputato, senatore, ministro della
Pubblica istruzione, massone in gioventù, a dire la verità: gli
italiani erano ventidue milioni, cinque milioni di arcadi, diciassette
di analfabeti. Il problema del Paese non era questa o quella Casa
Reale, questo o quel presidente del Consiglio ma l'organizzazione della
macchina dello Stato in un'Europa che non faceva sconti a nessuno, come
si vide con la guerra austro-prussiana del 1866, in quella
franco-germanica del 1870-1871, di gran lunga più sanguinosa e
socialmente devastante, e quella tra russi e turchi nel 1878, dagli
aspetti talora belluini. A differenza di
quanto venne retoricamente ripetuto, non era ancora momento di “fare
gli italiani” ma di fare davvero l'Italia. Per secoli ogni staterello
aveva pensato per sé, cioè non aveva pensato affatto, perché (a parte
il Regno di Sardegna, costretto dalla geografia a stare nella storia,
cioè sempre con l'arma al piede) era l'appendice diretta o indiretta di
potenze straniere. Col 1861 bisognò inventare un sistema di difesa con
l'occhio alle Alpi e al Mediterraneo, una diplomazia planetaria. Erano
gli anni degli Imperi coloniali. Napoleone III mentre combatteva nella
pianura padana occupava la Cocincina; sei anni dopo con Massimiliano
d'Asburgo (figlio di Napoleone II?) tentò di dar vita all'Impero del
Messico, che avrebbe sparigliato la storia e riportato l'Europa alla
guida del mondo. Gli “americani” lo capirono bene e lo fecero fucilare
a Queretaro dal repubblicano Benito Juarez.
In quel quadro, tutto poteva fare il governo d'Italia tranne che
fermare il processo di costruzione dello Stato. Già doveva fronteggiare
il banditismo nelle Romagne, il grande brigantaggio nell'ex Regno delle
Due Sicilie (sette anni di guerriglia feroce), la rivolta di Palermo
nel 1866 (repressa duramente dal siciliano Antonio Starrabba di Rudinì,
sorretto da Raffaele Cadorna), proteste e insorgenze contro la tassa
sulla macinazione delle farine voluta da Quintino Sella per fornire al
governo i mezzi per far decollare infrastrutture scuole, sanità,
edifici servizi pubblici: quanto occorreva affinché lo Stato passasse
da semplice enunciazione a realtà effettiva. Ora sponanea, ora spintanea
Non bastasse quel povero neonato Regno d'Italia dovette fare i
conti con due ferite che avrebbero affossato qualunque altro Paese: la
scomunica di Vittorio Emanuele II e di tutti i suoi ministri, deputati
e “agenti” da parte di Pio IX perché nel 1859-1860 si era appropriato
del grosso dello Stato pontificio; e lo”sciopero politico” dei
cattolici, che per mezzo secolo disertarono le elezioni per il rinnovo
della Camera. Assediata su tutti i fronti, dall'estero all'interno, la
dirigenza postunitaria non ebbe né tempo né modo di cambiare la
costituzione, benché sempre più anacronistica.
Di decennio in decennio la Nuova Italia camminò in affanno,
spesso sospinta dall'esterno. Dopo l'imposizione del protettorato
francese su Tunisi nel 1881 e la riluttanza dell'Italia a impegnarsi a
fianco di Londra in Egitto nel 1882, fu l'Inghilterra a imporre a Roma
di fare la propria parte nel Mar Rosso, dopo l'eccidio di Karthoum nel
1884. Altre volte fu trascinata da interessi interni: compagnie di
navigazione, commerciali, assicurative... L'adeguamento dell'assetto
costituzionale ai tempi nuovi finì e rimase in un cono d'ombra. Il
regio decreto 14 novembre 1901 sugli affari da sottoporsi al consiglio
dei ministri, voluto dal democratico bresciano Giuseppe Zanardelli
d'intesa con il trentaduenne Vittorio Emanuele III, mutò la
distribuzione delle statuine del presepe ma non spostò né la Capanna né
la Stella Cometa. Nel 1915 l'Italia entrò nella Grande Guerra con lo
Statuto del 1848. Col medesimo ne uscì. Nel dopoguerra la Camera Bassa
si occupò di legge elettorale (la “maledetta proporzionale”), inchieste
su sperperi e altre minutaglie, ma lasciò intatti i poteri della
Corona, a cominciare da quello di dichiarare guerra. Così dal 10 giugno
1940 gli italiani appresero a cose fatte di essere e in guerra contro
la Francia, la Gran Bretagna e, a seguire, contro l'Unione sovietica e
gli Stati Uniti d'America. Una coperta corta Ci
volle la sconfitta per imporre il rinnovamento ab imis fundamentis:
l'Assemblea Costituente, prevista ed eletta in forza Decreti legge
Luogotenenziali di Umberto di Savoia. La Costituente, i cui deputati
furono eletti il 2-3 giugno 1946, avrebbe fatto la sua parte anche se
al referendum costituzionale la monarchia fosse prevalsa sulla
repubblica. I tempi di una Carta nuova non solo erano maturi ma
necessari. I costituenti, anzi, andarono così innanzi che alcune loro
innovazioni (dalla Corte Costituzionale alle Regioni a statuto
ordinario) rimasero sulla carta per lunghi anni. Anche nel 1946-1949,
sino a quando non trovò riparo sotto l'ombrello difensivo della NATO e
dell'Alleanza Atlantica, la coperta risultò nuovamente molto corta. Ora
è si indilazionabile la revisione della Costituzione. Non è questione
di pandemia. È un nodo sempre più ingarbugliato. Va affrontato per
rimanere davvero in Europa, anzi, più estensivamente, in Occidente:
nell'area dei principi enunciati dalla Carta del 1948, dalla
Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e dalle Convenzioni che
ne derivarono, che Roma ha sottoscritto ma talvolta ha anche violato.
Occorre pensarci per tempo mentre iniziano ad aleggiare fantasmi come
la definizione di “Stato di diritto”. Chi ha titolo per stabilirne i
termini? È bene che, a differenza di quanto accadde dal 1848 al 1948,
l'Italia provveda da sé ad adeguarsi ai tempi correnti e venturi. Anche
perché sulla fine della legislatura precedente in tempi recenti si sono
registrate alcune sconcertanti divagazioni lessicali. Ne rimane esempio
inquietante la Relazione conclusiva della Commissione parlamentare
d'indagine sulla criminalità organizzata che gettò ombre pesanti sulla
libertà dei cittadini di associarsi in organizzazioni non vietate dalle
leggi vigenti. Ove il diritto venne distorto. In tempi
calamitosi il triangolo equilatero vaticinato dai costituenti
settant'anni addietro è sempre più sfocato sull'orizzonte. Con
l'eclissi del Parlamento, raggirato dall'Esecutivo, si torna allo
scaleno, malattia infantile dello Stato d'Italia. Intirizzito e con la
coperta sempre più corta, sdrucita dal debito pubblico a livelli più
incontrollati di ogni contagio.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: “Scienziati”
litigiosi, spesso in confusione, “ordinanze” ministeriali peggio
che in guerra (come quella di Lamorgese e Speranza che una domenica
pomeriggio vietò di lasciare il Comune nel quale ci si trovava, magari
per caso) e i fastidiosi sermoni moralistici di Sua Emergenza Conte
(suggeriti da Roccobello?) su come condursi a Natale alimentano
tensioni e caos tra Stato e Regioni, tra una e altra Provincia e
all'interno dei Comuni. Tutti contro tutti.
GIOVINEZZA, SOLE CHE SORGE, RIVOLUZIONE (COL PERMESSO DEL PAPA)
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 15 Novembre 2020, pagg. 1 e 11.
Eterogenesi di inni e canti: Giovinezza... Quando
scrisse “Giovinezza”, inno dei laureandi, Nino Oxilia non immaginava
certo che il canto goliardico, intriso di gioia, nostalgia e impegno
civile, come Piemontesina bella, un giorno sarebbe stato capovolto in
carme bellicoso: dapprima tra gli alpini, poi negli arditi e infine dai
“fasci di combattimento”. A quel punto, tra il 1919 e il 1925, quando
il Direttorio Nazionale fascista ne fece l'inno ufficiale del partito,
di Addio Giovinezza, la commedia messa in scena da Oxilia e Sandro
Camasio (Isola della Scala, Verona, 1886-Torino, 1913) non rimaneva che
un vago ricordo. La Belle Epoque era un lontano ricordo. Di mezzo vi
era stato l'intervento dell'Italia nella Grande Guerra, con devastanti
ripercussioni su istituzioni, economia, assetto sociale e sulla
demografia. Nei 41 mesi dall'intervento alla Vittoria del 4
novembre 1918, tra giovani “di leva”, richiamati e mobilitati anzitempo
vennero messi in divisa circa cinque milioni e mezzo di italiani sino
ai “Ragazzi del '99” e ai giovani nati nel 1900, addestrati e mandati
al fronte nell'ultima estate di guerra. L'epidemia di “spagnola”
aggiunse altri 600.000 morti da un capo all'altro del Paese.
“Giovinezza...”. Genesi
e metamorfosi di quel canto, narrate da Patrizia Deabate nei Canti
brevi di Nino Oxilia (Neos, 2014), sono paradigma della storia
d'Italia: convulsa, segmentata, sequenza d’imprevedibili colpi di
scena, spesso frutto d'improvvisazione. Ne abbiamo l'esempio sotto gli
occhi: un presidente del Consiglio dei ministri passato dall'una
all'altra maggioranza parlamentare (non nei sondaggi) e pronto a
capitanarne una terza e una quarta, tra disastro del sistema sanitario
e indebitamento pubblico agghiacciante ... Sarà disinvoltura o
spudoratezza? Mesi addietro (ma sembrano ormai passati anni, tanti sono
i pessimi ricordi dei mesi scorsi e gli incubi per quanto verrà) il
Paese era invitato a cantare dai balconi e dalle finestre per fermare
il Maligno. A ore fisse, come i canonici al Vespro. Attoniti e
mascherati, adesso gli italiani tacciono. La loro fiducia nel tante
volte annunciato “nuovo inizio” è crollata: lumicino, tra le
multicolori palle natalizie. Le “parole d'ordine” per
mesi diffuse dagli altoparlanti governativi non incantano più.
Incartati i torsoli d'insalata nelle vecchie autocertificazioni per
uscire di casa, i cittadini hanno esaurito il toner della pazienza. Non
credono, poco obbediscono, provano ancora a combattere in modo civile:
pensare con la testa propria anziché con quella di governanti
imprevidenti e di tecnici sanitari speranzosi, litigiosi e quindi
inaffidabili. ...e Inno a Roma Nel
1919, lo stesso anno in cui i fasci scipparono Giovinezza ai goliardi,
molti dei quali iscritti alla gloriosa “Corda Fratres”, la Federazione
internazionale studentesca inventata dal geniale canavesano Efisio
Giglio-Tos, su sollecitazione del sindaco di Roma Prospero Colonna il
già celeberrimo Giacomo Puccini musicò l'Inno scritto dal librettista e
poeta Fausto Salvatori, ispirato dal Carme secolare di Quinto Orazio
Flacco. Doveva essere cantato nel Natale di Roma, il 21 aprile. La sua
“prima”, però, venne rinviata a causa di uno dei tanti “scioperi” che
affliggevano l'Italia e la sua capitale. Il ritornello di quel Canto
Novo sgorga dal petto: “Sole che sorgi, libero e giocondo/, sul Colle
nostro i tuoi cavali doma:/ tu non vedrai nessuna cosa al mondo/
maggior di Roma”. Ve n'era bisogno nello sconquasso postbellico.
Altrettanto vale oggi, anche se quell'“Inno al Sole” è sconsigliato
perché, al pari di “Giovinezza”, riecheggiò nei cerimoniali del regime
di partito unico. Ma se così dovesse essere, bisognerebbe gettare alle
ortiche il novanta e più per cento della tradizione musicale e
coreutica italiana, compresi Il Piave, Va pensiero, Si scopron le
tombe, si levano i morti e anche Il canto degli Italiani musicato da
Michele Novaro, ora inno nazionale, tutti ordinariamente eseguiti nel
“famigerato ventennio”. L'“Inno a Roma” (parole di di
Fausto Salvatori, musica di Puccini) non ha proprio nulla di
“fascista”, né di “dittatoriale”. È il punto di arrivo della cultura
risorgimentale che mirò ad annodare la Nuova Italia con quella dei
Cesari e con l'età dei Liberi Comuni e delle Signorie, del
Rinascimento. Dopo quella degli Augusti e dei Papi la Terza Roma era,
voleva, doveva essere capitale della Scienza, della Ragione e, perché
no?, della Gioia, espressione della Libertà, evocata dal massone
Schiller nell'Inno fatto proprio da Ludwig van Beethoven nel finale
della Nona Sinfonia. Ne era convinto il compositore Franco
Alfano (Napoli, 1875-Sanremo, 1954), poi famoso per “La leggenda di
Sakuntala” (1921) e del “Cyrano di Bergerac” (1936). Durante uno dei
soggiorni nel Ponente Ligure, in specie a Bordighera (cara alla Regina
Margherita), Alfano fu iniziato massone nella loggia “Achille Ballori”
di Sanremo. Il suo diploma “ne varietur” venne iscritto nei registri
del Grande Oriente d'Italia al numero 53.583. Aggredito da
un tumore all'epoca incurabile e dopo un intervento estremo a
Bruxelles, Puccini morì lasciando incompiuta “Turandot”, l'opera che lo
impegnava dal fatale 1919. Su designazione di Arturo Toscanini, il suo
completamento fu affidato ad Alfano, che superò la prova sulla traccia
degli “appunti” pucciniani. La prima rappresentazione dell'opera fu
diretta proprio dal celeberrimo Maestro, che la interruppe al termine
della composizione originaria, per rispetto verso Puccini, non certo
per sgarbo nei confronti di Alfano, da lui apprezzato. Nel
1919 Toscanini era stato tra i propugnatori della fondazione dei fasci
di combattimento nella famosa adunata a piazza San Sepolcro il 23
marzo. Per molti “sansepolcristi” il fascio riecheggiava la
Sinistra democratica ottocentesca, guidata da Giuseppe Garibaldi, che
in decine di lettere e discorsi incitò i “veri liberali” a mettere da
parte le rivalità personali e di ascrizione (mazziniani, federalisti,
antichi carbonari, settari delle più disparate “Obbedienze”) e a unirsi
in un unico “fascio” sotto le insegne della Massoneria: esattamente
l'opposto di quanto programmato da Mussolini dopo l'intesa con Luigi
Federzoni, Enrico Corradini, Alfredo Rocco, Maurizio Maraviglia e gli
altri esponenti del nazionalismo, in gran parte clericali. Sapevano a
memoria tutto Carducci, maestro e vate della Nuova Italia, ma non
lo avevano capito. Mussolini rivoluzionario, col permesso del papa Lo
ha ricordato con lapidaria incisività il novantaduenne Giorgio Galli
nell'introduzione al ciclo di incontri (in videoconferenza) sul
“Fascismo magico” organizzato dall'Istituto di studi politici e
internazionali (Milano) e coordinato da Daniele V. Comero, Vinicio
Serino e Ottorino Maggiore van Beest. Politologo celebre per aver
definito il sistema politico italiano postbellico come “bipartitismo
imperfetto” stante l'impossibile alternanza tra la Democrazia cristiana
e i suoi alleati centristi, da una parte, riparati sotto
l'ombrello degli USA, e dall'altra il Pci, eterodiretto da Mosca, da
decenni Galli indaga il nazismo magico, l'esoterismo soggiacente alla
politica e, in saggi scritti con Mario Caligiuri, Come si comanda il
mondo e Il potere che sta conquistando il mondo (ed. Rubbettino, 2020).
Galli non ha dubbi: quella di Mussolini fu una “Rivoluzione col
permesso del Papa”. Una farsa di ateo pentito. Mentre
anche molti “fascisti” combattevano i clericali e rivaleggiavano con la
Carta del Carnaro di Gabriele d'Annunzio proponendo la confisca dei
beni ecclesiastici, l'introduzione del divorzio, il diritto di voto
femminile, l'emancipazione delle donne, la giornata lavorativa di otto
ore (antica richiesta dei socialisti, dalle cui file arrivava Mussolini
e alle quali approdò Pietro Nenni, originariamente repubblicano e suo
sodale), sotto sotto il futuro Duce sin dal 1922 aveva preso a trescare
con la Santa Sede tramite padre Pietro Tacchi Venturi, che tessé
i rapporti tra lui e il segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro
Gasparri, e nel 1938, alla vigilia dell'approvazione delle leggi
razziali, glielo ricordò per ottenere la discriminazione dei “matrimoni
misti” tra ebrei convertiti a cattolicesimo e “ariane” (o tra “ariani”
ed ebree cattoliche): dove era chiara l'identificazione tra “razza” e
“religione” con tutti i pregiudizi secolari. Alle
elezioni del 16 novembre 1919 Mussolini subì una sconfitta clamorosa.
Nella circoscrizione elettorale di Milano la sua lista, comprendente
Toscanini e Guido Podrecca, già fondatore di “L'Asino”, settimanale
satirico ferocemente anticlericale, e altri candidati niente affatto
antidemocratici, raccolse appena 5.000 voti. Egli stesso racimolò 2.500
preferenze. Un risultato umiliante. Ma, come ha documentato Renzo De
Felice, non si dette affatto per vinto. Per lui valeva la regola degli
estremisti di tutti i colori: tanto peggio, tanto meglio. Dalla sua
parte aveva la crisi politico-sociale, la scioperomania,
l'inconcludenza dei governi e soprattutto le ripercussioni della
suddivisione dei seggi alla Camera in proporzione ai voti ottenuti dai
partiti, la “maledetta proporzionale” (come la definì Giolitti) voluta
da Luigi Sturzo, fondatore del Partito popolare italiano, dai
socialisti e da liberali di belle speranze, che confondevano
l'“eloquenza parlamentare” con la “politica”. Lo stesso del resto
accade oggi, con l'uso stucchevole di formule ripetitive, di passettini
per i corridoi dei Palazzi verso scrivanie ingombre di sudate carte e
di sguardi corrucciati in assenza di programmi ponderati e attuabili.
Il disastro generato dalla “proporzionale” è documentato da Gianpaolo
Romanato in 1919-2019. Riforme elettorali e rivolgimenti politici in
Italia, completo di un acuto saggio di Marco Follini (ed. Cierre per la
Casa Museo Giacomo Matteotti di Fratta Polesine). Con
quelle premesse il 30 ottobre 1922 il trentanovenne Mussolini ebbe
l'investitura a presidente del Consiglio dei ministri da Vittorio
Emanuele III, su consiglio di tutti i maggiorenti delle forze
politico-sociali-economiche non antisistema del Paese. La vera “marcia”
non fu “su Roma” ma “in Roma”: dal Vaticano in Italia. Non con i
manganelli ma con ceri e aspersori. I partiti che a metà novembre
votarono la fiducia al governo Mussolini erano il guazzabuglio che
aveva impedito a Giolitti di governare: i popolari di don Sturzo, il
grappolo acido di liberali (solo nell'ottobre 1922 nacque il Partito
liberale italiano presieduto dal dimenticato Borzino), i demosociali
del teosofo Colonna di Cesarò. Come da vent'anni, i socialisti di
Turati, Treves, Modigliani e di Giacomo Matteotti (freschi
dell'ennesima scissione) rimasero spettatori. Nicola
Di Modugno, Vinicio Serino e altri nell'Incontro del 12 novembre su
“Mussolini e movimenti esoterici e iniziatici”, hanno ricordato che il
19 gennaio 1923 la Santa Sede passò all'incasso. Entrando da ingressi
separati il cardinal Gasparri e Mussolini (accompagnato da Giacomo
Acerbo, grado 30° della Gran Loggia d'Italia e sottosegretario
alla Presidenza del Consiglio) si incontrarono nel palazzo del
conte e senatore Carlo Santucci, presidente del Banco di Roma, ancora
una volta sull'orlo del fallimento, e ne concordarono il salvataggio
con l'intervento del governo “al di qua del Tevere”. In aggiunta, il
Duce del fascismo si impegnò a mettere al bando la Massoneria, che
dagli albori del Risorgimento rappresentava l'alternativa radicale alla
Chiesa cattolica. Non era un partito qualunque ma un'Idea Universale.
Non era una fazione, come i nazionalisti, ma la promotrice e custode
della Nazione. Però Roma non poteva contenere due Città Eterne: doveva
scegliere quale incarnare. Convinto che in fondo era
solo questione di “metalli”, in cambio del Potere Mussolini non ebbe
difficoltà alcuna a sbarazzarsi degli odiati massoni. Non solo. In
Italia non potevano esserci due depositari dell'Idea di Nazione. I
democratici persero la partita con la riunione del Gran consiglio del
fascismo che a metà febbraio del 1923 deliberò l'incompatibilità tra
fasci e logge, che pur contavano parecchi “fascisti dell'origine”,
mangiapreti della peggior risma. In quella seduta i grandi consiglieri
vennero istruiti da uno spretato che per primo aveva pubblicato in
Italia gli infami “Protocolli dei Savi Anziani di Sion” e che il Duce,
superstizioso assai, evitava di vedere e di nominare. In effetti
quell'ex reverendo non gli portò bene. Lo incalzò sino agli ultimi
giorni della Repubblica sociale. Gran Consiglio di cosa? Ma
che cos'era il Gran Consiglio? Nient'altro che la riunione privata di
maggiorenti del Partito fascista, priva di valore istituzionale, come
la “cabina di compensazione” prospettata due anni addietro dal
famigerato “Programma per il governo” sulla cui base nacque il Conte I,
con Cinque Stelle e Lega. Però con la legge 9 dicembre 1928, n. 2963 il
consesso venne “costituzionalizzato” e proclamato “organo supremo, che
coordina e integra tutte le attività del regime sorto dalla Rivoluzione
dell'ottobre 1922”, con “funzioni deliberative nei casi stabiliti dalla
legge”. Comprese i quadrumviri della leggendaria Marcia su Roma, i
segretari del PNF, i presidenti delle Camere, il comandante della
milizia volontaria per la sicurezza nazionale, il presidente del
Tribunale speciale per la difesa dello Stato, quello dell'Opera
nazionale Balilla e altri. Un numero cangiante, dunque. Anzi,
pletorico. Nel 1929 contò sedici membri a tempo illimitato e ben 29 “a
cagione delle loro funzioni”. Nel loro novero si contavano parecchi
massoni “in sonno”: Italo Balbo, Giuseppe Belluzzo, Roberto Farinacci,
Achille Starace e altri, desti a giorni alterni...Con alcuni poteri
deliberanti sul Partito e la facoltà di “esprimere pareri” su questioni
più importanti, benché immaginato come Terza Camera il Gran
Consiglio non fece mai nulla di veramente importante. Non per caso ne
manca una vera “storia”. La legge istitutiva stabilì anche che i suoi
membri non potevano essere arrestati né sottoposti a procedimento
penale senza autorizzazione del consesso medesimo. Ciò non impedì a
Vittorio Emanuele III di prendere le misure necessarie nei confronti
del Duce il 25 luglio 1943. Né fu di ostacolo, nel gennaio dell’anno
dopo, alla condanna a morte e alla fucilazione al poligono di Verona di
Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, e di altri componenti del Gran
Consiglio, colpevoli di aver messo Mussolini in minoranza. Giorgio
Alberto Chiurco scrisse cinque volumi sulla “Rivoluzione fascista”, che
era e rimase un orpello retorico. A inizio Novecento l'idea di Italia
prese corpo in alcuni edifici simbolici, come l'Altare della Patria e
il Palazzo di Giustizia (poi sede della Corte di Cassazione), istoriati
con gli emblemi della Romanità, ispirati all'Ara Pacis di Augusto, alle
Colonne di Traiano e di Antonino Pio, ai Fori imperiali...: nessun
cenno alla Roma dei Papi. Ma quanto avvenne nel 1922-1923 sfuggì ai
più. L'Almanacco della “Ragione” per il 1923 pubblicò in
copertina il fascio littorio sormontante la Cupola di San Pietro. I
suoi turiferari, liberi pensatori e militanti dell'associazione
Giordano Bruno, non avevano capito che ormai era tutto cambiato. La
“rivoluzione” di Mussolini si risolse in una ostensione. Oltre
a concedere “metalli” al Banco di Roma e a mettere al bando la
Massoneria (il cui spettro rimase il suo incubo), Mussolini imboccò la
via della Conciliazione, coronata l'11 febbraio 1929: il riconoscimento
dello Stato della Città del Vaticano, che fu opera anche di Pietro
Tacchi Venturi (1881-1956), dal 1922 protagonista influente sui
rapporti tra le due sponde del Tevere e tuttora in attesa di una
biografia esaustiva.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA:
Copertina dello spartito di “Il Commiato. Inno dei laureandi”, parole
di Nino Oxilia, musica di Giuseppe Blanc, 1909 (da Marco Albera e
Manlio Collino, Saecularia Sexta Album. Studenti dell'Università di
Torino, Elede, 2005).
L'ITALIA NON È IN GUERRA MA HA URGENZA DI UN GOVERNO VERO
Editoriale
di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della
Liguria” di domenica 8 Novembre 2020, pagg. 1 e 11.
Il governo s-mascherato Il
governo ha gettato la maschera. La infligge agli italiani, quando
ancora si permettono di parlare o persino di pensare. Tra un po' la
dovranno “indossare” anche nel sonno. Ma non è questo il solo obiettivo
del governo di Sua Emergenza Conte, Zingaretti e compagnia cantante. Il
suo intento ultimo è di imporre tappi negli orecchi e benda sugli
occhi. Al villan non far sapere, non far vedere e, soprattutto, non
farli parlare... Dopo la mascherina e la benda verrà la mordacchia.
Così gli italiani potranno essere rosolati come Giordano Bruno senza
che se ne odano gemiti e urla. L’esecutivo si è
s-mascherato con l'accordo di maggioranza per campare sino al 2023. Il
suo fine dichiarato è rimanere al potere sino alla scadenza naturale
della legislatura. Un traguardo lontanissimo. Le conseguenze sarebbero
devastanti. Vediamone alcune. Ho il Potere assoluto... In
primo luogo questo governo scalcinato, litigioso e inconcludente vuole
perpetuare il pieno controllo del Potere con tutti gli strumenti
ordinari e straordinari: decreti-legge, decreti del presidente del
consiglio dei ministri (screditati ma reiterati alla faccia di tutti i
costituzionalisti), richiesta di poteri speciali, imposizione del voto
di fiducia quando la maggioranza, sfarinata, è pericolante. Esso,
insomma, usa tutti i ben noti trucchi del mestiere. Per
reggere, questa coalizione, che esiste solo per esercitare il Potere,
ha bisogno che il paese stia in ginocchio, prono, chiuso in casa. Di lì
i tanti espedienti attivati da un mese a questa parte. Dopo aver
imposto il rinvio delle elezioni regionali e comunali e il loro
accorpamento al 20 settembre, l'Italia stava così bene (a detta del
governo) da permettersi di andare alle urne senza pericolo alcuno.
Conte ha fatto il 20 settembre quel che fecero Sánchez con la superflua
festa dell'8 marzo in Spagna e Macron col primo turno delle
amministrative in Francia: eventi acceleratori del contagio. Lo scorso
marzo si poteva concedere che anche i capi di governo e di stato
fossero un po' imprevidenti e persino fessi. Il 20 settembre no. Tanto
più che Conte Giuseppe e la sua beneamata Azzolina Lucia avevano
assicurato l'apertura delle Scuole il 14 precedente in piena sicurezza
(altra asinata, veduti i fatti e la realtà odierna). In
sintesi, questo governo – Cinque stelle, Democràt, Liberi/uguali e, va
detto, Italia Viva, che viene percepita come connivente – non ha solo
mancato di provvedere tra maggio e ottobre ma ha insistito negli errori
anche nell'autunno. Un giorno dopo l'altro. Improvvisando. Con l'acqua
alla gola. Rinviando. Promettendo. Polemizzando con le Regioni e i
Comuni, chiudendo gli occhi dinnanzi alla realtà. E adesso pretende di
rimanere in carica per altri due lunghissimi anni e mezzo... Permanendo
al Potere, questo governo, in combutta con Protezione civile e
Commissari vari, continuerà a nominare centinaia di esperti usa e
getta, ad allestire sontuose quanto inutili sfilate di perdigiorno
(come accadde a Villa Pamphili) senza alcun effetto pratico se non lo
sperpero di pubblico denaro (mica paga di tasca sua...). Vera e propria
distrazione di massa, a reti unificate e con il plauso di giornalisti
debitamente chiusi fuori, costretti a origliare e a scrivere articoli
del tutto inutili (e poi non ci si lamenti se i quotidiani perdono
copie). “Tagliati” e attovagliati Nel
frattempo la congrega al governo dilata a macchia d'olio il contagio
più pericoloso: attira gli insetti vaganti come carta moschicida.
Giorno dopo giorno invischia quanti si aggregano un po' per
convenienza, un po' per rassegnazione, un po' per cinismo e, quel che è
peggio, per tragica mancanza di alternativa a breve e medio termine.
Conta che le legittime proteste, represse in modi sempre più duri, si
spengano da sé. Così facendo questa sgangherata
coalizione governativa spera di far credere di essere maggioranza nel
Paese. Riesce a far dimenticare quello che oggi nessuno più ricorda. Il
20 settembre Beppe Grillo e quanti gli si sono accodati (Zingaretti,
etc. etc.) hanno ottenuto quel che volevano. Approvando il loro
“taglio” gli italiani hanno confermato che 330 parlamentari sono
in esubero. Per fare il loro mestiere bastano 200 senatori e 400
deputati. Il resto alle ortiche. È improponibile che queste Camere
rimangano in funzione sino al 2023. Sono stati i loro stessi membri a
sancirlo approvando la legge poi confermata dagli italiani con il
referendum. Tempo è venuto di trarne le conclusioni. Il varo della
legge che impone il taglio dei parlamentari vincola anche chi l’ha
firmata: il Capo dello Stato. Non solo. Tutti ricordano bene che nelle
settimane antecedenti il referendum Zingaretti implorava i suoi soci in
ditta, i Cinque Stelle, di varare un abbozzo di legge elettorale almeno
in una delle due Camere prima del 20 settembre. Sono passati due mesi
da quei piagnistei ma la riforma della legge elettorale è finita in un
cono d'ombra: per il semplice motivo che questa “maggioranza” (che
somma il favore del 35% degli italiani) non vuole andare alle urne, né
domani né mai. L'attuale composizione delle Camere non trova alcun
riscontro nei sondaggi sugli orientamenti politici degli italiani.
Sopravvive. Ma è un morto che cammina. Fino a quando? “Tagliata” da se
stessa, si “attovaglia” ogni giorno di più. Solo quando gliel'hanno
detto il presidente Fico ha fatto sbarazzare alla svelta la “mensa” di
Montecitorio. La legislatura è nata nel peggiore dei modi.
Dal suo esordio, nel 2018, non sono passati neppure tre anni,
tumultuosi. Azzannati alla gola dalla pandemia, scoperto che, malgrado
le pacchiane dichiarazioni di Conte, Borrelli, ecc. ecc., il governo
non era affatto pronto a febbraio-marzo e ha fatto pochissimo tra
maggio e ottobre, gli italiani hanno perso memoria di come iniziò
questa drammatica avventura. In allora qualcuno, smarrito il senno,
minacciò persino di incriminare il presidente della Repubblica.
Dopo quasi due mesi venne varata una maggioranza sulla base di un
“contratto di governo” dai contenuti incostituzionali. “In alto” si
finse di non vedere. Fu un errore. Quel “contratto” rimane agli atti.
Poi venne Dieci mesi la sbandata dell'agosto 2019 e una soluzione
manifestamente provvisoria. Ma all'italiana, dove il provvisorio dura,
come i tetti di amianto che nessuno si scrolla di dosso perché non è
possibile convocare le assemblee di condominio che dovrebbero
deliberarne la rimozione. Questa è l'Italia: un garbuglio
di reati, omissioni e di abusi di potere. L'Italia del Conte I, del
Conte II, di maggioranze raffazzonate tra partiti dichiaratemente
nemici. Ma quale mai “unità”? E il MES? Sic
stantibus rebus gli appelli all'“unità” sono aria fritta. La decisione
dell’attuale maggioranza di tirare a campare sino al 2023 ha calato la
saracinesca sul “volemose bene”. O di qui, o di là. Nulla sarebbe, se
non fosse che le conseguenze dell'inettitudine del governo attuale e,
per ricaduta, di tante amministrazioni regionali e comunali (le
province sono fantasmi) colpiscono tragicamente i cittadini, a
cominciare dal blocco dei ricoveri e degli interventi (a volte anche
urgentissimi) per chi non è in lista di attesa come contagiato
covid-19: uno status che è ormai macabra “assicurazione all'assistenza”
(persino domiciliare) nell'Italia odierna. Questa è
l'Italia che non ha chiesto e non chiede il MES per non far frinire i
grilli. È l'Italia che “fa da sé” e aspetta chissà quale miracoloso
“ricostituente europeo” tra uno o due anni e nel frattempo soffoca la
produzione, promette risarcimenti (“ristori” è un termine davvero
sciocco) e nel frattempo sfora, sfora, sfora e indebita le generazioni
venture. Come stupirsi che il 35% di giovani non studia e non lavora?
Attende la manna dal cielo. Esattamente come fanno il governo e i
parlamentari che lo sorreggono (che però la manna se la garantiscono
sin che restano in carica, sia pure decurtata del pizzo dovuto ai
rispettivi “capi bastone”). Se questo Parlamento di 330
componenti “in esubero” rimanesse in carica fino al 2023, esso
eleggerebbe un Capo dello Stato screditato e indebolito ab origine dal
voto di Camere non più rappresentative del Paese. L'Italia l'è malata , ma non è in guerra... Per
allontanare il redde rationem da settimane il governo (e non esso solo,
purtroppo) dice che il Paese è “in guerra”. Piano con le parole e basta
con le metafore su tunnel, treni in corsa e chissà quali altre
astruserie da poetucoli ginnasiali. San Tommaso d'Aquino insegnò che
alle parole corrispondono “cose”. Vico aggiunse: verum et factum
conventurtur. Orbene, l'Italia non è affatto “in guerra”. La guerra è
una realtà giuridica e fattuale ben precisa. Come la maggior parte dei
paesi del pianeta, l'Italia è alle prese con una forma di “influenza”
più grave di altre precedenti. Ma non è “in guerra”. Alcuni Stati hanno
adottato certi rimedi; taluni ne hanno scelti altri. Il governo
italiano non ha adottato nessuna strategia. Vive di espedienti. Il
covid-19 non ci ha dichiarato guerra. Circola, qui come in tutti i
continenti. Dire che siamo sotto attacco nemico è un espediente è
furbesco. Crea allarme, semina il panico, ma non risolve nulla. Cerca
d’imporre sottomissione. Ma a chi? Al batterio? O, più prosaicamente,
chi “governa” chiede all'opposizione di smettere di disturbare il
manovratore e ai cittadini di stare a casa, fare due passi nell'“ora
d'aria” e aspettare Natale (anche “senza denari”...)? Fingiamo
per un momento di prendere sul serio quel che tanti predicano dall'alto
dei Palazzi. Che cosa se ne dovrebbe dedurre? Secondo chi usa la
retorica bellicistica in guerra non si può mettere in discussione
l’esecutivo. Sarebbe immorale, un tradimento della patria: quando
Annibale è alle porte bisogna sacrificarsi (altro termine retorico
abusato dalla narrazione sulla pandemia). Credere, obbedire,
combattere. Una vecchia solfa. A chi la racconta, chiunque sia e da
qualunque Colle lo faccia, è bene allora ricordare la storia delle
guerre fatte dall'Italia nei suoi ormai lunghi 160 anni dall'Unità. Obtorto
collo, il 20-21 maggio 1915 le Camere votarono l'intervento dell'Italia
contro l'impero austro-ungarico. A parte il Re, il presidente del
Consiglio, Antonio Salandra, il ministro degli Esteri, Sonnino, e
l'ambasciatore che il 26 aprile 1915 aveva firmato a Londra l’accordo
segreto, né i ministri né i parlamentari né i cittadini sapevano a
quali condizioni l'Italia scendeva in guerra. Lo appresero quando i
bolschevichi di Lenin irruppero nel Palazzo d'Inverno, trovarono nella
cassaforte il testo e lo pubblicarono. Per molte settimane i giornali
italiani tacquero, perché alcune condizioni erano francamente
imbarazzanti, a cominciare dall'esclusione della Santa Sede dal futuro
congresso di pace. La stragrande maggioranza dei
parlamentari era contraria all'intervento. I cittadini non vennero
presi in alcuna considerazione. Le piazze erano piene di sedicenti
interventisti, spesso ragazzotti spinti da insegnanti che ripetevano a
memoria Carducci ma nulla sapevano di capitale finanziario, grande
industria, strategia militare e lotta per il controllo delle risorse.
Sulla scienza prevalse la chiacchiera. Nei caffè e nei “circoli
dell'unione” una miriade di vaniloquenti dissertavano su come l'Italia
in un battibaleno sarebbe arrivata a Lubiana, Zagabria, Vienna e poi
chissà sino dove. Un po' come poi accadde nel 1941-1942 quando tanti
armigeri sognarono di arrivare come niente fosse dalla pianura
sarmatica a Vladivostok. E adesso siamo qua. In guerra?
Contro chi? Dov’è il nemico? Sopra o sotto le scarpe e i panni? Entro o
fuori le mascherine? Lungo le dita o sotto le unghie laccate ma non
sempre nettate? In interiore homine (e anche in faemina) habitat virus,
come ovunque... In assenza di rimedi veri (il vaccino? quando? per
quanti?) e nel frastuono di virologi, epidemiologi, clinici più o meno
attendibili, comitati vari e ministri speranzosi, stiamo come in
trincea: imbavagliarsi, lavarsi le mani (e non solo), stare a distanza
dall'alito altrui e… fare gli scongiuri. Il governo che perde la guerra se ne va Quel
Parlamento del 1915, la cui storia va ricordata quale effettivamente
fu, subì, trangugiò e attese il suo giorno. In pochi mesi capì di aver
preso una cantonata spaventosa. Per fare la guerra occorrono strategia,
uomini e armi. Il Comandante Supremo aveva il piano ma mancava di
ufficiali, sottufficiali, truppe e, peggio ancora, di artiglieria,
fucili, munizioni, magazzini, vestiti per l'inverno; e, ciò che più
conta, non aveva il consenso del Paese. Il ministro della Guerra,
Domenico Grandi, lo aveva avvertito sin dal 1914. Perciò venne
silurato. Nel giugno 1916, all'indomani dell'offensiva austro-ungarica
di primavera la Camera sfiduciò Antonio Salandra che aveva voluto
l'intervento in odio contro Giolitti e nell'illusione di “passare alla
storia”. Finì in un ripostiglio. Gli subentrò Paolo Boselli, decano
della Camera, a capo di una coalizione variegata, comprendente anche ex
neutralisti. Ma anche lui ebbe i giorni contati. Venne sfiduciato il 25
ottobre 1917, il giorno dopo l'inizio dell'offensiva austro-germanica
sull'Isonzo, di cui a Roma nessuno sapeva ancora niente. Il nuovo
governo, presieduto da Vittorio Emanuele Orlando, ebbe il benestare di
Giolitti, che parlò alla Camera invitando all'unità vera. Il socialista
Filippo Turati disse che anche per il suo partito la Patria era sul
Piave. Quello fu un barlume di unione nazionale. Non questa di
Conte-Zingaretti e Leu, che dall'opposizione pretendono silenzio e
carta bianca. I governi che in guerra non funzionano o che la perdono vanno sostituiti, come accadde anche il 25 luglio 1943. In
attesa che la storia sia magistra vitae, constatiamo che l'Italia ha
bisogno di un esecutivo vero, all'altezza dell'emergenza e di quanto
verrà a breve: l'impoverimento di massa e il collasso del sistema
sanitario, anche per cocciuto rifiuto di un prestito di portata modesta
qual è il MES, che avrebbe giovato a rimetterlo in sesto. È stato
approntato un progetto per chiederlo? O esso giace in qualche
misterioso cassetto, come l'accordo di Londra del 1915 e i verbali del
Comitato tecnico scientifico troppo a lungo secretati? Aria,
luce, pulizia. Chiarezza e trasparenza. Stanco di predicozzi, il Paese
ha diritto di essere informato e di decidere il proprio futuro. Non c'è
altra via: elezioni prima possibile di una nuova Costituente.
Aldo A. Mola
MESSE NERO? ORRORE! L'ULTIMO MARESCIALLO D'ITALIA FU MONARCHICO, MASSONE E ANTICOMUNISTA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 1 Novembre 2020, pagg. 1 e 11.
Messe sull'Appia... Mesagne
è una cittadina tranquilla del “tacco d'Italia”, tappa dell'ultimo
tratto della Via Appia che, sin dall'antica Roma, da Taranto conduce a
Grottaglie, Francavilla e approda a Brindisi, “valigia delle Indie”.
Terra di Messapi (lo documenta lo splendido museo archeologico nel
Castello eretto nel Cinquecento da Orsini Del Balzo, principe di
Taranto), fu per secoli transito di Cavalieri Templari e, con Federico
II Staufen, presidio di quelli Teutonici. La popolazione, usa alla
cucina mediterranea (cozze, polpi, agnelli, uova, fave, farine...) e a
vini eccellenti, ha visto passare la storia a occhio asciutto. Nel 1861
aveva 7.000 abitanti. Ora ne conta 27.000, una ventina di chiese, un
santuario, alberghi confortevoli e le sue risorse vere: il clima
temperato dalle brezze marine, un giorno di nebbia l'anno, 15 di
pioggia e il rispetto del proprio passato. Vent'anni fa il Comune
ricordò con un convegno di studi il concittadino più famoso, Giovanni
Messe, ultimo Maresciallo d'Italia (Mesagne, 10 dicembre 1883 – Roma,
12 dicembre 1968). Lo storico Paolo Crociani ne ha scritto
un accurato ed equilibrato profilo per il Dizionario biografico degli
italiani. Nel 2006 l'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito
pubblicò l'opera di Luigi Emilio Longo, Giovanni Messe. L'ultimo
Maresciallo d'Italia (pp. 663), frutto dell'esplorazione del vasto
fondo documentario poco prima approdato all'Archivio dell'US-SME,
completo di cimeli. Scuola elementare obbligatoria e gratuita e “sacro dovere del cittadino” Lo
scorso 10 ottobre, nel Convegno di studi su “Il lungo regno di Vittorio
Emanuele IIII. Gli anni delle tempeste (1938-1946)”, organizzato a
Vicoforte dall’Associazione di Studi Storici intitolata a Giolitti in
collaborazione con enti e istituti, come il Comando Militare Esercito
Piemonte, gli ex Allievi della Nunziatella e la Consulta dei senatori
del regno, il generale Antonio Zerrillo, di stirpe sannitica, ha svolto
la brillante e inappuntabile Relazione su Il Maresciallo Giovanni Messe
e la riscossa del Regio Esercito Italiano. Nelle conclusioni ha
ricordato il monumento da decenni decretato al Maresciallo dal Comune
nativo, ma mai ultimato. Appassionato di storia, per anni il generale
Zerrillo ha promosso convegni, mostre e riti memoriali dell'Italia
nella Grande Guerra (1915-1918), sulla scia delle iniziative promosse
nel 150° della proclamazione del Regno d'Italia (2011) che vide le
Forze Armate in prima linea nel recupero della memoria, quando ancora
molti straparlavano di autonomie, separazioni, persino di secessione, e
strizzavano l'occhio a indipendentisti catalani e ad altre minoranze
visionarie, attardate ai margini della storia. Oggi sono ormai “agli
atti” i collegamenti tra l'ETA, l'IRA e Stati che miravano alla
destabilizzazione dell'Europa. In tante occasioni, tra 150°
del Regno d'Italia con Vittorio Emanuele II sovrano costituzionale e
centenario della Grande Guerra, furono evidenziati i due pilastri
fondamentali dell'unità nazionale: la scuola obbligatoria e gratuita e
il servizio militare, altrettanto obbligatorio. Lo ribadirono i
Costituenti (con l'astensione di Aldo Moro e Benigno Zaccagnini) e
molto ne scrisse Oreste Bovio, generale di corpo d'armata e già capo
dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito. Il ricordo del
ruolo svolto dal servizio militare nell'unione effettiva della nazione
era ed è ancor più importante da quando esso è sostituito con quello
“civile”, talora tiepido nei confronti dello Stato, che si eleva al di
sopra di ogni fazione e sintetizza gli interessi generali permanenti
dei cittadini. Lo si riscopre oggi dinnanzi a un'epidemia comunque
transitoria. Bisognerebbe averlo chiaro guardando oltre i confini
politici, in una visione matura dell'Europa centro-occidentale e del
Mediterraneo, il cui versante settentrionale è sempre sempre più “a
rischio” per la miopia di una “dirigenza” abborracciata, priva di
cultura storica, ripiegata sulla quotidianità e sul proprio
“particulare”: rinviare per stare, motore immobile come Dio per
Aristotele. Da Mesagne a San Vito dei Normanni Per
chissà quale congiunzione astrale, proprio mentre Zerrillo illustrava a
Vicoforte la figura di Messe, a Mesagne si accese un faro sulla sorte
del busto del Maresciallo, da anni pronto per essere collocato
all'aperto quale “Memoria” e monito della complessa storia d'Italia. Ma
chi fu Giovanni Messe? Umili genere natus (quinto degli undici figli di
Oronzo, muratore, e di Filomena Argentieri), ancor prima di completare
la scuola elementare andò garzone. Si arruolò diciottenne in un plotone
allievi sergenti di fanteria. Solo chi ci è passato sa come erano le
caserme dell'epoca e quale fosse la vita dei coscritti. Bisognava
anzitutto insegnare ad “andare al passo”, a stare in fila e a
imbracciare l'arma a giovani dai corpi allenati alla fatica ma privi
dei rudimenti dell'educazione fisica, premessa indispensabile della
vita, che è disciplina (non solo quella militare). Per
virtù sua e perché la Terza Italia dal 1860 in poi promosse l'ascesa
sociale dei cittadini come mai era avvenuto prima, né purtroppo accade
da decenni di caricatura della democrazia (“uno vale uno” è la
negazione dell'endiade merito/gerarchia), Messe percorse una carriera
straordinaria, sino al grado di Maresciallo d'Italia, conferitogli il
12 maggio 1943 al termine della tetragona resistenza in Tunisia contro
gli inglesi mentre gli americani erano già vittoriosi sui tedeschi.
Messe aveva alle spalle vent'anni quasi ininterrotti di guerra: da
quella del 1911-1912 contro i turchi per la sovranità dell'Italia su
Tripolitania e Cirenaica al fronte dell'Isonzo, ove, a richiesta,
giunse dalla Libia nel gennaio 1917. Pluridecorato, ferito, tornato in
linea dopo Caporetto tra gli Arditi, egli meritò una medaglia d'oro al
valor militare per il suo reparto e una d'argento per sé, accompagnata
dalla croce di cavaliere dell'Ordine militare di Savoia. Il
15 aprile 1923 Vittorio Emanuele III lo volle aiutante di campo. Messe
lo rimase per quattro anni. Comandante del presidio militare di Zara
(1929), generale di brigata in Eritrea (1936), generale di divisione
nell'occupazione dell'Albania (1939), nella guerra contro la Grecia
(ottobre 1940) ebbe il comando del corpo di armata “speciale” poi
assegnato all'occupazione di Atene. Nel 1941 comandò il Corpo
spedizione italiana in Russia (CSIR), poco e male preparato dal governo
Mussolini, corrivo alla retorica degli “otto milioni di baionette”, del
“tanti nemici, tanto onore” ma incapace di coniugare ambizioni
bellicose con preparazione scientifica, industriale ed economica,
presupposti della produzione di guerra, e di una visione strategica del
conflitto, come ha efficacemente spiegato il colonnello Carlo Cadorna
al convegno di Vicoforte. Nominato generale d'armata al
rientro dalla Russia, pluridecorato dal re e apprezzato dai tedeschi,
che gli conferirono la croce di ferro di prima classe, nel gennaio 1943
Messe fu assegnato al comando della 1^ armata in Tunisia contro
l'avanzata degli inglesi, ormai padroni della Libia. Si condusse al di
sopra di ogni elogio, sino alla resa forzata e alla nomina a
Maresciallo d'Italia. Fatto prigioniero, fu tradotto in Gran Bretagna.
Mai colluso con il regime di partito unico, era il militare espressione
della nazione italiana in armi. Perciò dopo il
trasferimento da Roma a Brindisi, all'indomani dell’annuncio
dell'armistizio e del caos che ne seguì anche per la distribuzione del
grosso dei militari al di fuori dei confini nazionali (Jugoslavia,
Grecia, Provenza...), su indicazione di Vittorio Emanuele III il nuovo
capo del governo, Pietro Badoglio, ne chiese il rilascio dalla
prigionia e il rientro in patria. Anziché semplice ispettore generale,
come ventilato dal Duca di Addis Abeba, per intervento del re il 18
novembre 1943 Messe fu nominato Capo di Stato Maggiore Generale. Da San
Vito dei Normanni, due passi dalla nativa Mesagne, si dedicò con
successo alla riorganizzazione dell'Esercito: dal Raggruppamento
motorizzato al Corpo italiano di liberazione e ai Gruppi di
combattimento, mentre il governo era sempre più assillato e lacerato
dalla contesa tra i partiti, quattro su cinque nettamente contrari alla
monarchia. Rimosso dalla carica il 1°maggio 1945, Messe
guardò con preoccupazione alla politicizzazione della polizia (nella
quale vennero immessi molti partigiani militanti di partito, in specie
ex “garibaldini”) e fu tra quanti tennero viva la rete di contatti di
antichi e fidi patrioti, allarmati dall'attivismo di chi attizzava
proteste, scioperi e insorgenze (come a Santa Libera) in vista di un
evento rivoluzionario da coronare con l'irruzione dell'Armata Rossa,
chiamata a imporre il nuovo “ordine sociale” dettato da Stalin
nell'Europa orientale: rullo compressore completo di stragi e violenze
di massa spesso paragonabili a quelle perpetrate dalle armate
hitleriane. Come emerge da una documentazione imponente e
inconfutabile, anche in Italia molti “rossi” miravano all'annientamento
della “borghesia”, come di monarchici, liberali e “idealisti”, spesso
poveri in canna ma sempre fedeli all'idea di Patria, che non è “a
noleggio”, né un’etichetta di “movimenti”. Un “busto” in ombra: fino a quando? D'improvviso,
la figura e l'opera del Maresciallo vengono ora poste in discussione
sulla base di alcune carte pubblicate da Mario J. Cereghino e Giovanni
Fasanella in Le menti del doppio Stato (ed. Chiarelettere). Anziché
vagliarne l'attendibilità e contestualizzarne generi e contenuti,
talune associazioni che si ergono a depositarie della Verità si sono
affrettate a trarne pretesto per demonizzare Messe quale stratega
occulto della tanto celebre quanto leggendaria FODRIA (acronimo di
Forze Oscure della Reazione in Agguato, brillante invenzione di
Guareschi). Eppure proprio Cereghino e Fasanella (con la benedicente
prefazione di Giuseppe Vacca, già direttore dell'Istituto Gramsci)
argomentano e concludono che Churchill e Stalin non volevano affatto
un'Europa democratica ma intendevano spartirsela in zone d'influenza,
tagliando fuori gli Stati Uniti d'America. Per il futuro dell'Italia
Stalin non puntava sull'accomodante Palmiro Togliatti ma su Pietro
Secchia, Luigi Longo e Vittorio Vidali: insomma sull'“ala militare” del
Partito comunista d'Italia, che “il Migliore” cercò di trasformare in
Partito nuovo, caleidoscopico proprio perché “di massa”. Puntava alla
convivenza con i cattolici per liquidare gli antefascisti (liberali,
demosociali, radicali...) e anche molti antifascisti, come Randolfo
Pacciardi, sino all'“ala destra” del Partito d'azione, guidata da Ugo
La Malfa e Ferruccio Parri. Togliatti contava sulla tacita intesa con
il democristiano Alcide De Gasperi che agognava a rastrellare i voti
dei monarchici, dopo averli resi orfani del Re. Chi, come Messe, vi si
oppose difendendo lo Stato sorto dal Risorgimento e dall'unificazione
nazionale va cancellato dalla memoria? Naturalmente su di lui, come su
Edgardo Sogno e altri, si accumularono tante “informative”, che valgono
come quelle dell'Ovra: vanno lette con beneficio d'inventario e
“decrittate”, non prese per oro colato. Ridotto all'osso,
il “caso Messe”, ora strumentalmente aperto da alcuni facinorosi della
memoria, è tutto lì: monarchico, liberale e cattolico, nel dopoguerra
egli fu eletto senatore sotto l'insegna della Democrazia Cristiana
(1953: come il generale Raffaele Cadorna, già Capo del Corpo Volontari
della Liberazione), poi deputato nelle file del Partito monarchico
popolare (primo dei non eletti nel 1958 entrò a Montecitorio nel 1961)
e infine in quelle del Partito liberale italiano (1963-1968). Messe
ebbe dunque i voti di democristiani, monarchici e liberali negli anni
da De Gasperi ad Aldo Moro, dei liberali da Luigi Einaudi a Giovanni
Malagodi e, aggiungiamo, dei socialdemocratici da Giuseppe Saragat ad
Antonio Cariglia. Costoro furono tutti golpisti o collusi con il
leggendario “doppio Stato”? Per essere oggi degni di
ricordo pubblico è proprio necessario aver avuto la tessera del Partito
comunista d'Italia e dei suoi succedanei o averlo fiancheggiato o,
almeno, non averlo avversato? La questione posta da chi vuol dipingere
un “Messe Nero” anziché un patriota insigne, quale egli fu, non è “di
parte” ma storiografica. Chi nel 1943-1946 si schierò per la
conservazione della forma monarchica dello Stato è soggetto alla
perpetua damnatio memoriae? E chi oggi ha diritto di pronunciarla? Non
solo. Poiché nel citato libro Cereghino e Fasanella prospettano
l'appartenenza alla massoneria quale indizio di collusione con le trame
più oscure, ricordiamo che il 3 giugno 1919 il tenente colonnello
Giovanni Messe, comandante del IX Reparto d'Assalto degli Arditi,
antico apprendista muratore, venne iniziato massone nella Loggia
“Michelangelo” di Firenze, con diploma ne varietur n. 53.738. Se essere
massoni e fedeli alla Corona è un demerito, allora non solo va
oscurato il busto di Messe ma vanno allora demoliti tutti i monumenti
di Giuseppe Garibaldi. L'Eroe per antonomasia indossò la divisa di
generale dell'Armata Sarda, per insegna ebbe “Italia e Vittorio
Emanuele”, fu acclamato Primo massone d'Italia e venne eletto gran
maestro effettivo del Grande Oriente nell'estate 1864. Prima
di inventare un “Messe Nero” è bene studiare e capire la storia
d'Italia e magari ricordare che nel 1948 il Fronte Popolare
socialcomunista (Togliatti-Nenni) assunse per insegna proprio
Garibaldi...
Aldo A. Mola
DIDASCALIA:
Il generale Antonio Zerrillo rievoca il Maresciallo Giovanni
Messe al convegno di Vicoforte presieduto dal segretario della
Consulta, Gianni Stefano Cuttica.
LUCE IN FONDO AL TUNNEL? SOLO CON ELEZIONI POLITICHE E COSTITUENTE
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 25 Ottobre 2020, pagg. 1 e 11.
Cambiare passo? Cambiare governo C'è
una luce in fondo al tunnel? Il guaio dell'Italia odierna non è la
pandemia. Come previsto da tutte le persone di medio buon senso, questa
galoppa per la manifesta inadeguatezza del governo e delle
amministrazioni pubbliche nel predisporre le misure atte a contenerne
gli effetti, sia sanitari sia socio-economici. Si dirà: accade anche
all'estero. Infatti. Avviene nella Gran Bretagna di Baby Johnson, nella
Spagna di Sánchez-Iglesias, nella Francia di Macron e Brigitte, nel
regno dei Belgi e altrove, a conferma che la pochezza politica non ha
confini. Perché è accaduto? Perché i partiti di governo, tutti, si sono
occupati e si occupano di se stessi e perché le opposizioni, tutte, non
hanno una visione unitaria alternativa. Oggi Zingaretti dice che il
governo deve cambiare passo. È socio in ditta da un anno e mezzo. Lo
scopre adesso? In realtà l'Italia deve cambiare governo. Però la
responsabilità del tracollo incombente ricade anche su parte
dell'opposizione. In primo luogo perché, lasciata ai margini di tutte
le decisioni governative, essa subisce trattamenti irridenti senza
reagire nei modi dovuti. Inoltre perché su temi non “di immagine” ma di
sostanza, come la richiesta del MES, fermamente voluta da Forza Italia,
ha sostenuto le stesse posizioni dei partiti di governo, a eccezione di
Italia Viva. Molti “movimenti” non hanno ancora capito da che parte
stare: se in Italia, in Europa, in Cina, in Russia o chissà dove.
Domina la confusione, a tutto vantaggio di chi è al governo e farà di
tutto per rimanerci, com’è ovvio da sempre, non solo da noi ma in tutti
Paesi del pianeta, sia democratici, sia totalitari. L'imbonitore L'Italia
non è un paese di santi, poeti navigatori. È la patria degli
imbonitori. Che cosa fa il predicatore? Sale sul pulpito avvolto nei
drappi rituali. Guata gli astanti. Li palpa a occhio, ne percepisce gli
umori e li circonviene con fluida loquela. È quanto fa da anni il
professore avvocato Giuseppe Conte, uso agli artifizi della retorica
forense: umile quando era guardato a vista da Salvini e di Maio,
tracotante ora. Ma entro pochi giorni il contagio imporrà la resa dei
conti. Ognuno dovrà assumere la propria responsabilità non “di fronte
alla storia”, come di sé pretese l'Avvoltoio Appulo rinviando il
giudizio ai secoli venturi, ma sotto l'incalzare di un Paese stufo di
sermoni, consigli paterni, buffetti sulle gote. Si
obietterà: ma non ci sono state elezioni regionali, comunali e persino,
in alcuni collegi, parlamentari? Sì, certo. Hanno segnato la disfatta
del Movimento Cinque Stelle, cioè del partito che è al governo dal
maggio 2018. Hanno registrato una modesta avanzata dell'opposizione (la
conquista delle Marche) e la “tenuta” del Partito democratico (fermo al
20%) con due presidenti impresentabili al di fuori delle loro regioni:
Emiliano in Puglia e De Luca in Campania. Tolti da lì, nessuno li
voterebbe. È una delle tante anomalie del regionalismo all'italiana.
Non ha promosso la democrazia rappresentativa ma il “rassismo” del
Ventennio fascista, quando Mussolini tollerava che Farinacci dominasse
a Cremona a patto che non sognasse di andare oltre e si fidava di
Alberto Beneduce, ateo, socialista, massone, pragmatico, più che dei
fanatici del “libro e moschetto”. La verruca di Renzo Tramaglino e i nuovi collegi elettorali Dove
dunque s'intravvede una pur fioca luce in fondo al vero tunnel nel
quale è infilata l'Italia? Per coglierla bisogna guardare al di là
dell'emergenza sanitaria. Questa va affrontata chiedendo subito il MES
e poi usandolo come Europa comanda per mettere in sesto il sistema
sanitario nazionale manifestamente al collasso. Sul suo vero
funzionamento ricordiamo il beffardo commento di Alessandro Manzoni
alle spalle di Lorenzo Tramaglino, da lui inventato quale protagonista
dei Promessi Sposi: “Brutta cosa è nascere povero, Renzo mio”. Una
frasetta che vale cento volte più dei capitoli su nascita, diffusione e
conseguenze della “peste”, in primavera raccomandati da retori implumi
a giovani e meno giovani. Già, perché chi non ha soldi o santi in
paradiso, come non li aveva “Renzo”, oggi non trova chi gli curi la
“verruca”, ovunque l'abbia. La crisi vera investe le
istituzioni dello Stato d'Italia. Oggi rappresentano o no sessanta
milioni di cittadini? Scherzando, ridendo e facendo le tre, il
Parlamento approvò a straboccante maggioranza la propria evirazione.
Disse coram populo che, così come era, 630 deputati e 315 senatori, non
era proprio del tutto superfluo; però per un terzo era in esubero. Già
aveva approvato che i suoi ex componenti non meritavano le pensioni, a
volte unica loro fonte di sostentamento dopo una vita spesa a far
comizi nell'illusione che la politica sia militanza, contatto personale
quotidiano tra eletti ed elettori. Con il referendum confermativo del
20 settembre 2020, il famoso “taglio” è divenuto definitivo. Il Capo
dello Stato Sergio Mattarella ha pertanto firmato la legge che riduce a
400 deputati e 200 senatori i rappresentanti del popolo sovrano, con
conseguente necessità di riconfigurare le circoscrizioni elettorali
entro sessanta giorni. Anche se i più non lo sanno e a
molti poco importa, questo è un passaggio nevralgico dell'Italia
ventura. La legge 27 maggio 2019, n. 51 (approvata il 13 precedente)
affida al governo di disegnare i collegi. Secondo la legge elettorale
vigente vi sono italiani più italiani degli altri: quelli della Valle
d'Aosta, del Trentino e del Molise. Non solo hanno più benefici
economici (come le regioni a statuto speciale, ormai del tutto
anacronistiche: è il caso della Sicilia), ma anche più diritti
politici: un numero precostituito di rappresentanti, a prescindere da
quello degli abitanti. A volte “a noleggio”. In Inghilterra li
chiamavano “borghi putridi”. Ne hanno beneficiato in tanti, catapultati
anche dalla Toscana... Se, come e quando avverrà (comunque,
è da credere, nei tempi dettati dalla legge), la configurazione dei
collegi non sarà affatto una passeggiata perché, dati alla mano, è
possibile prevederne le ripercussioni. Ogni senatore rappresenterà
302.000 abitanti anziché i 188.000 attuali. Vi sarà un deputato ogni
151.000 cittadini contro i 96.000 attuali. Come da tempo previsto
parecchie province rimarranno prive di rappresentanti in Parlamento. E
poiché i loro consess originari, i consigli provinciali, ormai sono
politicamente irrilevanti, decadranno a periferie afasiche. Senatori e
deputati saranno espressione di coalizioni che ne decideranno i nomi e
li imporranno agli elettori. Esattamente come avvenne dopo la legge
ideata da Alfredo Rocco e approvata nel 1928. Essa fissò in 400 i
membri della Camera e affidò al Gran Consiglio del Fascismo il compito
di stilarne l'elenco, da proporre agli italiani: prendere o rifiutare
in blocco. Nelle elezioni venture anziché uno solo a decidere le liste
saranno tre o quattro “Piccoli Consigli”, ma l'esito finale sarà
analogo: gli elettori dovranno accettare o rifiutare “nomi”
preselezionati dai partiti. Aumenterà il numero delle astensioni dal
voto: non per diserzione ma per disgusto. Ed è proprio questo uno degli
scopi di tanta parte della “dirigenza” attuale, il cui motto è: “State
a casa, al resto pensiamo noi”. “El virus pasa...” Merita
dunque annotare i giorni che passano in attesa che i collegi elettorali
vengano ridisegnati. Da quel momento non vi sarà alcun ostacolo al
rinnovo delle Camere, con la scalcagnata legge vigente o con un'altra,
varata alla svelta dai Moribondi del Parlamento oggi in carica. Colto
per tempo il vento, l'Avvoltoio Appulo si è affrettato a proporre il
“patto di legislatura”: cioè a blindare la sua stucchevole permanenza a
capo dell'Esecutivo, nella speranziella di essere eletto presidente
della Repubblica, garante ad vitam della maggioranza attuale “salvo
intese”, clausola da “paglietta” non da statista. Gli va ricordato
Giovanni Evangelista: “Il vento soffia dove vuole...”. La
bolsa retorica di Conte, Speranza, Zingaretti e compagnia cantante
ripete che siamo in guerra e che pertanto vanno adottate misure
conseguenti, a cominciare dal “coprifuoco”. In aggiunta andrebbe
suonato l'allarme aereo ogni mezz'ora per avvertire che “El virus
pasa”. Così i cittadini ricorderanno di lavarsi le mani (prima e dopo i
pasti, prima e dopo…altro), “indossare” la mascherina (dicono proprio
“indossare”, come fosse una giacca o un cappotto e avessero la schiena
al posto della faccia) e tenere le distanze “sociali”, ripetendo con
Manzoni “nel mezzo, vile meccanico” quando incrociano un Elkan. In
attesa che l'esplosione del contagio, prevedibile da mesi, imponga di
passare dai sermoni alle misure omesse da marzo a oggi, ricordiamo le
manifestazioni più clamorose del fallimento del governo attuale. La
scuola. La scuola è stata chiusa a marzo. Scolari e studenti sono stati
automaticamente promossi all'anno successivo senza alcuna verifica
della loro formazione. Dopo poche settimane di lezioni a strappi, ora
si chiude in tutto o in parte e si ricorre alla famigerata didattica a
distanza, negazione della scuola, che è “ecclesia”, dialogo
comunitario. Eppure si sa bene che internet funziona solo nelle aree
dove rende ai gestori. Siamo dunque alla discriminazione consapevole e
premeditata delle aree disagiate per cause geofisiche e sociali. Stiamo
precipitando nel passato remoto e, attenzione, si riapre la “questione
meridionale” con isterismi promossi da governatori isolazionisti e
secessionisti più di quanto suo tempo sia stato Umberto Bossi. Questo è
lo Stato d'Italia oggi, Italy to-day. Le regole
dell'emergenza. Sulla scia di giureconsulti illustri come Sabino
Cassese, Cesare Maffi in “ItaliaOggi” ricorda che l'autocertificazione
“nazionale” richiesta ai cittadini colti a vagare in ore proibite ( “a
mezzanotte va la ronda del piacere...”) costituisce un auto-accusazione
di falso perché esige che il “pastore errante” si dichiari informato
della normativa vigente sui vincoli imposti da decine di decreti del
presidente del consiglio di ministri, da qualche decreto-legge
convertito in legge e da un profluvio di ordinanze di ministri, a volte
soli a volte male accompagnati (per esempio Speranza e Lamorgese), da
presidenti regionali, sindaci e via continuando: un caleidoscopico
groviglio di norme nelle quali è davvero impossibile raccapezzarsi e
capire ciò che distingue il “molto raccomandato” dall’“ordinato”, il
consigliato dall'imposto, quanto è soggetto a richiamo verbale da ciò
che è colpito da sanzione amministrativa o addirittura penale. Tutti
ricordano quanto ci volle a chiarire che cosa volesse dire “congiunti”.
Finì che per tali non si intendono parenti sino al tale grado o i
coniugi (che sono affini), ma anche quanti hanno affetti stabili,
vuoi per piacere, vuoi per tornaconto, proprio come gli “affini”. Farsi
le scarpe. Lo Stato più detta norme, più annaspa. Più emana
disposizioni inapplicabili, più spinge all'inadempienza e si scredita.
È il caso, davvero comico, del diritto all'ospitalità ora concessa da
Sua Emergenza Conte a chi voglia accogliere in casa altre persone. Non
è precisato se la famiglia ospitante sia di due, cinque o dieci persone
e se disponga di una abitazione di 60 o 300 metri quadrati con
giardino, piscina e maneggio. L'importante è che i sopravvenienti non
siano più di sei e che lascino le scarpe sulla soglia, come dovessero
entrare in una moschea. La nuova normativa non dice se gli ospitanti
debbano fornire calzari usa e getta o da sanificare alla partenza degli
intrusi e chi debba vegliare su scarpe, stivali, infradito lasciati
fuori casa (strada? pianerottolo?...). Libera circolazione in libero Stato In
attesa del peggio vanno ricordati gli appelli alla ragionevolezza già
lanciati nel marzo-maggio, mesi che oggi sembrano lontani e invece si
riaffacciano come incubi. Mentre in alcune regioni già si impone il
divieto di circolazione tra province, torna il timore che venga
ripristinato quello tra regioni. È bene ricordare a Conte, Speranza,
Lamorgese ecc. come è fatta l'Italia. I confini tra regioni sono
meramente amministrativi: non hanno nulla a che vedere con la rete
stradale e ferroviaria, con le necessità effettive e affettive degli
abitanti. Se non si vuole scatenare la rivolta è saggio che il governo
rifletta prima di emanare nuovamente norme vessatorie. E sarà bene che
i presidenti delle regioni, i prefetti, le camere di commercio ecc.
ecc. illustrino a chi di dovere lo stato dell'arte. L'Italia
nord-occidentale è in condizioni disastrose. L'annullamento della tappa
del Giro d'Italia che voleva svalicare in Francia insegnerà pur
qualcosa. L'interruzione delle comunicazioni Cuneo-Tenda-Ventimiglia
dovrà pur aprire gli occhi. Il ripristino della strada ferrata
richiederà mesi; quello della rotabile anni e anni. In queste
condizioni è bene lasciare che i cittadini si muovano secondo le loro
necessità. Nessuno viaggia per capriccio. Chi lo fa ha i suoi bravi
motivi, anche non va al lavoro o per chissà quale emergenza. E dovrebbe
essere chiaro una volta per tutte che la “seconda casa” in Italia non
costituisce reato, come non lo è fare turismo in questi tempi di magra.
Chi viaggia non deve più essere bersagliato da gabellieri di turno che
fanno cassa come tanti miserabili autovelox piazzati su rettilinei per
estorcere dobloni e “punti” a chi transita in piena sicurezza per sé e
per gli altri.
A cospetto della crisi
imperversante (quella sanitaria a breve risulterà la meno grave) va
auspicato avvenga quanto accade quando si perde malamente la guerra: un
25 luglio. Il governo sta perdendo la guerra. Occorre un governo nuovo,
provvisorio, con le mani libere dalle pastoie della politichetta e dei
suoi gerarchi e con l'impegno di tornare al voto prima possibile, per
varare la Costituente di cui l'Italia ha bisogno per rimanere in
Europa. Quando sono travolti da crisi gravissime, gli
Stati collassano se l'esecutivo risulta inerte o fatuamente parolaio,
se il legislativo è affetto da paralisi, se tarda l'intervento
riparatore del Capo dello Stato, sul quale grava la somma delle
responsabilità: le sorti del Paese.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA. Il
“banco a rotelle”rimarrà nel tempo il simbolo della pochezza del
governo Conte dinnanzi alla crisi sanitaria annunciata con enfatica
sicurezza il 31 gennaio 2020 e con gli esiti oggi.
EUROPA AL DIAVOLO? DA LOS CAIDOS A MONTMARTRE
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 18 Ottobre 2020, pagg. 1 e 11.
Oggi Franco, domani la Colonna Traiana “Oggi
in Spagna, domani in Italia” fu il motto di Carlo Rosselli, che dalla
guerra civile spagnola iniziata del luglio 1936 tornò in Francia,
malato e profondamente deluso. Aveva capito che chiunque avesse vinto,
la Spagna non sarebbe divenuta democratica. Da una parte i Quattro
Generali e la “quinta colonna”, dall'altra i socialcomunisti
controllati dall'Urss tramite gli emissari della Terza Internazionale,
come Palmiro Togliatti (Ercoli) e Luigi Longo (Gallo). Chi non si
allineò, come gli anarchici, finì stritolato dai rossi più rossi. Molti
spagnoli europeisti, come Miguel de Unamuno, e i massoni furono
accusati di complotto ai danni della Spagna Eterna e vennero
demonizzati da Francisco Franco, assurto a “caudillo” nei “nazionali”.
Finirono male, in una guerra che durò tre anni e vide l'impiego di
eserciti stranieri (i tedeschi di Hitler e il Corpo Truppe Volontarie
italiane agli ordini del generale Gambara da un canto, migliaia di
volontari nelle Brigate internazionali a sostegno della repubblica di
Madrid dall'altra). Liberaldemocratici e socialisti moderati furono
emarginati, spesso assassinati perché la guerra (in)civile esclude il
dubbio e impone di parteggiare, come poi accadde ovunque in Europa. Il
grosso della popolazione, che già se la passava male, precipitò nella
fame. Dal luglio 1936 all'aprile 1939 la Spagna fu il laboratorio del
successivo conflitto europeo. Prima che finisse Gran Bretagna,
Francia e Stati Uniti conclusero che, morti tragicamente Sanjurjo e il
generale Emilio Mola, ideatore della rivolta dei “nazionali” contro la
repubblica in preda al caos, l'alternativa a Franco sarebbe stata una
Spagna sotto controllo di Stalin, con tutte le conseguenze strategiche
a livello planetario. Ne riconobbero la vittoria molto prima che
entrasse a Madrid. Randolfo Pacciardi, repubblicano e due volte
massone, comandante del reggimento “Garibaldi”, antifranchista sino al
midollo come Aldo Garosci, Franco Venturi e Francesco Fausto Nitti
(massone), intuite con chiarezza le prospettive andò negli USA, per
preparare la riscossa contro i totalitarismi veri: la Germania
nazionalsocialista di Hitler e l'Unione sovietica di Stalin, di lì a
poco unite nel patto di non aggressione e di spartizione dell'Europa
orientale e baltica.
Giunto potere, Franco
ebbe mano libera nell'epurazione di comunisti e massoni (ma questi in
gran parte sotto il grembiulino avevano poco fraterni turgori partitici
e ateistici). Dall'“Occidente” fu considerato il male minore.
Emarginata (come era accaduto a liberaldemocratici e demosocialisti in
Italia dopo il 1925), la “terza Spagna”, cioè i cittadini che
aspiravano alla quiete e al progresso civile ed economico, fu costretta
al silenzio. Sopravvisse anche perché Franco rifiutò di entrare in
guerra a fianco dell'Asse Roma-Berlino e aprì il territorio nazionale
agli USA. Nell'agosto 1943 per avviare i preliminari dell'armistizio
tra Italia e anglo-americani il generale Giuseppe Castellano non per
caso passò dall'ambasciata inglese a Madrid. Dal canto suo Pio XII
(papa dal 1939 al 1958) camminò nel solco di Pio XI che nell'enciclica
Divini Redemptoris del 19 marzo 1937 aveva esplicitamente condannato le
folli violenze dei “rossi” contro chiese, ecclesiastici e cattolici
(arrivarono a disseppellire e oltraggiare macabramente salme di suore).
Insignito dell'Ordine del Cristo dallo stesso Papa che, caso unico a
metà Novecento, scomunicò il presidente dell'Argentina Juan Perón, anno
dopo anno Francisco Franco, Jefe del Estado, guadagnò consensi,
simpatie e sostegni. La “sua” Spagna entrò nelle Nazioni Unite nella
stessa infornata della “Repubblica italiana nata dalla resistenza”. I
suoi rappresentanti, come il galiziano Manuel Fraga Iribarne, erano
apprezzati negli incontri internazionali per cultura, equilibrio e
lungimiranza. I tecnocrati dell'Opus Dei fecero il resto. Senza bisogno
di decreti dall'alto, la Spagna a diverse velocità (come era l'Italia
degli Anni Sessanta) divenne europea. Il massonofobo Franco finse di
non sapere che nelle basi statunitensi fiorivano le logge. In più,
anche su consiglio di Umberto II, restaurò la monarchia “a futura
memoria” e avviò lentamente il passaggio verso il futuro. All'interno
parlava una lingua, verso l'estero un'altra. Non si fece mai
abbindolare, neppure dagli USA che gli chiesero di dar man forte nella
guerra del Vietnam. Memoria e oblio Franco,
dunque, è quarant'anni di storia di un Paese che ha cinque secoli
unità. Con Filippo II e Filippo IV d'Asburgo e con Filippo V e Alfonso
XIII di Borbone è il capo di Stato spagnolo più durevole dal
Cinquecento a oggi. Al potere prima della seconda guerra mondiale morì
quasi vent'anni dopo il Patto di Roma che avviò il cammino verso
l'Unione Europea, ai cui margini la Spagna venne tenuta anche dopo la
sua svolta democratica, non per nobili principi ma nel timore della sua
competizione economica con i suoi soci fondatori, soprattutto
nell'agricoltura (vino e agrumi). La transizione, guidata
da Adolfo Suárez, al quale rimane giustamente intitolato l'aeroporto di
Madrid, avvenne in forma pacifica perché Re Juan Carlos di Borbone era
la garanzia della continuità dello Stato unitario. I partiti, inclusi
comunisti, socialisti e catto-liberali, concordarono che il passato
andava messo tra parentesi: “sunt lacrimae rerum”. Le ferite c'erano,
ma, insegna padre Giovanni Curci S.J. nell'ampio e meditato saggio
“Memoria e oblio. Un binomio indispensabile” (“La Civiltà Cattolica”,
17 ottobre 2020 quaderno 4088), “dimenticare e ricordare sono entrambi
indispensabili per la conoscenza e anche per la salute mentale”.
Occorre liberarsi dalla “dittatura della memoria”. Rinfacciarsi il
passato avvelena il presente. La storia è zeppa di guerre vendicative,
tanto distruttive quanto inutili. Già tra Otto e Novecento
irredentismi, separatismi e particolarismi erano superati dalle
internazionali (“unione di nazioni”, non loro negazione: lo ripete papa
Francesco in “Fratelli tutti”) e dalle organizzazioni soprannazionali,
come gli Stati Uniti d’Europa predicati sin dall'inizio del secolo
scorso. Los Caidos: meditazione sulla Storia Dagli
Anni Sessanta, per chi la visitava, la Spagna era il suo immenso
patrimonio di “monumenti” romani, medievali, dell'età moderna, nati
dall'intreccio di civiltà. Lo stile mudéjar è Spirito Assoluto. Il
visitatore che trascorreva giorni a El Escorial si raccoglieva in
meditazione nel Valle de los Caídos non per omaggio alla salma di
Francisco Franco e di José María Primo de Rivera, fondatore della
Falange, assassinato a freddo dai “rossi”, ma per comprendere la
complessità della storia della Spagna, “una, grande, libre”. Anche se
nient’affatto “praticante” trovava suggestiva la croce di 150 metri
sovrastante il mausoleo. Al netto delle intenzioni di chi
lo aveva voluto e dei diversi animi di chi lo aveva edificato, esso non
era un incantesimo, ma un “sacrario”, luogo al di sopra e al di fuori
dei “laici”, sinonimo di profani ignari. È metastoria.
Quell'incantesimo venne infranto nel 2007 dal presidente del Consiglio
Zapatero, socialista, che volle la “legge sulla memoria” quale condanna
del “franchismo”, identificato con la guerra civile e con la
repressione degli anni immediatamente successivi, ma ormai superata nel
suo ultimo quarto di secolo. Da decenni la storiografia aveva scavato
ogni dettaglio del lungo calvario della Spagna nei quarant'anni dalla
“settimana tragica” e dalla fucilazione di Francisco Ferrer y Guardia
al 1939. Era una lotta fratricida che affondava radici nel 1808, il
“dos de Mayo” immortalato da Francisco Goya, nella guerriglia contro
Giuseppe Bonaparte (“don José Primero”) e gli afrancesados. Era terreno
di studio, non motivo di divisione tra gli spagnoli del Terzo Millennio. Il
24 ottobre 2019, pochi giorni prima delle elezioni del 10 novembre, il
socialista Sánchez, alla guida di un governo di minoranza, coronò la
sua lunga battaglia ideologica e giuridica con la estumulazione della
salma di Franco dal Valle, inumata al Pardo. Fu una avvilente
sceneggiata presentata come soluzione di tutti i problemi di un Paese
per colpa sua in affanno economicamente e politicamente, con
l'aggravante dell'indipendentismo repubblicano della Catalogna e per la
deflagrazione di autonomismi antichi (dai Paesi Baschi alla Galizia) e
di recente invenzione, quale arma di ricatto verso il governo centrale. Nell'intervista
a un quotidiano italiano l'8 luglio 2020 Sánchez dichiarò di essere
stato aiutato dal papa contro i benedettini del Valle che lo avevano
ostacolato “nella vicenda del corpo di Franco (sic)”. Trascorsi alcuni
giorni senza rettifica né dal giornale né da Madrid, la Santa Sede
precisò di non essersi mai pronunciata “sulla esumazione né sul luogo
della sepoltura” del Caudillo.
Chi pensava che
la quaestio fosse finita ha motivo di ricredersi. Carmen Calvo,
trinariciuta vicepresidente del Consiglio, e altri esponenti di primo
piano del governo rossopaonazzo Sánchez-Iglesias stanno gonfiando le
vele della “Legge della memoria democratica”, solennemente annunciata
il 15 settembre 2020 ma passata sotto silenzio dai media
internazionali, corrivi a deplorare estremismi e bizzarrie di regimi
vari, da Ungheria e Polonia alla Russia di Putin, ecc. ecc. La legge
non riapre la guerra civile: la chiude demonizzando una volta per tutte
Franco, il cosiddetto franchismo (che fu un regime, non una ideologia)
e la libertà di ricerca e di parola orale e scritta. È liberticida.
Essa prevede la ricerca sistematica di fosse comuni della guerra
civile, il repertorio di tutte le vittime della violenza dei Quattro
Generali, congrui risarcimenti (tutto giusto e perfetto), ma anche la
condanna della “apologia del franchismo”. Lì, come in ogni altro Paese
del mondo, sarà il magistrato a stabilire se una frase, un articolo, un
saggio lo siano o no. Che cosa fare, allora, della Legione Spagnola,
che ad Almeria ha celebrato da poco il suo primo secolo di storia e che
ebbe parte non secondaria nel 1936-1939 nella vittoria dei nazionali?
Le verrà vietato di cantare “El novio de la muerte”? Che cosa fare
dell’intitolazione di Reggimenti a Don Juan, a Alejandro Farnesio, al
Gran Capitán e ad altri insigni condottieri dell'impero di Carlo V e di
Filippo II (1556-1598)? Non bastasse, Carmen Calvo ha
annunciato che bisogna “resignificar” il Valle de los Caídos, da
convertire in monumento democratico gestito dal Patrimonio Nazionale
anziché dalla Fondazione della Santa Croce diretta dai benedettini, a
sua detta destinata all'estinzione: conclusione non scontata,
perché essa dipende dall'Abbazia benedettina francese di Solesmes. Non
solo. Mentre l'arcivescovo di Madrid Carlos Osoro ha auspicato che il
Valle continui a essere “luogo dove recuperare la fraternità, la
riconciliazione e la pace”, il presidente della conferenza episcopale
spagnola ha dichiarato che i cittadini sono preoccupati dalla pandemia
e di conservare il lavoro e che al Valle i benedettini “per quanto
possano aver sbagliato (nell'ostacolare invano l'estumulazione) sono
per pregare e fare del bene”. La questione, dunque, è complessa, poiché
manifestamente oggetto di manipolazione da parte del governo
rosso-paonazzo e dei suoi esponenti ultragiacobini, giunti ad affermare
che la croce sovrastante il mausoleo è “espressione del
nazional-cattolicesimo”. E allora? Bisognerà fare come al Cerro de los
Ángeles, che il 28 luglio 1936 prima fu bersaglio di fucilate e poi
abbattuto con la dinamite? E l'Europa sta a guardare silente? La
Memoria ha due volti: quella intima e quella pubblica. Chi ne abusa
utilizzando il Potere per la damnatio di alcuni e l’esaltazione di
altri viola quella intima e suscita fantasmi sopiti che sarebbe meglio
lasciare dormienti per evitare che balzino fuori come lo spirito dalla
lampada di Aladino. La legge della memoria democratica (5
titoli, 66 articoli) che Sánchez vuol far approvare entro la metà del
2021 mira a abolire titoli nobiliari e decorazioni del passato regime;
e passi. Ma ciò che più allarma e che essa vuol irrompere
nell'insegnamento tramite la “pulizia” dei testi scolastici. In sintesi
essa punta a commissariare ideologicamente i cittadini: a imporre una
storia a senso unico e a punire severamente chi dissenta dalla Verità
di Stato. Questo è lavaggio del cervello. È totalitarismo. Democratico,
come nella Germania e nell'Unione sovietica dei tempi andati. Montmartre e i fantasmi di due arcivescovi ammazzati a Parigi Appena
a nordest della Spagna il 13 ottobre il prefetto della regione
dell'Ile-de-France e la ministra della Cultura francese hanno
annunciato l'intenzione di classificare come monumento storico la
celebre basilica parigina del Sacre-Coeur, “santuario della adorazione
eucaristica e della misericordia divina” secondo la Diocesi di Parigi.
Come noto, dopo Nôtre-Dame è la chiesa più visitata di Francia.
Nell'opinione generale essa venne edificata a Montmartre per ricordare
gli ostaggi assassinati dai Comunardi nel maggio 1871 e in riparazione
dei peccati perpetrati dai francesi: quindi per motivi spirituali più
che politici. In realtà i suoi ideatori, Hubert de Fleury e
Alexandre Legentil, si ispirarono al progetto avviato a Lione per la
costruzione di Nôtre-Dame de la Fourvière volta a espiare la sconfitta
di Sedan (1-2 settembre 1870) e la conquista dello Stato pontificio da
parte del regno d'Italia (20 settembre). Solo in secondo
tempo de Fleury aggiunse che la collina di Montmartre era non solo il
luogo del martirio di Saint-Denis ma anche dei generali Clément-Thomas
e Lecomte da parte dei comunardi. La classificazione del
Sacre-Coeur a monumento nazionale è di primaria importanza per la sua
tutela e del completamento della sua cripta, mai ultimata. Alcuni però
ci vedono una strizzatina d'occhio di Macron ai cattolici mentre si
avvicinano le elezioni presidenziali. Sennonché siamo anche
alla vigilia del 150° della Commune (18 marzo-15 maggio 1871), primo
governo “rivoluzionario” della storia, che ha sempre diviso e divide la
memoria dei francesi per le atrocità compiute dai comunardi e per la
feroce repressione di cui furono oggetto (vinti, in gran parte fucilati
e deportati in Nuova Caledonia dopo inenarrabili sofferenze). A placare
gli animi e a spegnere sul nascere una nuova disputa basterà
l'intitolazione di una stazione della Metropolitana alla Commune
de Paris e l'omaggio pubblico a Louise Michel, sua celebre eroina? Se
la “Rive gauche” ha in serbo molte frecce, altri non ne mancano
affatto. Senza essere o proclamarsi clericali, i cattolici e anche i
non credenti ma studiosi di storia e del tutto liberi pensatori sanno
che nella loro faretra l'altra “riva” ha il ricordo di due arcivescovi
di Parigi assassinati: il primo, Denis-Auguste Affre, il 27 giugno
1848;Geroges Darboy, proprio per mano dei comunardi il 24 maggio
1871. Sono tutte vicende che è bene lasciare dove stanno:
nella coscienza di chi sa che la storia è anche costellata di errori e
di orrori, che devono essere studiati, contestualizzati e spiegati, ma
non giustificati. Essi insegnano, infatti, che anche oggi si può
sbagliare: anzitutto attizzando polemiche inattuali e inventando leggi
sulla “memoria democratica” (imposte da governi dalla flebile
maggioranza), mentre ognuno ha diritto di avere la propria. Gli
spagnoli hanno una lunga storia. Non sentono il bisogno di farsela
“regnisificar” da un governo qualunque, tanto meno se di inetti, come
l'attuale. Gli italiani ne vantano una ancora più lunga; gli ispanici
lo vedono a Tarragona, Segovia e altrove. Come loro, gli italiani non
hanno alcun bisogno di “leggi della memoria”. Sono liberi di studiarsi
e di valutarsi da sé.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Anche dopo l’estumulazione della salma di Francisco Franco, El Valle de los Caídos è un Monumento: dal latino “moneo”.
VITTORIO EMANUELE III IL RE NELLA TEMPESTA (1938-1946)
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 4 Ottobre 2020, pagg. 1 e 11.
Il Re isolato Fra
il 1938 e il 1946 l'Italia visse anni convulsi. Il suo cammino proseguì
a strappi, per segmenti discontinui, “nave sanza nocchiero in gran
tempesta/non donna di Provincia ma bordello”. Tra il comandante della
nave, il Re, e il timoniere, il capo del governo, mancavano gli
ufficiali di collegamento. Le Camere, autoreferenziali, non svolgevano
più il ruolo originario di rappresentanza de Paese reale. Beati allo
specchio, i governanti credevano alla propaganda del Ministero della
cultura popolare (Min-cul-pop), alle “veline” che essi stessi
diffondevano. Apparentemente granitico, il regime si fondava sulla
repressione del dissenso, spacciata per consenso, manipolato e
prezzolato. Il viaggio di Adolf Hitler a Firenze e a
Roma nel maggio 1938 impresse la svolta. All'interno del Partito
nazionale fascista crebbe e si fece sentire la componente repubblicana,
sopita dal 1922 ma mai spenta. Molti fascisti ritenevano che a
concludere vittoriosamente l'impresa di Etiopia non fossero il Regio
Esercito, cioè l'Italia, ma Benito Mussolini in persona. Per loro il
capo del governo e duce del fascismo doveva essere anche capo dello
Stato, proprio come Hitler in Germania. Il cinquantanovenne Vittorio
Emanuele III, sul trono dall'assassinio del padre (29 luglio 1900), in
pubblico appariva poco, poco volentieri e da lontano: assisteva alle
grandi manovre militari di terra e di mare, allo scoprimento di
monumenti e a convegni di storia e di scienze, a esposizioni d'arte e
di economia come la Fiera Campionaria di Milano, ove nel 1928 scampò
per pochi minuti a un attentato che fece una orrenda strage. Mussolini,
invece, amava dominare piazze straripanti. I fasci littori da tempo
affiancavano lo scudo sabaudo anche nelle insegne pubbliche e nella
carta intestata di ministeri e di enti territoriali. Ultimo baluardo
della Monarchia rimase il tricolore. Il Re rifiutò che vi comparissero
simboli di quello che da un decennio era il “partito unico”, strumento
della fascistizzazione della società, perseguita mediante leggi
approvate dal Parlamento, prono. Vittorio Emanuele III pensava per
secoli; Mussolini scandiva il tempo dalla Marcia su Roma, inizio dell'
“era fascista”. Nel 1938 questa aveva 18 anni. Quella del Re ne contava
2600: era più “romana” della “fascista”. Dal 1929 i
deputati erano designati dal Gran consiglio del fascismo e approvati
dal 95% e più degli elettori, che votavano sulla base della legge Rocco
del 1928. Altrettanto avveniva nell'URSS e in altri regimi totalitari,
con la differenza che in Italia il potere supremo rimaneva nelle mani
del Re, sul quale il fascismo non aveva alcuna effettiva ingerenza,
come, malgrado leggende, non ne aveva sulla successione al trono. Però
dal 1931 i pubblici dipendenti, inclusi i docenti universitari,
giuravano fedeltà non solo al sovrano e ai suoi legittimi discendenti
ma anche al regime. Privo di sostegno adeguato da parte di esponenti
della tradizione liberale e mentre i gerarchi monarchici erano succubi
di Mussolini, Vittorio Emanuele III, politicamente isolato per la
sudditanza delle Camere al capo del governo, non poté arginare la
sterzate del duce: le leggi razziali dell'autunno 1938 (su suggestione
di quelle in vigore in Germania), la convergenza del fascismo
criptorepubblicano con il nazionalsocialismo, la chiassosa invenzione
del “Primo maresciallato dell'Impero”. Hitler mirava
a una guerra europea che l'Italia non era assolutamente in grado di
affrontare. La conferenza di Monaco di Baviera (settembre 1938), che
assegnò alla Germania la regione della Cecoslovacchia abitata
prevalentemente da Sudeti (tedeschi del sud), fu l'ultimo tentativo di
frenare la corsa verso il precipizio: l'invasione tedesca della Polonia
e la conflagrazione europea (1 settembre 1939), previo patto di non
aggressione tra Hitler e Stalin. Il 10 giugno 1940 l'Italia intervenne
a fianco della Germania e condusse una “guerra parallela”, che si
risolse in una serie di imprese avventate e per niente vitali nel
quadro dei suoi interessi storici, dall'aggressione alla Grecia
(ottobre 1940) a quella della Jugoslavia (ove fu creato il regno di
Croazia, assegnato al riluttate Aimone di Savoia, Duca di
Spoleto) all'invio dell'Armata italiana in Russia, e di conseguenti
sconfitte strategiche, a cominciare dalla perdita immediata dell'intera
Africa Orientale e poi della Libia. Quando da europea la guerra divenne
mondiale (1941) Mussolini continuò a calcare le orme di Hitler e del
Giappone, anche con la dichiarazione di guerra agli Stati Uniti
d'America, del tutto invulnerabili ad attacchi da parte
dell'Italia e dalle forze colossali rispetto a quelle italiane. Non era diarchia All'indomani
dello sbarco anglo-americano in Sicilia e del bombardamento aereo di
Roma, duramente “pedagogico” (luglio 1943), mentre partiti e movimenti
antifascisti erano appena albeggianti e i principali gerarchi del
regime chiedevano al sovrano di riprendere l'esercizio dei poteri
statutari senza però rimuovere Mussolini da capo del governo (è la
sostanza dell'ordine del giorno Grandi-Federzoni-Bottai del 25 luglio),
il Re recise di persona il nodo gordiano. Sicuro del pieno sostegno
delle Forze Armate, in un colloquio di pochi minuti solus ad solum
revocò Mussolini da capo del governo e lo sostituì con il Maresciallo
Pietro Badoglio, conosciuto e apprezzato anche a Londra e considerato
garante della defascistizzazione dell'Italia. La diarchia,
cioè una sorta di pari sovranità del Re e del duce, era
nell'appariscenza e rimase nella narrazione. Vittorio Emanuele III
mostrò che l'Italia era invece una monarchia. Aveva in pugno ed
esercitò la summa del potere: imporre le dimissioni al capo
dell'Esecutivo, anche senza un voto del Parlamento (non convocato da
anni) e sostituirlo motu proprio, in forza dello Statuto. Come poi
acutamente osservò il liberale e monarchico Luigi Einaudi, quando
ritenne fosse l'ora il Re si valse dei poteri che gli competevano. Il Re assediato Nel
volgere di un mese il nuovo governo ottenne l'armistizio (3 settembre,
reso pubblico l'8) ma, sic stantibus rebus e mentre gli anglo-americani
già stavano organizzando il futuro sbarco in Normandia e non avevano
urgenza di avanzare in Italia, passato da Roma alle Puglie (unica
regione libera da tedeschi e da anglo-americani) non poté evitare che
il Paese divenisse campo di battaglia tra le Nazioni Unite e la
Germania: le prime fiancheggiate dal Regno d'Italia (co-belligerante),
l'altra dalla Repubblica sociale italiana, capeggiata da Mussolini dal
23 settembre sotto pressante tutela nazi-germanica. Nei due anni
seguenti e soprattutto dal novembre 1944 al maggio 1945 gli italiani
vissero i peggiori tempi della loro storia dall'unificazione del 1861.
Alle dure condizioni del conflitto in corso e alle privazioni e
afflizioni morali e materiali (a cominciare dal razionamento degli
alimenti fondamentali e dalla quotidiana esposizione agli effetti
diretti e collaterali del conflitto, in specie i pesantissimi e
indiscriminati bombardamenti aerei) si aggiunsero la deportazione in
Germania dei soldati catturati dai tedeschi (classificati come
Internati Militari: ne hanno scritto esaurientemente Mario Avagliano e
Marco Palmieri nel saggio I militari italiani nei lager nazisti,
Mondadori, finalista all'Acqui Storia 2020), degli ebrei (facili da
individuare perché “schedati” dal 1938) e di quanti fossero o venissero
sospettati di opposizione politica. Anche Mafalda di Savoia, figlia del
Re e della Regina Elena, principessa d'Assia, venne internata sul
margine del lager di Ravensbruck, ove morì, gravemente ferita durante
un bombardamento americano sul campo e non curata. Come milioni di
italiani nella prima metà del Novecento anche il Re e la Regina
indossarono i segni del lutto per motivi di guerra. Nell'agosto
1943 i rappresentanti di partiti antifascisti deliberarono di non
collaborare con il governo Badoglio. Il passivo della guerra doveva
ricadere sulla monarchia: una decisione partitica, non patriottica.
All'inizio di ottobre il Comitato centrale di liberazione nazionale
costituito in Roma dichiarò di non riconoscere il governo. In gennaio i
CLN dell'Italia meridionale radunati a Bari chiesero che il re
abdicasse. Benedetto Croce intervenne con veemenza contro Vittorio
Emanuele III, al quale venne meno anche il sostegno sincero di
Badoglio, che mirava ad assumere la Reggenza, in forma non prevista
dallo Statuto. Enrico De Nicola, presidente della Camera
all'avvento di Mussolini e senatore dal 1929, propose che il sovrano
mantenesse la Corona ma ne trasferisse tutti i poteri al principe
ereditario, Umberto, quale Luogotenente del regno, carica prevista
dallo Statuto. Il “passaggio”, ruvidamente imposto al sovrano dagli
anglo-americani in aprile, venne formalizzato il 5 giugno, all'indomani
della liberazione di Roma, senza però che il Re e il Luogotenente
fossero nella Capitale, come chiesto da Vittorio Emanuele. Il
nuovo governo, presieduto da Ivanoe Bonomi, mirò a sua volta a oscurare
il Re e impose al Luogotenente che la futura forma dello Stato d'Italia
venisse decisa dagli italiani. Il Decreto legge luogotenenziale del 25
giugno 1944 istituì una sorta di costituzione provvisoria. Un
anno dopo la fine della guerra in Italia (2 maggio 1945), segnata dalla
dolorosa occupazione di territorio nazionale (Zara, Fiume, Istria,
Trieste, Gorizia...) da parte della Jugoslavia di Tito, Vittorio
Emanuele III abdicò e partì per l'Egitto, unico paese affacciato sul
Mediterraneo non in guerra con l'Italia (9 maggio 1946). Il 2-3 giugno
il referendum attribuì alla repubblica il 42% dei consensi del corpo
elettorale (12.700.000 voti su 28.000.000 di elettori). Il presidente
del Consiglio, Alcide De Gasperi, segretario della Democrazia
Cristiana, pressato dai socialcomunisti (Togliatti, Nenni e Romita) e
dal partito d'azione e con il consenso dei liberali (unica eccezione
Leone Cattani), nei primi minuti del 13 giugno assunse le funzioni di
Capo dello Stato. Per non aprire un conflitto armato, nel pomeriggio
dello stesso giorno Umberto II lasciò l'Italia alla volta del
Portogallo. Partì per l'estero senza abdicare, nella pienezza dei suoi
diritti e senza riconoscere la vittoria della repubblica perché l'esito
del referendum non era ancora ufficiale. Lo sarebbe divenuto il 18
giugno. Il giorno dopo fu stampato il n. 1 della “Gazzetta Ufficiale
della Repubblica”. Incombeva il Trattato di pace (pronto da
tempo ma differito al 10 febbraio 1947 per non scuotere l'opinione
pubblica prima del referendum istituzionale), che risultò duramente
punitivo e ingeneroso, poiché non riconobbe all’Italia quanto le era
stato promesso col Memorandum di Quebec dell'agosto 1943 e con
l'“armistizio lungo” del 29 settembre 1943. La parola alla Storia La
Costituente deliberò che agli ex Re di Casa Savoia e loro consorti e ai
loro discendenti maschi erano vietati l'ingresso e il soggiorno nel
territorio nazionale e che i membri e i discendenti della Casa non
fossero elettori né potessero ricoprire uffici pubblici e cariche
elettive. Tre giorni prima che la Costituzione entrasse in
vigore, il 28 dicembre 1947 Vittorio Emanuele III morì ad Alessandria
d'Egitto, ove aveva vissuto con la Regina Elena dedito agli studi e
alla meditazione sulla Storia, che è fatta di idee, di istituzioni, di
“uomini in carne e ossa” come scriveva Antonio Gramsci, e di spiriti
liberi, capaci di ideali, quale fu Vittorio Emanuele III. L'esilio di
Umberto II non venne mai revocato. Morì a sua volta all'estero
(Ginevra, 18 marzo 1983). Gli erano stati tolti i diritti di cittadino
italiano ma nessuno aveva potuto privarlo della Corona, che aveva
portato con sé all'estero, nella certezza di poter tornare o infine
almeno morire in Patria. Quel lunghissimo e tragico
decennio è ancora in attesa di essere meglio conosciuto. All'indomani
della guerra e del referendum molti di quanti lo vissero preferirono
sigillarlo nella memoria personale. Ne parlarono poco anche in
famiglia. Tanti ricordi erano troppo dolorosi. Anche profittando del
loro silenzio, ne venne proposta una narrazione unilaterale. La figura
del Re venne via via oscurata. Vittorio Emanuele III, re per 46 anni,
fu e continua a essere misconosciuto e persino vituperato. Anche in
libri (a volte più grossi che utili) e in articoletti nei quali viene
detto “pavido”. Eppure fu lui ad assicurare la resistenza dell'Italia
dopo la sconfitta (non catastrofe) di Caporetto nell'incontro a
Peschiera con gli alleati (8 novembre 1917). Fu lui a segnare e attuare
la svolta decisiva il 25 luglio 1943. Lui a premere e a indicare le vie
per ottenere l'armistizio. Lui a garantire la continuità dello Stato
nella lunga difficile ricostruzione, dal trasferimento a Brindisi alla
Riscossa. Certo era un sovrano scomodo, proprio perché sapeva e poteva
guardare tutti negli occhi senza scomporsi, al più col lieve tremito
del mento nelle emozioni supreme, come dinnanzi alla salma del padre. Non
si ha traccia sicura di sue “Memorie”. In loro assenza tocca pertanto
agli storici sulla scorta dell'immensa mole di documenti disponibili
ricomporre il mosaico per ricostruire la complessità e drammaticità del
suo lungo regno, tutt'uno con l'Italia. Di sicuro Vittorio Emanuele III
di Savoia non fu mai razzista. Fu di vasta e solida cultura. Dopo
averlo conosciuto, Theodore Roosevelt disse che negli Stati Uniti
d'America sarebbe stato sicuramente eletto presidente per larghezza di
vedute, alto sentire, fermezza e serietà. Fu sovrano
costituzionale dello Stato sorto dal Risorgimento, dalle guerre per
l'indipendenza e per le libertà, giunto all'unità, ancora incompleta,
appena trent'anni prima della sua ascesa al trono. Va studiato e
compreso.
Aldo A. Mola
COPERTINA DEL LIBRO DIDASCALIA:
Il Regno di Vittorio Emanuele III (1900-1946). I. Dall'età giolittiana
al consenso per il regime (1900-1937), a cura di Aldo A. Mola
(BastogiLibri) con saggi di Carlo Cadorna, GianPaolo Ferraioli, Dario
Fertilio, Federico Lucarini, Luca G. Manenti, Aldo G. Ricci, Tito
Lucrezio Rizzo, Gianpaolo Romanato, Angelo G. Sabatini, Giorgio
Sangiorgi, Claudio Susmel.
E ADESSO, POVER' UOMO? I “MORIBONDI” DI MONTECITORIO E PALAZZO MADAMA
Editoriale
di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della
Liguria” di domenica 27 Settembre 2020, pagg. 1 e 11.
Rinviare e improvvisare E
adesso, pover'uomo? Deputati e senatori trascorrono il loro primo fine
settimana nei rispettivi collegi elettorali dopo il fatidico “taglio”.
Meditabondi. I fautori del “Si” al referendum mozza-parlamentari erano
sicuri di tornarci da trionfatori. Invece nessuno è davvero in grado di
dire chi meriti la medaglia di quel 69% di consensi andato alla più
stupida manifestazione di antipolitica dal 1946 a oggi: la drastica
riduzione della rappresentanza e la fine della libertà di scelta da
parte degli elettori. I pentastellati hanno rivendicato e ancora
accampano vittoria. Di Maio si è affrettato ad aggiungere che ora
bisogna tagliare stipendi e benefit dei parlamentari. Da Bruxelles a
sua volta Grillo ha aggiunto che gli italiani non hanno alcun bisogno
di elezioni: i rappresentanti possono essere scelti per sorteggio,
perché uno vale uno. Le solite scemenze da Elevato della domenica. La
verità dei fatti è più semplice e preoccupante. In quel 69% di
“sissini” si sono ammucchiati grilloidi, vetero-leghisti dalla voce
roca contro Roma-ladrona (quasi a Milano non avvenga mai nulla di…
strano), Fratelli d'Italia e piddini fedeli alle direttive di
Zingaretti, che da strenuo oppositore del “taglio” si è convertito al
“si” per raptus simpatetico verso Di Maio. Così ha mostrato lealtà a
Crimi e a quanti nel frattempo non hanno approvato alcuna delle sue
tante e tanto vanamente insistite proposte da oltre un anno sul
tavolo di questo governo giallo-rosso-paonazzo. Il traino grillino si
conferma prevalente (e prevaricante) come già era avvenuto nel
precedente giallo-verde, sino a esasperare Salvini, che si stufò dei
tanti “No” opposti dai suoi sodali di governo. Il metodo grillesco era
lo stesso di oggi: abbozzare un logorroico “contratto per il governo”
zeppo di promesse, sogni, vaniloqui e di alcune inaccettabili
violazioni della Costituzione, passare all'incasso dopo il varo di
provvedimenti strabilianti, come l'“abolizione della povertà”, e menare
il can per l'aia con le proposte altrui. A distanza di due anni dalle
elezioni del 2018 e con la presidenza di Conte Giuseppe (da Pietrelcina
oltre che da Volturara Appula) le grandi partite rimangono come erano,
anzi stanno peggio di allora: Alitalia, Ilva, disoccupazione giovanile,
debito pubblico alle stelle, dilatazione oltre ogni limite accettabile
della cassa integrazione e dei sussidi a pioggia, rischio di fallimento
dell'Inps. Il tutto completo di stretta sull'uso del contante, occhio
del fisco sui conti correnti e su ogni forma di risparmio, da punire
come diserzione civile, e il sempre aleggiante fantasma della
“patrimoniale” che trova d'accordo non solo i Liberi e Uguali (coi beni
e coi soldi degli altri) e una fetta di catto-comunisti in sandali
francescani, ma anche i devoti di Rousseau e del suo discepolo
Proudhon, secondo il quale la proprietà è un furto. Sappiamo che
“liberté, egalité e fraternité” (che adesso in Francia vogliono
sostituire con “solidarité”) finirono sotto la lama della ghigliottina,
la più ugualitarie delle forme di esecuzione capitale. La
prima settimana post “Si” è trascorsa invano. Esaurita in due giorni la
farsesca disputa tra chi assicura di aver vinto di più, come nel gioco
dell'oca la politica è tornata alla casella di partenza: le
dichiarazioni di Sua Emergenza, sempre più convinto di durare per
l'eternità e, anzi, di balzare da Palazzo Chigi al Colle; gli appelli
di Zingaretti, Orlando, Delrio e Franceschini che chiedono al governo
di “fare qualche cosa”, di dare segni di vita sulle molte frontiere
calde e il timore che i nodi stiano per venire al pettine: fallimenti a
catena, aumento della disoccupazione, un’impennata di contagi anche
solo in un paio di province o regioni più vulnerabili. Basta un nulla
per far saltare il sistema-Italia, perché non è un sistema. È fondato
sull'intreccio perverso tra rinvio e improvvisazione dell'ultima ora. La Scuola, questa derelitta... La
Scuola ne è l'esempio più lampante, come da tempo ripete Ernesto Galli
della Loggia non solo in editoriali di grande forza e di alto respiro
ma anche nel libro L'aula vuota. Come l'Italia ha distrutto la scuola
(Marsilio), la cui lettura raccomandiamo. Per mesi la scuola è stata
terreno di chiacchiere e di incursioni spericolate, come le famigerate
sedie a rotelle, partorite dalla fantasia di chi evidentemente non è
mai stato in una classe e non si è mai chinato su un banco per leggere,
scrivere, fare una traduzione, avere sotto gli occhi i due-tre libri
indispensabili per scrivere un testo pulito, come spiegava a suo tempo
Carlo Casalegno, vicedirettore della Stampa, vittima del terrorismo
rosso. La scuola non è solo rossetto, sorrisi accattivanti,
occhiate ammiccanti all'Arcuri, trastullo. È educazione
all’auto-disciplina. L'aula non è uno spiazzo per gioco ai quattro
cantoni, ma passaggio dalla distrazione all'impegno: canoni antichi e
immutabili per formare alla concentrazione, premessa dell'apprendimento
e dell'abito critico. ...e Le Camere che non rappresentano il Paese I
parlamentari dunque sono tornati nei loro “territori”. Ma non hanno
motivo di esibire trionfalismo. Per loro non è tempo di vendemmia. Essi
sembrano l'armata austro-ungarica descritta da Armando Diaz nel
Bollettino della Vittoria del 4 novembre 1918: “I resti di quello che
fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e
senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”.
Vale appunto per il corpaccione dei gruppi parlamentari dei partiti che
si sono spesi per il “si”. Ricordiamone i due maggiori responsabili.
Alle elezioni del 2018 i Cinque Stelle ottennero 198 deputati e 95
senatori. Il Partito democratico sommò 95 deputati e 35 senatori. Da
soli i due “soci” principali dell'attuale governo contano 135 patres
sugli attuali 330 e quasi 300 dei 630 deputati. Però alle elezioni
degli euro-parlamentari nel 2019 entrambi (soprattutto i grilloidi)
videro svaporare milioni di voti e alle regionali e comunali dello
scorso 20 settembre i Pentastellati sono stati spazzati via.
Recupereranno consensi al primo appuntamento elettorale? L'esperienza
dice che una volta cambiato cavallo l'elettore non torna sui vecchi
ronzini. I milioni e milioni di voti che gli italiani diedero per
decenni a Democrazia cristiana, Partito comunista e a sigle intermedie
che sembravano immarcescibili perché “di nicchia” (repubblicani,
liberali, socialdemocratici e socialisti, malgrado politici di rango
come Craxi) nel volgere di un paio di turni elettorali scomparvero
completamente. A recuperarli non bastò che i loro dirigenti cambiassero
nomi ed emblemi alla velocità di Fregoli. Il trasformismo funzionò ai
tempi di Depretis. Fallì in quelli del mesto Zaccagnini e di Achille
Occhetto che fuori tempo massimo travestì il PCI da partito Democratico
di Sinistra, primo passo verso l'ammucchiata del partito Democratico
odierno. Perciò il governo in carica e i suoi sponsor hanno il terrore
delle urne e cercano di allontanarle al 2023 o anche più in là se
possibile. Meglio mai, anzi. I Moribondi di Montecitorio e di Palazzo Madama Mentre
gli storici riflettono sul passato prossimo e su quello remoto, incalza
il futuro: quello voluto dal 69% dei votanti che il 20 settembre hanno
dato ragione ai parlamentari che approvarono in massa la riduzione
degli scranni. Con il proprio voto gli elettori hanno decretato che un
terzo dei loro rappresentanti se ne deve andare. Subito. Visto l’esito
del referendum, infatti, non si capisce come possa sostenersi che il
Parlamento in carica rappresenti ancora gli italiani. Mistero buffo. In
realtà, esso stesso prima e i “Si” della scorsa settimana poi ne hanno
decretato l’abusività. Non c'entrano né il covid-19, né il Recovery
fund o il Recovery plan, l'elezione del futuro presidente della
Repubblica o la stabilità del governo. Semplicemente, è evidente che la
composizione del Parlamento attuale è in aperto contrasto con la
volontà dei cittadini (oltreché di quella dei suoi stessi membri). Deputati
e senatori odierni sono come il cavaliere antico, che “andava
combattendo ed era morto”. Perché dal passato lunedì moribonde sono le
Camere. Esse però non sono state vulnerate dagli zuavi pontifici o dai
lanzichenecchi: hanno fatto tutto da sole. Esse stesse hanno diffuso
nell'opinione pubblica la convinzione che costavano troppo, poco
facevano e quindi non avevano motivo di rimanere lì, né in presenza né
“da remoto”, nella Città Eterna. Ma chi, proprio chi (nome
e cognome), dei tanti “eletti” del 2018 prima o poi dovrà comunque
togliere il disturbo? Mistero fitto, per ora. Manca una penna come
quella di Ferdinando Petruccelli della Gattina che descrisse
argutamente I moribondi di Palazzo Carignano, un classico della
politologia. Ha supplito l'anonimo autore di Io sono il potere
(Feltrinelli), che ha messo a nudo la pochezza di partiti piccoli e
grandi, ministri, viceministri e sottosegretari, uffici parlamentari e
via continuando, perché questi passano mentre i grands commis restano;
e anno dopo anno, un governo dopo l'altro, tirano le fila del Grande
Gioco. Adesso che sono tornati a casa, i Moribondi di
Montecitorio e di Palazzo Madama si ritrovano alle feste e alle fiere
che sfidano il covid-19, a convegni con relatori e ascoltatori
imbavagliati e debitamente distanziati, e si guatano l'un l'altro. A
chi toccherà stare a casa per sempre? A tanti. Comincia il macabro
gioco del tiro al piccione per escludere chi sarà di troppo. In
province ove un tempo c'era spazio per quattro deputati e due senatori
ora ne basteranno la metà. Immense plaghe resteranno prive di
rappresentanza alla Camera Alta. Per salvare l'Impero Diocleziano
inventò la Tetrarchia. Oggi si riducono i rappresentanti e si
divaricano i cittadini dalle istituzioni. Antipolitica. Ne vedremo
delle belle. Mes, Piano credibile per i fondi europei, sciogliere le righe e aprire le urne. Appena
preso gusto ai saloni di Montecitorio e di Palazzo Madama (ma non erano
la sentina di tutti i mali d'Italia?), ora tanti pivelli passati d'un
balzo dal nulla a decidere le sorti dell'Italia si domandano “che sarà
di me, pover'uomo?” (“o povera donna?”, aggiungiamo in omaggio alle
quote rosa...). Ai Moribondi del Parlamento va ricordato
che hanno tre doveri da compiere senza ulteriori indugi. In primo luogo
chiedere subito il fondo MES a fronte di un piano credibile di
investimenti nel settore al quale sono destinati, con tutti i
vincoli di legge: la sanità. La sanità non se la passa affatto bene in
Italia, come sa e sempre più scopre chi ha la sfortuna di averne
bisogno per sé, famigliari e conoscenti. Ha urgente necessità di
riorganizzarsi, anche nelle regioni che prima del covid-19 sembravano
all'avanguardia in Europa. Non c'è nulla di vergognoso nel chiedere un
prestito quando se ne abbia necessità. Col debito pubblico che si
ritrova, ogni giorno maggiore, l'Italia non è in grado di
auto-finanziare l'ammodernamento della sanità e della ricerca, da anni
negletta, come la Scuola e l'Università. Vergognosa non è la richiesta
del MES, ma la condizione del sistema sanitario nazionale,
vulnerabilissimo. Per ora non è stato messo alla prova, a differenza di
quello di altri Paesi europei, quali Gran Bretagna, Spagna e la
confinante Francia. Ma se, fatti i debiti scongiuri, dovesse accadere?
Vergognoso, semmai, è non restituire il prestito o usarlo male o
pretendere di non darne conto quando lo si deve fare. Per sua fortuna
l'Italia ha un’opportunità a portata di mano e non può gingillarsi col
rimpallo da anni in corso per non contrariare i grillini e
indirettamente Sua Emergenza il Dubbioso, che ha tutto l'interesse ad
allungare i tempi di qualsiasi decisione vera. Il rinvio è la sua
assicurazione sulla permanenza a Palazzo Chigi. Giova a lui e al suo
immenso parco di esperti e consulenti (altrettanti ne hanno Di Maio e
svariati ministri che manco sanno quanti siano i dipendenti dei loro
dicasteri). In secondo luogo questo Parlamento ha il dovere
di redigere subito un progetto attendibile per intraprendere il
lunghissimo percorso che in capo a un paio d'anni potrà far affluire le
prime quote del Recovery Fund, posto che non si metta di traverso la
crisi delle istituzioni comunitarie e che la tensione tra USA e Cina
non superi la soglia di sicurezza (altrettanto vale per gli scontri in
atto in Libia e nel Mediterraneo orientale tra Grecia e Turchia). Per
la sua formulazione non occorre niente di più di quanto è stato
accumulato in mesi di convegni, commissioni di esperti, passerelle e
chiacchiere varie (stile Villa Pamphili), a parte i soliti ormai
superflui “fori” di scontatissime ovvietà. È ora di passare dal fumo
all'arrosto, dai garbugli alla sintesi. Anche i santi scelgono chi
aiutare. Al momento le richieste di Fondi sommano a oltre 600 miliardi:
tre volte la disponibilità prospettata. A chi tocca decidere ? Alla
Lagarde? Alla Von der Leyen? Tocca all'Italia, a questo governo
frenetico e abulico, presenzialista e atono. Infine i
Moribondi di Palazzo Madama e di Montecitorio debbono varare in
brevissimo tempo la legge elettorale di cui si parla da anni ma che è
stata allontanata prima delle regionali e del referendum come fosse una
tazzina al cianuro. Adesso il Parlamento deve bere. Il nodo è
ineludibile. Zingaretti ne aveva proclamato l'urgenza estrema prima
dell'appuntamento elettorale del 20 settembre. Che cosa fa adesso?
Traccheggia? La legge elettorale è l'ultimo atto del Parlamento
attuale. Un atto dovuto, il suo “testamento politico”, prima dello
“sciogliete le righe”. “Tu l'as voulu...” Il
Presidente Sergio Mattarella afferma che gli italiani amano la libertà
e la serietà. Con tutto il rispetto che gli si deve, ci pare una
valutazione un tantino ottimistica. Si può convenire che forse molti
italiani amano la libertà, parecchi la licenza, altri infine
preferiscono le tenebre anziché la luce come ammonisce il Vangelo di
Giovanni. Non sappiamo quanti davvero prediligano la serietà. Il varo
della legge elettorale, la richiesta immediata del MES, la
presentazione dei progetti finanziabili con fondi europei, lo
scioglimento delle Camere e la consultazione degli italiani
mostrerebbero agli osservatori esteri che i parlamentari sono seri,
sanno prendere atto delle conseguenze delle loro decisioni (a volte
nefaste) e accettano di mettersi da parte quando è il momento. Ma
di questa capacità critica per ora manca ogni prova. Quanto ai musi
lunghi di deputati e senatori ormai palesemente in soprannumero l'unico
commento è: “Tu l'as voulu, George Dandin!”. Hanno giocato, hanno perso
e presto pagheranno il conto del loro suicidio politico-istituzionale,
che trascinerà con sé lo sfoltimento di tante istituzioni e presenze
dello Stato “alla periferia dell'Impero”, determinando l’inevitabile
impoverimento della democrazia: obiettivo ultimo e ormai palese delle
manovre antipolitiche da tempo in corso.
Aldo A. Mola
150° DI PORTA PIA ROMA È L'ITALIA NEL MONDO
Editoriale
di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della
Liguria” di domenica 20 Settembre 2020, pagg. 1 e 11.
Dimenticare Porta Pia? Il
150° dell'annessione di Roma all'Italia meritava, merita e meriterà di
più. Roma non è un agglomerato di rioni e borgate. E' la Città
Eterna e Universale. E' un'Idea. Il silenzio delle Istituzioni sul suo
ricongiungimento alla Patria che essa stessa aveva generato nei secoli
rimarrà documento della meschinità di chi governa, senza progetti seri
perché senza memoria. Va confrontato con i festeggiamenti del 2011 per
il 150° della proclamazione del regno d'Italia, salutata dallo
sventolio del tricolore, da una miriade di iniziative pubbliche e
private e dall'entusiasmo dei cittadini. Il rinnovo di alcuni consigli
regionali e il referendum sul “taglio dei parlamentari” proprio il 20
settembre, anziché una settimana prima o dopo, va imputato al governo.
Esso appanna la già sbiadita coscienza nazionale. Motivo in più per
votare “No” alla riduzione dei parlamentari in carica, non perché lo
meritino gli attuali, in gran parte eterodiretti e “da dimenticare”, ma
in omaggio ai 493 deputati eletti nel 1867 in rappresentanza di 22
milioni di abitanti, a conferma che non sono mai troppi se fanno il
loro dovere. Ben altro, infatti, seppe fare il governo
italiano che nell'agosto-settembre 1870 in un'Europa nella tempesta
della guerra franco-germanica si fece carico dell' impresa capitanata
da Raffaele Cadorna, conclusa con poche ore di combattimento e con la
liquidazione della “questione romana”. Questo miope 150°
concorre a rendere più penosa la condizione della Capitale, da decenni
bersaglio di movimenti dagli orizzonti ristretti, come i 5S e i loro
alleati dentro e fuori il governo. A chi lamenta i “ritardi” e il
declino di Roma va ricordato che nel Novecento, poco dopo il
cinquantenario del regno, un primo ministro conterraneo di Giuseppe
Conte, tale Salandra, spinse il Paese nel tunnel della Grande Guerra,
dal quale uscì esso spossato. Vent'anni dopo il territorio nazionale
per un biennio fu teatro di guerra. Nel 1943-1944 Roma non divenne
campo di battaglia solo perché conteneva in sé lo Stato della Città del
Vaticano e perché il sovrano se ne allontanò favorendone la condizione
di “città aperta”. La ricostruzione fu lenta e difficile ma nel 1970,
Centenario di Porta Pia, la Capitale si mostrò consapevole del proprio
ruolo. A quanti in questo Venti Settembre voltano le spalle
alla Capitale (la cui amministrazione attuale è campione di litigiosità
e inconcludenza) va ricordata l'eco che il nome di Roma suscita nel
mondo. Su genesi, modi e conseguenze immediate e di lungo periodo
dell'annessione di Roma al Regno d’Italia si possono avere opinioni
discordi: è però impossibile non ammetterne la portata storica. Essa
verrà approfondita nel convegno di studi “La Breccia di Porta Pia”,
organizzato l'1-2 ottobre a Roma dal lungimirante Comitato pontificio
di Scienze storiche e dall'Ufficio storico dello Stato Maggiore
dell'Esercito. Al riguardo va osservato che mentre il Vaticano è
rappresentato da Segretario di Stato, S.E. Pietro Parolin, cioè al
massimo livello,l'Italia non vi schiera alcun ministro. al massmo
livello, “Non da conquistatri”: quel che nel 1861 Cavour non voleva.... Tra
i molti temi di approfondimento sul Venti Settembre del 1870 spiccano
le preoccupazioni più vere e profonde di Pio IX sulle ripercussioni
della cancellazione del potere temporale dei papi. La
demolizione dello Stato Pontificio seguita alla “breccia” di Porta Pia
significò solo l’eliminazione della sovranità dei pontefici e
l’annessione di Roma al regno d'Italia? Rispose esclusivamente o
precipuamente al desiderio nazional-patriottico di completare l'unità o
spianò la strada ad altri propositi? Nei discorsi alla
Camera e al Senato del regno d'Italia del 25-27 marzo e del 9 aprile
1861 nei quali, appellandosi direttamente al Santo Padre propugnò il
principio “libera Chiesa in libero Stato”, il presidente del Consiglio
dei ministri Camillo Cavour escluse che la questione romana potesse
essere risolta contro il placet della Francia, nei cui confronti
l'Italia era debitrice della propria unificazione, sia pure nella
dimensione conseguita nel 1859-1860 e sancita con la proclamazione del
regno (14/17 marzo 1861). Affermò inoltre che il potere temporale dei
papi non andava abbattuto con le armi e che gli italiani non dovevano
entrare nella Città Eterna “da conquistatori”. Infine il 25 marzo
ribadì che andava assicurata l'“indipendenza vera del Pontefice” e il
27 aggiunse che bisognava “assicurare l'indipendenza, la dignità, il
decoro del Pontefice”. Cavour non ne precisò i termini politici,
militari e diplomatici; ma anche per il papa “indipendenza” non poteva
suonare molto diversa da come la intendevano i patrioti che nel
1848-1859 l'avevano posta in vetta ai propri ideali nelle guerre contro
l'impero d'Austria. Indipendenza significava, come significa,
“sovranità”. Ristampati da Corrado Sforza Fogliani con postfazione di
Antonio Patuelli nella collana “Libro Aperto” i Discosi di Cavour vanno
riletti e meditati. La condotta del governo Lanza-Visconti
Venosta nell'agosto-settembre 1870 non è riconducibile al programma
cavouriano del 1861. Lo scenario mutò completamente il 19 luglio con la
deflagrazione della guerra franco-prussiano/germanica e, ancor più
drasticamente, con la sconfitta militare di Napoleone III a Sedan il 2
settembre e la proclamazione della repubblica a Parigi il 4 seguente.
In poche settimane, accantonati da tempo gli incitamenti a intervenire
a fianco della Francia, il governo italiano passò da propositi di
mediazione diplomatica tra i contendenti a non considerarsi più tenuto
a rispettare gli accordi stipulati con l'imperatore né in sintonia con
i “sentimenti” attestati nei confronti della Francia, quasi il
mutamento della forma dello Stato avesse sciolto i vincoli a suo tempo
contratti. Contrariamente alle attese del governo di Firenze (come poi
di Roma), vere o accampate a propria giustificazione, Parigi non
rinunciò a nessuna delle sue prerogative e pretensioni nei rapporti con
la Santa Sede. In assenza di una manifesta volizione dei
suoi abitanti negli anni antecedenti la conquista da parte del Regio
Esercito, l'occupazione di Roma ebbe il tacito placet della comunità
internazionale dopo il plebiscito del 2 ottobre 1870 (appena dieci
giorni dopo Porta Pia), che propiziò l'annessione (9 ottobre) e
l'istituzione della Luogotenenza, e all'indomani degli atti formali che
predisposero il trasferimento da Firenze a Roma del re, del governo e
delle istituzioni rappresentative statutarie, senza che però venisse
meno il riconoscimento al pontefice degli onori riservatigli quale Capo
di Stato anche da parte di chi non lo considerava successore di Pietro
né capo della cristianità. Quando Napoleone (Osiride) conferì al figlio (Oro) il titolo di Re di Roma Quali
fossero i loro convincimenti e le rispettive pratiche devozionali,
Vittorio Emanuele II, i componenti del governo e la generalità di
deputati, senatori e dirigenza pubblica, sia statuale sia a livello
locale, tennero una condotta ambigua, ricalcando quella dell'età
franco-napoleonica e in specie di Napoleone I. Questi nel 1808-1811
aprì una breccia molto più ampia di quella italo-vaticana del 20
settembre 1870. Il différend tra l'imperatore e Pio VII non riguardò
solo la sovranità su Roma e non è confrontabile con quello sorto tra la
Repubblica romana del 1798 e papa Pio VI, contenuto nel recinto della
politica. Napoleone mirò invece a sciogliere il potere imperiale da
ogni dipendenza (o soggezione) dall'autorità spirituale del papa. Pio
VII non poté opporsi alla proclamazione della fine della sua sovranità
su Roma da parte del generale Sesto Alessandro Francesco di Miollis il
17 maggio 1809, ma rifiutò categoricamente di riconoscere la nullità
del matrimonio di Napoleone con Giuseppina de la Pagérie, peraltro
celebrato con rito religioso solo alla vigila della incoronazione del 2
dicembre 1804, né, di conseguenza, la validità delle sue seconde nozze
con Maria Luisa d'Asburgo, contratte con il consenso del padre
imperatore d'Austria. Pio VII resistette a ogni pressione, dalle
lusinghe alla minaccia di renderne sempre più vessatoria la condizione
di prigioniero. Napoleone rispose con il conferimento del titolo di Re
di Roma al figlio Napoleone Francesco Giuseppe Carlo, nato il 20 marzo
1811 dalla nuova unione: esso non era di mera “cortesia” né rientrava
solo nel disegno perseguito dall'imperatore dall’incoronazione a re
d'Italia in Milano il 26 maggio 1805 e con le successive assunzioni
della sovranità su altri domini sottratti a sovrani debellati. Andava
molto oltre: mirava a desertificare l'humus sul quale era sorto e
vissuto il triregno pontificio. Il potere spirituale del Papa era
irrilevante agli occhi di quello civile. Attraverso
quella stessa breccia passò l'avvento della concezione dello Stato non
come potere separato da quello spirituale del pontefice e della Chiesa,
qual era stato configurato dal Concordato del 1801, né come
anticlericalismo militante, nel solco di alcune correnti della
Rivoluzione dell'Ottantanove, bens’ quale affermazione del Potere
totalmente nuovo e “altro” rispetto quello sino a quel momento invalso. La
sua concezione e i rituali che ne derivarono furono elaborati e
sperimentati in seno alle logge massoniche rifiorenti dell'Impero sotto
la guida dell'Arcicancelliere Cambacérés, in specie di Rito scozzese
antico e accettato (Rsaa), di rito simbolico francese riformato e,
successivamente, di Memphis-Misraim (allestito dai fratelli Bedarride
nel 1813), con il benestare dell'imperatore celebrato come “Napoléon de
tous les Rites”. Le premesse del riordinamento politico-culturale
dell'Italia con riferimento al valore di Roma quale suo fulcro vennero
poste con la costituzione a Parigi (16 marzo 1805) del Supremo
Consiglio di Rito scozzese “en Italie” e l'insediamento, da parte sua,
del Grande Oriente d'Italia a Milano (20-22 giugno 1805). Anche
prima della cesura segnata dai ricordati eventi del 1809-1811 le logge
tracciarono una cosmologia che prescindeva totalmente dalla Rivelazione
e dall'Antico Testamento. Il conferimento del titolo di Re di Roma al
futuro Napoleone II sancì l'inclusione della Città Eterna in un
orizzonte che, per semplicità, può essere configurato come neo-pagano
con suggestioni dell'Antico Egitto. Lo documenta il verbale
dei “Lavori Massonici” dedicati alla nascita del Re di Roma svolti in
Milano il 15 giugno 1811 con la partecipazione dei supremi dignitari
del regno d'Italia, quasi in tutto e per tutto coincidenti con i
componenti delle sei logge rappresentate. Sotto l'insegna “Uomo,
Natura, Dio” nella sala ornata con la raffigurazione delle nozze della
Terra col Cielo, delle Orgie di Bacco, dei misteri di Cibele e altre
bizzarie, fu celebrata la nascita di Oro (Napoleone II, il loweton), di
Osiride, ovvero di Napoleone il Grande “nostro Fratello e protettore
dell'Ordine massonico nell'Impero di Francia e nel Regno d'Italia”, e
della consorte, Maria Luisa d'Asburgo (Iside). La “cantata” di Giacomo
Luini (Varese, 1771-1845), direttore generale della polizia del regno
d'Italia, recitò: “Sorga altero il Campidoglio/ su l'ignobil Vaticano:/
Grande ancora, ancor romano/ torni il Tebro al suo splendor.
//Dell'Error su l'empio soglio/ splenda omai del Ver la face;/E s'adori
il Dio di pace,/ ove incensi ebbe il Terror”. Le opere di Lefranc,
Agostino Barruel e altri avevano affermato che la massoneria era
manovrata da arrières loges volte a consumare la vendetta dei templari
e, più antica e determinata, di gnostici e manichei. Le logge
franco-centriche (Grande Oriente d'Italia a Milano, quello di Napoli e
le decine direttamente dipendenti dal Grande Oriente di Francia da
Torino e Genova a Firenze a Roma) documentano il proposito di affermare
l'Ordine come culto alternativo alla chiesa cattolica. Considerata
spuria e deviante rispetto all'originaria (dalla genesi oscura e
disputata), quella massoneria fu comunque strumento di potere politico
e veicolo di una cultura radicalmente alternativa al cattolicesimo. Roma come la Fenice: Post fata resurgo... Il
crollo di Napoleone (1814-1815) e la Restaurazione determinarono in
Italia (e non solo) il completo naufragio delle logge (giunte a contare
non meno di 20.000 affiliati, in larga misura coincidenti con la casse
dirigente). A Roma tornò sovrano Pio VII e nessuno lo rimise in
discussione. Nel cosiddetto Proclama di Rimini (1815) Gioacchino Murat
si appellò a tutti gli italiani tranne che ai romani (anche perché Re
di Roma nominalmente rimaneva il figlio di Napoleone I, lo sfortunato
“Aiglon”, da taluni supposto padre di Francesco Giuseppe e Massimiliano
d'Asburgo). Fra il 1815 e il 1849 la Città Eterna venne proposta quale
capitale d'Italia in Costituzioni abbozzate senza successo alcuno da
società segrete. Non se ne trova traccia nel milanese “Il
Conciliatore”, promosso e finanziato dal massone Federico Confalonieri,
né nei propositi affacciati nei moti costituzionali del 1820-1821 e del
1831. Regnante papa Gregorio XVI, la centralità di Roma in
e per l'Italia fu promossa dai neoguelfi in subordine a quella del
pontefice quale fulcro religioso ed etico della confederazione o lega
degli Stati la cui identità fu tracciata nei Congressi degli scienziati
italiani frequentati anche da ecclesiastici. Conscio che il giobertiano
primato morale e civile degli italiani era sentito come tutt'uno con
quello del pontefice, anche Giuseppe Mazzini si appellò al neoeletto
Pio IX. La storia dell'identità di Roma con l'Italia e
dell'idea di Italia nel mondo merita dunque l'attenzione che non le è
stata riservata dalle Istituzioni in questo penoso 150°. L'annessione
di Roma all'Italia coronò il sogno secolare di quanti vi avevano
“lavorato” nel tempo, soprattutto da quando, sulla fine del Settecento
il gesuita Saverio Bettinelli (che non mancò di incontrare Voltaire a
Ginevra) coniò il termine di Risorgimento. Oggi alcuni
polemicamente declassano Roma a mito appassito e giudicano la Città
Eterna priva di autentica forza morale e di rappresentatività.
Vale la regola di Goethe: nessun grand'uomo è tale per il suo
“servitore”, non perché non lo sia ma perché questi non è in grado di
capirlo. La missione della Cttà Eerna prima e dopo Porta Pia fu e
rimase Universale. Quali erano la statura e i progetti delle altre
capitali europee dell'epoca? Che cos'era San Pietroburgo a soli dieci
anni dalla abolizione della servitù della gleba? A Berlino si
forgiavano idee e armi per la sottomissione militare dell'Europa.
Parigi rispondeva preparando la riscossa. A Londra l'Imperatrice delle
Indie badava alle colonie el rimato finanziario. Washington era appena
uscita dalla Guerra di Secessione, ben altra cosa dalla repressione del
brigantaggio nel Mezzogiorno. E che cosa rappresentavano in quegli anni
Madrid, Lisbona, Bruxelles, l'Aja, Atene? L'Europa orientale era ancora
“in fieri”. Lì la Romania andava fiera della sua lingua neolatina e dei
suoi legami storici e civili con Roma e persino duplicò in calco la
Colonna Traiana. Anche allora, insomma, Roma era “caput
mundi”. Peccato che l’attuale governo e i partiti che lo intasano
l’abbiano dimenticato, trascurando e oscurando il 150° di Porta Pia.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: La Colonna Traiana, un “faro” della Romanità.
SETTEMBRE 1920: UN CENTENARIO DIMENTICATO OKKUPAZIONI IN VISTA... DI CHI? DI CHE? PERCHE? L'IMPORTANTE È “OKKUPARE”...
Editoriale
di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della
Liguria” di domenica 13 Settembre 2020, pagg. 1 e 11.
Governo di “okkupazione” Studenti
che si dichiarano “di sinistra” annunciano manifestazioni contro il
disastro della Scuola. Verosimilmente contro questo governo, che è il
più “a sinistra” della storia d'Italia dal 1861 a oggi. Niente di nuovo
sotto il sole. Lo scorso anno, quando a scuola il sabato andavano in
pochi, ogni venerdì gli studenti marciavano per Greta. Ora accampano
altri motivi. Ma contro chi? Okkuperanno aule a rischio di contagio?
Comunque non sono né saranno i soli. Qui tutti
okkupano. L'esempio vien dall'alto. Anzitutto il governo, il
sottogoverno, gli “esperti” e il corteo interminabile dei loro ben
remunerati portavoce e fornitori, accucciati su tutti i divani, le
poltrone, le sedie e gli stuoini possibili. Okkupano anche rimanendo in
piedi, con e senza mascherine, generalmente nere in attesa di quelle
viola per l'Avvento. Se del caso, si fanno incastonare rotelle sotto i
calcagni (Azzolina e Arcuri sono specialisti) e così possono
volteggiare su se stessi. Mentre dilaga la disoccupazione, i tre
partiti e mezzo oggi al governo (l'estrema sinistra, il papocchio
sedicente Democratico, Italia viva e il pasticciaccio brutto che di
nome fa Cinque stelle) “okkupano” e dichiarano che continueranno a
farlo alla faccia dei voti che tra una settimana gli italiani
deporranno nelle urne per le regionali e il referendum. Sono gli Unti
dell'Okkupazione e anche della sotto-occupazione ingigantita con oboli
d'ogni genere: redditi di cittadinanza, di questo e di quello. Tanto
chi paga sono gli italiani, a cominciare da quelli che sono così gonzi
da continuare lavorare, a pagare le tasse e si concedono la debolezza
di credere che ancora esista lo Stato di diritto. La lunga gestazione del caos postbellico Forse
proprio perché l'attuale governo è il più “sinistro” della storia
d'Italia, né Sua Emergenza Conte né i suoi sponsor, seguaci e segugi si
sono prodotti (per ora) in inni e canti per ricordare l'Occupazione
delle fabbriche del settembre 1920. Eppure nel centenario
quel fattaccio merita memoria: fu la sortita di estremisti di tutti i
tipi e generò la catastrofe della “rivoluzione rossa”. Sino a pochi
anni orsono motivo di cortei, fiaccolate e bandiere rosse al vento,
l'occupazione delle fabbriche oggi è un ricordo scomodo, sbiadito. Ma
vediamo come andarono le cose. Fine agosto 1920. La trattativa tra
imprenditori e Federazione Italiana Operai Metalmeccanici (Fiom) per il
rinnovo del contratto nazionale dei salari si arenò. Gli industriali
erano alle prese con la conversione dalla produzione di guerra a quella
“di mercato”. Per anni il governo aveva elargito somme gigantesche per
armare il Paese. Anziché pochi mesi, come avevano sognato il presidente
del Consiglio Antonio Salandra (Troia, 1853 -Roma, 1928) e il ministro
egli Esteri Sidney Sonnino, l'Italia rimase in guerra tre anni e mezzo.
Le Emergenze si sa quando cominciano, non quando finiscono. Si vede
subito chi le paga, meno chi ne approfitta. In un convegno a Padova il
generale di corpo d’armata della Guardia di Finanza, Luciano Luciani,
storico di vaglia, disse lapidariamente che a soffrirne furono
soprattutto contadini, montanari e meno abbienti. Se ne giovarono i
“pescecani”. Dopo il disastro di Caporetto
(ottobre-novembre 1917) il ministero presieduto da Vittorio Emanuele
Orlando, con il lucano Francesco Saverio Nitti al Tesoro, non badò più
a spese. In breve il debito pubblico schizzò da 14 miliardi (quanti ne
aveva accumulati dal 1861 al 1915) a oltre 90. Resistere sul Piave
voleva dire rifare di sana pianta l'artiglieria e investire
nell'aviazione, micidiale “cavalleria dell'aria”. Gli altri Stati in
guerra fecero altrettanto. Infine, prevalse la regola di Londra: “Se
non perdiamo la guerra, vinciamo”. L'Italia fu tra i vincitori; ma a
prezzo altissimo. Non aveva la compattezza secolare di Gran Bretagna e
Francia, né le risorse degli Stati Unti d'America. Tuttavia resse, a
differenza degli Imperi che via via crollarono per consunzione interna,
a cominciare da quello turco, colosso dai piedi d'argilla: una bolla di
contraddizioni fra modernizzazione dell'apparato militare e
oscurantismo islamico, ieri come oggi. Tensioni, dunque,
tra “padroni” e “proletariato”, come all'epoca si diceva. Dinnanzi
all'ostruzionismo del sindacato operaio, il 30 agosto 1920 la “Romeo”
di Milano decise la “serrata” dello stabilimento. Chiuse i battenti in
attesa che i salariati scendessero a miti consigli. In risposta la Fiom
ordinò l'occupazione di centinaia di fabbriche meccaniche e
metallurgiche.Tra il 1° e il 4 settembre il moto dilagò in tutt'Italia.
Si concentrò soprattutto nel triangolo industriale
Milano-Torino-Genova. Come documentò Piero Bairati, storico libero da
paraocchi ideologici, gli industriali era ancora in fase ascendente.
Gli scioperi erano aumentati del 120% in un anno, ma il padronato
l'aveva messo nel conto. Durante la guerra migliaia di fabbriche e di
imprese anche artigianali erano state dichiarate ausiliarie e la
manodopera (in buona parte femminile) era stata “militarizzata”. Come
negli altri Paesi, incluse Gran Bretagna e Francia, gli scioperi
vennero puniti come sabotaggio. Era scontato che dopo la Vittoria i
rapporti mutassero. Nell'ultimo anno il governo promise di assegnare ai
contadini nullatenenti i latifondi incolti, quasi l'Italia
centro-settentrionale non fosse da secoli un Paese di medie e piccole
proprietà agricole, semmai troppo frazionate e sovrappopolate. Il mito
però prevalse sulla realtà. Nel novembre 1919 il rinnovo
della Camera mostrò la profonda lacerazione tra partiti e istituzioni.
Nel 1914-1915 i socialisti si erano arroccati sulla formula “né aderire
(alla guerra) né sabotare”. Né sì, né no (un po' come oggi sul taglio
dei parlamentari e sul MES). Nell'agosto 1917 però, come ricorda il
colonnello Carlo Cadorna in “Caporetto? Risponde Luigi Cadorna” in
stampa per BastogiLibri, il governo consentì a militanti bolscevichi
russi di irrompere proprio nelle aree industriali (a Torino, in
specie), liberi di propagandare la rivoluzione. Poi quattro
“socialisti” italiani andarono in missione in Russia per vedere che
cosa vi stesse effettivamente accadendo. Non conoscevano il russo e i
russi non capivano l'italiano. Gesticolarono e furono applauditi. Al
ritorno non dissero quel che avevano veduto. Ormai, del resto,
parlavano i fatti: l'assalto dei leninisti al Palazzo d'Inverno, la
pace con la Germania senza compensi territoriali “né riparazioni”, la
liquidazione cruenta dello zar, della sua famiglia, dell’aristocrazia e
dell’odiata borghesia. I “dieci giorni che sconvolsero il mondo” (John
Reed) smentirono il “calendario trinitario” del marxismo
austro-germanico: industrializzazione, formazione del proletariato,
rivoluzione. In Russia Lenin balzò oltre la fase intermedia, sino a
quel momento ritenuta indispensabile: dalla non remota abolizione della
servitù della gleba a “comunismo+elettricità”. La storia aveva più
fantasia degli storici, come osservò Leo Valiani. Ripartiva da
Napoleone: “on s'engage, et puis on voit”. Dopo anni di guerre tra
Armata Rossa e armate Bianche, grazie anche alla “distrazione” degli
Stati Uniti d'America, il cui presidente, Woodrow Wilson, nei
Quattordici punti del gennaio 1918 fece largo credito alla sua
“normalizzazione”, la Russia di Lenin esercitò un enorme fascino sui
socialisti italiani e a beneficio delle correnti anarco-sindacaliste
che in ogni sommovimento intravvedevano uno spiraglio della società
senza altari né classi, senza “ordini” né vincoli di sorta. Perciò
Lenin ritenne che l'unico rivoluzionario italiano fosse Gabriele
d'Annunzio, con una spruzzatina di Alceste De Ambris e della sua
celebrata Carta del Carnaro. Tentazioni ideologiche e
immaginarie a parte, dopo il successo elettorale del novembre 1919 la
sinistra italiana rimase divisa in Gruppo parlamentare socialista
(frammentato e niente affatto univoco, antimonarchico, antimilitarista,
quasi l'Italia avesse perso la guerra, e privo di un programma
realistico), Partito parlamentare (suddiviso in correnti che si
odiavano) e Confederazione generale del lavoro. In un paio d'anni gli
iscritti ai sindacati crebbero da uno a quattro milioni di iscritti. La
sua punta di diamante sempre più divenne la Fiom. Consigli di fabbrica e “Ordine Nuovo” di Antonio Gramsci Dal
1920 conquistarono spazio crescente i Consigli di fabbrica (traduzione
italiana di soviet) proposti in specie dal settimanale e poi quotidiano
“Ordine Nuovo”. Nel suo centenario, il primo numero (1° maggio 1919) è
stato ristampato in 250 esemplari dalle benemerite Edizioni Viglongo,
fondate da Andrea Viglongo (1900-1986) che vi visse la sua “gran
giornata” a fianco di Antonio Gramsci, Angelo Tasca, Palmiro Togliatti
e Umberto Terracini. Il vero nemico degli ordinovisti non erano i
governi Orlando-Sonnino, ormai allo stremo, o Nitti, condannato a
vivere alla giornata, né il partito popolare di don Sturzo, i
nazionalisti (vociferanti ma numericamente esigui) e, meno ancora, i
neonati fasci di combattimento dell'ex socialmassimalista Mussolini. Il
loro spauracchio era Giolitti, il pacato e pragmatico statista liberale
che nel maggio 1920, settantottenne, era tornato per la quinta volta a
capo del governo. Nel marzo-aprile i Consigli di fabbrica
ispirati da “Ordine Nuovo” occuparono il cotonificio Mazzonis di Pont
Canavese, le Officine Miani-Silvestri a Napoli e molti
stabilimenti “di bandiera” in Liguria: Ansaldo, Piaggio, Odero,
Ilva... La CGL si sfilò. A Torino venne dichiarato il mitico “sciopero
delle lancette” per reazione contro il licenziamento da parte della
Fiat di tre operai che avevano protestato contro l'introduzione
dell'ora legale, che per un giorno costrinse a un'ora di lavoro in più.
Gli industriali risposero con la serrata. La protesta rientrò. Ma era
solo la prova generale. Nell'estate la guerra russo-polacca
giunse alla partita finale: l'Armata Rossa di Lenin, comandata da
Tukacevskij, avanzò sino alla Vistola ma venne fermata alle porte dei
Varsavia e costretta dal generale Weygand a mortificante ritirata
(15-16 agosto). Ancora una volta i polacchi salvarono l'Europa
centro-occidentale. Ma le frange rivoluzionarie dei partiti socialisti
di quei paesi furono mobilitate per impedire ogni aiuto ai polacchi e
scatenare il caos all'interno dei rispettivi stati. Fuori
tempo massimo, in risposta a una nuova serrata degli industriali i
Consigli di fabbrica ordinovisti deliberarono la già citata occupazione
delle fabbriche, che non fu affatto irenica né priva di episodi truci,
pudicamente cancellati dalla “memoria ufficiale”. Il 5
settembre Gramsci scrisse: “Le gerarchie sociali sono spezzate, i
valori storici sono invertiti, le classi strumentali sono diventate
classi dirigenti, si sono poste a capo di se stesse, hanno trovato in
se stesse gli uomini rappresentativi, gli uomini da investire del
potere di governo, gli uomini che si assumono tutte le funzioni, che di
un aggregato elementare e meccanico fanno una compagine organica, una
creatura vivente”. Confondeva i sogni con la realtà. Giolitti, il Grande Vecchio della democrazia liberale Giolitti
rimase impassibile. Quando Giovanni Agnelli gli chiese di cacciare gli
operai dalle fabbriche, rispose che era pronto a farle bombardare: gli
industriali capirono che proprio non era il caso. Come
previsto dallo Statista, l'occupazione si esaurì. Il 19 settembre la
sala del Consiglio dei ministri al Viminale fu inaugurata da una seduta
davvero singolare: da una parte i rappresentanti della Confindustria
(Conti, Crespi, Falck, Ichino, Pirelli e Olivetti), dall'altra quelli
della CGL (D'Aragona, Baldesi e Colombino) e della FIOM. Il 16
settembre la “base” dell'accordo era stata stilata dal massone Gino
Olivetti per gli industriali, a contatto con sindacalisti “rossi”, e
fatta propria dal ministro del Lavoro, Arturo Labriola, “fratello” pure
lui, come Vittorio Valletta. Il 27 settembre, deposta l'illusione di
esserne padroni, gli occupanti lasciarono le fabbriche per rientrarvi
da operai. A parte miglioramenti salariali e altri benefici (ferie,
indennità per licenziamenti, retribuzione delle giornate lavorate
durante l'occupazione...), l'accordo previde una legge istitutiva di
commissioni di controllo sindacale nella gestione delle fabbriche: ma
sulle condizioni del lavoro, non sulla loro gestione. La proprietà non
fu messa in discussione. Il disegno di legge si perse per strada, come
le “terre ai contadini” e altre promesse dei tempi difficili. Con
il Trattato di Rapallo Giolitti chiuse la vertenza sul confine
italo-jugoslavo e a tra dicembre e gennaio liquidò la Reggenza di
d'Annunzio a Fiume. Dall'occupazione delle fabbriche la rivoluzione
uscì sconfitta. Peggio. A chi gli chiedeva di motivare la condotta del
governo, in Senato (formato da uomini dello Stato, alti gradi militari
e roccaforte del potere economico, non da poetini venticinquenni)
Giolitti spiegò che non poteva impedire l'occupazione di 600 fabbriche,
talvolta con migliaia di operai, con altri 500.000 lavoratori pronti a
muoversi in soccorso degli occupanti, se questi fossero stati attaccati
dall'esercito. Sgomberare le fabbriche con la forza avrebbe comportato
la “guerra civile”. Parole rotonde. Ma Luigi Albertini, già sicofante
dell'intervento dell'Italia nella Grande Guerra, lo bollò quale
“bolscevico dell'Annunziata”, ironizzando sul fatto che dal 1904 lo
Statista era “cugino del Re”. In effetti alcuni industriali
cominciarono a ritenere che avevano ragione gli agrari a usare squadre
di ex arditi per sconfiggere le Camere del lavoro e i “rossi”. Ma i più
continuarono a ritenere che le tensioni erano fisiologiche, come lo
erano stati i grandi scioperi d'inizio secolo, lo sciopero generale del
settembre 1904, quelli contro la guerra in Libia (guidati da
repubblicani e socialrivoluzionari come Nenni e Mussolini). Il mito e i suoi frutti velenosi La
sconfitta dell'occupazione ebbe due frutti tossici. Il primo fu la
scissione del PSI. Al congresso di Livorno (gennaio 1921) dal
tentacolare Partito socialista si spiccò la frangia ordinovista, che
dette vita al Partito comunista d'Italia, sezione locale della terza
internazionale: leninista assai più che marxista, suggestionato da
Louis Blanc e Georges Sorel e fascinato da Giovanni Gentile anziché da
Antonio Labriola, il PC d'Italia nacque e rimase minoritario e
settario, come mostra la vicenda di Angelo Tasca e degli altri suoi
maggiorenti via via radiati (e a volte eliminati dalla faccia della
terra). L'altro frutto velenoso fu il mito dei Consigli di
fabbrica e di cascina, rifiorito nel 1944-1946, anche per suggestioni
affiorate tra le pieghe della Carta di Verona della Repubblica sociale
italiana e dalla legislazione della RSI passata in rassegna nei due
poderosi volumi curati da Francesca Romana Scardaccione per l'Archivio
Centrale dello Stato (2002). Rimasto sotto traccia per un
ventennio, quel mito esplose nel 1968. Si cominciò con le okkupazioni
delle scuole e delle Università, con tutti gli aspetti folkloristici di
una piccola borghesia dedita alla rivoluzione amatoriale, cui seguirono
Potere Operaio, Lotta Continua, la lunga scia di sangue dei “compagni
che sbagliavano” e gli anni di piombo. L'ultimo ad agitare il mito
dell'okkupazione fu Enrico Berlinguer dinnanzi ai cancelli della Fiat,
malgrado già avesse proposto il compromesso storico, caldeggiato
l'euro-comunismo e prese le debite distanze dall'oligarchia del Partito
comunista sovietico. Tornare alla normalità Nel
centenario del settembre 1920 il problema del Paese non è okkupare ma
far ripartire la produzione, far funzionare davvero la Pubblica
istruzione (nervo sensibile per chi ne fu ministro e ora osserva
l'Italia dal Colle più alto), senza relegare milioni di bambini e
ragazzi nel ghetto di chi vive in plaghe non collegate a internet da
alcuna “banda”, né larga né stretta; restituire efficienza agli uffici
e agli opifici che esigono la presenza fisica dei loro addetti, perché
non basta un collegamento telematico per elevare un muro, sagomare un
tondino, compattare un'autovettura..., né per mietere, raccogliere e
immettere i prodotti agricoli sul mercato interno e internazionale. Fra
le tragedie incombenti sul Paese vi è il governo in carica, il più
inetto, incoerente, sconclusionato, e quindi pericoloso, dal 1861 a
oggi. Motivo in più perché il 20-21 settembre prossimi i
cittadini parlino con lo strumento a loro disposizione: il voto. A
cominciare da un tondo “No” allo sconsiderato “taglio” dei
parlamentari: apparentemente un capriccio pentastellato, in realtà un
siluro contro le istituzioni, già pericolanti. Parrebbe davvero
incredibile che certi “democratici” stiano al gioco, se non fosse che
sono nipotini, forse inconsapevoli, del volontarismo ordinovista di un
secolo fa.
Aldo A. Mola
È L'ORA DI UNA NUOVA COSTITUENTE “NO” A QUESTO “TAGLIO” DEI PARLAMENTARI
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 6 Settembre 2020, pagg. 1 e 11.
Al referendum votare “No” Al
referendum del 20-21 settembre occorre votare “No” taglio dei
parlamentari. Non in omaggio a quelli in carica, che approvarono in
massa la mortificazione delle Camere e quindi di sé stessi. Non solo
contro questo pessimo governo, presieduto da Sua Emergenza Giuseppe
Conte. Dinnanzi alla scelta tra il “Sì” e il “No”, l'astuto Avvoltoio
Appulo si fa remoto, volteggia in attesa dell'esito delle urne per
pasteggiare con le spoglie dei vinti e dei vincitori. Unico Precario
d'Italia issato al potere a tempo indeterminato, è stato portato sugli
scudi da due successivi alleati dei suoi sponsor originari, i grillini
(leghisti prima; piddini, italovivaci e leu-cociti poi), da
sfasciacarrozze mutati in cocchieri di gala del Potere. Un Publio
Ovidio Nasone avrebbe da poetare all'infinito sulle continue
metamorfosi di partiti e “politici” italici d'oggi. Ma non
è questo il punto. A togliere ogni dubbio sulla necessità di votare
“No” al referendum sono i “ragionamenti” di chi, come Stefano Folli in
“La Repubblica”, mette in guardia dal temuto ritorno alle urne
politiche quale effetto di un voto “destabilizzante” e tira la giacca
di Sergio Mattarella, attribuendogli ferma contrarietà all’eventuale
vittoria del centro-destra. Gli fa torto perché il Capo dello Stato
d'Italia non è, né può essere, lo sponsor di questo o quel governo,
dell'una o dell'altra maggioranza, ma è il garante dell'esito del voto,
della sovranità nazionale. E sicuramente Mattarella vuole esserlo. Votando
“No” i cittadini mandano un preciso Messaggio alle Istituzioni e anche
a chi dal Quirinale ha molto da dire sul profondo malessere delle
Istituzioni stesse, sugli abusi di potere del presidente del Consiglio
dei ministri, sul cumulo di decreti presidenziali e di decreti-legge
(“pratica” deplorata dal presidente del Senato, Maria Elisabetta
Alberti Casellati) da convertire all'ultimo momento ricorrendo al voto
di fiducia, che in molti casi è un ricatto delle Camere. Lo si è veduto
in questi giorni: il Parlamento ha inghiottito il rospo della abnorme
proroga dei capi dei servizi segreti infilata in un decreto-legge di
tutt'altra genesi, quasi superdose di solfito nella salsiccia di Bra:
tanto rilucente quanto dannosa, come la maggior parte delle “cose
rosse”. Votare “No” al referendum significa richiamare
all'ordine un Parlamento nato dalle sbandate umorali di un Paese da
decenni in confusione ma che da tempo ha mutato direzione, come
lasciano intravvedere tutti i “sondaggi” e confermeranno le urne il
20-21 settembre nelle regioni e nei comuni chiamati al voto. Dopo anni
di slogan, regalie e mance, rinsavito forse proprio per via della
pandemia il Paese si pone finalmente l'interrogativo inquietante: chi,
quando e per quanto tempo pagherà tutti i debiti contratti dal governo,
in buona parte sperperati in forniture meritevoli di inchieste (si
pensi ai banchi per “dervisci rotanti”, risibilmente detti anche
“monouso”) anziché destinati a raddrizzare le gracili gambe del sistema
Italia, stagnante da un quarto di secolo. I partiti di governo hanno il consenso del 25% degli elettori Tocca
ai cittadini difendere il poco che resta del loro diritto a essere
rappresentati alle Camere e, di conseguenza, al governo. Chi vota “Sì”
mette l'Italia nelle mani delle “cupole” sovrastanti i tre o quattro
partiti maggiori, liberi di decidere in piena solitudine e senza alcun
controllo democratico i futuri parlamentari, scelti fior da fiore tra i
segugi più proni anziché tra le persone più competenti. Ma
gli sfiorenti “cerchi magici” chi rappresentano oggi? Tutti insieme i
partiti al governo sommano il consenso potenziale del 40% dei votanti.
Cinque Stelle, col 15%, Democratici (per modo di dire), con meno del
20%, Renziani e Leu col 3% circa ciascuno costituiscono una minoranza
dei consensi dei votanti. Ma questi, in specie alle regionali e alle
comunali, sono appena il 50% o poco più degli elettori. In concreto, a
conti fatti i partiti oggi al governo tutti insieme hanno il consenso
del 25% degli elettori. Pochi, insomma, per pretendere di decidere il
futuro del Paese per un paio di generazioni. Si dirà che gli
assenti dalle urne hanno sempre torto e che quindi non meritano
attenzione. Ma una democrazia sana, che alle spalle ha anche un tragico
regime di partito unico e mezzo secolo di conventio ad escludendum del
principale partito d'opposizione negli anni del “bipartitismo
imperfetto” (felice formula di Giorgio Galli), non ha motivo di vantare
la diserzione dal voto. Anzi, dovrebbe incoraggiare l'afflusso alle
urne e salutare con favore la mobilitazione dei giovani non solo nelle
movide e nelle discoteche ma anche nelle “piazze”, fisiche e virtuali. Il
taglio dei parlamentari, come noto e ammesso da costituzionalisti
(Sabino Cassese in testa: se ne legga Il buon governo. L'età dei
doveri, Mondadori) politologi, esperti di scenari elettorali,
storici, ecc., comporterà la desertificazione della rappresentanza
politica di intere regioni già oggi trascurate, la ghettizzazione di
immense aree condannate al sottosviluppo e all'arretratezza. In
concreto, il “Sì” è un voto contro l'Unità d'Italia che si realizzò
tardi, non sempre al meglio e con immenso sforzo tra Otto e Novecento
per elevare le condizioni del Mezzogiorno e delle isole a quelle delle
aree già integrate con l'Europa industrializzata grazie alla
infrastrutture: un cammino virtuoso frenato dalla onerosa
partecipazione a due guerre mondiali, faticosamente ripreso negli anni
del “miracolo economico” postbellico e poi nuovamente interrotto per la
stagnazione del PIL. Quel voto creerebbe un regime di oligarchie
sorrette all'interno da feudatari, completi di valvassori e valvassini,
ma eterodirette e corrive ad andare spintaneamente a vento e a vapore,
secondo i Grandi Suggeritori esteri, dagli USA a Mosca, da Pechino a
(persino) Istanbul, ove da anni imperversa un totalitarismo islamico
fondato sulla repressione di ogni forma di dissenso, nel silenzio
dell'Unione Europea incline a strapparsi le vesti quando le vien comodo
recitare una parte in commedia, ma pronta a indossare bavaglio e
turbante quando gliene conviene un'altra. Arginare l'antipolitica Il
“Sì” al taglio dei parlamentari è il punto di arrivo dell'antipolitica,
è la vittoria di chi aveva promesso di scoperchiare il Parlamento come
una scatola di tonno. Da decenni, da quando il Partito comunista
italiano sparò a zero contro l'ala “occidentale” della DC, PSI, PSDI
PRI e PLI e mise a frutto Tangentopoli e la leggendaria farsa detta
“Mani Pulite”, il pregiudizio atavico contro i “politici” si è tradotto
nell'indifferenza e nella peggiore diserzione civile: il “non voto”. È
stato ripetuto sino alla nausea il cinico brocardo “tutto cambia perché
niente cambi” e che governare in Italia non è difficile ma inutile.
Sono battute qualunquistiche, che disprezzano gli enormi sacrifici di
chi ha costruito l'Italia quale Paese unito, indipendente e a lungo
libero. Se, malgrado tutto, essa non è affatto il fanalino d'Europa né,
meno ancora, del mondo, lo si deve al Parlamento ispiato e guidato, nel
tempo, da Cavour, Giolitti, De Gasperi e anche da Andreotti, Berlusconi
e Prodi. Se in Italia l'ordine pubblico è retto con la forza della
legge mentre altrove dilaga la violenza (la differenza è abissale) lo
si deve alla lunga lotta per la democrazia rappresentata dal primato
del Parlamento, che elegge il Cap dello Stato e al quale l'Esecutivo
deve rispondere. Non per caso, dopo una lunghissima serie
di costituzionalisti, Romano Prodi e Silvio Berlusconi, pur così
diversi, hanno deplorato e deplorano chi intende usare il “taglio dei
parlamentari” per inquinare il legame tra elettori e loro
rappresentanti (l'articolo 67 della Costituzione recita: “Ogni membro
del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza
vincolo di mandato”: né ideologico, né religioso, né d'altro genere). La
conseguenza è nei fatti. In pochi anni l'astensione è balzata dal
15-20% al 40-50% e oltre, con grande soddisfazione di chi era e, ancor
più, di chi è al potere; ma con altrettanto disgusto di chi non si
preoccupa di sé ma per il futuro della democrazia parlamentare,
fondamentale e irrinunciabile per la società civile (inclusa la
demenziale “decrescita felice”, che ha bisogno di norme più di quanto
ne abbia la crescita: la “natura” è più tutelata oggi che prima
dell'industrializzazione). Sta ai cittadini decidere
se vivere in uno Stato costituzionale o nel Paese di Cetto Laqualunque.
Nel primo caso si vota “No”, nel secondo si “taglia”, per far
dispetto... alla democrazia. Quando è la Camera a voler male all'Italia A
ben vedere, questo Parlamento forse non merita di essere difeso, se non
contro se stesso, dai suoi errori, dalle sue debolezze: nell'interesse
generale permanente de cittadini, non dei suoi improvvisati e sepsso
stralunati componenti. Esso, infatti, votò con ostentato entusiasmo per
la propria auto-mutilazione. Ma, come insegna l'Ecclesiaste, nulla è
nuovo sotto il sole. Neppure sotto quello italico. Una minoranza di
patrioti introdusse anche in Italia le libertà costituzionali, le
irrobustì, le difese e le rese “normali”: da Melchiorre Gioia e
Giandomenico Romagnosi (massoni) a Cavour e a Giolitti. Nel corso del
tempo, però, proprio la Camera elettiva talvolta ha approvato leggi
elettorali stupide e infauste. Il regime di partito unico non è stato
una conquista del “truce” Benito Mussolini, ma il regalo dei deputati
che via via gli conferirono tutti i poteri e che di legislatura in
legislatura approvarono la propria evirazione: la legge Acerbo nel 1923
(quando il “regime” era di là da venire, con buona pace di affabulatori
come Emilio Gentile), la legge Rocco nel 1928, la sostituzione della
Camera succuba ma ancora elettiva nel 1929 e nel 1934 con quella dei
fasci e delle corporazioni nel 1938-1939, composta smaccatamente di
“nominati”. Il Senato andò a rimorchio. Non vi si levarono forti e
chiare le voci di chi vi era entrato prima del regime di partito unico.
Che cosa allora poteva fare di iniziativa propria un re statutario se
le Camere si mettevano in ginocchio dinanzi al “duce”? Vediamo anche
oggi i preoccupati silenzi del Capo dello Stato dinnanzi a una riforma
che priverà intere regioni di propri rappresentanti e che azzera la
libertà dei cittadini di scegliere i propri rappresentanti. Certo il
Presidente dello Stato d'Italia non può sostituirsi al Legislativo né
negare in perpetuo la propria firma a leggi approvate dalle Camere,
salvo il vaglio della Corte Costituzionale. E' un’esperienza, quella
odierna, che dovrebbe aiutare a capire il passato neppur tanto remoto
della nostra storia. Mentre i Cinque Stelle possono menar
vanto di aver costretto alleati e oppositori a votare in massa una
legge di cui ora in parte significativa molti deputati e senatori sono
pentiti (“Sapientis est mutare consilium...”) il “democratico” Nicola
Zingaretti e i suoi stretti referenti si debbono contentare della
calendarizzazione di una proposta di legge elettorale solo una
settimana dopo il possibile squasso del 20-21 settembre, quando
potrebbe essere tardi per spegnere l'incendio. A fine mese il Paese
sarà in pieno affanno per il caotico inizio dell'anno scolastico e per
le ripercussioni del crollo del PIL, con quanto ne consegue
sull'occupazione, in specie femminile e giovanile. Di lì, già si
intravvede, dilagherà la tentazione dei “democratici” di cedere
all'estremismo fanciullesco di proposte sempre più strambe in materia
elettorale. È il caso del conferimento del voto ai
diciottenni per l'elezione dei senatori e dell'eleggibilità a soli
25 anni a membri del Senato, che, etimologicamente, sta per
“Camera degli Anziani”. Questo, con buona pace dei costituzionalisti
eventualmente corrivi a benedire la riforma, sarebbe l'ennesimo
colpo di Stato contro la lingua italiana, oltre che contro la decenza
politica. E' l'ora di una nuova Costituente Che fare dunque? Dopo
decenni di proposte ingarbugliate di modifiche della Costituzione (fu
il caso della Renzi-Boschi, che non eliminava il bicameralismo e
istituiva un Senato farlocco) e di elogi stantii della Costituzione più
bella del mondo, tempo è venuto di redigere una nuova Carta
Costituzionale. L'Italia va rimessa sulle proprie gambe e
in linea con l'Unione Europea, di cui essa fa parte e di cui ha bisogno
disperato perché senza le aperture di credito, parte meri aiuti e parte
prestiti, che le possono arrivare da “lassù”, essa è condannata alla
catastrofe. E' il caso del MES, da chiedere e da rendicontare senza
imbarazzo alcuno, come si usa tra persone perbene. Dopo decenni
di stagnazione, che vuol dire regressione se gli altri vanno avanti,
incombe l'ora del fallimento. Non è scritto in alcun libro del destino
che questa sia la sorte del Paese, ma neppure che non lo sia. Paradosso
vorrebbe che l'Italia finisse come l'Argentina proprio nel 150° di
Porta Pia e proprio mentre a Roma vi è un papa arrivato “dalla fine del
mondo”, come disse Francesco alla sua elezione. Occorre una
nuova Costituzione, dunque. Anche per fermare sul nascere i pericolosi
cenni di Zingaretti Nicola a favore del monocameralismo. Non sappiamo
quali siano le sue letture di storia e di politica. Sappiamo invece
bene che tutti i regimi liberticidi sono stati partoriti dall'Assemblea
unica. Cominciò Cromwell, poi fu la volta della Convenzione
repubblicana francese del 1792 e via continuando sino ai Soviet, al
regime hitleriano e a quelli tuttora imperversanti in molti Stati. Nuova
Costituente, pertanto, incardinata sulla divisione dei poteri e sul
bicameralismo, che, per esperienza storica, in Italia costituisce una
rete di sicurezza. Non per caso nel 1938 l'unica opposizione alle leggi
razziali si registrò nel Regio Senato, ove esse furono approvate con
154 voti su 400 membri (nessuno chiese la verifica del numero legale!)
e si registrarono dieci voti contrari (fra i quali Luigi Einaudi):
pochi, ma “a futura memoria”. È l'ora di una nuova
Costituente, da eleggere con la proporzionale e una quota di
sbarramento molto bassa: non superiore al 3%, o anche meno. Qualcuno
troverà paradossale e persino astrusa questa ipotesi/proposta. Ma chi
appena un poco conosca la storia politica, parlamentare, culturale e
civile d'Italia non vi troverà nulla di abnorme né di scandaloso. In
età monarchica, dal 1861 al 1925, la pattuglia dei radicali e dei
repubblicani era piccola ma pugnace, rispettata e ascoltata, proprio
perché spesso dalle opposizioni pensanti vengono moniti lungimiranti.
Il 16 novembre 1922 solo Eugenio Chiesa, repubblicano e massone, gridò
“Viva il Parlamento” quando Mussolini disse che dell'Aula sorda e
grigia avrebbe potuto fare “bivacco” per i manipoli delle sue camicie
nere. Nel dopoguerra un contributo fondamentale ai lavori della
Costituente fu dato dal minuscolo Partito d'Azione, già diviso in due
(con Parri e La Malfa “a destra”), dotato di esponenti memorabili quali
Leo Valiani e Piero Calamandrei. Anche se non sempre ascoltate, vi si
levarono le voci delle minoranze, compresi liberali, monarchici e
libertari. Fu il caso di Benedetto Croce, che si oppose all'iniquo
Trattato di pace del 10 febbraio 1947, e del “fratello” Concetto
Marchesi che, ricorda il suo biografo Luciano Canfora in Il Sovversivo.
Concetto Marchesi e il comunismo italiano (Ed. Laterza, eccellente
finalista al Premio Acqui Storia 2020), votò contro l'inclusione dei
Patti Lateranensi nella Costituzione. Negli anni più
difficili della Repubblica il partito liberale ebbe due soli senatori,
Giovanni Malagodi e Giuseppe (Beppe) Fassino, eletto in Piemonte: una
fiaccola che tenne vivi la Tradizione in tempi procellosi, quando il
Paese affrontò e vinse la lunga lotta contro il terrorismo senza
ricorrere a leggi speciali, bensì rafforzando lo Stato, le sue
competenze, e chiamando i cittadini a far quadrato attorno alle
Istituzioni, sollecitate ad ammodernarsi dall'indimenticabile
Presidente Francesco Cossiga. E quanto concorse al
progresso vero del Paese la pattuglia dei radicali, con Marco Pannella,
che fece eleggere euro-deputato Enzo Tortora? Erano pochi, ma tenaci e
inventivi. Europei. Il Partito socialista di Bettino Craxi fu
numericamente minoritario rispetto a DC e PCI ma politicamente più
lungimirante. Se la “grande riforma” a suo tempo da lui avanzata avesse
ottenuto più ascolto anziché l'ostilità loro e di certi “corpi
separati”, l'Italia non sarebbe oggi qual è: sull'orlo dell'abisso,
mentre imperversa il conflitto governo-regioni, apparentemente sopito
da Sua Emergenza nel caso Lampedusa/Sicilia ma destinato a esplodere
all'indomani della conta de voti. Coscienza e dignità Qualcuno,
come il Presidente di Forza Italia Silvio Berlusconi, ha detto che la
scelta tra il “Sì” e il “No” rientra tra le “libertà di coscienza”. Ha
detto bene. Ogni cittadino ha in mano la sua parte di sovranità e il
20-21 prossimi potrà esercitarla in piena libertà. Chi vota “Sì”
risulterà forse in maggioranza ma si accollerà la responsabilità
storica delle conseguenze devastanti del taglio dei parlamentari,
inclusa la disfunzione del Parlamento. Correrà dietro a chi dice di
voler “fare nuove tutte le cose”, come il Mostro dell'Apocalisse,
ma sa solo distruggere e non ha alcun progetto di Ricostruzione
del Paese. Chi invece vota “No” avrà l'orgoglio di aver messo gli altri
sull'avviso e sarà in pace con se stesso. Non è il momento della
diserzione ma della dignità. La rappresentanza dei cittadini è il sale
della democrazia. Dopo tanti, troppi anni di “antipolitica”, il “No” è
la premessa al ritorno alla Politica, la premessa della seconda
Costituente, di cui il Paese ha urgente bisogno. Ogni “No” in più
concorrerà a rialzare le sorti dell'Italia, mattone su mattone.
Aldo A. Mola
L'ANTICONCILIO DI NAPOLI (9-10 dicembre 1869) E L' INTERNAZIONALE UMANITARIA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 30 Agosto 2020, pagg. 1 e 11.
Cavour, 25/27 marzo-9 aprile 1861: per Roma Capitale... Nel
150° di Porta Pia pochi si sono occupati del Concilio ecumenico indetto
da papa Pio IX e insediato in San Pietro la mattina dell'8 dicembre
1869, dopo anni di intensa preparazione. In un documentato e brioso
saggio Francesco Margiotta Broglio ha scandagliato la crisi finanziaria
e monetaria che minava il Vaticano più di quanto facessero i
Giambi ed Epodi di Carducci (“Libro Aperto”, 2019, n.4). Fu il 20°
Concilio nella quasi bimillenaria storia della Chiesa di Roma, ma
il primo a svolgersi in Vaticano. Dopo quelli celebrati in Oriente (sin
da Nicea, nel 325 d.C., ove gli ariani vennero condannati per eresia,
aprendo una lunga età di sanguinosi conflitti all'interno della
cristianità), nell Città Eterna ne erano stati tenuti altri fra il 1123
e il 1215, ma in San Giovanni in Laterano. La data del
Concilio Vaticano del 1869 non fu casuale: ricorrevano quindici anni
dalla proclamazione del dogma dell'Immacolata concezione (8 dicembre
1854), fondamentale per l'impulso della devozione mariana, legata anche
alla “apparizione” di Lourdes e attestata dalla moltiplicazione di
santuari dedicati alla Madonna, in alternanza a quelli intitolati al
Sacro Cuore. Il Concilio precedente (Trento, 1545-1563) aveva
approntato la Riforma cattolica o, secondo altri, l'inizio della
Controriforma, contro ogni deviazione dal dogma, come ricordano i molti
roghi di eretici (fu il caso di Giordano Bruno) e i pubblici pentimenti
di scienziati “avveduti”, come Galileo Galilei. Il Concilio
del 1869-1870 ebbe due obiettivi: l'affermazione dell'infallibilità
dottrinaria del pontefice e, conseguentemente, del primato del
successore di Pietro sulla Chiesa cattolica apostolica romana,
l'unica ritenuta depositaria della Verità e concepita quale edificio
possente, articolato, complesso ma infine coeso e piramidale. Per
insondabili cagioni metastoriche (“lo Spirito soffia dove vuole”
insegna l'Evangelista Giovanni) esso preparò la Chiesa di Roma a
fronteggiare la prova più temuta e al tempo stesso ormai incombente: la
debellatio dello Stato Pontificio dopo che il Re di Sardegna, Vittorio
Emanuele II, nel 1860 aveva sottratto al papa le pingui Legazioni
nell'Emilia-Romagna, l'Umbria e le Marche, attirandosi la scomunica
maggiore da parte di Pio IX. Molti cattolici d'ogni Paese erano
convinti che, spogliato della sovranità su Roma (come era avvenuto tre
volte in mezzo secolo: nel 1798, nel 1809 e nel 1849, dai
franco-napoleonici prima, da Carlo Luciano Bonaparte e Giuseppe
Garibaldi poi), per il papa sarebbe stato difficile se non addirittura
impossibile esercitare quella spirituale sulla Chiesa universale. Anche
Camillo Cavour nutrì molte e gravi perplessità su modi e tempi nei
quali realizzare il grande sogno: fare di Roma la capitale d'Italia. I
suoi celebri discorsi del 25 e 27 marzo alla Camera e del 9 aprile in
Senato, ora ripubblicati da Corrado Sforza Fogliani in “Libera Chiesa
in libero Stato. Roma Capitale d'Italia”, con sua acuta partecipe
introduzione e dotta postfazione di Antonio Patuelli (ed. Libro Aperto,
Ravenna: il presidente dell'Abi vi rivendica il ruolo svolto da Carlo
Luigi Farini e da Marco Minghetti in convergenza con Cavour) offrono
molti motivi di riflessione. Come ha bene rilevato un
liberale autentico ed eminente cavourologo quale Marco Bertoncini, lo
statista pesò ogni parola. Parlava alle Camere ma anche alla diplomazia
europea (non solo la francese) e, con particolare accoramento, alla
Santa Sede. Nella conclusione dell'ultimo discorso si rivolse
direttamente al “Santo Padre” esortandolo: “Accettate i patti, che
l'Italia fatta libera vi offre, accettate i patti che devono assicurare
la libertà della Chiesa, crescere il lustro della sede ove la
Provvidenza v'ha collocato, aumentare l'influenza della Chiesa, e nello
stesso tempo portare a compimento il grand'edifizio della rigenerazione
dell'Italia, assicurare la pace di quella nazione, la quale, al
postutto, in mezzo a tante sventure, a tante vicende, fu ancora quella
che rimase più fedele e più attaccata al vero spirito del
cattolicesimo”. Lo statista parlava anche per sé e di sé. Meno di due
mesi dopo, egli si fece amministrare il viatico della buona morte dal
fido fra' Giacomo da Poirino. Nato cattolico, Cavour volle morire da
cattolico, come la generalità della dirigenza liberale del tempo suo e
dei decenni seguenti, anche sotto questo profilo imitato da massoni
insigni quali i presidenti del Consiglio Agostino Depretis, Francesco
Crispi, Giuseppe Zanardelli (il suo funerale fu officiato da quaranta e
più sacerdoti), Sandrino Fortis e il ministro degli Esteri Antonino
Paternò Castello, marchese di San Giuliano, in loggia da 21 anni ma
rassegnato a funerali cristiani per il suo corpo, se così piaceva ai
famigliari. Ma senza usare i cannoni, non “come conquistatori” Il
25 marzo 1861, in risposta a Rodolfo Audinot, deputato di Bologna,
Cavour sottolineò che l'Italia non poteva “andare a Roma” senza il
consenso della Francia di Napoleone III, cui doveva la sua stessa
nascita, e che andandovi doveva salvaguardare l'“indipendenza vera del
Pontefice”. Era il proposito per decenni caldeggiato da ecclesiastici
patrioti quali Antonio Rosmini e Vincenzo Gioberti, da lui evocati in
Senato il 9 aprile. Nei suoi interventi lo statista escluse
ripetutamente che la Nuova Italia potesse irrompere in Roma senza
il “placet” di Pio IX. Se non vi fosse stato il consenso della comunità
internazionale (che doveva ancora “riconoscere” l'esistenza del nuovo
Stato d'Italia) Cavour sapeva “che allora si potrebbe pensare ad
adoprare l'argomento dei cannoni: ma – subito aggiunse – siamo tutti
d'accordo che nelle attuali circostanze a questo argomento si deve
rinunziare”. L'Italia doveva concorrere alla stabilità europea, non già
innescare conflitti. Abbattere il trono di Pio IX contro il gradimento
di milioni di cattolici sparsi nel mondo voleva dire attirare
sull'Italia il loro inestinguibile odio: sentimento poco cristiano ma
comprensibile se, come era accaduto in Francia dopo il 1789, al clero
fosse poi stato imposto un qualche giuramento di fedeltà allo Stato. In
Senato con parole limpide e lungimiranti Cavour ribadì: “Noi non
possiamo adoperare se non mezzi morali, ché mal si addirebbe a noi di
arrivare nella sede del cattolicismo come conquistatori: ché sarebbe
per l'Italia grave pericolo il mettere in fuga il Pontefice”. Napoleone
I aveva fatto di peggio. Lo aveva tratto prigioniero in Francia; ma si
sapeva come era andata a finire. Al papa, anzi, ripeté
Cavour nella conclusione del fondamentale discorso del 27 marzo,
suggellato dal voto unanime che decretò Roma capitale d'Italia,
si doveva “assicurare l'indipendenza, la dignità, il decoro del
Pontefice”. Ma quali erano i requisiti minimi dell'indipendenza vera?
La separazione dello Stato dalla Chiesa, propugnata dalla Nuova Italia,
era necessariamente incompatibile con il riconoscimento della sovranità
temporale (“simbolica” e amministrativa, ormai, più che politica e
militare) su un lembo della Città consacrata dal sangue dei Santi
Pietro e Paolo e di migliaia e migliaia di testimoni della fede
cristiana? Nulla sappiamo di quanto Cavour avrebbe detto e
fatto dieci anni dopo il 6 giugno 1861, quando morì improvvisamente a
soli 51 anni, né, quindi, a cospetto della guerra franco-germanica
esplosa nel luglio 1870 e nel timore che, dopo la proclamazione della
Repubblica a Parigi (2 settembre), Roma divenisse altro laboratorio di
rivoluzionari, repubblicani, protosocialisti, atei dichiarati. La Prima
Internazionale dei “lavoratori” era nata alla Saint-Martin 's Hall di
Londra il 28 settembre 1864. Conosciamo invece le scelte,
comprensibili, dei suoi seguaci e successori sino a Giovanni Lanza, in
sintonia con il senatore Carlo Cadorna, fratello di Raffaele, il
generale che comandò il corpo della spedizione culminata con la breccia
di Porta Pia (ne ha scritto un’eccellente biografia Franco Ressico, di
imminente pubblicazione, ed. BastogiLibri). Giuseppe Ricciardi l'internazionale umanitaria Tra
quanti depositarono sul banco della presidenza della Camera ordini del
giorno per Roma capitale, affini a quello del cavouriano Carlo
Boncompagni di Mombello, vi furono il federalista ed economista insigne
Giuseppe Ferrari, Mauro Macchi, massone ed esponente della sinistra
democratica, David Levi, ebreo nativo di Chieri e alto dignitario della
risorgente Massoneria “in Italia” (non “italiana” ma, semmai,
“all'italiana”), Ferdinando Petruccelli della Gattina (autore del
succoso “I moribondi di Palazzo Carignano”, lettura obbligatoria per
quanti, obnubilati, intendessero votare “sì” all'imminente referendum
per la riduzione del numero dei parlamentari) e Giuseppe Ricciardi. Ma
chi era costui? Oggi pressoché dimenticato, Ricciardi, conte di
Camaldoli (Napoli, 1808-1882), è tra le personalità politiche e
culturali paradigmatiche della Terza Italia. Suo padre, Francesco, era
stato ministro di Gioacchino Murat re di Napoli e tornò al governo nel
breve periodo costituzionale del 1820-1821 dello spergiuro Ferdinando I
di Borbone. La madre, Luisa Granito, di famiglia marchionale, aveva
difeso i “rei di stato” durante la famigerata repressione liberticida
del 1799. Malato di poliomielite all'età di dieci anni e per sempre
zoppo, dopo lunghi viaggi in Italia durante i quali conobbe Manzoni,
Monti, Leopardi e altri insigni “scrittori civili”, nel 1830 fu
arrestato a Napoli per sospetta cospirazione liberale. Rilasciato,
compì un lungo periplo in Europa. Da Giuseppe Mazzini fu incaricato di
gettare le fila della Giovine Italia nel Mezzogiorno. Nuovamente
imprigionato, appena libero esulò. Rientrò a Napoli nel secondo periodo
costituzionale (1848) concesso dal parimenti spergiuro Ferdinando II di
Borbone. Alle nozze lui e la moglie ebbero testimoni Achille Murat,
figlio di re Gioacchino, Federico Confalonieri e Terenzio Mamiani,
tutti massoni, e Pietro Leopardi. Intrinseco dei fratelli Attilio ed
Emilio Bandiera (la cui rievocazione tenne a Venezia quando vi furono
traslate le spoglie), in Francia ebbe contatti con Felice Orsini,
autore del noto attentato a Napoleone III che a lui costò la
ghigliottina e all'Italia procurò la forzata attenzione dell'imperatore
dei francesi. Narrò la sua vita nelle “Memorie autografe di un ribelle”
(Parigi, 1857) e in “Il fuoriuscito”, “Il tribuno” e “Le memorie di un
vecchio” (Milano, 1874). Deputato di Foggia dal gennaio
1861, da Enrichetta Carafa d'Andria, che gli era affezionata, fu
sinteticamente definito “repubblicano fiero ed onesto, cuore d'oro e
mente bislacca”. A volte le donne con poche parole scrivono biografie.
Sanno leggere i manzoniani “misteri del cuore umano” e rendono opera
d'arte una vita disordinata. Nel 1863 Ricciardi si dimise
da deputato per protesta contro l'inconcludenza del governo e
dell'opposizione “alla malva”, ma fu subito confermato per altre due
legislature. Benché in stretti rapporti con l'arciprete
massone Domenico Angherà (Briatico, 1803-Napoli, 1873), venerabile
della Loggia Sebezia e capofila di una importante rete liberomuratoria
tanto fantasiosa quanto onesta (anche a giudizio dei suoi concorrenti
più maligni), non consta che Ricciardi sia stato iniziato massone in
Italia. Gli indizi di sua appartenenza al Grande Oriente Egizio
risultano labili. L'Anticoncilio di Napoli, 9 dicembre 1869 Appena
si ebbe notizia ufficiale del Concilio ecumenico vaticano (a suo
giudizio indetto per “rafforzare una potestà mostruosa e ribadire negli
animi i ceppi della superstizione”), il 21 gennaio 1869 Ricciardi ideò
la convocazione di un Anticoncilio “coll'intento di opporre alla cieca
fede il gran principio del libero esame e della libera propaganda”.
Pubblicato nel quotidiano “Il popolo d'Italia” (24 gennaio) il suo
appello alla costituzione di una “associazione umanitaria” fu subito
accolto da Giuseppe Garibaldi, “primo massone d'Italia”, che da Caprera
augurò successo all'adunata “in un sol campo di tutti i liberali
e dei liberi pensatori”. Il programma di Ricciardi
prevedeva una “nuova massoneria, operante alla luce, ed estendentesi,
al pari di essa, a tutto il mondo”, la piena occupazione, il sussidio
per i disoccupati involontari (antico proposito dei social-utopisti
francesi: nulla a che vedere l'elargizione di redditi di mera
cittadinanza, incentivanti l'ozio truffaldino), l'istruzione primaria
obbligatoria e gratuita e la “guerra al papa e al papato”. I liberi
pensatori erani i “veri discepoli di Gesù”. Come quartier generale
dell'impresa Ricciardi elesse casa sua (Riviera di Chiaia 57,
Napoli). L'iniziativa ebbe un successo straripante. Dall'estero
aderirono, fra altri, Victor Hugo, Charles Louis Michelet, a nome della
Società filosofica di Berlino, Edgar Quinet, Jules Michelet, Emile
Littré (campioni della cultura letteraria e politica francese amata in
tutta Europa) e dall'Italia Jacob Moleschott e Pietro Sbarbaro, massone
come molti altri sostenitori dell'iniziativa. “Crescit
eundo”, l'Anticoncilio si armò di strali sempre più acuminati.
Garibaldi auspicò che l'8 dicembre nelle cento città d'Italia, a
imitazione di Napoli, si riunissero meetings “ad acclamare i principii
del vero ed a maledire le turpi menzogne e la cabala infernale ordita
dal Vaticano”. In prossimità dell'adunata Ricciardi tracciò
i capisaldi dell'Anticoncillio: quello della Chiesa prendeva a
principio la fede, il propugnava la scienza. Propose abolizione dei
culti ufficiali, suffragio universale, libertà nel lavoro, diffusione
di scritti popolari e insegnamento gratuito popolare. Contò su una
moltitudine di adesioni anche femminili, come Angelina Mola, segretaria
della sezione napoletana della Società emancipatrice delle donne
italiane e iniziata massona da Garibaldi, la contessa Giulia Caracciolo
Cigala e un lungo elenco di pioniere della “questione femminile”,
impegnate nella lotta contro la prostituzione. Con la
miriade di messaggi giuntigli da tutti i continenti, l'Anticoncilio di
Napoli parve insomma destinato al trionfo. Aderirono 51 logge,
prevalentemente meridionali, 34 società operaie, 25 associazioni,
specie di liberi pensatori capitanati da Ferdinando Swift e da
Gambuzzi, per un insieme di 237 “corpi”. Si aggiunsero 59 deputati,
tutti dell'Estrema garibaldina: tra costoro spiccano Asproni, Bertani,
Cairoli, D'Ayala, Francesco De Sanctis, Domenico Farini, futuro
presidente del Senato, Giambattista Michelini, Salvatore Morelli,
Enrico Pessina, Giuseppe Petroni, poi gran maestro del Grande Oriente
d'Italia, Giuseppe Romano, fratello di Liborio e massone a sua volta,
Riccardo Sineo, Tamaio, Zanardelli..., e due senatori: Emanuele
Marliani e l'arabista Michele Amari, iniziato all'Ordine
liberomuratorio. Il 13 e 20 novembre 1869 Ricciardi tenne a
casa sua le ultime riunioni preparatorie. Sembrava fatta. Il programma
“Post tenebras lux” diceva tutto: libertà religiosa, separazione fra la
Chiesa e lo Stato, morale indipendente dalle credenze religiose,
fondazione dell'internazionale per il benessere economico e morale,
“umanitaria” e lontana dalla lotta di classe e da propositi e metodi
sanguinari. La libertà non si afferma con le armi ma con la
Ragione e la Scienza. Il governo, presieduto dal generale
savoiardo Luigi Federico Menabrea, si mise di traverso. Il ministro
della Pubblica istruzione, Angelo Bargoni, massone come l'altro
dioscuro del Terzo Partito, Antonio Mordini, negò qualunque adesione
dell'Esecutivo, sia pure indiretta (26 novembre). Il gran maestro
facente funzione, Ludovico Frapolli, con un comunicato lambiccato e
ambiguo, negò quella del Grande Oriente d'Italia, così attirandosi
critiche feroci da confratelli dei due emisferi. Rinviata
di un giorno l'inaugurazione per mancanza di sala adeguata, il 10
dicembre l'Anticoncilio fu ruvidamente sciolto dal commissario di
polizia Lupo quando vi si levò il grido “Vive la République”. I
francesi portavano male anche quando non erano zuavi pontifici ma
aspiranti rivoluzionari. L'intera vicenda è narrata
nell'introvabile volume in cui Ricciardi narrò “fatti, documenti e
personalità che lo promossero, vi aderirono e vi parteciparono”,
pubblicato da Angelo Manuali nel 1982 (centenario della morte di
Garibaldi), meritevole di un'edizione critica in questo 150° di Porta
Pia, oblivioso e “malvaceo” (come si diceva ai tempi di
Ricciardi). Per qualche mese grazie al generoso
deputato partenopeo l'Italia fu la patria dell'Internazionale del
Libero Pensiero. Ci vollero decenni prima che i semi gettati in
quell'occasione dessero i loro frutti. Il 14 dicembre 1869 il governo
Menabrea cadde. Lo seguì quello presieduto dal clinico Giovanni Lanza
con il prudente Visconti-Venosta agli Esteri e Quintino Sella alle
Finanze. Fu questo a decidere l'intervento armato e a far sparare i
cannoni per vincere la resistenza di Pio IX. Davvero in linea con
Cavour?
Aldo A. Mola
DIDASCALIA:
Isacco Artom (Asti, 1829-1890), ebreo, fu consigliere particolare di
Cavour e poi segretario generale degli Affari Esteri. Nel 1890, poco
prima di morire, definì Vittorio Emanuele II “sola incarnazione
dell'unità italiana” Re Vittorio Emanuele che, dopo la sconfitta di
Garibaldi a Mentana (1867) in un incontro riservato gli
assicurò: “Non dubitate, tra poco saremo a Roma!”.
LA LEZIONE ETICA E POLITICA DI ENRICO DE NICOLA MONARCHICO, LIBERALE, NAPOLETANO
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 23 Agosto 2020, pagg. 1 e 11.
L'interrogativo
è antico: il Paese è migliore di chi lo rappresenta o viceversa? Si
stava meglio quando si stava peggio? Per uscire dal dubbio, giova
confrontare lo spettacolo offerto da tanti parlamentari odierni con
quelli del buon tempo antico. Non è patetica nostalgia da laudatores
temporis acti, una fuga nel passato per eludere i mutamenti
intervenuti negli anni recenti, la loro presunta necessità (o fatalità)
e così sottrarsi all'obbligo di fare i conti col divenire. La domanda è
un'altra: come mai in tempi neppure tanto remoti e in circostanze
niente affatto facili, l'Italia ebbe una dirigenza di statura europea,
invidiabile per preparazione, dedizione e onestà personale? E'
questione di meridiani e di paralleli? O di natura politica? Di
strumenti normativi atti a formare una classe dirigente che non tragga
idee solo dagli album di Topolino, come sarcasticamente avvertito da
Ernesto Galli della Loggia sulla scia di Sabino Cassese, Stefano Folli
e altri costituzionalisti e politologi senza paraocchi partitici
né pregiudiziali ideologiche. Il confronto tra
presente e passato è indispensabile a cospetto di un presidente del
Consiglio, il prof. Giuseppe Conte, insediato nei giorni turbolenti di
richieste di “incriminazione” del presidente della Repubblica, di gesti
scomposti, di un “accordo per il governo” tra Lega e M5S dai contenuti
anche incostituzionali, senza che dal Colle arrivassero i mòniti
necessari a disinnescarne la pericolosità. Un giureconsulto di talento “prestato” alla politica Tra
i tanti possibili modelli della dirigenza dl tempo che fu (e che
auspichiamo torni, come sempre è accaduto, sia pure a distanza di
secoli) proponiamo Enrico De Nicola, che giusto cent'anni fa, il
26 giugno 1920, fu eletto presidente della Camera dei deputati. Pochi
giorni prima, il presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, lo invitò
a casa sua, un appartamento in affitto a Roma, affacciato su via
Cavour, non lontano dalla Stazione Termini. Gli lesse l'elenco dei
ministri del governo che stava per presentare alla Camera.
Comprendeva liberali di varia ascrizione, democratici, ex
socialisti riformisti, come Ivanoe Bonomi, ministro della Guerra, e
cattolici, non perché eletti nelle file del Partito popolare italiano
capeggiato da don Luigi Sturzo (“prete intrigante” a giudizio dello
Statista) ma perché patrioti. Non gli disse altro. La sorpresa venne
all'apertura della sessione parlamentare. Su impulso di Giolitti De
Nicola fu eletto presidente con 236 preferenze su 374 presenti.
Un plebiscito, visto che gli mancarono solo i suffragi dei socialisti e
dei repubblicani, cioè di partii anti-sistema. De Nicola contava appena
42 anni. Pochi, all'epoca, per una carica così alta. Ma alle spalle
aveva già un lungo e prestigioso cursus honorum e professionale.
Nato a Napoli il 9 novembre 1877, si laureò in legge a 19 anni.
Iscritto per concorso all'albo degli avvocati dal 1898, si affermò
rapidamente. Molti penalisti dell'epoca erano famosi per le perorazioni
infiorate di lenocini retorici, commentate dal pubblico con tanti “Come
ha parlato bene!” ma stroncate dalle corti che ne condannavano i
clienti. De Nicola spiccò invece per sobrietà. Andava al punto. Era un
eccellente “tecnico” del diritto, nella miglior tradizione della Scuola
giuridica partenopea: Enrico Pessina, Giorgio Arcoleo, Gennaro
Marciano, Gaspare Colosimo (tutti politici di rango) e Pietro Rosano.
Questi mostrò la sua tempra d'acciaio quando, appena nominato
ministro nel secondo governo Giolitti, divenne bersaglio di una
campagna scandalistica su un suo congiunto. Nel timore che la
diffamazione potesse coinvolgerlo e da lui arrivare a colpire Giolitti,
che dieci anni prima era stato ingiustamente travolto dallo “scandalo
della Banca Romana” (un pasticcio non ancora risolto dalla
storiografia), mandò una lettera allo Statista pregandolo di
salutare per lui tutti i colleghi “di una settimana” e di averlo sempre
caro e si sparò. Era il 9 novembre 1903. Aveva 55 anni e una
splendida carriera dinnanzi a sé. Uno stoico. Nel 1907 De
Nicola fu eletto consigliere comunale di Napoli. La città doveva
risalire la china, alla luce dell'Inchiesta condotta dalla Commissione
presieduta dal senatore Giuseppe Saredo al quale Giolitti conferì un
mandato preciso: non guardare in faccia nessuno, non cedere ad alcuna
pressione. Come attestano i suoi Atti, ripubblicati dall'Istituto
Italiano per gli Studi Filosofici (Napoli, Palazzo Serra di Cassano,
via Monte di Dio 14), ne scaturì il ritratto veridico della corruzione
dilagante e dei possibili rimedi: poiché la camorra era opera
dell'uomo, altri uomini potevano sconfiggerla. Nel 1909 il trentaduenne
De Nicola fu eletto deputato dal collegio di Afragola. Prevalse sul
deputato uscente, Luigi Simeoni, che si presentava come giolittiano. Ma
lo Statista non badava alle etichette, bensì alla sostanza. In Aula il
neodeputato parlò solo su questioni di sua sicura competenza.
Interventi brevi, limpidi apprezzati da Giolitti. A un neoeletto che
gli domandò come dovesse condursi lo Statista rispose che doveva
alzarsi, dire quello che doveva e mettersi a sedere. Erano finiti i
tempi nei quali i singoli interventi a volte duravano molte ore,
persino in più sedute. I lavori parlamentari erano “sgrossati” da
Uffici e Commissioni, dalle relazioni di presentazione dei
disegni di legge e dagli allegati di accompagnamento. In Aula bisognava
andare al dunque. Il 31 maggio 1912 De Nicola si fece apprezzare per
l'intervento sulla riforma del codice di procedura penale: un tema che
non consentiva chiacchiere. Il 29 ottobre dell'anno seguente, quando si
sperimentò il suffragio quasi universale maschile, ma sempre in collegi
uninominali a doppio turno, fu confermato con votazione
lusinghiera. Il 27 novembre Giolitti lo volle
sottosegretario al ministero delle Colonie, di recentissima
costituzione. Lo statista assegnò il dicastero a Pietro Bertolini, che
lo aveva affiancato nei mesi difficili della guerra contro l'impero
turco per la sovranità dell'Italia sulla Libia e per la liberazione di
Rodi e del Dodecanneso. Sennonché il titolare di Poste e Telegrafi,
Teobaldo Calissano, morì d'improvviso mentre pronunciava un discorso
elettorale nel suo collegio di Alba. Quel tragico destino mutò
l'assegnazione dei titolari dei ministeri ai quali Giolitti teneva:
Gaspare Colosimo fu promosso da sottosegretario alle Colonie a
titolare delle Poste, sino a quel momento di Calissano, e al suo
posto il 27 novembre venne chiamato il trentacinquenne De
Nicola. L'incarico era delicatissimo perché bisognava dare un
ordinamento giuridico d'avanguardia alla nuova colonia, proprio per
mostrare al mondo la modernità del “modello italiano”, altra cosa
rispetto alla colonizzazione ottocentesca ancora praticata da
Portogallo, Spagna, Paesi Bassi e dal pessimo Belgio. De
Nicola dette ottima prova. Come Giolitti, il conterraneo Benedetto
Croce, il vicepresidente del Senato Antonio Cefaly, calabrese, e altri
insigni meridionali anch'egli fu contrario all'intervento dell'Italia
nella Grande Guerra. Se destinate alle armi, le risorse del Paese
sarebbero state sottratte alla lunga e saggia opera di sviluppo delle
regioni più arretrate a tutto danno della vera unità nazionale e
delle istituzioni. Nel Mezzogiorno sarebbero tornati a soffiare i venti
della dissidenza e della sfiducia nello Stato, contro l monarchia, che
contava nemici mortali antichi e nuovi. Nondimeno, quando l'Italia
entrò in guerra, egli ne sostenne lealmente l'impegno sino alla
Vittoria. Non per caso Vittorio Emanuele Orlando lo volle
sottosegretario al Tesoro all'indomani del disastro di Caporetto. Al di sopra della mischia Nelle
elezioni del 16 novembre 1919, svolte con la proporzionale, De Nicola
fu rieletto nella circoscrizione Campania con il più alto numero di
preferenze tra i candidati liberali. Da presidente
della Camera, in linea con Giolitti, mirò ad arginare gli opposti
estremismi, se non nel Paese, preda della scioperomania dell'estrema
sinistra e poi dell'uso spregiudicato delle “squadre” da parte di
agrari e, dopo l'occupazione delle fabbriche (settembre 1920), anche da
parte di industriali, almeno alla Camera. Ne nacque il “patto di
pacificazione” sottoscritto nella sala del Consiglio dei ministri
dai rappresentanti dei fascisti, dei socialisti e dei sindacati “di
sinistra Morgari, Baldesi e Mussolini , l'ex socialrivoluzionario
che si attirò gli strali di Roberto Farinacci e Dino Gradi: Chi ha
tradito, tradirà”. A soianare la via al patto, d'intesa con De Nicola,
furono che il social-utopista Tito Zaniboni (nessuna prova che fosse
affiliato al Grande Oriente d'Italia) e il fascista Giacomo Acerbo,
massone della Gran Loggia d'Italia. De Nicola si valse anche della
abile mediazione del frusinate Achille Visocchi, già suo collega al
Tesoro e poi ministro dell'Agricoltura. L'esercizio
della delicatissima carica lo sottrasse alla professione forense, sua
unica fonte di reddito. All'epoca, va ricordato, i deputati ricevevano
una modesta indennità e viaggiavano gratis sulle ferrovie dello Stato,
senza mai abusarne. Quando una volta scoprì che alla figlia Enrichetta
era stato riservato un posto prepagato in treno, Giolitti lo fece
cancellare perché, osservò rabbuiato, “non esiste la carica di figlia
del presidente del Consiglio”. Severo con sé come con i colleghi, De
Nicola conduceva vita ascetica. Concorse a innovare i lavori
parlamentari valorizzando le Commissioni parlamentari, formate
non più per sorteggio ma su indicazione dei gruppi parlamentari. Esse
ebbero anche il potere di chiedere la convocazione della Camera. Se
questo fosse stato attivato nel settembre-ottobre 1922, come
reiteratamente chiesto da Vittorio Emanuele III al presidente del
Consiglio Luigi Facta, la crisi politica sarebbe stata subito
instradata sui binari della parlamentarizzazione. Ne scrisse
appassionatamente Mario Viana in “Monarchia e fascismo” (1954). La
cosiddetta “marcia su Roma” non sarebbe stata neppure minacciata. Il 24
ottobre 1922 De Nicola inviò un telegramma alla riunione dei fascisti
al Teatro San Carlo di Napoli : un messaggio di prammatica, altra cosa
rispetto a Benedetto Croce che andò di persona ad assistere ai lavori
con la curiosità dello storico dell'Italia liberale, attratto dallo
“spettacolo”. All'indomani dell'insediamento del
governo di coalizione statutaria presieduto da Mussolini (31 ottobre
1922), De Nicola fece ampia apertura di credito al pari di altri
liberali, quali Salandra, Orlando e lo stesso Giolitti. Nel 1924 fu
candidato nella Lista nazionale che conquistò due terzi dei seggi
perché ottenne circa il 66% dei suffragi. Li avrebbe avuti anche senza
la nuova legge elettorale, che li assegnava al partito che avesse
raggiunto il 25% dei voti (Mussolini non credeva al successo
straripante, frutto degli umori dell'elettorato già allora
vagante dall'uno all'altro schieramento). All'ultimo giorno
De Nicola si sfilò e non pronunciò l'atteso discorso, il cui testo,
però, uscì a stampa. A suo avviso il fascismo era sorto “come protesta
contro un eccesso di violenza sovvertitrice della vita nazionale” e si
era affermato “come protesta contro un eccesso di instabilità e di
atonia dei governi”. A suo avviso, con il varo del governo Mussolini il
re aveva risparmiato all'Italia la guerra civile. Da presidente
del Consiglio il duce aveva concesso molto al partito, ma a parole più
che ne fatti. Mirò invece a “ottenere dal Parlamento la legalizzazione
del fatto compiuto”. Vita appartata Ls
svolta venne col delitto Matteotti (10 giugno 1924) e col discorso del
3 gennaio 1925. Mussolini, pur negando ogni coinvolgimento nella morte
del deputato socialista, assunse la responsabilità politica della
“rivoluzione fascista”. Benché convalidato, De Nicola non prestò
giuramento e non si presentò mai in aula. Il 2 marzo 1929, alla vigilia
delle elezioni che il 24 segnarono il trionfo del regime di partito
unico, anche per l'avvenuta Conciliazione tra regno d'Italia e Stato
del Vaticano (11 febbraio 1929), egli fu creato senatore. Fu uno dei
circa 130 patres vitalizi nominati in poche settimane: liberali,
cattolici, democratici, ex socialriformisti e, naturalmente, fascisti,
nazionalisti, militari, diplomatici..., uomini dello Stato non di
partito. Non frequentò le sedute della Came a Alta ma
presiedette la commissione ministeriale per la previdenza e
l'assistenza forense che approntò la legge 13 aprile 1933, a beneficio
di tanti avvocati in stato di bisogno. Il grande Traghettatore De
Nicola ebbe ruolo fondamentale dieci anni dopo, quando escogitò il
trasferimento dei poteri regi da Vittorio Emanuele III al figlio,
Umberto principe di Piemonte, in veste di Luogotenente del regno:
soluzione obtorto collo accettata dal re il 20 febbraio 1944 e infine
attuata il 5 giugno 1944 sotto incalzante pressione degli
anglo-americani e dei partiti antimonarchici al potere sin dal terzo
ministero Badoglio e poi nei governi presieduti da Bonomi, Ferruccio
Parri (partito d'azione) e Alcide De Gasperi (democrazia cristiana).
Estraneo a maneggi faziosi, nominato componente della Consulta
Nazionale (1945) De Nicola non si candidò all'Assemblea Costituente.
Questa tuttavia il 28 giugno 1946 lo elesse presidente della
Repubblica benché fosse notoriamente monarchico. Era lo Statista di
garanzia nel difficile traghettamento dell'Italia all'indomani del
referendum che aveva veduto contrapposti monarchici e repubblicani
quasi alla pari e la vittoria della repubblica col magro consenso del
42% degli aventi diritto. Come ricorda il suo
biografo, Tito Lucrezio Rizzo, in “Parla il Capo dello Stato” (ed.
Gangemi), De Nicola non abitò mai al Quirinale. Attrezzò il suo ufficio
a Palazzo Giustiniani, alle spalle del Senato. Lasciò la carica l'11
maggio 1948. L'indomani gli subentrò Luigi Einaudi, parimenti liberale
e monarchico, piemontese. Così si ripeté l'alternanza di epoca
monarchica, quando il principe ereditario era di volta in volta “di
Piemonte” o “di Napoli. Presidente del Senato (1951-1952),
giudice costituzionale e ottantenne sempre lucidissimo presidente della
Corte Costituzionale se ne dimise il 27 marzo 1957. Morì
dopo due anni di vita nuovamente appartata. Si sapeva della sua
austerità. Soleva farsi rivoltare il cappotto, non per avarizia ma per
senso del risparmio e per le sue ristrettezze, vissute con
dignità. Dall'attività forense trasse sempre lustro ma pochi
profitti. Come ha ricordato Giovanni Leone, altro presidente della
Repubblica meritevole di rispetto e di memoria, all'indomani della sua
morte (1° ottobre 1959) nel villino di Torre del Greco, privo di
riscaldamento, si scoprì che “in casa sua non c'erano soldi neppure per
l'acquisto dei medicinali. Il grande avvocato, il grande Statista che
aveva rinunziato alle indennità presidenziali mantenendosi a sue
spese a Roma, il danneggiato dalla guerra mondiale che aveva travolto i
suoi risparmi impiegati tutti in titoli di Stato, ridotti a carta
straccia, moriva povero”. “Il suo senso dello Stato -
osserva Rizzo – è l'eredità più preziosa lasciata ai posteri.
L'alternativa alla Religione del Dovere è quella di uno Stato senza
senso”. Vi è motivo di riflettervi a un mese da un referendum, che
potrebbe impoverire più di quanto già non sia il rapporto tra cittadini
e Istituzioni. La civiltà politica dall'Unità al regime resse e crebbe
perché fondata sui collegi uninominali, non su liste di parlamentari
predisposte da un Gran Consiglio (come avvenne dal 1928-1929) o da
cupole di “partiti”. E' un monito che inizia a farsi strada, perché la
qualità dei rappresentanti dei cittadini non è separata dalle norme
elettorali.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA : De Nicola, Vittorio Emanuele III e Mussolini (foto di repertorio).
VISITARE L'ITALIA PAESE D'EUROPA E DEL MONDO
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 16 Agosto 2020, pagg. 1 e 11. Piccoli borghi, vasti orizzonti Bella,
eh, l'Italia! Sono milioni di persone, più italiani che stranieri, a
ri-scoprirla quest'anno. E' anche un omaggio, forse non per tutti
consapevole, al centenario dell'istituzione dell'Ente Nazionale per
l'Incremento delle Industrie Turistiche, poi ENIT. Il turismo di ampio
raggio non è un'invenzione dell'altro ieri, meno ancora del “regime” e
del Dopolavoro fascista. La sua organizzazione da parte dei pubblici
poteri vanta un secolo tondo tond. Nacque, come vedremo, all'indomani
della spaventosa carneficina della Grande Guerra e mentre ancora
incombeva sull'orizzonte la “febbre spagnola”. Alla
nascita il Turismo promosso dallo Stato mirò a conciliare diffusione e
riservatezza. La balneazione alternava ampie spiagge e calette;
l'ascesa alle vette faceva tappa nei rifugi già frequentati dalla
Regina Margherita. A ognuno per il gusto suo. Era l'Italia di Sidney
Sonnino, il misantropo ministro degli Esteri che studiava Dante
Alighieri nel solitario Romito spazzato dai venti. Ed era quella di
Vittorio Emanuele III che a Roma viveva appartato a Villa Savoia e al
Quirinale si recava come si va in ufficio: per esaminare e
firmare”carte” e per “incontri di lavoro”, magari con capi di stato e
di partiti; ma poi si rifugiava a San Rossore e amava la quiete
assoluta della spiaggia di Gombo e dell' isola di Montecristo.
Già all'epoca andavano di gran moda i borghi
selvaggi e solatii. Dalle scuole elementari gli italiani avevano
appreso ad amarli da “L'ora di Barga” di Giovanni Pascoli, inno alla
solitudine, all'abbraccio con i ricordi, con la natura, spingendo
lontano la Grande Visitatrice. Quella era l'Italia dei “buoni
sentimenti” che negli Anni Settanta-Ottanta del secolo scorso furono
sguaiatamente irrisi da chi li liquidò come sfizio borghese. Eppure da
lì, se mai ce la farà, potrebbe ripartire l'Italia di domani.
L'alternativa sono i Decreti di Sua Emergenza le Ordinanze regionali e
comunali imperversanti da ormai sette mesi sulla vita quotidiana con
pretese assurde, come, per esempio, annotare e ricordare chi si
incontra in patria e all'estero, per lavoro o in vacanza. Vorrebbe dire
che se uno va al bar o in un grande magazzino dovrebbe non solo
dichiarare la propria identità ma anche chiederla a chi trova alla
cassa o “alla barra”. Le norme demenziali imperversanti sono come quelle dei secoli andati: condannate a essere eluse. Ora
per qualche giorno gli italiani (che si lavano le mani, non salivano a
destra e a manca, si bendano il necessario e tengono le debite distanze
dal prossimo, dimentichi ope legis della parabola del buon
samaritano..) possono immergersi nel loro gozzaniano piccolo mondo
antico: la miriade di borgate, villaggi, rive di fiumi e torrenti
miracolosamente scampati al miope sfruttamento da parte di chi prima o
poi dovrà pur fare i conti con la propria ingordigia, perché il
contagio peggiore non è quello del virus ma quello della stupidità e
della mancanza di preveggenza, di “scienza della politica”. Da sempre
gli italiani avevano sotto gli occhi il proprio Paese, ma forse la sua
immagine era offuscata dalla fretta quotidiana, sbiadita nei ricordi di
un'infanzia cancellata nella corsa collettiva a un futuro senza meta,
il cosiddetto “progresso”. Il cui drammatico limite è l'opposto di
quanto si creda: non è progressista perché non ha basi scientifiche,
perché è frutto di improvvisazione, di una concezione della vita e del
mondo “mordi e fuggi”, anziché di progettazione, di “piani”. O
addirittura è frutto di decisioni prese “in coscienza”: la
“giustificazione” più fatua che si possa accampare, perché ciascuno ha
la sua. L'aveva anche Gengis Khan. Ma oggi, dunque,
forzati dalla Covid-19, dal timore di contagi, da normative stressanti
e dal dubbio di finire ingabbiati in quarantene improvvise inflitte
come pugnalate alle spalle e dalla durata imprevedibile, tanti italiani
che per decenni le avevano anteposto lidi remoti raggiunti con viaggi
faticosi e infine deludenti (stessa spiaggia, stesso mare, stessi
massaggi...), ripetono con Vincenzo Monti: “Bella Italia, amate sponde/
pur vi torno a riveder./ Trema in petto e si confonde/ l'alma oppressa
dal piacer”. “Gran traduttor dei traduttor d'Omero” (come lo bollò
malignamente Ugo Foscolo), il politicamente versipelle Monti
(pontificio, liberaloide, francofilo, poi allineato con il ritorno di
Astrea, cioè del dominio asburgico sul lombardo-veneto) rientrava in
Italia al seguito di Napoleone Bonaparte da un breve esilio a Parigi.
La sua “contemplazione dell'Italia” andava comunque al di là delle
ideologie. I “letterati” sono così, come tardivamente si ammette di
Cesare Pavese, a cui opportunistica iscrizione al Partito nazionale
fascista venne documentata vent'anni addietro nel saggio “Saluzzo,
un'antica capitale” (Ed. Newton Comton). La “dottrina Monti”
sull'impareggiabile bellezza dell'Italia fu condivisa da Alessandro
Manzoni, che nei “Promessi sposi”, cesellò cammei raffinatissimi (come
“Addio monti, cime ineguali...”), poi “mandati a memoria” da
generazioni di studenti; e da Giacomo Leopardi, che blindò le sue
emozioni nella corazza di versi glaciali, come “Vaghe stelle
dell'Orsa...”, esempio per il saggio che non si concede il lusso di
“sentimenti” perché sa che “sunt lacrimae rerum”. Avessimo avuti tanti don Stoppani A
codificare l'Italia fu don Antonio Stoppani (Lecco, 1824-Milano,1891),
partecipe da seminarista alle Cinque Giornate di Milano, ammiratore di
Manzoni e del teologo Vincenzo Gioberti, autore di opere su
paleontologia e glaciologia di fama europea. Tra i fondatori
dell'Istituto geologico del regno, don Stoppani concorse alla redazione
della carta geologica dell'Italia, importante anche per la vulcanologia
e lo studio dei terremoti. Primo presidente del Club Alpino Italiano,
promosso da Quintino Sella, a sua volta dal multiforme ingegno, nel
1875 pubblicò Il Bel Paese, dalla fortuna subito immensa: raccomandato
a per chi non lo conosca e a chi lo ha gustato e ci si ritrova.
Lasciate tra parentesi le dispute pro e contro il potere
temporale dei papi, le gare tra i partiti dell'epoca (clan regionali e
clientele di maggiorenti parlamentari), don Stoppani cantò le bellezze
dell'Italia, ne esaltò il Creatore e incitò ad averne cura. Ognuno
doveva fare la propria parte quando la rete ferroviaria era appena
albeggiante rispetto a quella dei Paesi molto più industrializzati e i
viaggi si facevano su birocci, a cavallo o pedibus calcantibus.
All'epoca, quando dovevano percorrere sentieri pietrosi, per non
consumare le suole dell'unico paio di scarpe della vita, tanti le
mettevano in spalle e procedevano scalzi. in uso, tanti se le levavano.
Il costume durò ancora sino a questo dopoguerra. Lo faceva da chierico
un sacerdote di grande erudizione come don Ettore Dao, quando saliva
dalla pianura alla sua inattingibile Elva, costeggiandone l' “orrido” e
attraversandone le buie gallerie scavate nella roccia. Ai
tempi di don Stoppani l'Italia contava quasi trentamila parroci e circa
centomila “religiosi”. Se avesse contato due-tremila don Stoppani, “a
viso aperto e sorridente” come lui, avrebbe fatto un balzo in avanti di
cent'anni. Non avrebbe avuto alcun bisogno del Sessantotto per capire
che una cosa sono i costumi, un'altra le “credenze” e un terza è la
“fede”; e che le virtù non si misurano dai centimetri dei pantaloni e
delle gonne. Abitano “in interiore hominis” (e anche foeminae, per non
far torto ai due sessi un tempo ammessi). L'Italia delle cento città e dei castelli misteriosi come “Val Casotto” Quella
era l'Italia delle cento città descritta provincia per provincia, un
circondario dopo l'altro, comune per comune da Gustavo Strafforello
(Porto Maurizo, 1820-1903), poligrafo, traduttore del famoso Self-Help
di Samuel Siles col fortunato titolo “Chi si aiuta, il Ciel lo
aiuta”, manuale psico-sociale in un'epoca che vide trionfare la scuola
e le forze armate quali ascensori sociali, sull'esempio di quanto nei
secoli aveva fatto la Chiesa cattolica al cui vertice si susseguirono
non solo esponenti di grandi famiglie ma anche popolani come i santi
Celestino V e Pio V, nato a Bosco Marengo. La Patria
descritta da Strafforello in dispense da 60 centesimi l'una fece
conoscere geografia, attualità economica e imprenditoriale, storia e
paesaggi, con tanto di carte geo-storiche, piante topografiche,
ritratti dei personaggi famosi, monumenti e vedute di ogni terra
d'Italia. Un vero e proprio capolavoro che divulgò la conoscenza del
Bel Paese e implicitamente invitò a esplorarlo “de visu” dopo averlo
conosciuto per scritto e da nitide incisioni (o magari sfogliando le
sontuose pagine dell' “Illustrazione Italiana”). L'Italia
era uno Stato politicamente giovane. Roma fu annessa quel 20 settembre
1870 il cui 150° nel 2020 passerà sotto silenzio nel peggiore dei modi,
tra lizze e bizze elettorali e l'inizio di un anno scolastico tutto in
salita: carenza di aule, di attrezzature e di collegamenti internet
decenti per conferire decoro alla fabulosa “didattica a distanza”,
improponibile in terre prive non solo di banda larga ma addirittura di
copertura da parte di qualsivoglia rete perché il territorio “non
rende”. Con plaghe (e piaghe) di arretratezza e
sottosviluppo documentate dai censimenti decennali, l'Italia era
costretta a fare spesso il passo più lungo della gamba. Andò alla
conquista di un lembo di Mar Rosso e della remotissima Somalia (tentò
persino di installarsi nella Nuova Guinea) e mirò a imporsi sull'impero
d'Etiopia quando milioni di suoi abitanti migravano all'estero in cerca
di lavoro: prima i liguri e i piemontesi, poi dal Mezzogiorno... La
colonizzazione interna” consigliata a Francesco Crispi dal suo fraterno
sodale Adriano Lemmi rimaneva un miraggio. A insegnare le
vie d'Italia erano poeti come Giosue Carducci, che, già docente
all'Università di Bologna, per visitarla si faceva nominare commissario
a esami di maturità e vagava dall'una all'altra regione, con pochi
quattrini (glieli centellinava la scorbutica moglie) e con sommari di
storia e fungere geografia, dai quali traeva alimento per
famosissime odi come “Piemonte” e “Cadore”. Dopo l'infame
assassinio di Umberto I a Monza il 29 luglio 1900 (il suo 120° è
passato nell'indifferenza dei “media”) iniziò il decollo delle
associazioni per la promozione della coscienza nazionale. Nel 1894 a
Milano, città sempre all'avanguardia, era stato fondato il Touring Club
Italiano, seguito da Regio Automobil Club Italiano (RACI) e via via il
Moto Club d'Italia, l'Aereo Club d'Italia, la Lega Navale Italiana....
Come già il CAI, anche i nuovi sodalizi ebbero nomi anglicizzanti.
L'Italia della Belle Epoque, orgogliosa della propria identità, che
affondava radici in millenni di civiltà latina, era europea. Anziché
“Società” o “Associazione” non temeva di utilizzare l'inglese Club,
così come denominava meetings gli incontri politici, che non dovevano
degenerare in “piazzate” di facinorosi, esibizione di minoranze
rumorose ma fungere da confronto tra opinioni , affermazione di
principi tanto più convincenti se proposti in forma “civile” (che viene
da civis , non da plebs...). La svolta
decisiva per la riscoperta dell'Italia da parte dei suoi cittadini
venne all'indomani della Grande Guerra, come documenta Ester
Capuzzo in“Italiani. Visitate l'Italia. Politiche e dinamiche
turistiche in Italia tra le due guerre mondiali”(ed. Luni), opera di
vasto respiro, apprezzata da molti giurati del Premio Acqui Storia
2020. E non per caso. Infatti essa è uscita nel centenario della
fondazione dell'Ente Nazionale per l'Incremento delle Industrie
Turistiche, l'ENIT. Fondato su ampia ricerca archivistica e sulla scia
degli eccellenti saggi di Annunziata Berrino, Eliana Perotti e Stefano
Pivato, il corposo volume ha il pregio di non marchiare come “fascista”
quanto avvenne tra le due guerre, come purtroppo invece fanno quanti
ritengono che fra il 1922 e il 1943 l'Italia fu oppressa e compressa da
un regime totalmente feroce e ottuso. La realtà è molto diversa. La
promozione del turismo “di massa” in Italia, indubbiamente favorito e
potenziato dal caleidoscopico “fascismo”, prese piede
sull'esempio di quanto avveniva all'estero, sia in Stati retti da
democrazie parlamentari quali Francia e Gran Bretagna sia nella Spagna
di Alfonso XIII di Borbone, che prese a modello l'Italia di Vittorio
Emanuele III, il re tuttora da studiare e da capire.
Da storica provetta, Capuzzo documenta che il governo di
Mussolini mise a buon frutto l'opera avviata da Luigi Luzzatti, dal già
ricordato Giolitti e soprattutto dal poliedrico Maggiorino Ferraris,
deputato, senatore, proprietario della “Nuova Antologia”. Conterraneo
di Giuseppe Saracco (non citato nel libro), promotore del lancio delle
Terme della sua nativa “Bollente”, dal 1902 Ferraris varò
l'Associazione per il movimento dei forestieri corroborata da politici
come Luigi Rava e Pietro Lanza di Scalea aperti alla libera
circolazione di uomini e di idee. Negli stessi anni Orazio Raimondo,
nipote del presidente della Camera Giuseppe Biancheri, socialista,
massone e sindaco di Sanremo gettò le basi delle fortune dell'estremo
Potente ligure, come narrato da Marzia Taruffi in “Uno cento mille
Casinò di Sanremo. 1905-201” (ed. De Ferrari). Il bel
volume di Capuzzo ci ricorda anche il ruolo strategico degli Enti
Provinciali per il Turismo, promossi da Fulvio Suvich, già affiliato
alla loggia “Propaganda massonica”. Per buona sorte gli EPT non vennero
smantellati dopo il crollo del regime. Come altri enti parastatali
(quali l'Inps) essi funsero anzi da volano della Ricostruzione.
Talvolta gli EPT pubblicarono riviste di invidiabile pregio, come
“Cuneo, Provincia Granda” pensata e diretta dal mite Gino Giordanengo
(“Neng”), ragioniere “di una volta”, poeta e pittore. Da quegli Enti
nacquero poi le ATL, tanto più capaci e meritevoli quanto più radicate
nella coscienza del passato. Oggi dunque
ri-scopriamo la Grande Italia. Ma va fatto nell'ottica della Grande
Europa e in una visione planetaria dei problemi nostrani, senza
chiusure ottuse, lontani dalla tragica tentazione di gareggiare a chi
instaura più divieti, più obblighi, più controlli sanitari con
“strumenti” di dubbia valenza. Il protezionismo non paga mai, neppure
quando si traveste da tutela della salute.
Certo
questa estate è propizia per fare un passo avanti nella conoscenza
della storia. E' quanto propone il rituale Concerto di Ferragosto
dell'orchestra cuneese “Bartolomeo Bruni” al Castello di Val Casotto:
un vero gioiello, proposto che all'attenzione nazionale con i suoi
fasti architettonici e i suoi misteri, intreccio degli occulti legami
tra Italia e Francia: grumo di Casa Savoia, parte integrante d'Europa.
E' anche invito a deporre i polverosi calzari e ad accostarsi alla
Memoria. Non lontano da lì sin dal dicembre 2017, nella quiete della
Basilica di Vicoforte, riposano spoglie di Vittorio Emanuele III e
della Regina Elena. In quel lembo di Vecchio Piemonte, in pochi
chilometri, vi è la sintesi della grande storia. Tutta da esplorare e
da gustare, nel silenzio delle Alpi del Mare.
Aldo A. Mola
PORTA PIA: UNA BRECCIA NELL'UNITA' DEGLI ITALIANI
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 9 Agosto 2020, pagg. 1 e 11. Quando Napoleone ruppe l'incantesimo
Il
2 dicembre 1804 da Napoleone Bonaparte si incoronò imperatore dei
Francesi in Notre Dame a Parigi, presente Pio VII (Gregorio Luigi
Barnaba Chiaramonti,1800-1823), giunto da Roma nella convinzione di
ripetere il rito carolingio. Già il suo predecessore, Pio VI (Giovanni
Braschi, 1774-1799) aveva subito molte umiliazioni. Il 15 febbraio 1798
fu ruvidamente arrestato dal generale Berthier e tradotto prigioniero
in Francia. Morì a Valence l'anno seguente. A Roma fu proclamata la
Repubblica sotto tutela del Direttorio francese. Durò poco, ma il
vulnus sconvolse i cattolici di tutto il mondo: la profanazione provava
ai loro occhi che la Rivoluzione e i suoi epigoni erano parto di
Satana, il trionfo di gnostici e maniche. iPio VII (Gregorio Barnaba
Chiaramonti), fu eletto14 marzo 1800 dal conclave radunato in Venezia,
dominio di Vienna. Il 6 agosto 1806, sconfitto
il 2 dicembre 1804 ad Austerlitz benché avesse a fianco i russi di
Alessandro I, Francesco II d'Asburgo rinunciò formalmente al titolo di
Sacro romano imperatore. Il 17 maggio1808 Pio VII fu
deposto. Il 17 maggio 1809 il generale Miollis proclamò la fine del
potere temporale del papa, che venne deportato prigioniero in Francia.
La fine del Sacro Romano Impero costituì una ferita irreparabile
per lo Stato pontificio. Certificò la divaricazione il pontefice quale
sovrano di uno Stato riconosciuto dagli altri Stati e il Capo della
chiesa cattolica apostolica romana, Vicario di Cristo. Da quella
distinzione nacque la separazione concettuale e quindi definitiva tra
potere temporale e potere spirituale: uno iato nel quale si incuneò la
legittimità della sottrazione al papa dei suoi domini, inclusi il
Patrimonio di San Pietro e Roma stessa: un atto politico, senza offesa
per la sua carismaticità di Vicario di Cristo.
La confutazione dei diritti storici dei papi al possesso di uno
Stato, sin dal celebre opuscolo De falso credita et ementita
Constantini donatione dell'umanista Lorenzo Valla (1440), non aveva
affatto messo in discussione i titoli del pontefice a esercitare il
potere sovrano che gli veniva riconosciuto dall'imperatore e dagli
Stati sommato a quello supremo, lo spirituale, con precedenza su ogni
altro,grazie alla”unzione davidica” consacrazione
dell'imperatore. Con l'età franco-napoleonica
lo scenario murò radicalmente. Malgrado il suo rifiuto di
riconoscere il divorzio di Napoleone da Giuseppina de la Pagérie e di
celebrare le nozze dell'imperatore con Maria Luisa d'Asburgo, Pio VII
fu infine liberato e rientrò in Roma il 24 maggio 1814,. Ma per
l'Europa nata dal Congresso di Vienna il suo era ormai uno Stato come
gli altri: utile sino a quando fosse garante di ace e di equilibrio tra
le potenze. La rinascita dell'Impero Romano, con Napoleone ma senza Roma né cardinali
Mente divideva il tempo tra ammodernamento dell'isola e preparazione
occulta del ritorno in Francia, Napoleone divenne punto di riferimento
di società segrete contrarie alla Restaurazione intesa quale ritorno
all'ancien régime. il loro intreccio con la concezione
sovranazionale dei principi affermati sin dall'Illuminismo, riba
dell'Ottantanove e condensati nella Dichiarazione universale dei
diritti dell'uomo e del cittadino.
Lo documentano le “Basi fondamentali della futura costituzione
del rinascente Impero Romano”, comprendente il territorio di tutto il
continente dell'Italia, stilate nella primavera del 1814. Secondo
tale Carta “la nazione italiana chiama al trono Napoleone Bonaparte, e
dopo di esso la sua discendenza mascolina, in linea retta, legittima, e
alle donne della Casa in caso di estinzione della linea
mascolina”. Altrettanto va detto del
“Patto sociale e costituzionale della Repubblica di Ausonia” (1815),
che includeva tutta la penisola italica e le isole entro 100 chilometri
dalla costa, Malta compresa, con due re (uno del mare, l'altro
della terra) eletti per la durata di 21 anni. Il papa era
Patriarca di Ausonia, col compito di ristabilire la purezza
la religione cristiana. Il Patto risentiva di suggestioni
della Carboneria, la famosa società segreta nata antagonista
della Massoneria e poi intrecciata con essa.
Malgrado la copiosissima documentazione (catechismi, verbali,
diplomi...), manca un progetto carbonaro univoco sull'unificazione
italiana e la indicazione di Roma quale sua capitale. Lo ammisero anche
i suoi più fervidi storici (e apologeti), come Oreste Dito e Giuseppe
Leti. Lo stesso vale per la generalità delle società (o sétte)
politiche sorte all'indomani del crollo dell'impero napoleonico e
all'inizio dei moti costituzionali nel regno delle Due Sicilie e in
Piemonte e per i propositi enunciati dal “Conciliatore” di Federico
Confalonieri, Luigi Porro Lambertenghi e Silvio Pellico.
Il “Progetto di costituzione per l'Italia fatta libera e
indipendente” (1835) fu invece esplicito: i popoli dell'Italia e delle
isole “adiacenti” formavano “a perpetuità una nazione sola e si
costituivano Gioberti e i neoguelfi: Roma simbolo universale
Dopo tanti moti settari per la costituzione liberale e le
cospirazioni di Giuseppe Mazzini, fiatore della Giovine Italia e della
Giovine Europa, furono i neoguelfi, cattolici ma non rivolti al passato
remoto, ad affermare la centralità di Roma per l'Italia. Misero tra
parentesi la unità politica a vantaggio di confederazione, federazione,
lega (non solo doganale) e di altre forme di aggregazione degli Stati
esistenti, con la presidenza del papa e quindi l'elevazione di Roma a
faro dell'Italia e dei suoi popoli, non solo per sé ma per il mondo
intero. Proprio perché discendenti dai Pelasgi, gli italiani erano
missionari, secondo le immaginifiche opere di Vincenzo Gioberti
(Torino, 1801-Parigi, 1852), in specie Il Primato morale e civile
degli italiani (1843), dedicato a Silvio Pellico, che non gradì.
Gioberti è un caso unico nella storia d'Italia: sacerdote,
costretto all'esilio per sospetta cospirazione, deputato, ministro,
presidente del consiglio, nuovamente esule a Parigi (ove pubblicò
Del rinnovamento civile degli italiani, campione del clero
militante, ancor più di Antonio Rosmini (Rovereto, 1797- Stresa, 1855),
autore di Le cinque piaghe della Santa Chiesa, fautore della
federazione italiana con la presidenza del papa e autore di una bozza
di costituzione. Prima e ancor più dopo
l'elezione di Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti, papa dal 1846 al
1878) i neoguelfi pubblicarono migliaia e migliaia di trattati, libri,
opuscoli e diffusero una pletora di riviste, quotidiani e fogli
volanti che coniugarono le due parole di passo: Italia e Roma. La Nuova
Roma non era solo papale; era nazionale. Ma Pio IX divise le
sorti dello Stato pontificio (che era la scorza politica del Papato) da
quella d'Italia con la Allocuzione del 29 aprile 1848, in cui dichiarò
che il Sacro Soglio non poteva combattere in armi contro uno Stato, per
di più cattolico, qual era l'Impero d'Austria. La parola alle armi: unire l'Italia per consolidare la pace europea
Il seguito del Risorgimento fu quale non poteva non essere: un
processo politico-militare in rotta di collisione con i capisaldi della
Santa Alleanza (tradizione e legittimità) ma nel quadro del Congresso
di Vienna: l'equilibrio europeo, il concerto delle grandi potenze. In
tale cornice divenne possibile l'eliminazione degli Stati pre-unitari,
in risposta ai liberi sentimenti dei loro popoli (concessione al
Romanticismo), certificati dalla richiesta di annessione e dai
plebisciti, cardini della nascita del regno d'Italia nel
1859-1860. L'invasione armata dello
Stato pontificio (con l'avallo di Napoleone III che in Chambéry a
Enrico Cialdini e a Luigi Carlo Farini raccomandò: “Fate, ma fate in
fretta”) e la sottrazione al papa di Umbria e Marche costò a Vittorio
Emanuele II la scomunica formalmente fulminata da Pio IX contro di lui,
il governo presieduto da Camillo Cavour e tutti i loro “agenti”
diplomatici, militari, politici e finanziari ritenuti in combutta con
eretici (anzitutto l'anglicana Inghilterra), deisti, atei dichiarati:
tutti conniventi in un complotto che il papa imputò alla massoneria,
condannata con l'enciclica “Qui pluribus” nel 1846 e in circa
settecento dichiarazioni solenni nel corso degli anni seguenti, sempre
più acri, sino al Syllabus pubblicato nel 1864 in appendice
all'enciclica Quanta cura. Senza smarrirsi nella rassegna degli
sconvolgimenti in corso in tutta Europa (inclusa la Repubblica Romana
del febbraio-inizio luglio 1849) il papa denunciò il nemico supremo
della Chiesa: il liberalismo. Democrazia, socialismo e comunismo erano
sue declinazioni, sfaccettature della “Rivoluzione”. Il pontefice
replicò lo schema di Barruel: era in corso la lotta mortale tra la Luce
e le Tenebre, tra il Bene e i Male. La sua visione apocalittica
(manicheismo e gnosticismo a parti invertite), sorretta dal Santo
Uffizio e dalla autorevole e diffusa rivista della Compagnia di Gesù,
“La Civiltà cattolica”, che contava collaboratori insigni quali Luigi
Tapparelli d'Azeglio (fratello di Massimo), mise alle corde i cattolici
che auspicavano la conciliazione tra il regno e il Pontefice. Teologi
di alto sapere e di pari sentire, quali Guglielmo Audisio, Carlo Maria
Curci, Luigi Tosti, abate di Montecassino, e soprattutto Carlo
Pazzaglia, già teologo di fiducia di Pio IX, che raccolse le firme di
quasi 9.000 sacerdoti a sostegno del riconoscimento del regno d'Italia
da parte del papa e che nel 1863 ottenne l'elezione a deputato, vennero
demonizzati, reietti, sospesi a divinis, perseguitati e umiliati, come
già fra' Giacoo da Poirino, reo di aver amministrato il viatico della
buona morte a Camillo Cavour, “birichino” si, ma cattolico “usque ad
effusionem animae”. Nella primavera del
1867 l'Italia sedette per la prima volta quale Stato sovrano in una
conferenza diplomatica europea a Londra, con la presenza dei
rappresentanti dell'impero austro-ungarico spogliato non solo del
dominio diretto (il Lombardo-Veneto), ma anche di quelli indiretti (il
ducato di Modena e il Granducato di Toscana). Le proteste formali dei
loro titolari, costretti all'esilio, caddero nel vuoto. Quella di Maria
Luigia di Borbone, cacciata da Parma e Piacenza nel 1859, lasciò
indifferenti le grandi potenze perché ormai la sua Casa regnava solo in
Spagna, pessimamente e traballante. La debellatio di Francesco II di
Borbone dal regno delle Due Sicilie suscitò proteste ma nessun aiuto
fattivo (Garibaldi mise in evidenza la compagnia di fucilieri inglesi
al suo seguito). Il nuovo Stato d'Italia, però, doveva concorrere
all'equilibrio generale e tenere a freno le intemperanze di chi
chiedeva di chiudere la questione romana con un atto di forza:
l'irruzione armata nella Città Eterna.
Il governo (sedente a Torino nel 1862 e a Firenze nel 1867,
presieduto a distanza di cinque anni dall'agnostico Urbano Rattazzi)
non fu l'unico a sventare le improvvide imprese di Garibaldi che
rischiavano di mettere il giovane regno al bando della comunità
internazionale quale causa di instabilità. La prima volta represse manu
militari la spedizione “Roma o Morte”; la seconda abbandonò i
garibaldini alla loro sorte, tanto più che a Roma non si registrò
alcuna insorgenza popolare (né manipolata da agenti sabaudi, né da
organizzazioni segrete, come era accaduto nel 1859-1860) o richiesta di
annessione. Il colpo di grazia ai garibaldini a Mentana (abbandonati
dai mazziniani) lo dettero i francesi inviati da Napoleone III, armati
di fucili di precisione a tiro rapido. Non per amore del papa ma della
pace all'interno della Francia. I libri, gli
opuscoli e i periodici anticlericali nel decennio 1860-1870 circolarono
in una cerchia ristretta di “militanti”, usi a raccogliersi in meetings
e sorvegliatissimi banchetti politici. I loro veri avversari non erano
i “paolotti” ma lo Stato stesso, d'intesa con i governi europei. Le
poesie antipapiste di Carducci (Enotrio Romano) come i romanzi
anticlericali di Garibaldi erano povera cosa rispetto alla diffusione
capillare della “buona stampa” cattolica e di quella propriamente
clericale. D'altronde, se è vero che i cattolici aderirono in massa al
divieto di votare alle elezioni politiche (“non expedit”), essi erano
invece solida maggioranza in moltissimi consigli comunali e
provinciali, nelle fitte maglie della “società civile” e concorsero a
far sì che lo Stato non crollasse di schianto se fosse stato
consigliato loro di boicottarlo. Venne persino sopportata la vasta
confisca dei beni ecclesiastici documentata, fra altri, dallo storico
Gianpaolo Romanato. In cambio l'articolo primo dello Statuto rimase
quale era: la religione cattolica apostolica romana era quella dello
Stato, che non perdeva occasione di far celebrare solenni Te Deum. Da Sedan, Porta Pia Solferino,
Sadowa, Sedan.... E' l'ironica litania delle vittorie che portarono
all'avvento e all'ingrandimento del regno d'Italia, grazie alla
vittoria di Napoleone III su Francesco Giuseppe d'Asburgo nel 1859,
della Prussia di Bismarck sull'Austria nel1866 e su Napoleone III il 1°
settembre 1870. Quest'ultima, esauriti i tentativi di soluzione
diplomatica (per la secodna volta a distanza di trent'anni il governo
mandò in missione a Roma il conte Gustavo Ponza di San Martino),
obbligò il governo italiano a ordinare la grossa e breve spedizione su
Roma capitanata da Raffaele Cadorna, senza attendere improbabili
insorgenze popolari, anzi quale “bonifica preventiva”, perché, mentre
Napoleone III aveva richiamato tutte le sue truppe e Parigi era nel
caos, repubblicani, socialisti e anarchici potevano accorrere nella
Città Eterna da ogni angolo della terra e farne il laboratorio della
rivoluzione universale. In quelle settimane le sue sorti furono al
centro dell'attenzione mondiale.
All'inizio della guerra franco-prussiana (o franco-germanica) il
Concilio ecumenico vaticano, inaugurato l'8 dicembre 1869 dopo lunga
gestazione (ne scrisse Cosimo Ceccuti mezzo secolo fa in un saggio
tuttora valido), era stato sospeso anche per consentire ai Padri
conciliari di rientrare nelle loro sedi. Subito prima era stato
approvato il dogma delle pronunce dottrinali del papa ex cathedra, con
il voto contrario degli “antichi cattolici” germanici, fonte di un
piccolo scisma. Ma un altro spettro aleggiava in Europa: la spessa
minacciosa nube dell'Anticoncilio organizzato a Napoli in risposta
polemica contro quello voluto da Pio IX. Esso fu ideato e organizzato
da Giuseppe Ricciardi, campione dell'anticlericalismo, disordinato ma
una volta tanto efficiente. Ottenne la partecipazione o almeno
l'adesione di filosofi, storici, scienziati, artisti, scrittori e
politici rinomati, nonché di logge massoniche. L'assise fu inaugurata a
Napoli, la città più popolosa e turbolenta d'Italia, il 9 dicembre,
all'indomani di quello Vaticano. Al secondo giorno i suoi lavori
vennero interrotti da un commissario di polizia balzato sul palco
quando un delegato si mise a inneggiare alla repubblica.
L'internazionale anticlericale rimase qual era: una babele di lingue e
di simboli, senza alcun progetto filosofico, politico, culturale
unitario. Una somma di umori e di risentimenti, spesso di ex
seminaristi e spretati, come il garibaldino fra' Giovanni Pantaleo.
Nel quinto numero della
“Rivista della Massoneria Italiana” (27 agosto 1870) il gran
maestro del Grande Oriente d'Italia (GOI), Lodovico Frapolli (Milano,
1815- suicida in clinica psichiatrica a Torino, 1878), ripubblicò il
“no” a suo tempo da lui opposto all'invito ad aderire all'Anticoncilio:
i singoli massoni avevano motivo di intervenirvi per conferirgli nerbo,
ma la massoneria “come corporazione, superiore alle vertenze religiose,
fallirebbe completamente alla propria missione e si farebbe partigiana,
se venisse a preoccuparsi di ciò che un Capo-setta qualsiasi (ovvero
Pio IX, NdA) dispone co' suoi fedeli”. Semmai doveva riunirsi “a casa
propria”. Tra gli interrogativi
che accompagnarono e ancora alimentano le interpretazioni della fase
agonica dello Stato Pontificio uno riguarda proprio il ruolo della
massoneria italiana. L'impulso all'impresa coronata il Venti Settembre
1870 dall'irruzione del 40° di Fanteria a passo di carica, seguito da
sei battaglioni di bersaglieri attraverso Porta Pia (come narrò Edmondo
De Amicis, testimone oculare), fu preparata di lunga mano, pilotata e
condotta in porto dal Grande Oriente d'Italia (GOI)?
La risposta è nelle pagine della citata “Rivista della Massoneria
italiana”, il settimanale di sedici facciate a numero, che iniziò le
pubblicazioni il 30 luglio1870 sulla scia del “Bollettino del Grande
Oriente d'Italia” ideato e diretto da Frapolli. Iniziato massone
nella loggia torinese “Dante Alighieri” e balzato in un mese al 33°
grado del Rito scozzese antico e accettato, poi venerabile della
loggia, promotore dell'unione di vari corpi massonici, facente funzione
di gran maestro, eletto deputato nei collegi di Casalpusterlengo,
Gavirate e Altamura, di rado partecipe alle sedute parlamentari, nel
1867 Frapolli costituì a Firenze la loggia “Universo” formata da
esponenti della Sinistra, usi a radunarsi attorno al “tappeto verde”
cioè in forma non rituale, per discutere i disegni di legge e i
travagli che angustiavano il Paese. Nell'autunno del 1867 negò il
sostegno del GOI all'impresa di Garibaldi. Tra fine agosto e inizio
settembre del 1870 sollecitò la spedizione su Roma. In un colloquio
Quintino Sella gli assicurò l'intenzione del governo di agire; egli
raccomandò quindi alle logge di eccitare gli animi e di accendere
fuochi sui colli, ma con esiti molto deludenti. Non solo. Il 7
settembre d'improvviso partì da Firenze per la Francia, a sostegno
della neonata Repubblica e rassegnò le dimissioni dalla carica proprio
quando più il GOI aveva bisogno di una guida razionale. Fu
sostituito provvisoriamente da Giuseppe Mazzoni, deputato a sua volta,
antico triumviro toscano, eletto gran maestro effettivo il 1° giugno
1871 dall'Assemblea radunata nel tempio della loggia “Concordia” a
Firenze. Ma quante erano le Officine che
Pio IX riteneva fossero il covo della Rivoluzione? Meno di cento tra
Italia e propaggini estere, ubicate quasi solo nelle grandi città. In
molte regioni non ve n'era neppure una. Al GOI si aggiungevano corpi
massonici nell'Italia meridionale. Uno, incardinato a Palermo e in
sfacelo, offrì la gran maestranza a Mazzini, che la dirottò su
Quirico Filopanti; un altro era capitanato dall'arciprete Domenico
Angherà. Tutti sommati i massoni attivi e quotizzanti erano non più di
tremila. Dall'estero Frapolli raccomandò al GOI di trasferirsi subito a
Roma; ma Mazzoni se ne guardò bene, perché, come la Rivista ammise il
20 maggio 1871, essi erano disorganizzati e deboli. Il Mito di Porta Pia Il
trionfo del Venti Settembre si affermò quindici anni dopo, con l'ascesa
di Adriano Lemmi a Gran Maestro (1885-1896). Nel Canto dell'amore
(1877-1878) Carducci tese la mano all'altra riva del Tevere: “Io
maledissi al papa or son dieci anni,/ oggi co 'l papa mi
concilierei.//(...) Aprite il Vaticano: io piglio a braccio/ quel di se
stesso antico prigionier./ Vieni: alla libertà brindisi io faccio/
Cittadino Mastai, bevi un bicchier”. In tanti batterono il sentieri
stretto della conciliazione: Agostino Depretis, Francesco Crispi,
Ferdinando Martini, anticlericali e massoni, convinti dell'urgenza del
fronte comune contro la “nera setta” che minacciava l'unità nazionale,
gli anarchici e i socialisti rivoluzionari. Vennero frenati da chi
temeva l'avvento perpetuo dei “moderati”, che costituivano la
maggioranza dell'opinione nazionale. Il 3 maggio 1889 Adriano Lemmi
affermò la superiorità del 5 maggio d Garibaldi all'Ottantanove
francese. Questo aveva dato inizio alla Libertà nella Francia, già
unita; quello “creava l'unità dell'Italia e condannava a morte il
dominio dei Papi”. Parlò nel clima dell'imminente scoprimento del
bronzo di Giordano Bruno in Campo dei Fiori a Roma, “là ove il rogo
arse”. Voleva essere il trionfo dell'anticlericalismo. Esasperò la
divisione del Paese e alimentò gli attacchi concentrici contro la
Massoneria proprio da quando, il 20 settembre 1895, Porta Pia venne
proclamata “festa nazionale”: una data che in realtà aveva diviso gli
italiani, come sempre accade quando la soluzione diplomatica (sarebbe
bastata la concessione di una pur ristretta sovranità territoriale,
anziché la legge delle guarentigie, che riconobbe la forma ma non la
sostanza) lascia il campo a quella militare. A Pio IX non rimase che
ripetere: “Non possiamo, non dobbiamo, non vogliamo” come l'indomito
Pio VII aveva detto a Napoleone. Da allora la Libera Muratoria fu
denunciata quale complotto ebraico-socialista agli ordini della
Rivoluzione, con quel che ne seguì. A 150 anni
dall'evento, il Mito va rivisitato, nel rispetto dei suoi protagonisti,
costretti ad agire con l'incubo della guerra generale europea.
Aldo A. Mola
MARCO AURELIO DI SALUZZO (1866-1928) UN UOMO DI STATO DELL'ETA' GIOLITTIANA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 2 agosto 2020, pagg. 1 e 11. I collegi nominali, vivaio di classe dirigente Nel
suo V e ultimo governo (16 giugno 1920-4 luglio 1921) Giovanni Giolitti
volle a fianco uomini fidati del suo Vecchio Piemonte: il pinerolese
Luigi Facta alle Finanze, il chierese Cesare Rossi sottosegretario alla
Pubblica istruzione, ai Lavori Pubblici il saluzzese Camillo Peano, già
suo ex capogabinetto al ministero dell'Interno e da sette anni
deputato; il monregalese Giovanni Battista Bertone, sottosegretario
alle Finanze, poi ministro dello stesso dicastero nei due governi Facta
(1922), nel 1919 eletto deputato per il partito popolare con più
preferenze di Giolitti stesso; e il torinese marchese Marco di Saluzzo,
sottosegretario agli Affari Esteri, deputato dal 1904 al 1919 quando
venne nominato senatore. Giolitti riteneva che la classe dirigente di
un grande Paese non è frutto d’improvvisazione. Gli “uomini di Stato”
non nascono per germinazione spontanea nel deserto della cultura e dei
valori civici. All'epoca a nessuno sarebbe venuto in mente di dire che
“uno vale uno”. La formazione della classe politica richiede tempi
lunghi. Occorrono generazioni o almeno un’istruzione personale seria e
adeguata (ne scrisse Pascoli in La piccozza)) per acquisire, vivere e
trasmettere il “senso dello Stato” come connaturata. All'abito
della dirigenza italiana molto concorse la legge elettorale del regno
di Sardegna approntata da statisti quali Cesare Balbo, Camillo Cavour e
Luigi Francesco Des Ambrois de Névache. Essa istituì tanti collegi
elettorali quanti erano i seggi della Camera: 208. Ogni elettore era
eleggibile, senza bisogno di candidarsi. Il teologo Vincenzo Gioberti
fu eletto in diciotto collegi benché non si fosse presentato in alcuno
di essi. Bastava la fama. Se nessuno raggiungeva il quorum fissato
dalla legge, gli elettori erano riconvocati a breve per scegliere tra i
due candidati che avevano ottenuto il maggior numero di preferenze. Gli
ecclesiastici con cura d' anime erano ineleggibili, per
l'incompatibilità tra politica e amministrazione di sacramenti
“delicati”, quali la confessione. Una fitta serie di clausole stabiliva
incompatibilità, ineleggibilità e riserva di seggi per i pubblici
impiegati. In caso di eccesso di eletti rispetto ai seggi consentiti
alle rispettive categorie, si procedeva all'esclusione per sorteggio
sino a raggiungere il numero degli scranni previsti. I deputati
pubblici dipendenti (militari, magistrati, alti dirigenti, docenti...)
che nel corso del mandato conseguissero promozioni automaticamente
decadevano dalla Camera ma erano subito rieleggibili. I
collegi uninominali mostrarono la loro validità dal 1848 al 1861.
Perciò la legge elettorale del regno di Sardegna fu adottata da quello
d'Italia. Salvo nelle elezioni dal 1882 al 1890, quando si
sperimentarono circoscrizioni formate da 4 o 5 ex collegi uninominali e
lo scrutinio di lista, rimase pressoché immutata sino al 1913, allorché
Giolitti introdusse il suffragio quasi universale maschile (il voto
politico femminile era ancora rarissimo). I conservatori e
alcuni sedicenti democratici (Gaetano Salvemini, che lo definì “un
pranzo alle otto del mattino”) erano convinti che il balzo degli
elettori da meno di tre milioni a otto milioni e mezzo avrebbe
scatenato una “rivoluzione parlamentare” e squassato le istituzioni.
Invece non avvenne nulla di traumatico. I neo-deputati furono 146 su
508, un ricambio in linea con quanto era avvenuto nelle elezioni
precedenti. Si registrò, anzi, un rafforzamento della qualità dei
parlamentari. I migliori, ovvero i più sperimentati e assidui, furono
confermati. Non erano “ascari” del “ministro della malavita” come
asserito appunto da Gaetano Salvemini, che di Giolitti scrisse con la
penna intinta nel fiele di due sconfitte elettorali, bensì “uomini di
Stato”. Com’era accaduto sin dal regno subalpino, il
rinnovo della rappresentanza alla Camera fu propiziato da Giolitti, che
in vista delle elezioni propose a Vittorio Emanuele III la nomina a
senatori di molti deputati in carica da tre o più legislature, come
prevedeva il terzo punto dell'articolo 33 dello Statuto sulla
composizione del Senato, di alti dignitari dello Stato e di personalità
rilevanti. Fra il 3 giugno 1911, poco più di due mesi dal varo del suo
quarto governo, e il 24 novembre 1913 si susseguirono quattro
“infornate” per un insieme di 103 nuovi “patres”, con l'aggiunta
dell'ammiraglio Enrico Millo nominato da solo. Particolarmente folte
furono le nomine del 16 ottobre e del 24 novembre 1913, comprendenti,
fra altri, Alfredo Frassati, proprietario e direttore di “La Stampa”,
Gerolamo Gatti (nel novembre sul punto di essere eletto gran maestro
aggiunto del Grande Oriente d'Italia), il torinese Eugenio Rebaudengo,
già deputato di Bra, Giovanni Francica Nava, l'acquese Maggiorino
Ferraris, proprietario della “Nuova Antologia”, la rivista culturale
più prestigiosa d'Italia. In quelle elezioni l'area liguro-piemontese
confermò alla Camera parlamentari di lungo corso, accreditati dal
consenso dell'elettorato che li conosceva “inctus et in cute”.
Recentemente Alessandro Mella ha bene documentato il caso di Giovanni
Rastelli, eletto nel collegio di Lanzo Torinese. Il marchese di Saluzzo: militare, consigliere provinciale, deputato Analoga,
e per molti aspetti anche più emblematica, fu la vicenda di Marco
Aurelio di Saluzzo (Torino, 9 aprile 1866-Saluzzo, 19 ottobre 1928),
marchese di Saluzzo, barone di Fenis e La Riviera, signore di Castellar
con Oncino, Ostana e Paesana, discendente della Casa che nei secoli
aveva creato uno Stato, il Marchesato di Saluzzo, esteso dalla Valle Po
alle porte di Cuneo, con domini nelle Langhe (Dogliani, Castiglion
Falletto...) e nell'Astigiano. Nel 1548 i francesi di Enrico II
imprigionarono e avvelenarono Gabriele, ultimo discendente del
capostipite della Casa, privo di discendenti legittimi, e ne
soggiogarono lo Stato, poi strappato loro da Carlo Emanuele I di Savoia
nel 1587 e definitivamente incorporato nel Ducato di Savoia con il
Trattato di Lione stipulato con Enrico IV di Borbone (1601). La
Casa dei Saluzzo continuò per rami collaterali, sino, appunto a Marco
Aurelio di Paesana. Il 31 luglio 1879 Re Umberto I con motuproprio gli
concesse il titolo di marchese. Avviato alla carriera delle armi
(Scuola Militare e poi Accademia di Torino), egli raggiunse il grado di
maggiore di artiglieria. Sposato con Maria Raffaella De Mari, ne ebbe
figlie Artemisia, Aurelia e Maria. Alla vita di ufficiale
unì la cura dell'amministrazione pubblica. Nel 1902 Marco di Saluzzo fu
eletto al Consiglio provinciale di Cuneo per il mandamento di Sampeyre,
in valle Varaita, precedentemente rappresentato da Carlo Buttini,
deputato di Saluzzo e senatore (1895-1900), e dall'avvocato Francesco
Rossa (1901). Un altro Saluzzo, il conte Cesare di Monterosso, era
stato consigliere per il mandamento di Paesana (1864-1868). Il consesso
provinciale non aveva suddivisioni in partiti. Nella quasi totalità
cattolici praticanti, ma senza ostentazioni per calcoli elettorali, e
compattamente fedeli alla monarchia, i suoi componenti si riconoscevano
nella tradizione risorgimentale e unitaria. Dopo le lunghe
stagioni di Gustavo Ponza di San Martino (senatore e rappresentante del
circondario di Cuneo), dell'albese Alerino Como (deputato prima di
Michele Coppino eletto dal 1861,più volte ministro della Pubblica
istruzione, e morto in carica nel 1901) e del saluzzese Carlo Buttini
(deputato e poi senatore 1891-1900), alla sua presidenza del Consiglio
si susseguirono il saviglianese Bartolomeo Gianolio (1901-1902),
deputato per sette legislature, e il monregalese Ferdinando Siccardi
(1903-1904), ripetutamente deputato e senatore dal 1904. Per vent'anni
gli subentrò Giolitti (1905-1925), deputato dal 1882 alla morte, nel
1928, cinque volte presidente del Consiglio dei ministri. Il consesso
cuneese contava senatori, deputati, aristocratici, militari,
scienziati, clinici, docenti e storici come Costanzo Rinaudo:
un'accolita straordinaria di personalità competenti e devote
all'interesse pubblico, confortata da uffici tecnici di alto livello,
famosi per dedizione e solerzia. Ottimi furono sempre i rapporti tra la
Provincia e i Prefetti, che consideravano la sede di Cuneo tra quelle
più importanti del regno. Tra i molti, va ricordato Amedeo Nasalli
Rocca, le cui “Memorie di un prefetto” sono un suggestio ritratto della
vita pubblica italiana tra Otto e Novecento. Mentre
svolgeva l'“apprendistato” di consigliere provinciale,
all'amministrazione locale il marchese Marco di Saluzzo unì il mandato
nazionale. Il 6 novembre 1904 fu eletto deputato del collegio di
Saluzzo, nel clima di convergenza tra liberali e cattolici moderati.
Alla Camera intervenne esclusivamente sui temi a lui noti: bilancio del
ministero della Guerra, grandi manovre, scuole militari e pensioni dei
sottufficiali. I parlamentari non parlavano a vanvera. Prime di
pronunciarsi, studiavano, perché l'Aula era gremita di colleghi
preparatissimi. Negli stessi anni nel Consesso cuneese parlò a favore
dei cantonieri provinciali, della Scuola normale femminile di Saluzzo
(1905) e di quella Enologica di Alba, in competizione con Conegliano
Veneto (1907). Si mosse nella cornice del “giolittismo”, le grandi
riforme sociali d'inizio Novecento, che coniugarono efficienza dello
Stato e solidità delle Istituzioni, come documentano le cinquemila
pagine dei cinque volumi di “Giovanni Giolitti al Governo, in
Parlamento, nel Carteggio”, editi a cura di Aldo G. Ricci con
prefazione di Gianni Rabbia, presidente della Fondazione Cassa di
Risparmio di Saluzzo, che sorresse la pubblicazione (Ed. Bastogi). Rieletto
il 7 marzo 1909, il 26 ottobre 1913, dopo l'introduzione del già
ricordato suffragio universale maschile e l'aumento degli elettori del
collegio da 6585 a 14031, di Saluzzo ottenne 5622 preferenze contro i
2017 voti andati al radicale e massone avvocato Achille Dogliotti,
mentre il radicale Federico Milano sconfisse a Savigliano il
giolittiano Luigi Ciartoso. Il clima politico cominciava ad
avvelenarsi. Sobillata da socialisti, l'Unione Operaia di Saluzzo
respinse la proposta, avanzata da suoi associati, di conferire al
marchese di Saluzzo l'innocua presidenza onoraria dell’associazione. Dalla Grande Guerra al governo e alla guida del Consiglio provinciale di Cuneo In
veste di ufficiale di Stato Maggiore, con i gradi di capitano e di
colonnello, di Saluzzo fu tra i primi a sbarcare a Tripoli per
affermare la sovranità dell'Italia sulla Libia (ottobre 1911), liberata
dal secolare dominio turco-ottomano, come poi Rodi e il Dodecanneso,
che ne sono ancora grati. All'intervento dell'Italia nella Grande
Guerra partì per il fronte, come altri consiglieri provinciali cuneesi,
tra i quali Marcello Soleri, dal 1913 deputato e quindi come lui
dispensato dalla mobilitazione, Francesco Bogetti e Tomaso Quagliotti.
Purtroppo il suo stato di servizio non figura nell'Archivio
dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito. Al
termine del conflitto fu nominato sottosegretario di Stato per
l'assistenza militare e le pensioni di guerra nel secondo governo
presieduto da Francesco Saverio Nitti (marzo-maggio 1919) e, come già
detto, agli Esteri nel V e ultimo governo Giolitti, accanto al ministro
Carlo Sforza (giugno 1920-luglio1921). Il 6 ottobre 1919 fu creato
senatore del regno quale ex deputato e per la 20a categoria (i
cittadini che da tre anni pagavano almeno tremila lire d'imposizione
diretta in ragione dei loro beni o della loro industria). Già
a lungo segretario del Consesso cuneese, nel 1921 Marco di Saluzzo fu
eletto vicepresidente del Consiglio provinciale di Cuneo, rinnovato nel
1920. In tale veste, come documenta l'unica e ormai rara Storia
dell'Amministrazione provinciale di Cuneo dall'Unità al fascismo (ed.
1971), il 6 giugno 1921 presiedette il consesso mentre Giolitti era
trattenuto a Roma e ancora l'8 agosto. Confermato nella carica il 14
agosto 1922, il 23 ottobre seguente pronunciò il fervido elogio dello
Statista festeggiato nell'80° compleanno con la consegna di una
medaglia d'oro e l'istituzione di una borsa di studio intitolata al suo
nome, omaggio alle cure prestate da Giolitti all'Istruzione pubblica,
tanto da volerne ministro Benedetto Croce, al quale nel 1922 seguì
Giovanni Gentile. Quella era l'Italia; quelli erano i suoi ministri. Il “No” di un liberaldemocratico al regime di partito unico Nel
dicembre 1925 un folto numero di consiglieri nazionalisti, popolari e
“liberali” si fece strumento della congiura ordita da Mussolini contro
il liberaldemocratico Giolitti: il presidente del consesso cuneese
doveva avere la tessera del PNF. In cambio il governo avrebbe concesso
un milione di lire a beneficio di opere pubbliche. Giolitti (che alla
sua età non voleva certo intonare “Giovinezza”) si dimise da presidente
e, per elementari motivi di dignità, da rappresentante del mandamento
di Prazzo e San Damiano. Marco di Saluzzo fu tra quanti si dimisero a
loro volta: Marcello Soleri, Giovanni Battista Fillia, Michele Gullino,
Domenico Dotta, Andrea Miraglio e, per motivi di salute, Paolo Enrico,
da quarant'anni rappresentante del mandamento di Saluzzo. Con gli
esponenti della tradizione liberaldemocratica si dimisero anche i
socialisti, a cominciare da Domenico Chiaramello, eletto nel mandamento
di Cavallermaggiore (dicembre 1925-gennaio 1926), che tardivamente
capirono quanto il loro partito dovesse a Giolitti e ai suoi seguaci,
garanti della libertà politica per tutti, avversari compresi. Alla
Camera Alta Marco di Saluzzo fu iscritto al Gruppo liberaldemocratico,
poi Unione democratica. È storiograficamente falso che il Senato sia
stato succubo di Mussolini e che il governo insediato il 31 ottobre
1922, senz'alcun supporto della “marcia su Roma (mai avvenuta anche se
molto mitizzata), sia stato “subito regime” come invece sostiene Emilio
Gentile. Alla morte egli fu ricordato dal presidente del Senato,
Tommaso Tittoni, che ne elogiò l'opera di parlamentare ma insisté
soprattutto su quella di militare e di amministratore locale. Marco di
Saluzzo visse e attualizzò l'ideale del “civis romanus”, al servizio
dello Stato in armi e negli uffici pubblici, sulla scia degli antenati,
come mostra il busto di Giuseppe Angelo di Saluzzo, conte di Monesiglio
e fondatore dell'Accademia delle Scienze di Torino, nella chiesa di San
Bernardino a Saluzzo, ove è raffigurato in veste di antico romano,
contornato dalle lapidi dei figli, Alessandro e Annibale, generali, e
Cesare, che donò l'emblematica spada napoleonica al futuro Vittorio
Emanuele II, e della figlia, Diodata, autrice del poema Ipazia e così
celebre che il suo busto figura nella Protomoteca del Campidoglio a
Roma con quelli di Gaspara Stampa e di Vittoria Colonna. Marco
Aurelio di Saluzzo rimane un modello della dirigenza nazionale tra
Risorgimento e avvento del regime di partito unico: formata da persone
di grande competenza, rettitudine e dedizione allo Stato.
All'occorrenza sapeva usare il tono giusto. In una interrogazione
parlamentare chiese al governo di assicurare un servizio “almeno
decente” sulla linea ferroviaria Saluzzo-Savigliano (saltem interrotta
nel quadro del depauperamento dei servizi di pubblica utilità
dell'area liguro-piemontese). Manca una sua biografia, non certo la
documentazione per scriverla. La doverosa intitolazione al suo nome di
uno spazio pubblico in Saluzzo potrebbe indurre a colmare la lacuna.
Riscoprire la statura nazionale ed europea della classe dirigente
postunitaria può essere valido integratore per quella ventura, se e
quando agli elettori verrà consentito di tornare alle urne, meglio se
con una legge elettorale che consenta la libera scelta da parte dei
cittadini dei propri rappresentanti, anziché il mortificante rito di
conferma di “candidati”, come avvenne con l'istituzione del Gran
Consiglio del Fascismo che avocò a sé la scelta dei candidati al
“collegio unico nazionale” e perdura a opera di cupole partitiche e di
“piattaforme” la cui compatibilità con la Costituzione rimane da
provare.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Busto
marmoreo di Giuseppe Angelo Saluzzo di Monesiglio e Valgrana
(1734-1810) nella Cappella funeraria, Chiesa di San Bernardino,
Saluzzo, drappeggiato da antico romano. Fondatore della Regia Accademia
delle Scienze (fotografia di Giancarlo Durante).
LA REPUBBLICA ROMANA E IL CARNARO COSTITUZIONI BELLE E IMPOSSIBILI
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 26 luglio 2020, pagg. 1 e 11.
Tra
i molti primati, l'Italia vanta due tra le carte costituzionali più
“belle”: quelle della Repubblica Romana (1849) e della Reggenza del
Carnaro (1920). Entrambe rimasero inattuate. La prima, dibattuta dal 17
aprile al 3 luglio 1849, fu approvata dall'Assemblea costituente mentre
la Repubblica romana agonizzava. È un capolavoro di sintesi e di
chiarezza. Tra i suoi capisaldi afferma che la sovranità è per diritto
eterno del popolo; il principio democratico ha per regola
l'uguaglianza, la libertà, la fraternità” (non la fratellanza); la
repubblica considera tutti i popoli come fratelli, rispetta ogni
nazionalità, propugna l'italianità. In un'Europa che ancora
discriminava i cittadini sulla base delle loro fedi, stabilì che “dalla
credenza religiosa non dipende l'esercizio dei diritti civili e
politici”.
La
Repubblica Romana era nata dalla “rivoluzione”. Dopo l'elezione
dell'Assemblea costituente e l'assassinio del suo primo ministro,
Pellegrino Rossi, giureconsulto di fama europea, trafitto con pugnalata
rituale alla gola, papa Pio IX si era rifugiato a Gaeta, sotto la
protezione di Ferdinando II di Borbone. Il 9 febbraio 1849 su proposta
di Carlo Luciano Bonaparte, principe di Canino, promotore dei Congressi
degli Scienziati Italiani, l'Assemblea, presieduta da Giuseppe
Galletti, proclamò la Repubblica. Di rincalzo intervenne Giuseppe
Garibaldi. Poi arrivò Giuseppe Mazzini, che affiancò alla guida della
Repubblica Carlo Armellini e Aurelio Saffi. Roma divenne un laboratorio
politico, basato anche sulla libertà politica. Nella costituzione si
legge che le persone e le proprietà sono inviolabili, nessuno può
essere arrestato se non in flagrante delitto né sottratto ai suoi
giudici naturali. Essa abolì la pena di morte e proclamò la libertà di
manifestazione del pensiero, dell'insegnamento e di associazione. La
Carta era modificabile, a differenza della forma dello Stato: la
Repubblica. Per molti aspetti quella Costituzione riprese principi
enunciati nella solitamente dimenticata carta del Rinascente Impero
Romano (1814) e precorse quela vigenteoggi in Italia. Dopo
mesi di stallo, il corpo di spedizione agli ordini del generale
Oudinot, inviato dal presidente della repubblica francese, Luigi
Napoleone Bonaparte - che mirava a ingraziarsi i cattolici in vista del
colpo di stato per restaurare l'Impero - stava scatenando l'assalto
finale per ripristinare il potere temporale dei papi. Erano giorni di
lotta all'ultimo sangue. Molti eroici difensori accorsi da tutta Italia
già erano caduti in combattimento o morirono in quelle convulse
giornate: Luciano Manara, Emilio Morosini, Enrico Dandolo. Fra altri,
rimase ferito da fuoco amico il ventiduenne Goffredo Mameli. La piaga
si infettò. Morì poco dopo l'irruzione dei francesi. Garibaldi raccolse
circa duemila uomini. Promise loro “lacrime e sangue” (Winston
Churchill non ha inventato nulla) e li guidò verso Venezia, che ancora
resisteva agli austriaci, ultimo baluardo della “tempesta magnifica”
del 1848-1849. Lo seguivano Ciceruacchio con il figlio quattordicenne e
il barnabita Ugo Bassi. Catturati dagli austriaci furono fucilati. Dopo
settimane di stenti, morì sua moglie, Anita, incinta di molti mesi.
Grazie alla “trafila” dal “capanno” nella pineta di Ravenna raggiunse
il Tirreno e la Liguria, ma dovette lasciare il regno di Sardegna,
nuovamente esule. I capisaldi della Costituzione romana
riecheggiano il saluto che il primo presidente della Repubblica
francese nata nel febbraio 1848 dalla terza rivoluzione di quel Paese,
Alfonso Lamartine, rivolse a una delegazione massonica: ai suoi occhi
essi erano i vessilliferi di libertà, uguaglianza, fraternità: parole
chiave della rivoluzione del 1789 e dei suoi sviluppi. Quella
Carta rimase punto di riferimento dei repubblicani e della sinistra
democratica dopo la proclamazione del regno d'Italia. Anche molti
mazziniani e garibaldini ormai conciliati con la monarchia, incarnata
da Vittorio Emanuele II di Savoia, che teneva l'Italia al riparo dalla
clerocrazia, continuavano ad averla per Stella Polare, baluginante ma
sempre fissa. Parecchi costituenti del 1946-1947 arrivavano dal suo
culto. Fu il caso di Bartolomeo (Meuccio) Ruini, antico iniziato della
loggia “Rienzi” di Roma, presidente della Commissione dei 75 che
redasse la bozza della Carta oggi vigente. L'altra celebre
Costituzione è la Carta del Carnaro. Conta cento anni. Venne proclamata
da Gabriele d'Annunzio a Fiume l'8 settembre 1920. Come quella della
Repubblica Romana neppure essa fu applicata. La Reggenza durò pochi
mesi. Il Trattato italo-jugoslavo sottoscritto a Rapallo l'11 novembre
definì i confini tra Italia e Jugoslavia. Fiume venne riconosciuta
Città libera. Al governo di Roma, presieduto da Giolitti, toccò
allontanarne d'Annunzio e i suoi legionari: un compito amaro ma
ineludibile. La Carta entusiasmò uomini politici e studiosi di tutto il
mondo. Era una profezia. Su proposta del Comandante, la sua “bozza” fu
approntata da Alceste De Ambris (1874-1934), anarco-sindacalista, che
vi lavorò intensamente per setttimane e gliela consegnò il 18 marzo. A
sua volta d'Annunzio le dedicò “tutto il tempo libero concesso da
proclami, bollettini, ordini, incontri, visite ai legionari,
esercitazioni e l'indispensabile attività sessuale”, come scrive
Giordano Bruno Guerri in Disobbedisco. Fiume 1919-1920. Cinquecento
giorni di rivoluzione (Mondadori). I suoi articoli crebbero da 47 (un
numero poco beneaugurante: d'Annunzio era scaramantico) a 65, ripartiti
in venti capitoli per un totale di 113 grandi fogli manoscritti a
matita con correzioni a inchiostro. Il Vate ne fece varie copie. Mandò
la prima (a sua detta) a Domizio Torrigiani, gran maestro del Grande
Oriente d'Italia, e poi via via ai fedelissimi. Tra i destinatari vi fu
Giacomo Treves, “anima” della loggia “Guglielmo Oberdan” di Trieste.
D'Annunzio non si limitò affatto ad aggiungere al testo di De Ambris
bellurie stilistiche pescando nella terminologia istituzionale arcaica.
Rivendicò in premessa la potestà di Fiume di dedizione alla Madrepatria
Italia, triplice e impenetrabile come l'armatura romana: per diritto
storico, terrestre e umano. In linea con De Ambris pose a fondamento
della Reggenza “la potenza del lavoro produttivo” (vaticinio della
Repubblica italiana, “fondata sul lavoro”). Affermò l'uguaglianza
giuridica dei sessi, le libertà di pensiero, stampa, riunione,
associazione e culto. Aggiunse il risarcimento dei danni in caso di
errore giudiziario o di abuso di potere e affermò principi che solo a
una lettura superficiale potrebbero parere mera poesia: “la vita è
bella, e degna che severamente e magnificamente la viva l'uomo rifatto
intiero alla libertà”, uomo che sa “ogni giorno inventare la sua
propria virtù”. E ancora: “Il lavoro, anche il più umile, anche il più
oscuro, se sia bene eseguito, tende alla bellezza ed orna il mondo”. Passati
in rassegna diritti e doveri dei cittadini, ordinamento dei comuni,
poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, il Vate delineò la figura
del “Comandante”, al quale la Reggenza doveva affidare la “potestà
suprema senza appellazione” in caso di pericolo estremo: l'aggressione
nemica (non un’epidemia...). Durante il mandato, il Comandante sommava
“tutti i poteri politici e militari, legislativi ed esecutivi”. Allo
scadere del termine poteva essere sostituito, deposto o anche bandito. Particolare
attenzione, da antico e sedulo allievo del Collegio Cicognini di Prato,
d'Annunzio dedicò all'istruzione pubblica. Non era questione di metri
quadrati per allievo, di banchi, di ingressi in orari scaglionati e di
altre cantilene che oggi affliggono e mortificano il buon senso comune.
“Per ogni gente di nobile origine – recita l'articolo L della Carta del
Carnaro – la coltura è la più luminosa delle armi lunghe”. Nella scuola
si forma l'“uomo libero”. È il “regno dello spirito”. Previde in Fiume
un’Università libera, scuole di Arti belle, di Arti decorative e di
Musica. Nelle medie era obbligatorio l'insegnamento anche negli idiomi
delle minoranze linguistiche, nonché l'insegnamento del canto corale e
dell'ornato. “Alle chiare pareti delle scuole aerate – aggiunse
d'Annunzio– non convengono emblemi di religione né figure di parte
politica. Le scuole pubbliche accolgono i seguaci di tutte le
confessioni religiose, i credenti di tutte le fedi e quelli che possono
vivere senza altare e senza dio. Perfettamente rispettata è la libertà
di coscienza. E ciascuno può fare la sua preghiera tacita”. I
tre ultimi articoli proiettano la Carta del Carnaro al di sopra della
Storia, in prospettiva magica, a cominciare dall'istituzione del
collegio degli Edili, formato “con discernimento fra gli uomini di
gusto puro, di squisita perizia e di educazione novissima”: altra cosa
dagli “uffici tecnici” odierni, affogati nell'oceano di norme ottuse
ottusamente applicate da burocrati malefici. Esso doveva curare il
decoro cittadino e impedirne il “deturpamento” con “fabbriche sconce o
mal collocate” (l'opposto di quanto avvenne nei decenni della
Ricostruzione), allestire “feste civiche di terra e di mare con sobria
eleganza”, ridare al popolo l'amore della linea bella e del bel colore
nelle cose che servono alla vita d'ogni giorno”. Nella Reggenza la
Musica era “istituzione religiosa e sociale” perché “un grande popolo
non è soltanto quello che crea il suo dio a sua simiglianza ma quello
che anche crea il suo inno per il suo dio”. Infine prospettò
l'“edificazione di una Rotonda capace di almeno diecimila uditori,
fornita di gradinate comode per il popolo e d'una vasta fossa per
l'orchestra e per il coro”, in vista di “grandi celebrazioni corali ed
orchestrali totalmente gratuite come dai Padri della Chiesa è detto
delle Grazie di Dio” e ha ripetuto papa Francesco a proposito
dell'amministrazione dei sacramenti. Era l'anticipazione del Parlaggio
il cui completamento è stato fortemente voluto da Guerri. Appena
letta la bozza della Carta monsignor Celso Costantini nominato da papa
Benedetto XV amministratore apostolico a Fiume (il podestà Antonio Vio,
massone, aveva sollecitato l'assegnazione di un Nunzio) scrisse
allarmatissimo al Vate deplorando che lo Stato legiferasse in materia
religiosa “con uno spirito non solo acristiano, ma con tendenza alla
rinascita di un culto pagano, in cui l'edonismo e l'estetica si
sovrappongono all'etica ed Orfeo a Cristo”. Ma il Vate non cambiò una
virgola. Aveva per insegna l'uroburo e il motto “Quis contra nos?”
scritto nella bandiera della Reggenza del Carnaro. Va sottolineato che
la Carta non prolamò Fiume “Repubblica”, come speravano molti suoi
seguaci. A lungo si è discusso sull'influsso
della massoneria nella Carta dannunziana. Ne hanno scritto Carlo
Ricotti, alto dignitario del Grande Oriente d'Italia, nel succoso
volumetto La Carta del Carnaro. Dannunziana, massonica, autonomista
(ed. Fefé, 2015) e altri, già decenni addietro, talvolta concedendo al
mito. In realtà De Ambris fu iniziato massone, ma a Parigi, il 23
febbraio 1925, nella loggia “Italia”, incardinata nella Gran Loggia di
Francia (n. 450). Non esistono iniziazioni con valore retroattivo, né
“di desiderio”. O lo sono o non lo sono. Quella di De Ambris fu di
valenza propriamente politica: servì a Luigi Campolonghi, segretario
della Lega Italiana dei Diritti dell'Uomo, per “spostare a sinistra”
gli equilibri interni alla loggia, in antitesi con Ubaldo Triaca,
ritenuto antifascista “moderato”, mentre ormai, dopo il discorso
mussoliniano del 3 gennaio, bisognava passare ai “fatti”. Escluso
dunque che la massoneria possa aver influito su De Ambris, meno ancora
lo fece sullo spirito di d'Annunzio, che viveva di sé e da sé: poeta,
condottiero, Grande Taciturno poi “prigioniero” del Duce nell'esilio
dorato del Vittoriale, a Gardone Riviera. Nel 1927 la Carta del Lavoro,
scritta da Carlo Costamagna e da Alfredo Rocco, imbalsamò i sindacati:
l'opposto di quanto propugnato dal Vate e dal suo sodale
anarchicheggiante. Introdusse i contratti nazionali, concesse ferie,
riconobbe indennità ma vietò gli scioperi in una concezione corporativa
dello Stato. Come quella della Repubblica
Romana, la Carta del Carnaro rimane un faro di luce sul “secolo della
libertà”, sempre più atteso e sempre più improbabile. Ma, direbbe
d'Annunzio, “spes ultima Dea...”.
Aldo A. Mola
LA SANTA SEDE SBUGIARDA PEDRO SÁNCHEZ
La
Santa Sede smentisce il socialista spagnolo Pedro Sánchez. Il capo del
governo rosso-viola l'8 luglio aveva dichiarato che “nella vicenda del
corpo (sic!) di Franco” era stato aiutato dal Vaticano a superare
l'opposizione della comunità benedettina del Valle de los Caídos,
“contrarissima all'esumazione” delle spoglie del Caudillo. Trascorsa
una decina di giorni e in assenza di rettifica da parte
dell'interessato, il 21 luglio la Santa Sede ha emesso un comunicato in
spagnolo e in italiano, tanto pacato nella forma quanto netto nella
sostanza: “Riguardo alle dichiarazioni rilasciate dal presidente del
governo spagnolo, Pedro Sánchez, nella sua intervista pubblicata l'8
luglio scorso sul quotidiano Corriere della Sera, si precisa che la
Santa Sede, sulla questione dell'esumazione di Francisco Franco, ha
ribadito in varie occasioni il suo rispetto per la legalità e le
decisioni delle autorità governative e giudiziarie competenti, ha
sollecitato il dialogo tra la famiglia e il Governo e non si è mai
pronunciata sull'opportunità dell'esumazione né sul luogo della
sepoltura, perché non rientra nelle sue competenze”. Fermamente
contraria all’estumulazione della salma, la famiglia Franco aveva
chiesto la sua traslazione nella tomba di famiglia, nella Cattedrale
della Almudena, in pieno centro di Madrid, incontrando però la netta
opposizione del governo, timoroso che potesse divenire meta di
visitatori e degli omaggi ordinariamente resi alla memoria del Caudillo
a “los Caídos”, anche da parte di chi, senza essere né falangista né
franchista, gli riconosce la statura di Statista. Per
sbrogliare il groviglio da lui stesso pervicacemente creato, Sánchez
mandò in Vaticano la vicepresidente Carmen Calvo. Dopo un incontro
riservato con il Segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, questa
si produsse in dichiarazioni avventate lasciando credere che la Chiesa
fosse del tutto in linea col governo rosso-viola Pedro Sánchez-Pablo
Iglesias, che tante misure vessatorie ha adottato ai danni della chiesa
cattolica in Spagna. Il Comunicato spazza via ogni
malinteso. Come ricordato il 30 giugno dal Nunzio apostolico a Madrid,
Renzo Frattini, la Santa Sede non può certo dimenticare il pieno
sostegno dato nel 1936 all'alzamiento dei “Quattro Generali” (tra i
quali Franco) contro il governo repubblicano madrileno, sempre più
orientato “a sinistra” in chiave anticlericale. Aggiungiamo che Pio XII
conferì al Caudillo l'Ordine di Cristo Re. Forse tra
decenni, quando verrà aperta agli studiosi la consultazione di tutte le
carte sulla traslazione delle spoglie di Franco, si conosceranno i
dettagli di colloqui e carteggi formali e informali corsi tra il
governo spagnolo e Chiesa di Roma. Merita nel frattempo ricordare che
il Papa è successore di Pietro e Capo di Stato e che l'asserita
richiesta del suo intervento per imbrigliare i benedettini del Valle de
Los Caidos mirava a investirlo come capo della cristianità: fu
un’interferenza del potere temporale in questioni di carattere
propriamente spirituale e quindi un errore di metodo e di merito tipico
di laicisti miopi e al tempo stesso una trappola nella quale il
Vaticano non è caduto.
Aldo A. Mola
IL PREMIO ACQUI STORIA VERSO IL GRAN FINALE
Editoriale
di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della
Liguria” di domenica 19 luglio 2020, pagg. 1 e 11.
Ieri e oggi
Per
misurare l'abissale distanza tra quanti oggi occupano “la stanza dei
bottoni” del potere e chi 150-160 orsono dette all'Italia unità
e indipendenza, premesse della sua libertà all'interno e nella comunità
internazionale, basta leggere qualche libro di storia, ma di storia
vera, non quella che risolve le vicende degli Stati in arruffio di
lenzuola e confonde la Voce delle nazioni con gridolini di sovrani,
ministri o notabili di passo. “umani, troppo umani”. Il
presidente del Consiglio Conte e molti ministri si ergono a nuovi
Ercoli o addirittura a Prometei perché si occupano di dossier
putrescenti (autostrade, Ilva, Alitalia...) e ne parlano come se
stessero conquistando gli imperi degli Aztechi e degli Incas o
sbarcando a Mindanao a fianco di Magellano, mentre le questioni di cui
si occupano “salvo intese” (lotta all'evasione fiscale, riforma della
burocrazia e dell'amministrazione della giustizia, declino della
pubblica istruzione, bene descritto da Ernesto Galli della Loggia in
L'aula vuota. Come l'Italia ha distrutto il suo sistema scolastico, ed.
Marsilio) sono piaghe aperte da decenni (la prima autostrada ha quasi
un secolo, mentre le strade nazionali sono ridotte male assai, ponti
inclusi, malgrado le amorevoli cure dell'Anas; e le provinciali se la
passano peggio...). In principio furono Liborio Romano e i liberali del Mezzogiorno
Tutt'altra impresa fu fondere sette Stati in uno solo, come
avvenne, al calor bianco, nel 1859-1860. Per capire l'incolmabile
differenza tra l'oggi e quel passato prossimo (sono trascorse appena
quattro generazioni), giovano le opere finaliste del Premio Acqui
Storia 2020, le cui giurie si valgono di studiosi di valore (Maurilio
Guasco, Francesco Perfetti, Massimo De Leonardis, Giuseppe Parlato,
Giordano Bruno Guerri...), per limitarci alle sezioni scientifica e
divulgativa. Tutte insieme le cinquine delle opere finaliste invitano a
entrare nei meccanismi complessi della storia contemporanea (dal
Settecento alla metà del Novecento) e a cogliervi le premesse dell'età
presente per intenderne sintassi e grammatica. In La
guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici, briganti, 1860-1870
(Laterza) Carmine Pinto conduce al centro del groviglio internazionale
nel cui ambito nacque e si consolidò la Nuova Italia. Anche nel 150°
della proclamazione del Regno (2011) studiosi insigni, come Domenico
Fisichella, sintetizzarono l'intricata trama durata dall'età
franco-napoleonica alla proclamazione del Regno (14/17 marzo 1861)
nella formula “Miracolo del Risorgimento”, per tale intendendo un
evento capace di concretare le speranze, le attese, i voti di
moltitudini che si erano spesi per la sua realizzazione. Affinché l'
“idea” divenisse “realtà” occorreva una forza catalizzante. Nel caso
Italia, essa si identificò con l'allora quarantenne Vittorio Emanuele
II di Savoia (1820-1878), che nel volgere di pochi mesi da sovrano dei
cinque milioni di abitanti dello Stato sardo divenne Re dei 22 milioni
di italiani, avallato da richieste di annessione e plebisciti
confermativi. Con obiettività, Pinto va al di
là delle sterili contrapposizioni tra Borbonia Felix e famelici
“piemontesi” (evita accuratamente di menzionare l'autore di Terroni) e
ricorda che il vero demiurgo del pacifico transito da Francesco II di
Borbone al regime garibaldino fu Liborio Romano, nativo di Patù, presso
Santa Maria di Leuca. Liberale, massone, già carcerato politico, esule
e ministro dell'Interno del re delle Due Sicilie, come narra il suo
biografo Nico Perrone egli giocò abilmente Francesco II e persino
Camillo Cavour e il suo agente a Napoli, l'ammiraglio Carlo di Persano,
e propiziò il pacifico trionfo del “Fratello” Giuseppe Garibaldi.
Lasciata dov'è la fatua retorica dei primati delle Due Sicilie,
dall'opera di Pinto emerge in via definitiva quanto fu chiaro ai
protagonisti stessi. I Borbone (come bene scrive l'autore, a differenza
di quanti preferiscono “Borboni”) erano ormai ristretti nella sola
Spagna, uno Stato lacerato da feroci e inestinguibili guerre
dinastiche, più clericale di Pio IX, con una sovrana screditata e una
dirigenza abbrutita e incapace. Francesco Giuseppe d'Austria non poté
neppure sognare di accorrere a sostegno del cognato, Francesco II,
perché avrebbe dovuto attraversare i domini di Vittorio Emanuele II
(questi ormai includevano Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e Marche),
mentre era ormai fuori portata il residuo Stato Pontificio. Prima che
in Sicilia e al Volturno e che i sabaudi da Isernia entrassero in
Campania forzando il passo del Macerone, “Franceschiello” fu sconfitto
a Solferino e a San Martino nel giugno 1859, dalle annessioni e a
Castelfidardo, ove le truppe di Pio IX vennero sbaragliate da Enrico
Cialdini. Pinto giustamente ricorda quanti insigni meridionali da
decenni si battessero per l'Unità: Carlo Poerio, Silvio e Bertrando
Spaventa, Giuseppe Pica, Giuseppe Pisanelli, Pasquale Stanislao
Mancini, che ebbe allievo Giolitti all'Università di Torino, Francesco
De Sanctis, filosofo ancor più che storico della letteratura italiana.
Sull'altro fronte erano l'arcivescovo Sisto Riario Sforza, che,
come decine di vescovi e alti dignitari ecclesiastici del regno, fu
sbrigativamente cacciato da Napoli perché tramava contro il nuovo
governo. Il miracolo dell'Italia unita: oltre le divisioni Il
vero miracolo non fu la rapida sequenza di mosse politiche,
diplomatiche e militari sublimata nella proclamazione del regno, ma la
sua difesa da ogni insidia interna e internazionale. Il grande
brigantaggio dilagante in tanta parte del Mezzogiorno tra il 1861 e il
1866, con strascico sino al 1872, costituì una spina nel fianco,
estratta con metodi drastici dettati da chi, come Cialdini e il
generale e ministro della Guerra del governo Cavour, Manfredo Fanti,
avevano alle spalle la guerriglia in Spagna. Sapevano come condursi:“A
brigante, brigante e mezzo”. Militari come Emilio Pallavicini di Priola
capirono che il brigantaggio andava estirpato non solo col cordone
sanitario tra il Napoletano e il Lazio di Pio IX, che ospitava e
trattava regalmente Francesco II e sua moglie, Maria Sofia, e i loro
paladini (José Borjes, Rafael Tristany...), ma facendo spietatamente
terra bruciata attorno ai rivoltosi, finanziati dall'estero e con
rapine e riscatti, declassandoli a criminali (quali del resto erano).
In quel decennio, il regno d'Italia trasferì la capitale da Torino a
Firenze e infine a Roma, espugnata il 20 settembre di 150 anni orsono,
vinse al tavolo della pace la guerra italo-prussiana contro l'Austria
del 1866, unificò i codici (opera soprattutto di giuristi meridionali)
e accelerò l'allestimento di infrastrutture in regioni che non avevano
un chilometro di strada ferrata e la cui popolazione era analfabeta
anche al 90%. Certo si può vivere di pane amore e fantasia, ma
così si esce dalla Storia. Può farlo un poetino, non una classe
politica. La decrescita felice e l'elemosina di sussidi alle masse per
mera esistenza in vita non sono solo smargiassate elettorali ma crimini
ai danni delle generazioni venture, perché condannano gli italiani a
ruolo subalterno perpetuo, da accattoni dimentichi del fior fiore di
economisti e di politici di rango (Bettino Ricasoli, ora biografato da
Christian Satto, pregevole concorrente all'Acqui Storia, Giovanni
Lanza, Quintino Sella, che conseguì il pareggio di bilancio di
esercizio), che ne propugnarono unità, indipendenza e libertà.
In quello stesso decennio la Terza Italia dovette
fronteggiare anche altre insidie: cospirazioni mazziniane,
insurrezioni, come quella di Palermo del 1866, repressa ruvidamente dal
giovanissimo sindaco marchese di Rudinì, l'epidemia colerica del 1867,
infinitamente più devastante rispetto all'odierna endemia covid-19, e
le due stravaganti alzate d'ingegno di Giuseppe Garibaldi, promotore
della spedizione “Roma o morte” nell'estate 1862 e di quella
tragicamente naufragata a Mentana nel novembre 1867 (ne hanno scritto
il rimpianto Romano Ugolini e Cristina Vernizzi).
Lo Stato resse. Mostrò di sapercela fare e nel 1867 ottenne il
pieno riconoscimento nella Comunità internazionale, alla pari con
quelli esistenti da secoli. In pochi anni si dotò di esercito di leva,
marina di prim'ordine, rete ferrostradale, servizi postali e
telegrafici d'avanguardia, scuole (dal 1877 l'istruzione elementare
divenne obbligatoria e gratuita), ospedali... L'Italia in 150 anni d'Europa
Corroborato da una dirigenza che credeva nell'Italia, lo Stato
crebbe come attestano i censimenti decennali. Certo rimase indietro
rispetto alla Gran Bretagna, alla Prussia e alla Francia che, dopo il
crollo di Napoleone III (1870), fu animata da Una certa idea di
Repubblica da Gambetta a Clemenceau, garibaldino e democratico il
primo, ipernazionalista il secondo (detto “il Tigre”per la sua veemenza
aggressiva), entrambi figli della “Grandeur” e anticipatori della
“monarchia repubblicana” di Charles De Gaulle, come bene argomenta
Luigi Compagna nel brillante saggio finalista dell'Acqui Storia (ed.
Carocci). A sua volta, la forza dell'
“idea di Italia” si manifestò anche nella sventura. Lo documenta la
vastissima ricerca condensata da Mario Avagliano e Marco Palmieri
nell'opera sino a oggi migliore dedicata a I militari italiani nei
lager nazisti. Una resistenza senz'armi (1943-1945) (ed. il Mulino),
altro finalista dell'Acqui. Al di là del “rifiuto di massa” di aderire
alla Repubblica sociale italiana, della opzione di una minoranza di
accettarne la divisa per disparati motivi (anzitutto tornare in Italia,
salvo passare nella Resistenza), e della spesso tragica vita nei lager,
l'opera documenta aspetti poco noti, compresi i rapporti tra i 650.000
IMI e la popolazione germanica, il loro non facile rientro in patria e
il reinserimento nella vita quotidiana, tra incomprensioni e ostilità.
Analoga e talvolta peggiore sorte toccò a tanti altri prigionieri di
guerra, in specie in Unione sovietica, ove, aveva scritto ruvidamente
Palmiro Togliatti, la loro morte per stenti sarebbe stata una lezione
per defascistizzare gli italiani (lo ha ricordato Aldo G. Ricci nel
mensile “Storia in Rete”, luglio-agosto). Il “fratello” Concetto Marchesi nell'Opera di Luciano Canfora
Togliatti torna in molte pagine dell'opera di Luciano Canfora Il
sovversivo. Concetto Marchesi e il comunismo italiano (Laterza),
poderosa non solo perché di oltre mille pagine ma per la vastità della
ricerca e la profondità dei giudizi. Tra i rari storici italiani
spazianti con padronanza dall'antichità classica alla contemporanea
(valgano d'esempio La democrazia. Storia di un'ideologia e L'uso
politico dei paradigmi storici), Canfora percorre minutamente la
vita di Marchesi (schedato quale “sovversivo” sin dalla giovinezza,
principe dei classicisti, Rettore dell'Università di Padova ove gli
subentrò Carlo Alberto Biggini, al centro di un ottimo capitolo),
militante del Partito comunista e suo deputato alla Costituente.
Marchesi votò contro l'inserimento dei Patti Lateranensi nella
Costituzione della Repubblica, come Teresa Noce, moglie di Luigi Longo.
Canfora calibra quella coraggiosa decisione di Marchesi alla luce
dell'elogio che poi egli scrisse del massone Silvio Trenti, così
epigraficamente suggellato: “Onore a te, fratello. Onore a te che non
ci lasci più, e resti fermo e costante nell'animo nostro che a volte
vacilla e si stanca”. Il “sogno di un'Italia
libera” è anche al centro del quinto volume finalista nella sezione
scientifica dell'Acqui Storia, L'intellettuale antifascista. Ritratto
di Leone Ginzburg (ed. Neri Pozza-Bloom). Angelo D'Orsi, autore di
molti saggi sulla cultura a Torino tra le due guerre, intellettuali del
Novecento e Gramsci (di cui ha scritto una nuova biografia per
Feltrinelli), vi condensa precedenti studi preparatori. Testimone della
libertà critica dell'umanista, militante di “Giustizia e Libertà”e del
Partito d''Azione, Ginzburg si staglia “a un'altezza ideale e politica
non minore di quella dei grandi”, come osservò Leo Valiani in una
lettera a D'Orsi, a giudizio del quale staremmo vivendo “tempi in cui
il fascismo sembra tornare cupamente d'attualità”: una sensazione sua,
poco condivisa. Gennaro Sangiuliano: lo spettro incombente del confucianesimo
Anziché il supposto “fascismo” (quale?), molti altri e cogenti sono in
realtà i problemi con i quali l'Italia attuale e l'Unione europea, di
cui è “provincia”, oggi debbono misurarsi, a giudizio delle opere
finaliste nella sezione divulgativa dell'Acqui Storia. Vi torneremo.
Basti qui accennare all'acuto studio su Il nuovo Mao. Xi Jinping e
l'ascesa del potere nella Cina di oggi di Gennaro Sangiuliano (ed.
Mondadori), autore di fortunate opere su Hillary Clinton, Vladimir
Putin, Trump e, eccellente, su Giuseppe Prezzolini. Il disegno
complessivo della Cina contemporanea, che si muove sulla scia della
Lunga Marcia di Mao-Ze-dong, della violentissima Rivoluzione culturale
e della modernizzazione attuata da Deng Xiao Ping è incardinato sul
“dogma culturale del confucianesimo”, apparentemente “neutro” dinnanzi
a interrogativi posti nei millenni dal pensiero greco-latino e poi
cristiano. I cinesi in realtà mirano all'egemonia planetaria
dall'Africa all'Europa medesima, che essi stanno comperando al minuto e
all'ingrosso, in attesa di passare all'incasso finale: il dominio
culturale, accompagnato (come si vede a Hong-Kong e nello stesso
sub-continente cinese) dalla brutale repressione di ogni forma di
dissenso, politico e religioso, e di minoranze etniche scomode.
A cinquantatré anni dalla fondazione, l'Acqui Storia nato per
rievocare la tragedia della Divisione Acqui a Cefalonia nel
settembre 1943 si conferma il premio storiografico più prestigioso e
ambìto. Non per caso in un anno segnato da enormi difficoltà per
l'editoria e dal forzato rinvio di eventi come il Salone del Libro di
Torino, di convegni e dibattiti culturali (prima i bar e i ristoranti,
i centri estetici per ominidi e altri animali, secondo i famigerati
Decreti del presidente del consiglio dei ministri) i concorrenti sono
stati ben 168: un primato eloquente. Domenica 13 settembre si annuncia un “gran finale”.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA:
“E pluribus unum...”. Se vale per gli Stati Uniti d'America, perché non
dovrebbe valere per un Paese che ha duemilacinquecento anni di storia
qual è 'Italia? Dipinto di Gioacchino Toma (Galatina,
1836-Napoli, 1891), Piccoli garibaldini (Bergamo, proprietà Davide
Cugini). I due bambini della Nuova Italia guardano e salutano Vittorio
Emanuele II e Garibaldi.
PREVENIRE IL CAOS ATTUALITÀ DELLO STATUTO ALBERTINO (1848)
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 12 luglio 2020, pagg. 1 e 11.
Il fardello della classe dirigente Non
è vero che “gli italiani” non sappiano decidere. Farlo, però, non tocca
ai “cittadini” ma a chi ha e deve esercitare il Potere: dal Capo dello
Stato al governo e alla dirigenza, sia quella favorevole
all'immobilismo o persino alla reazione, sia quella che si erge a
interprete del cambiamento e propugna le “riforme”. Il comune cittadino
ha informazioni, opinioni, pulsioni, ma non possiede tutte le
cognizioni necessarie e sufficienti per tradurre le sue personali
aspirazioni in decisioni valide ed efficaci “erga omnes”. Questo
compito spetta a chi riveste cariche pubbliche (munera, dicevano i
romani), in corrispondenza e proporzione con la sua posizione.
E' comunque chiaro che in un sistema parlamentare (qualunque sia
la forma dello Stato, monarchia o repubblica) a decidere non è, non può
essere “un uomo solo al comando”, se non in preda a delirio di
onnipotenza. Men che meno in regime costituzionale il presidente del
Consiglio può pretendere di riprendere il sentiero sassoso dei decreti
“motu proprio”, già sonoramente bocciati da tutti i costituzionalisti
e, ciò che più conta, dall'opinione della stragrande maggioranza dei
cittadini, esasperati da misure coercitive e vessatorie, tipiche di
sistemi autocratici. Certo, governare
non è mai stato facile. Ma non dovrebbe essere impossibile in una
democrazia parlamentare quale l'Italia odierna sin dall'adesione alla
Nato consentì “a condizione di parità con gli altri Stati, alle
limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la
pace e la giustizia fra le Nazioni” (art. 11 Costituzione), mettendosi
così al riparo dal rischio di aggressioni e di iniziative stravaganti o
autolesionistiche del proprio governo pro tempore o del suo presidente.
Perciò la dirigenza (a tutti i livelli) dovrebbe prendere atto a viso
aperto della cornice entro la quale l'Italia può muoversi e renderne
edotti i cittadini con parole chiare, fatti alla mano. Far credere ai
cittadini che lo Stato possa decidere liberamente la propria politica
estera e militare e, di conseguenza, quella interna (finanziaria,
economica e sociale, a tacere dell'istruzione pubblica) significa
alimentare la credulità popolare con promesse da “frate Cipolla”.
Questa è purtroppo la linea del governo attuale, che raggira
quotidianamente al Paese. Tale condotta ha una spiegazione: far credere
agli italiani di potersi permettere il lusso di mandare in Parlamento
persone del tutto impreparate, spesso sprovvedute e giullaresche,
manifestamente ignare della pesantissima responsabilità che grava sui
“politici”, anche quando siano chiamati a fare i proconsoli di Bitinia
(come Plinio il Giovane) anziché a reggere un impero (come Marco Ulpio
Traiano, al quale Plinio chiedeva consigli per svolgere la propria
parte). Per meglio comprendere la distanza
abissale tra tanta parte del “ceto politico” che attualmente governa e
amministra l'Italia e la grandezza di una dirigenza vera giova
ricordare quanto avvenne nel 1846-1848 nello “spazio Italia” che il
cancelliere imperiale austriaco Clemens von Metternich liquidò come
“espressione geografica”. Quel “Quarantotto” per l'Italia fu l'anno
della grande prova, ben più impegnativa e complessa di quelle vissute
durante e subito dopo la partecipazione alla Prima e alla Seconda
Guerra mondiale, le due fasi della Guerra dei Trent'anni del secolo
scorso. Dopo il 1918-1919 l'Italia visse i postumi di un trauma i cui
precisi termini sfuggono alla percezione comune perché oggi è difficile
calarsi nella tragedia di un Paese avvolto nel lutto (un milione e
mezzo di morti per causa di guerra e per l'epidemia di febbre detta
“spagnola”) e prostrato dalle indicibili sofferenze dei mutilati e dei
feriti (curati come all'epoca si sapeva e si poteva) e di quelle dei
milioni di combattenti smobilitati nel difficile passaggio dalla
produzione di guerra a quella di pace, in un'Europa sconvolta da crolli
di istituzioni secolari e da rivoluzioni politiche e sociali. La
patetica retorica di Giuseppe Conte sulla pandemia da covid-19 e
persino le previsioni di guai nel prossimo autunno, ventilate dal
Viminale quasi a scanso di colpa, dànno la misura della modestia della
memoria storica di chi al governo è arrivato non per libera scelta
degli elettori ma suffragio per designazione di “cupole”
partitiche e da “piattaforme” estranee alla democrazia parlamentare,
sensibili a interessi non sempre coincidenti con il bene comune. Le lunghe barbe del Quarantotto Il
Quarantotto fu altra cosa. Il suo frutto più durevole scaturì sulla
primavera. Maturò il 4 marzo 1848, quando Carlo Alberto di Savoia
promulgò lo “Statuto organico” del regno di Sardegna, rimasto
formalmente valido anche dopo il cambio della forma dello Stato
d'Italia (19 giugno 1946): sino al 1° gennaio 1948, quando entrò in
vigore la Costituzione della Repubblica italiana. Nell'impossibilità di
rievocarne analiticamente genesi e contenuti, studiati da oltre un
secolo e mezzo da costituzionalisti e storici di vaglia come Carlo
Ghisalberti e Gian Savino Pene Vidari, va ricordato che esso sintetizzò
due opposte esigenze. Nel Preambolo il Re
affermò di aver deliberato gli 84 articoli della Carta “prendendo
unicamente consiglio dagli impulsi del (suo) cuore” per “conformare” le
sorti dei regnicoli “alla ragione dei tempi, agl'interessi e alla
dignità della Nazione”. Lo Statuto, tuttavia, venne definito “legge
fondamentale, perpetua ed irrevocabile della monarchia”. Il Re
sottoscrisse, seguito dai ministri (Borelli, Avet, De Revel, Des
Ambrois, E. di San Martino, Broglia, C. Alfieri). Così vincolò sé e
impose ai successori di giurare fedeltà alla Carta al loro insediamento.
Re “per grazia di Dio”, Carlo Alberto lasciò trasparire che lo
Statuto, deliberato “di sua certa scienza, Regia autorità e avuto il
consenso del suo Consiglio”, fosse nato anche su sollecitazione esterna
(“in mezzo agli eventi straordinari che circondavano il paese”), al di
là della sua propria ed esclusiva volontà, fermamente rivendicata nel
Preambolo. In tal modo veniva tacitata l'avversione di quanti
(anzitutto gran parte del clero, avverso al teologo Vincenzo Gioberti)
lo ritennero cedimento della Monarchia alla pressione di forze ostili
alla Tradizione. In realtà, come ampiamente documentato e argomentato
da Narciso Nada nell'insuperata storia del regno di Sardegna, il
cinquantenne Carlo Alberto aveva percepito e assecondato da tempo la
“svolta” anche prima dell'8 febbraio 1848, quando vennero “proclamati”
(non semplicemente “annunciati”) i 14 capisaldi della “costituzione”
ventura. Questi erano il punto di arrivo di un
processo per molti aspetti maturato e già tradotto in regi decreti
dall'anno precedente. Sarebbe lungo ripercorrere i passi compiuti dal
sovrano per dare corpo formale al mutamento del rapporto tra Corona e
regnicoli sin dall'inizio degli Anni Quaranta: un cammino
scrupolosamente osservato e documentato da molti suoi protagonisti,
come Massimo d'Azeglio, diffidente delle sue recondite intenzioni anche
quando il Re lo abbracciò assicurandogli che, giungendo l'ora, avrebbe
messo se stesso, i figli e i beni a disposizione della libertà
dell'Italia. A sua volta Luigi Francesco Des Ambrois de Nevache annotò
che nel corso degli anni, non dall'oggi al domani, Carlo Alberto si era
circondato di una élite di uomini abili, capaci e decisi, “che seppero
svuotare lo Stato dall'interno dei suoi contenuti più arcaici, seppero
trasformarlo da Stato militare e semifeudale a Stato moderno e civile”,
preparandolo a divenire Stato nazionale. Il
1847 fu scandito da eventi premonitori, mentre l'intera Europa viveva
agitazioni e persino la quieta Svizzera fu sconvolta dal conflitto
armato tra liberali e cattolici. Quasi a coronamento dei Congressi
degli Scienziati Italiani, fra il 30 agosto e il 3 settembre si svolse
a Casale Monferrato il Congresso Agrario promosso da Pier Dionigi
Pinelli (1804-1852), direttore di “Il Carroccio”. Il conte di
Castagnetto, suo “portavoce”, vi lesse l'impegnativa lettera di Carlo
Alberto, pronto a battersi per l'indipendenza dell'Italia.
Nel Consiglio di Conferenza del 30 ottobre 1847 Carlo Alberto sanzionò
il nuovo codice di procedura penale e altre importanti riforme
giudiziarie e annunciò l'elettività dei consigli comunali e
provinciali, regolamentata con il Regio Editto del 27 novembre che
sancì il gradimento da parte della Corona del “lavoro che da tempo si
stava preparando” per stringere i vincoli tra la monarchia e una
dirigenza diffusa. Migliaia e migliaia di cittadini sarebbero stati
scelti dagli elettori quali propri rappresentanti per amministrare i
loro interessi generali in una stagione caratterizzata dall'espansione
rapidissima delle infrastrutture (strade, ferrovie, nuovi canali
irrigui), del sistema bancario (anche con la moltiplicazione delle
casse di risparmio) e dell'informazione. Le regie patenti
sull'elettività dei consigli locali si accompagnò infatti a quelle
sulla libertà di stampa, già precedute dalla nascita di periodici
politici influenti e in breve salutate dalla proliferazione di nuove
testate, protagoniste del dibattito culturale e politico. In
pochi mesi il regno di Sardegna mutò volto, prima che a Palermo
scoppiasse la rivoluzione del 12 gennaio 1848 e che il 24 febbraio a
Parigi venisse cacciato Filippo d'Orléans e fosse proclamata la seconda
Repubblica, di lì a poco presieduta dal poeta Alfonso Lamartine. Lo Statuto, pilastro della monarchia rappresentativa Tra
l'ottobre 1847 e la fine del gennaio 1848 crebbero di intensità le
pressioni dei fautori di un mutamento più profondo e netto, da
realizzarsi mediante la promulgazione della costituzione: cortei,
manifestazioni, banchetti politici (a imitazione di quelli in uso in
Francia: fu il caso dei commercianti con la partecipazione di Camillo
Cavour; dei mastri e garzoni carrozzai, presente Roberto d'Azeglio…) e
“feste” apparentemente spontanee, ma di fatto organizzate e tollerate
da chi ne aveva bisogno per accelerare la svolta dalla monarchia
amministrativa e consultiva a quella propriamente rappresentativa,
precorsero il “congedo” del conte Clemente Solaro della Margarita da
segretario di Stato per gli Affari Esteri e del marchese di Villamarina
da ministro di Guerra e Marina. Il 4 novembre 1847
il conte Ilarione Petitti di Roreto scrisse a Michele Erede: “I
retrogradi sono avviliti. Primo d'essi il conte La Torre, in casa del
quale da alcuni giorni si piange e si prega, non però Pio IX. I Gesuiti
non si vedono più”. Il “cambio” mutò rapidamente volto. Dopo
l'elettività alle cariche amministrative, furono posti al centro
antichi diritti di libertà, destinati a fare del Regno di Sardegna lo
Stato guida del processo di unificazione nazionale. In primo luogo la
piena libertà di culto e la parità dei diritti civili e politici dei
cittadini non cattolici, anzitutto i valdesi e protestanti in genere,
poi gli israeliti, e, di concerto, l'offensiva contro la Compagnia di
Gesù, elevata a simbolo della reazione antiliberale.
All'inizio del gennaio 1848 circolò voce che il Re stesse per
istituire una Consulta di Stato con voto deliberativo e decretare la
responsabilità dei ministri nella gestione degli affari dei dicasteri
loro affidati, l'emancipazione degli israeliti, la diminuzione del
prezzo del sale, la guardia civica, un'amnistia (per reati “politici”)
e l'espulsione dei gesuiti dal regno. Il Consiglio di
Conferenza (istituito il 1 maggio 1815 e ulteriormente regolamentato il
9 ottobre 1841) su sollecitazione del ministro dell'Interno, conte
Borelli, prese in esame la “crisi politica” del regime ormai al bivio:
precorrere le pressioni con l'emanazione di una costituzione od
opporvisi con tutti i rischi conseguenti. Nel primo caso, bisognava
preparare tutto “avec le plus de dignité possibile pour la Couronne,
avec le moins de mal possibile pour le pays. Bisogna concederla, non
farsela imporre: dettare le condizioni, non subirle...”.
Dopo il già ricordato Proclama dell'8 febbraio, il Consiglio di
Conferenza iniziò una corsa contro il tempo: “préparer lo Statut
organique et les différents lois qui s'y rapportent, entre autres la
loi electorale, la loi sur la presse et celle concernante la Milice
Communale”. Per arginare, il 17 febbraio il Consiglio fissò
per il 27 successivo la festa per le nuove “concessioni accordate dal
Re”, tra cui spiccano le Lettere patenti che da quel medesimo giorno
riconobbero ai valdesi tutti i diritti civili e politici.
Lo stesso 17 febbraio il Consiglio iniziò l'esame dello Statuto
organico (sempre in francese, ma il testo della Carta fu scritto in
italiano, come risulta dai verbali redatti dal conte Radinati), a
cominciare dalla successione al trono, “que l'on a cru devoir laisser
régler par la loi salique selon les principes fondamentaux de l'Etat”.
La monarchia di Savoia era e rimaneva incardinata sulla successione di
maschio in maschio e sulle Regie Patenti che subordinavano le nozze dei
componenti della Casa all'assenso del sovrano: leggi immutabili, come
Umberto II scrisse ripetutamente al figlio, mettendolo in guardia dalle
conseguenze perpetue della loro violazione.
Devoto alla Tradizione e sicuro di essere strumento della
Provvidenza, l'“italo Amleto” (quale Carlo Alberto fu appellato da
Giosue Carducci nell'ode “Piemonte”) firmò. Decise la storia.
Saldò con i nodi di Savoia la monarchia sabauda e le onde tumultuose di
un'Italia nel pieno di trasformazioni politiche: le Cinque Giornate di
Milano (18-22 marzo), che cacciarono gli Austriaci; la fuga di
Francesco V d'Asburgo da Modena, quella di Carlo Ludovico II di Borbone
da Parma e Piacenza. Il 23 marzo Carlo Alberto dichiarò guerra a
Ferdinando II d'Asburgo, imperatore né romano, né sacro, ma d'Austria,
che di lì a poco passò la mano al nipote, Francesco Giuseppe. Con i
plebisciti del 29 giugno Milano e Piacenza vollero Carlo Alberto Re
statutario. Da un capo all'altro l'Europa era sconvolta da insurrezioni
e rivoluzioni. In febbraio Karl Marx e Friedrich Engels pubblicarono il
“Manifesto del partito comunista”. Lo stesso anno comparve l'opera più
importante di John Stuart Mill. Da poco Louis Blanc (fautore degli
Ateliers Nationaux: sempre meglio che l'elemosina per esistenza in
vita, spacciata come “reddito di cittadinanza”) e Jules Michelet
iniziarono a pubblicare le rispettive storie della Rivoluzione
francese, mezzo secolo dopo “i fatti”. Lo Statuto
albertino sopravvisse alla sconfitta militare del Regno di Sardegna
(lasciato solo da alleati fedifraghi: Pio IX, Ferdinando II di Borbone,
Leopoldo II di Asburgo-Lorena..) e all'avvicendarsi di sette governi in
meno di due anni (Balbo, Casati, Alfieri, Perrone, Gioberti, Chiodo, de
Launay), al ripetuto scioglimento della Camera, alla “brumal Novara”
(23 marzo 1849), all'esilio del Re, morto ad Oporto a fine luglio.
Dieci anni dopo suo figlio, Vittorio Emanuele II, entrò vittorioso in
Milano e a fine 1870 in Roma, ove rievocò il Magnanimo genitore e
celebrò l'unione tra istituzioni e “popoli d'Italia”. La base
dell'Unità nazionale era antica e nuova: venne fusa al calor bianco in
sole quattro sedute del Consiglio di Conferenza, sempre presente Re
Carlo Alberto, pallido, assorto, attento a ogni parola, conscio di
avere sulle spalle non solo otto secoli e mezzo della sua Casa ma il
suo ruolo nella costruzione della Nuova Europa, con equilibrio,
lungimiranza e determinazione, “a qualunque costo”. Lo Statuto durò
cento anni. La Costituzione vigente ne ha 72. Il caos politico,
economico e sociale ci ricorda che la Storia è sempre questione di
classe dirigente, della sua capacità di coniugare istituzioni e
cittadini.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA:
Busto in marmo di Re Carlo Alberto. Già nel Palazzo Civico di Saluzzo
(donato dal Re alla città), dopo l'avvento della repubblica venne
gettato a capofitto nelle cantine del museo di Casa Cavassa e lì giace,
scheggiato e dimenticato. L'iconoclastia non è solo di questi
giorni.
CONSERVARE L'ITALIA TRA CORTOCIRCUITI E AUTOCOMBUSTIONE
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 5 luglio 2020, pagg. 1 e 11.
Presto cadono le foglie per l'inconcludenza del Governo
L'Italiarischia grosso entro poche settimane. Le foglie cadranno
prima che arrivi l'autunno. Affannati a rincorrere gli scandalosi
ritardi che essi stessi causano, ministri, parlamentari e “partiti”
vari non vedono o fingono di non vedere la realtà. Sul Colle più alto,
però, non possono non sapere e prima o poi qualche “segnale” dovranno
pur mandare. Partiti, movimenti, cartelli, gruppetti sorgono da
iniziative spontanee o spintanee: sono il cosiddetto sale della
democrazia ma rimangono fuori dalla portata dei poteri istituzionali.
Il governo invece no. Il presidente del Consiglio non nasce per
partenogenesi. È nominato dal Capo dello Stato, che poi nomina ministri
e sottosegretari le persone designate dal presidente del
Consiglio al termine di defatiganti nozze alchemiche tra le correnti
nelle quali sono spappolati partiti e movimenti. Ordinariamente
le persone si ripartono secondo l'antica massima: “Non fare domani
quanto potresti fare oggi”. È la regola dell'Europa occidentale,
protagonista delle grandi esplorazioni di terra e di mare, di
rivoluzioni industriali, dell'accelerazione delle scienze e delle loro
applicazioni in ogni aspetto della vita quotidiana. Altri adottano la
regola opposta: “Non fare oggi quel che potresti fare domani”. Non per
riservare la giornata alla meditazione, in attesa dell'estro che dà ala
a nuove invenzioni, ispirate dai passi all'indietro non meno che da
quelli in avanti, ma per inclinazione all'ignavia: “quieta non movere”.
Lo osservarono tanti antropologi tra Otto e Novecento: il “progresso” è
come certe processioni propiziatorie: ogni due passi innanzi se ne fa
uno all'indietro. O uno di lato, come i portatori del Cristo Re quando
nella sosta prendono forza e innalzano su una sola mano il pesantissimo
Crocifisso mentre cantano “El novio de la Muerte”. Se la
persone sono libere di scegliere l'una o l'altra di tali regole
di condotta (e di cambiarla quando vogliono), vi è però la terza
opzione: “Non fare domani quello che devi fare oggi”. Questa è, deve
essere, la norma della “politica”: cogliere le urgenze e al tempo
stesso individuare le mete lontane, decidere e fare, non tanto
per fare, bensì con lungimiranza. Da anni però il dover fare è la
regola ignorata dai governi, privi di capacità di sintesi. Le
legislature si sono susseguite tra inerzia accidiosa e tenzoni nutrite
di riserve, rivalse, veleni, con discredito di Poteri (governo, Camere)
e di Ordini (è il caso della magistratura: i più trovano difficoltà a
distinguere le moltissime “mele sane” dalle “marce”, anche perché lo
sfrido viene continuamente rinviato). La carenza di
educazione politica di tanta parte dell'attuale rappresentanza
parlamentare ha fatto smarrire la distinzione tra Governo e Stato, tra
partiti e interessi generali permanenti dei cittadini, sempre più
indignati dinnanzi alla colpevole assenza di chi deve provvedere. La
paralisi ormai permanente della circolazione autostradale tra Lombardia
e Piemonte verso la Liguria è la punta dell'iceberg del fallimento del
governo, inetto, avulso dalla realtà e comprensibilmente identificato
con lo Stato, tacito, assente, esoso e direttamente o indirettamente
connivente con chi fa vivere male i cittadini. Sino a quando
sopporteranno? Un governo arrogante e inconcludente L'attuale
Esecutivo nacque dall'emergenza: la decisione di Matteo Salvini di
sfiduciare il presidente Conte, cioè il governo in carica (e quindi se
stesso, pur senza dimettersi) per ottenere elezioni immediate. Allo
svarione istituzionale si aggiunse l'infelice aspirazione a “pieni
poteri”. Fece rizzare i capelli anche a chi apprezzava altri aspetti
della sua azione e indusse a fare “tutto quello che occorre” per
tenerlo fuori da qualsiasi futura combinazione governativa. Così nacque
la coalizione attuale, destinata a non durare se non a prezzo di non
fare nulla di decisivo. Che cosa hanno di accomunante gli anti-sistema
del Movimento Cinque Stelle e la parte meno incolta, più
responsabile e strutturata del Partito democratico? Niente. Quale
collante unisce gli estremisti accampati sotto la sigla “Liberi e
Uguali”, nati per scissione dal PD, e i parlamentari grillini? Nulla,
anche se talora convergono. Il mastice del Governo attuale è il rinvio
delle scelte a fronte dei pronunciamenti elettorali di alcune regioni,
niente affatto omogenei. Nel frattempo l'Esecutivo ha tirato a campare,
senza risolvere nessuna delle grandi e piccole “partite” aperte da
anni, e pertanto è guardato con sospetto dalla Commissione dell'Unione
Europea. D'improvviso in suo soccorso è piombata
l'emergenza sanitaria della covid-19: una macabra “opportunità”. Il 31
gennaio 2020 Conte chiese qualche cosa di molto simile ai “pieni
poteri” sino al 31 luglio (non ci siamo ancora arrivati), salvo
prolungamento al 30 gennaio 2021. Al tempo stesso, con la connivenza di
virologi e “scienziati” vari, dichiarò che non vi erano pericoli gravi
alle porte e che comunque tutto era pronto per fronteggiarli.
Chiacchiere. Poi, a suon di decreti del presidente del consiglio dei
ministri e di decreti-legge, l'ordinaria amministrazione fu sostituita
da misure “di emergenza”. Conte si appellò nientemeno che al “giudizio
della storia”. La quale dirà.... Conte è un campione di arroganza, di
inconcludenza e di vanità. Indifferente alle
interpretazioni letterarie e dolciastre della loro temporanea forzata
dhimmitudine, appena ha potuto mettere piede fuori casa non solo per
correre alle edicole (il crollo delle vendite dei quotidiani certifica
l'opposto) o in farmacia o ad accompagnare animali domestici per far
fuori i loro bisogni, la stragrande maggioranza dei cittadini ha
risposto come le reclute appena uscite dalle caserma al “rompete le
righe”. Ognun per sé sugli usati passi, verso navigli, rii, colli,
lungomare... Successivamente, ogni volta che si è prospettata una nuova
“zona rossa” è riecheggiato il secco monito di Oscar Scalfaro: “Non ci
sto”. Non sarà facile imporre agli italiani nuove sottomissioni a
“ordinanze” irragionevoli, al limite del capriccio, a farsi multare per
motivi risibili, a farsi esporre al pubblico ludibrio e inseguire da
elicotteri o veicoli in assetto di guerra solo perché stesi al sole. Va
anche ricordato che l'Italia è l'unico Paese ad aver chiuso le
scuole a marzo e che il ministro della Pubblica Istruzione ha scaricato
la responsabilità della loro riapertura su enti locali (anzitutto le
Province, esangui fantasmi) e sui presidi; ma non è questa la sede per
parlarne. “Settembre”: l' “isola ecologica” della politica A
cospetto delle urgenze, delle decisioni non rinviabili e, anzitutto,
del rispetto dei diritti civili e politici dei cittadini questo governo
si è condotto come certe massaie alle prese con le “grandi pulizie” di
casa. Dal corridoio in avanti, camera per camera, bagno dopo bagno ha
fatto l'inventario di ciò che occorre tenere e di quanto va buttato. Ma
ha lasciato tutto com'era. Ha rinviato. Così i rifiuti si sono
ammassati. Ma prima o poi andranno smaltiti. Il governo
(Conte-Lamorgese) ha individuato l'“isola ecologica”: il 20 settembre.
Il rinnovo di consigli regionali e comunali scaduti da tempo è stato
differito al 150° di Porta Pia: troppo presto per le regioni a
vocazione turistica e comunque caratterizzate da clima ancora estivo;
troppo tardi per comuni ormai in vesti autunnali. Dunque una data
sbagliata, anche perché a ridosso della riapertura delle scuole (se e
come, è tutto da vedere). Nella stessa data gli italiani, anche delle
regioni e dei comuni non coinvolti da elezioni amministrative, sono
chiamati a confermare o no la riduzione dei deputati da 630 a 400 e dei
senatori da 315 a 200. Questa “riforma”, nata dall'odio
(non solo “grillino”) contro la politica, se approvata avrà conseguenze
devastanti di lunghissimo periodo sul già esausto rapporto tra
cittadini e istituzioni. Alcuni maggiorenti del PD
hanno richiamato Conte ai “patti” tra soci del governo: l'avvio della
nuova legge elettorale entro fine luglio in cambio del sostegno al
referendum. Questo vuol dire mettere il carro avanti ai buoi. Se
proprio necessaria, la futura legge elettorale andrà calibrata su due
capisaldi: l'esito del referendum confermativo sulla riduzione del
numero dei parlamentari (non scontato) e il disegno della nuova mappa
dei collegi. Questa non è una variante dipendente dagli accordi tra
partiti di governo, magari con apporti di qualche “manina” mirante a
tutelare aspirazioni e/o privilegi di qualche “politico professionale”.
I nuovi collegi vanno configurati sulla base di parametri rispondenti a
criteri oggettivi: estensione del territorio, demografia, rete delle
comunicazioni, un minimo di rispetto della tradizione storica per non
recidere del tutto il rapporto, sempre più labile ed evanescente, fra
elettori ed eligendi, oggi scelti non già dai cittadini ma da
camarille sovrastanti i partiti o tramite oscure macchine come la
piattaforma Rousseau, estranea alla democrazia parlamentare: senza
offesa per chi l'ha inventata e la domina, perché essa stessa si
dichiara alternativa all'ordinamento costituzionale. D'altronde dal
1948 il legislatore non ha mai chiarito che l'art. 49 comporta di
verificare la democrazia interna dei partiti, oggi del tutto elusa
(come si vede dalle risate sarcastiche a ogni richiesta di verifiche
congressuali e dalla espulsione dai gruppi per mancati versamenti di
quote non dovute). Novant'anni fa la riforma ideata da Alfredo Rocco
affidò al Gran Consiglio la determinazione dei “deputati”. Gli elettori
dovevano prendere o lasciare. Come staremo dopo la riduzione dei seggi?
Il libertà di scelta del rappresentante diverrà pura apparenz. La
democrazia parlamentare rimarrà un ricordo del tempo che fu. Se vince la riduzione dei parlamentari, le Camere attuali sono screditate Quello
che non si dice è però altro e più importante: in caso di conferma
della riduzione dei parlamentari le Camere attuali saranno
delegittimate, non solo per la continua indecente migrazione di
deputati e senatori dall'uno all'altro gruppo, ma perché comunque agli
occhi dell'opinione pubblica esse risulteranno abusive: quel che voleva
il Grillo Parlante. A quel punto non resterà che tornare alle urne. E
il Grillo, come nelle Metamorfosi, risulterà Cicala. Per cortocircuito
nasce un'autocombustione che può incenerire l'intero regime
costituzionale, a meno che qualcuno non azioni pompe anti-incendio
sfiduciando il governo per fermare la crisi prima che tutto crolli.
L'accorpamento al 20 settembre di votazioni
eterogenee (referendum, rinnovo di consigli regionali e comunali) ha
talmente abbassato il livello del confronto politico che dalle colonne
del “Corriere della Sera” Paolo Mieli ha proposto quale (improbabile)
panacea dei mali d'Italia l'accorpamento di PD e M5S alle regionali per
arginare l'avanzata del centro-destra. In tal modo, però, la
contrapposizione tra fronti verrebbe trasferita dal livello nazionale a
quello locale (non solo regioni ma anche città metropolitane e comuni)
proprio mentre si sta facendo strada la proposta di ritorno al sistema
proporzionale, sia pure con qualche correzione in direzione
maggioritaria, come quella del 1952, fallita con le elezioni del 1953.
Spacciata come “legge truffa”, essa avrebbe salvato il centrismo e
accelerato il distacco dei socialisti dal carro comunista. Poiché non
tutti i fatti della storia sono notissimi, va ricordato che nel 1953 il
PSI era ancora vincolato al Partito comunista italiano, stalinista, dal
patto di “unità d'azione” e che nel 1948 si era presentato con il PCI
nel Fronte popolare, che ne falcidiò la presenza in Parlamento o lo
rese ancora più succubo e in parte inguaribile, come mostrarono i
deputati socialisti che nel 1956 non si unirono alla deplorazione della
repressione della rivoluzione d'Ungheria da parte dei carri armati
sovietici (e perciò furono detti “carristi”). Ma bene si
comprende che la sinistra del Partito democratico voglia mettere alle
corde Conte e costringerlo a un patto di ferro con l'ala ministeriale
dei Cinque Stelle, per esorcizzare la assoluta necessità dei voti di
Forza Italia e di altri gruppi “centristi” ( da +Europa a Calenda a
Cambiamo di Giovanni Toti) per far approvare quel benedetto MES di cui
l'Italia ha assoluto e urgente bisogno come dell'aria per respirare,
senza attendere l'ingorgo di settembre. La Storia non
aspetta e la fame neppure. La somma di politici di professione,
cresciuti nel mito del PCI, e di pentastellati (“deputati per caso”,
ascesi a ministri, viceministri, sottosegretari) non promette nulla di
buono, anche perché si somma alle velleità neo-nazionalista di chi
continua a ragionare come se l'Unione Europea non esistesse, come se la
Cina fosse colta da un raptus di filantropia a favore di Paesi
dell'Occidente sui quali intende affondare le grinfie, aggiungendo, per
esempio, il dominio sul porto di Trieste al possesso del Pireo. Quanti
strillano per il timore della “troika” hanno idea di quanto fa la Cina
a Hong-Kong? E dove guardano costoro mentre il Sultano Erdogan vuol
ridurre Santa Sofia a moschea? Tornare alla Memoria: salpare con Cristoforo Colombo La
prospettiva dell'Italia è drammatica. L'equilibrio tra la ripresa
produttiva, con l'avvio almeno delle opere pubbliche approvate e
finanziate, e la legalità per ora ha trovato risposta con lo stralcio
degli appalti dall'atteso e come sempre tardivo decreto legge sulla
“Semplificazione” trascinato oltre ogni limite da Sua Emergenza. La
Corte dei Conti ha detto più o meno quel che dell'Italia pensano
all'estero: non si migliora il quadro civile abolendo i controlli
indispensabili per separare l'affarismo (di per sé niente affatto
immorale) dal malaffare (che è altra cosa). A tenere
insieme l'Italia non sono né il prof. Giuseppe Conte e il governo da
lui presieduto, sempre più litigioso e inconcludente, né i partiti
grandi e piccoli, tendenzialmente ringhiosi, ma quel poco che rimane
della memoria nazionale, del culto della storia e del senso dello
Stato. Ne scrisse ripetutamente Romano Ugolini, presidente
dell'Istituto per la storia del Risorgimento, studioso di specchiata
probità, con accorati appelli a ritrovare nel Risorgimento le radici
profonde e la linfa perpetua dell'Italia contemporanea. L'unico grande
patrimonio da mettere in campo nel dialogo che ci attende con la
Commissione Europea e con gli Stati Uniti d'America, ai quali siamo
legati da un'alleanza immodificabile e rivelatasi sommamente
vantaggiosa in ormai oltre settant'anni, è l' “idea di Italia”, sorta e
riaffermata con l'unificazione nazionale, coronata 150 anni fa con
l'acquisizione di Roma capitale della Patria. Da quel
momento, con motivato orgoglio, la Nuova Italia rivendicò tutta la
storia precedente, sin dall'età romana, e poté anche dirsi fiera dei
tanti italiani che concorsero a creare la Civiltà del Rinascimento, ad
alimentare le arti e le scienze degli Imperi e degli Stati del Vecchio
e del Nuovo Continente. Mentre altrove alcuni pazzoidi ne abbattono le
statue, va ricordato Cristoforo Colombo, da celebrare il prossimo 12
ottobre nella Giornata nazionale a lui dedicata dalla Direttiva
del Presidente del Consiglio dei Ministri del 20 febbraio 2004,
solitamente disattesa ma ora richiamata all'attenzione dal comitato
“NessunotocchiColombo”, in difesa della memoria, della storia e della
libertà. Diversamente l'Italia “finisce a bagno”: in acque torbide e infette.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA:
Anziché nelle “chiare, fresche e dolci acque” cantate da Francesco
Petrarca l'Italia rischia di “finire a bagno” in acque fangose e
puteolenti (Rembrandt, Donna al bagno)
CONSERVARE L'ITALIA ATTUALITA' DI FILIPPO TURATI
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 29 Giugno 2020, pagg. 1 e 11.
Il governo del plin-plin Conservare
il poco che resta dello Stato d'Italia. Il governo indossa mascherine
nere. Ultima moda, quella dei pirati. La ministra dell'“Istruzione” la
usa di rado. Preferisce il rossetto. Questa è l'Italia del San Pietro e
San Paolo 2020. Ha Capo dello Stato un ex ministro della Pubblica
Istruzione. Eppure è l'Italia che ha preso sottogamba la Scuola,
declassata a parcheggio multipiano con banchi a castello se i metri
quadri non bastano a ospitare pupi e pupazzi. E se poi proprio
occorresse, che vadano tutti in palestra (a studiare o a fare
flessioni?), nei parchi (coperti?), nei musei (attenti: vi si aggira
Vittorio Sgarbi!), sulle nuvole... Ci sono volute le prime
manifestazioni di presidi, docenti, genitori e ragazzi per far capire a
Sua Emergenza Conte e all'Aiutante Gualtieri che non si scherza
con 10 milioni di cittadini coinvolti nell'odierno tritacarne della
Pubblica Istruzione: da moltiplicare per quattro o cinque per via di
genitori, madri costrette a lasciare il lavoro per occuparsi dei
bambini, zii, nonni e via continuando. Quei 10 milioni per quattro sono
gli unici che, a differenza del governo e della ministra, sentono a
pelle che il fallimento della Scuola risucchierà l'Italia per un paio
di generazioni. Il fallimento del governo di leu-cociti,
piddini (coacervo di detriti) e pentastellati (uno vale uno,
tutt'insieme sommano zero) certifica che l'Italia è sull'orlo
dell'abisso. Il governo in carica dura solo perché nessuno vuole ne
vuole davvero l'eredità: una somma di passivi, a cominciare, appunto,
dalla Pubblica istruzione. Caso mai ve ne fosse bisogno, ricordiamo che
l'Italia è il fanalino di coda per investimenti nella Scuola e nella
ricerca, cioè per il “futuro”. E' ridotta a vestibolo di vecchi e di
badanti, sorvegliato da sbadati. Alla radice della crisi in
corso da ormai molti decenni vi è quella della “cultura”, retrocessa a
mix di gastronomia, paesaggio, addobbi, acconciature. Mera
apparenza. Usa e getta. Tanto entra, tanto esce: plin-plin e
plon.plon... Il governo dell'auricolare Quando
il governo non sa decidere che cosa fare ascolta. E' un Esecutivo
auricolare. Non per caso all'Istruzione ha una ministra che arriva
dalla città dell'Orecchio di Dionisio. Un tiranno feroce. Nulla di
nuovo. Il governo nomina confessori, travestiti da esperti, e li mette
in ascolto. Poi si fa raccontare: “Quante volte? Come? Con chi?”.
Impartisce piccole espiazioni (qualche mese senza stipendio, un po' di
cinghia, stare in casa, stare in casa, stare in casa, uscire solo per i
bisogni non dei figli o nipoti ma del cane...) e tira a campare in
attesa degli euro-coriandoli (usa e getta anche essi, senza progetti
certificati, “la c'è la provvidenza...”). L'attuale
è una malattia antica. Il ritornello ripetuto da mesi ha esattamente un
secolo: “Rifare l'Italia”. Un refrain antico. A conferma è stato
riproposto all'attenzione il discorso il 26 giugno 1920 pronunciato
alla Camera dei deputati da Filippo Turati (Canzo, Como, 26 novembre
1857-Parigi, 29 marzo 1932) all'insediamento del V governo
Giolitti. Come tutta l'Europa, l'Italia faticava a uscire dalla Grande
Guerra. Aveva vinto la guerra sul piano militare, ma l'aveva persa al
proprio interno: oberata dal debito pubblico, dal discredito di governo
e parlamento e dal collasso dell'economia. La guerra genera guerre, le utopie non le fermano Le
catastrofiche conseguenze della guerra erano state prospettate dal
geniale Norman Angell (pseudonimo di Ralph Norman
Angell-Lane,1872-1967), giornalista e saggista. Autore del fortunato
Patriottismo sotto tre bandiere: una mozione per il razionalismo in
politica (1903), nel 1910 Angell ottenne fama mondiale con La
grande illusione, subito tradotto in venticinque lingue. Vi sostenne
che il mondo correva fatalmente contro una guerra devastante perché il
militarismo ispirava i governi dei principali Paesi, ormai lontani dal
libero scambio, unica vera garanzia di progresso civile ed economico.
Il capitalismo genuino non mirava affatto allo sfruttamento delle
colonie, in massima parte avviate all'indipendenza, né a programmi
bellicistici, dai quali aveva tutto da perdere. Creava profitti da
investire e distribuire. Futuro deputato laburista alla Camera inglese
e premio Nobel per la pace nel 1933, all'indomani della tempesta Angell
criticò severamente lo spirito vendicativo delle paci di Parigi
(Versailles e seguenti) e previde che l'umiliazione dei vinti, a
cominciare dalla Germania, avrebbe scatenato una nuova guerra generale,
più orribile della precedente. Le sue ammonizioni, come quelle di
Keynes, si rivelarono tragicamente veridiche ma non ebbero molta
fortuna. L'Europa era spazzata dal vento dei neo-nazionalismi, con le
varianti dell'internazionalismo sovietico (l'iniziale nazionalismo “di
classe” si convertì nel comunismo in un solo paese: l'URSS di
Lenin e di Stalin) e del nazionalsocialismo, ancora in nuce, ma nel
volgere di appena dieci anni destinato alle note fortune propiziate
dalle ripercussioni della Grande depressione, nata in Europa, passata
negli USA e rimbalzata sul Vecchio Continente. Altrettanto
celebre alla vigilia della guerra fu il libretto profetico di Ernest
Nys (Countrai,1851-Bruxelles, 1920) Idee moderne, diritto
internazionale e Massoneria, pubblicato nel 1908, tradotto in Italia
nel 1914 col pessimo titolo Origini gloria e fini della Massoneria, poi
riproposto dal vescovo gnostico Giordano Gamberini (Bastogi,1974).
Docente nella prestigiosa Università Libera di Bruxelles, Nys nutriva
piena fiducia nella razionalità della politica e nella soluzione
pattizia dei conflitti interstatuali. Calcava le orme del Fratello
Giuseppe Garibaldi, che aveva proposto di fare di Nizza una “città
libera”, sede di un Areopago universale, anticipatore della futura
Corte internazionale insediata all'Aja, nella quale vennero
riposte esagerate speranze, soprattutto dai docenti di diritto
internazionale, improvvisamente famosi, virologi dei conflitti tra
Stati. Come vaticinato da Angell. la guerra prevalse sulle illusioni:
due volte a livello planetario, oggi è ogni giorno incombente. E
potrebbe essere l'ultima. Perché poi verrebbe la pace eterna. Turati: come (ri)fare l'Italia Nel
giugno 1920, un anno dopo la Pace di Versailles e nove mesi dopo quella
italo-austriaca di Saint-Germain le speranze di quiete tra gli Stati e
di quella all'interno di ciascun Paese si stavano affievolendo. Col
noto realismo, appena tornato alla presidenza del Consiglio dei
ministri Giolitti spiegò che non era il momento di attizzare la
politica estera. Prima occorreva riordinare casa. Il 26 giugno Turati
espose il suo “piano”, incardinato sul caposaldo”fare l'Italia”. Giorni
prima aveva chiesto alla fedele Anna Kuliscioff di trovargli gli
scritti economico-politici di Camillo Cavour. Una citazione del Gran
Conte sarebbe figurata bene nel discorso. Non avendoli reperiti, la
compagna gli suggerì di cercarli nella biblioteca della Camera. Nel
discorso del 26 giugno (poi stampato col titolo Rifare l'Italia e più
volte riproposto) Turati deplorò il demagogismo, il ruolo nefasto
dell'industria militare tedesca e l'espansionismo coloniale, la
burocrazia e i “lavori improduttivi”, una sorta di reddito di
cittadinanza dell'epoca, causa di sperpero del pubblico danaro. Affermò
che il governo doveva proporsi un “piano regolatore”, il decentramento
regionale, badare all'agricoltura, alle risorse idriche, puntare
sull'elettrificazione. Contrappose la classe lavoratrice alla borghesia
ignava. A sua detta era venuta l' “ora dell'espiazione”. Proprio
mentre ad Ancona esplodeva l'insurrezione anarcoide. Secondo Carlo
Rosselli quel discorso fu il Manifesto della liberal-socialismo.
Però non vi si legge quasi nulla sulla Scuola, che pure era stata il
cavallo di battaglia dell'Italia da Cavour alla Sinistra Storica da
Crispi e Coppino sino a Giolitti. Turati annunciò il fallimento della
“vecchia” Italia e del suo “regime”. Il Re, Vittorio Emanuele III,
prese nota. Per l'ennesima volta Turati non raccolse la mano tesa dal
democratico Giolitti. Rimase nelle tenaglie di una visione ideologica
del socialismo, che di scissione in scissione portò all'isolamento e
alla catastrofe della sinistra. L'ormai
anziano esponente del riformismo si contrappose a Giolitti
(erroneamente considerato un Nitti molto più attempato, una cariatide
del liberalismo). Il suo discorso è di grande attualità perché non
affrontò affatto il problema di fondo dello Stato d'Italia: la
convergenza della rappresentanza nazionale in un governo di ampia
maggioranza (liberali, cattolici, socialisti riformisti) per conservare
il Paese al sicuro dalla deriva populista eterodiretta. Turati si
preoccupò soprattutto del proprio partito. Tentò invano di esorcizzare
i due nemici profondi che insidiavano il socialismo democratico:
l'anarchismo e il miraggio del socialismo sovietico succubo della Terza
Internazionale di Mosca. Anarchia e opposti estremismi L'Italia
del giugno 1920 ricominciava da dove si era fermata sei anni prima Nel
giugno 1914 era stata sconvolta dalla “settimana rossa”, studiata da
Luigi Lotti e da Marco Severini. Dalle Marche alle Romagne anarchici,
socialisti rivoluzionari e repubblicani misero tutto a soqquadro.
Occuparono edifici pubblici, interruppero la circolazione dei treni,
presero in ostaggio militari e personalità di alto rango. Da tre mesi
presidente del Consiglio e ministro dell'Interno era il burbanzoso e
autoreferenziale Antonio Salandra. A suo modo fortunato, mentre i
carboni di una rivolta senza capo né coda ancora erano ardenti, il 28
giugno a Sarajevo i criminali della “Mano Nera” (ben manipolati, come
poi emerse dal processo a loro carico) assassinarono l'arciduca
Francesco Ferdinando d'Asburgo: detonatore della Grande Guerra. Giusto
sei anni dopo, alle 2.30 del 26 giugno 1920 un gruppo di bersaglieri
destinato all'Albania intraprese una sommossa col sostegno dei
militanti locali socialisti, repubblicani, radicali, anarchici,
alcuni iniziati in loggia. Nel pomeriggio si registrarono scene di
ferocia selvaggia. Rientrato l'ammutinamento, la plebaglia
spadroneggiò. Alcuni uomini della Guardia Regia furono linciati. Le
loro salme vennero oltraggiate: sputi, orina e altro. Per domare la
rivolta Giolitti inviò il prefetto Cesare Mori, che usò mano di ferro.
Il bilancio (provvisorio) fu di 24 morti, incluse 9 Guardie. Settantuno
persone si fecero curare le ferite negli ospedali; molte preferirono
provvedere alla meglio per non scoprirsi. Uno sciopero ferroviario
impedì al governo di inviare l'Esercito a sedare immediatamente la
rivolta. Questa in breve si esaurì. Ma il cattivo esempio ormai era
dato. In tanti volevano “fare come in Russia”: annientare la forma
dello Stato (la monarchia) e lo Stato stesso, identificato con il suo
Capo. Che fare oggi? Il
limite del “codice Turati” è lì. Il suo proclama si fermò sulla soglia
del problema dei problemi: governare. Non bisognava affatto né “fare”
né “rifare” l'Italia. L'Italia c'era, con la serqua dei problemi
irrisolti da secoli. Li portava sulle spalle dalla unificazione del
1859-1870 e dalla Grande Guerra: le compagnie di Santa Fede, il grande
brigantaggio, la malavita organizzata, una macchina statuale unitaria
ancora in rodaggio. I clericali non avevano mai dimenticato Porta Pia.
I papi rimanevano asserragliati nei Sacri Palazzi come prigionieri di
guerra. In Italia tanta parte dei socialisti rimaneva “contro” a
differenza di quanto accadeva in Gran Bretagna, Germania, Austria e
Francia. Perciò il discorso di Turati è di grande attualità. Indica
quello che un partito “democratico” dovrebbe fare per conservare quel
che resta dello Stato: lasciata ai retori l'esaltazione della
occupazione delle fabbriche del settembre 1920 (centenario
incombente!), una forza di governo ha un solo obbligo: governare. Ma
va anche constatato che il partito democratico odierno (stinto approdo
di tanti partiti estinti) conta circa il 20% dell'intenzione di voto
degli elettori. Nel 1919 , messi a frutto suffragio universale e
“maledetta proporzionale” il PSI (coacervo di “tendenze”, come
ammise l'onesto Turati) raggiunse il 32, 3% dei voti validi (sul
56% degli elettori) contro il 20,5% del Partito popolare. Ma non seppe
farne buon uso. Cinque anni dopo scomparve. Il passato qualche cosa dovrebbe insegnare. Anziché fare o rifare, urge conservare quanto rimane dello Stato d'Italia.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA. Filippo Turati: il socialismo saggio ma indeciso a tutto.
IL V GOVERNO GIOLITTI (1920-1921) ULTIMO APPELLO PER IL LIBERALISMO IN ITALIA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 21 Giugno 2020, pagg. 1 e 11.
Giolitti: spegnere l'incendio... “Quando
la casa brucia, ogni sforzo deve tendere a spegnere l'incendio; a
rendere la casa più comoda si penserà dopo”. Fu il programma col quale
il massimo Statista italiano dall'unità a oggi, Giovanni Giolitti
(Mondovì, 1842- Cavour,1928), tornò la quinta volta ad assumere la
presidenza del Consiglio dei ministri il 16 giugno 1920. Aveva 78 anni:
idee chiare, energia ferrea. Le sue parole vanno meditate dal
presidente del Consiglio, Giuseppe Conti, che si trastulla in
chiacchiere e rinvia di mese in mese ogni seria decisione mentre
l'Italia sprofonda nella voragine del debito pubblico, destinato a
recidere i garretti dei cittadini per un paio di generazioni. Il
centenario del quinto governo Giolitti è passato del tutto sotto
silenzio in Piemonte. Silenzio tombale anche da parte della Provincia
di Cuneo, di cui lo Statista fu presidente per vent'anni. A volte chi
dovrebbe ricordare preferisce non vedere. Ma ormai a troppi vien comodo
il “distanziamento”: dalla memoria del passato, sempre più imbarazzante
per chi annaspa al “potere”. Ne ha scritto Luigi Rizzo in Il pensiero
di Giovanni Giolitti fondatore dello Stato sociale, tra guerra e pace
(ed. Arbor Sapientiae). Un governo di coalizione per risalire la china Il
16 giugno 1920 Vittorio Emanuele III chiamò Giolitti alla guida
dell'Esecutivo su indicazione unanime delle personalità consultate. Lo
Statista era pronto da tempo. Aveva varato il suo primo governo il 15
maggio 1892 su incarico di Umberto I. Erano passati 28 anni. Perché
proprio lui, malgrado l'età? L'Italia aveva alle spalle il passivo
dell'intervento nella Grande Guerra voluto da Antonio Salandra e da
Sidney Sonnino d'intesa con il sovrano. La Vittoria del 4 novembre 1918
aveva avuto un costo altissimo in vite umane, indebitamento dello
Stato, svalutazione della moneta, disordine economico e sociale.
Occorreva una “cura da cavallo”. Con il trattato di Versailles (28
giugno 1919), prima fase del congresso della pace, il governo
Orlando-Sonnino aveva sprecato i sacrifici sopportati dal Paese.
Malgrado i tanti discorsi e i ben remunerati articoli del nuovo
presidente del Consiglio, Francesco Saverio Nitti, il trattato di pace
con l'Austria (Saint-Germain, 10 settembre 1919) negò all'Italia Fiume.
Di lì, due giorni dopo, la marcia guidatavi da Gabriele d'Annunzio e la
Reggenza del Carnaro, spina nel fianco del governo. Nitti navigò a
vista, si dimise e formò un secondo ministero che durò poche settimane
(22 maggio-16 giugno). Sin dall'agosto 1917, in piena
guerra, Giolitti aveva indicato la via per riorganizzare i rapporti
interni e internazionali: abolizione della diplomazia segreta (altra
cosa dal segreto diplomatico) e riforme sociali rispondenti alle enormi
difficoltà del Paese. Lo ripeté il 12 ottobre 1919 nel discorso
pronunciato a Dronero in vista delle prime elezioni con il riparto dei
seggi in proporzione ai voti ottenuti dai partiti. Lo ribadì nel
discorso di insediamento alla Camera, il 24 giugno 1920, suo
onomastico. L'Italia era annichilita dal debito pubblico, balzato da 13
a 90 miliardi di lire, dal prezzo politico del pane, dalla
moltiplicazione di stipendi e salari per lavori inutili: costavano alla
pubblica amministrazione (Stato, province, comuni) e si risolvevano in
indebitamento ulteriore, non in benefici. Con le dita rosate già allora
la burocrazia intesseva in sudario dell'Italia. I regimi seguenti
fecero di peggio. Per voltare pagina Giolitti chiamò al
governo esponenti dei partiti costituzionali: Carlo Sforza agli Esteri,
il democratico ed ex socialista Ivanoe Bonomi alla Guerra, i cattolici
Filippo Meda e Giuseppe Micheli al Tesoro e all’Agricoltura, l'ex
sindacalista Arturo Labriola al Lavoro, massone come Luigi Fera,
ministro della Giustizia, e Giulio Alessio. All'Istruzione lo Statista
volle il sommo pensatore italiano del Novecento, Benedetto Croce,
storico e “filosofo di buon senso”, come egli disse quando lo vide
all'opera nel ministero oggi nelle mani di una giovine inconcludente.
Si circondò di cuneesi: Camillo Peano, ministro dei Lavori pubblici;
Marco di Saluzzo, sottosegretario agli Esteri e Giovanni Battista
Bertone, popolare, alle Finanze; Marcello Soleri, cui affidò il
commissariato per approvvigionamenti e consumi alimentari, cioè
l'abolizione del prezzo politico del pane, rovina dell'erario. Debito pubblico... All'insediamento
del governo Giolitti sintetizzò il programma per risanare il Paese:
sovranità del Parlamento anziché litania di decreti-legge come accadeva
dal 1914 (malvezzo imperante nell'Italia giallorossa di Conte,
democratici e pentastellati, lotta alle “delittuose speculazioni”,
freno all’emissione di moneta cartacea (fomite dell'inflazione),
promozione della produzione cerealicola (la mussoliniana “battaglia del
grano” non inventò nulla rispetto all'età di Giolitti e di Vittorio
Emanuele III, che seguiva di persona la sperimentazione agricola,
sull'esempio dei poderi modello allestiti a Pollenzo già da Carlo
Alberto), riduzione delle spese militari superflue, avocazione dei
profitti di guerra, progressività delle imposte e in specie delle tasse
sulle successioni, nominatività dei “titoli al portatore di qualsiasi
specie, azioni, obbligazioni, rendite di Stato, cartelle fondiarie e
simili, eccettuati solamente i buoni del Tesoro”: una montagna di 70
miliardi di lire che sfuggivano alle imposte. A quel modo avrebbe anche
stanato la “finanza vaticana”. Quasi non toccò la politica
estera. Non per trascuratezza. Poiché era aggrovigliata, l'avrebbe
affrontata quando lo Stato sarebbe tornato sicuro di sé. A
chi gli chiedeva di confiscare i beni della Corona rispose che, dopo le
generose donazioni fatte da Vittorio Emanuele III allo Stato, erano
ormai pochi centesimi. A chi, da sinistra, voleva l'abolizione
della guardia regia replicò che costoro l’avrebbero soppiantata con la
guardia rossa. Pensava a quanto avveniva in Russia. Le sue linee
maestre erano “pace all'estero e pace all'interno”, superamento della
lotta muro contro muro tra operai e datori di lavoro attraverso la
cooperazione. Ribadì: “Ognuno, secondo le sue convinzioni, può e deve
aiutare l'opera dello Stato; non dico l'opera del governo, dico l'opera
dello Stato”. Al Senato spiegò perché il governo comprendeva
esponenti di partiti diversi: liberali, democratici e popolari, tutti
costituzionali. La proporzionale aveva frantumato la Camera in undici
gruppi parlamentari. Mentre i socialisti contavano oltre 150 seggi e i
popolari un centinaio, i “liberali” erano spappolati in varie
denominazioni e privi di un'organizzazione unitaria. Il primo “partito
liberale” nazionale, presieduto dal genovese Emilio Borzino, che non è
il più famoso tra i politici italiani, nacque solo nell'ottobre 1922
quando il liberalismo volgeva al crepuscolo. Per governare, l'esecutivo
doveva contare su un'ampia e stabile maggioranza parlamentare: non su
compromessi ideologici, su gruppi litigiosi e inconcludenti (come anche
oggi accade), bensì sul “senso del dovere dei politici verso la
Patria”. Quasi quarant'anni prima, nella Lettera indirizzata agli
elettori del I collegio di Cuneo il 15 ottobre 1882 aveva scritto:
“Allorché gli uomini di Stato più eminenti e gli operai sono concordi
in un programma, vi ha la certezza che questo risponde ai veri bisogni
del Paese”. ...avocazione al Parlamento del potere di dichiarare guerra... Due
erano gli obiettivi fondamentali del quinto governo Giolitti. In primo
luogo la modifica dell'articolo 5 dello Statuto: “senza la preventiva
approvazione del Parlamento non vi può essere dichiarazione di guerra”.
Questa andava trasferita dalla Corona ai rappresentanti dei cittadini,
sui quali ricade il peso delle decisioni supreme: vite umane e
impoverimento, come era avvenuto nella Grande guerra. Sino a quel
momento nessun uomo politico aveva mai messo in discussione la
prerogativa principale del sovrano: la dichiarazione di guerra.
Giolitti lo fece, proprio perché monarchico, liberale, conservatore:
per le istituzioni, i cui titolari non sempre sono consci dei loro
doveri. Lo propose alla luce della catastrofe delle teste coronate
spazzate via dalla sconfitta: lo zar di Russia, eliminato dai
bolscevichi con l'intera famiglia; gli imperatori di Austria-Ungheria e
del Reich germanico e il sultano di Istanbul, tutti costretti
all'esilio da rivoluzioni dei loro popoli ancor più che dalle vittorie
del nemico. Già nel citato Discorso di Dronero del 1919
Giolitti aveva pronunciato parole da rileggere mentre il governo oggi
in carica anziché aprire un vero confronto sulla politica estera
(alleanze, posizione dell'Italia in Libia...) pretende di limitarsi a
“informative”, senza dibattito né votazioni (e così scopre il fianco
del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, costretto a
ripetere che le alleanze non sono porte girevoli). Fra altro osservò:
“Nei nostri ordinamenti politici interni esiste la più strana delle
contraddizioni. Mentre il potere esecutivo non può spendere una lira,
non può modificare in alcun modo gli ordinamenti amministrativi, non
può né creare né abolire una pretura, un impiego d'ordine senza la
preventiva approvazione del Parlamento, può invece per mezzo di
trattative internazionali assumere, a nome del Paese, i più terribili
degli impegni che portano inevitabilmente alla guerra; e non solo senza
l'approvazione del Parlamento, ma senza che né Parlamento né Paese ne
siano, o ne possano essere in alcun modo informati. Questo stato di
cose va radicalmente mutato”. Occorreva dunque abolire i trattati
segreti, come l'accordo di Londra del 26 aprile 1915, germe di
conseguenze disastrose per la miopia di chi l'aveva stipulato
all'insaputa delle Camere. Aggiunse: “sarebbe una grande garanzia di
pace se in tutti i paesi fossero le rappresentanze popolari a dirigere
la politica estera; poiché così sarebbe esclusa la possibilità che
minoranze audaci, o governi senza intelligenza e senza coscienza,
riescano a portare in guerra un popolo contro la sua volontà”. Contrariamente
a quanto ritennero alcuni cortigiani e reazionari particolarmente
ottusi, la proposta giolittiana non era affatto anti-monarchica. Essa,
anzi, mirava a tenere separata la responsabilità del Re da quella di
presidenti del Consiglio e di ministri corrivi a confiscare la
sovranità e a decidere all'insaputa delle Camere, così esponendo la
Corona ai rischi di una disfatta militare che fatalmente ne avrebbe
comportato il crollo, come poi accadde. Nel corso dei
secoli lo stato sabaudo aveva subito invasioni e perso battaglie, ma
neppure nei momenti più drammatici era stato debellato perché i suoi
sovrani avevano sempre contato sul leale sostegno della popolazione che
si riconosceva nei duchi e re di Savoia. Lo si era veduto ai tempi di
Carlo Emanuele I, di Vittorio Amedeo II, di Carlo Emanuele III. Quanto
era valso nei secoli della monarchia consultiva e amministrativa valeva
ancor più con l'avvento di quella costituzionale, come ha bene spiegato
Domenico Fisichella nella sua imponente trilogia dal Risorgimento al
1940 (ed. Pagine). Dopo la sconfitta di Novara (23 marzo 1849) il regno
aveva fatto quadrato attorno a Vittorio Emanuele II che aveva rifiutato
di abolire lo Statuto. Quel “patto”, però, andava aggiornato alla luce
dell'esperienza maturata durante la Grande guerra e di trattati di pace
niente affatto lungimiranti. Con argomenti attualissimi
Giolitti rivendicò la centralità della rappresentanza elettiva, tenuta
a mostrare con i fatti di volere e sapere esercitare i poteri
statutari. ...e risanamento dell'istruzione pubblica L'altro
caposaldo, parimenti attualissimo, del programma del V governo
giolittiano fu la “completa trasformazione dell'istruzione pubblica,
che è fra tutte le nostre istituzioni quella che procede con maggior
disordine e con minor efficacia”. Fermo nel ritenere che “un popolo
tanto vale quanto sa”, spiegò che il mondo scolastico, “vecchio,
chiuso, arretrato”, autoreferenziale, andava “aperto largamente al sole
della libertà, la più efficace delle spinte al progresso”. Parlava
sulla scorta delle esperienze dei figli e dei numerosi nipoti. Il
rinnovamento dell'istruzione pubblica andava promosso di concerto con
l'“alta industria”, “in modo da attrarre all'insegnamento le migliori
intelligenze del paese e da costringere gli insegnanti a tenersi
perfettamente al corrente delle scienze”. A tale scopo le cattedre,
soprattutto delle discipline “esatte”, anziché popolate di precari,
andavano rimesse a concorso ogni dieci anni. Chi non si aggiornava
andava sostituito dai più preparati. Il suo criterio di
governo fu:“dire sempre al Paese la rude verità, abbandonando la vuota
retorica, la quale, ponendo sotto falsa luce fatti e apprezzamenti,
costituisce una delle forme più insidiose di menzogne”. Come accennato,
nei discorsi di insediamento del governo alla Camera e al Senato
Giolitti spiegò perché non intendeva esporre il programma nella
politica estera. Gli occorreva anzitutto conoscerne lo stato vero alla
luce della documentazione: premessa per affrontare le molte e complesse
articolazioni, in specie con riferimento alla “questione adriatica”, di
cui quella di Fiume era un gradiente aspro da superare in una visione
più larga di quella sino a quel momento dominante. Il 15
luglio non esitò a dichiarare ai senatori di aver accettato un mandato
forse superiore alle sue forze per “sentimento del dovere” verso “una
Alta volontà”: quella del Re. Un suo autorevole biografo,
Nino Valeri, iniziato massone con Gabriellino d'Annunzio in un'officina
della Gran Loggia d'Italia quando da “agente cinematografico”
collaborava con il figlio del Vate, dedicò al V e ultimo governo
Giolitti pagine fondate sul preconcetto che l'anziano Statista non
fosse più “in linea” con i tempi nuovi, con gli umori che alimentavano
il rivoluzionarismo dilagante dall'estrema destra alla sinistra. In
realtà Giolitti ebbe chiarissima la percezione che i princìpi
ispiratori della dirigenza politica durata dall'unificazione nazionale
alla Grande Guerra rimanevano patrimonio di una minoranza di patrioti
veri, dediti agli interessi generali permanenti dell'Italia anziché ai
propri personali o a quelli di fazioni partitiche. Egli stesso aveva
concorso a promuoverne il radicamento con le grandi riforme d'inizio
secolo e con il conferimento del diritto di voto ai maschi maggiorenni,
anche se analfabeti. Comprendeva la genesi dello sperimentalismo e del
disordine del dopoguerra, ma ritenne che il governo non potesse né
dovesse subirlo e assecondarlo, vivendo di esperimenti, di appelli alle
piazze, di incitamento alla rissa tra vacue ideologie, come oggi
accade. All'opposto sentiva il dovere di “rialzare l'autorità del
Parlamento” per “rialzare l'autorità dello Stato”, accompagnandolo con
il monito che “non bisogna confondere lo Stato col Governo. Il Governo
è il servitore dello Stato, e nient'altro”. La Camera
alla quale si rivolse nel giugno-luglio del 1920 comprendeva una esigua
pattuglia di nazionalisti ma ancora nessun “fascista”. Alle elezioni
del 16 novembre 1919 Mussolini aveva raccattato circa 2500 preferenze
sui 5.000 voti andati alla sua lista: un risultato mortificante.
Nondimeno alla Camera sedevano molti esagitati, massimalisti,
estremisti, integralisti, fautori del tanto peggio tanto meglio. Per
venirne a capo occorreva una lunga stagione di armonia tra gli Stati,
il trascorrere del tempo, che è sempre la medicina migliore. Non fu
Giolitti a decidere l'autoesclusione degli USA dalla Lega delle
Nazioni, l'ingorda spartizione delle colonie tedesche tra Gran Bretagna
e Francia, l'esasperazione dei vinti attraverso politiche punitive.
Cercò di mettere ordine almeno in Italia, “in casa”. Era
guidato da un concetto di bruciante attualità: “Seguire una politica
che possa condurre ad altre guerre significherebbe condannare sin d'ora
a morte due milioni di nostri figli o dei nostri nipoti, e condannare
l'Italia ad un altro mezzo secolo di esaurimento economico per
arricchire un'altra generazione di speculatori; e ciò nell'ipotesi che
in una nuova guerra si abbia di nuovo una completa vittoria, poiché in
caso di sconfitta le condizioni dell'Italia diverrebbero molto peggiori
di quelle dei popoli che in questa guerra furono vinti”: parole
profetiche ma non abbastanza comprese. Perciò l'esempio dello Statista
che quasi ottantenne si fece carico del governo d'Italia merita di
essere rievocato e meglio conosciuto: non fu un segmento qualunque
nella sequenza dei sei governi susseguitisi nel dopoguerra prima
dell'avvento di Mussolini. Le dimissioni di Giolitti un anno dopo
l'insediamento segnarono l'eclissi del liberalismo italiano in
un'Europa che si avviava alla seconda catastrofica fase della Guerra
dei Trent'anni (1914-1945). Cinque volte presidente
del Consiglio non ha monumenti. Quindi la sua “esteriorità” non
rischia. A farne ricordare l'opera fu il presidente Carlo Azeglio
Ciampi nella visita a Cuneo, nel 2003.Quando si recò a Cuneo,
Napolitano lo ignorò. Mattarella, che rese omaggio a Einaudi in
Dogliani, è in tempo riproporlo ai “governanti” di oggi e di
domani.
Aldo A. Mola
Didascalia: Per ripristinare la pace in Libia il 6 dicembre 1920 il Gran Senusso in visita a Roma.
IL PAESE DEI BALOCCHI? ALL'ITALIA OCCORRE UN GOVERNO CHE GOVERNI
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 14 Giugno 2020, pagg. 1 e 11.
Le orde nemiche... Ma
ai Visigoti di Alarico che cosa importava di Roma Eterna quando la
misero a sacco nel 410 d.C.? Oro, argento, metalli preziosi, armi,
bestiame… predarono quanto poteva essere asportato. Palazzi pubblici e
case private furono spogliati e dati alle fiamme. Gli abitanti? Parte
uccisi, parte ridotti in schiavitù. Roma doveva “pagare” perché aveva
sottomesso il mondo e aveva ripetutamente sconfitto gli invasori.
L'evento sconvolse anche chi rifiutava la Roma dei consoli e dei Cesari
ma ricordava che lì erano andati a predicare Pietro e Paolo, perch era
l'Urbe universale per il confronto tra la civiltà classica e la Buona
Novella. E che cosa della Roma di Alessandro VI e Leone X,
di Raffaello e Michelangelo poteva mai importare ai Lanzi che nel 1527,
d'intesa sottobanco con il sacro romano imperatore Carlo V, la invasero
e vi bivaccarono per mesi, assediando papa Clemente VII asserragliato
in Castel Sant'Angelo? Nulla. Le statue antiche e le loro recenti
imitazioni, i dipinti che annunciarono il Ri-Nascimento del mondo
classico proprio mentre l'Europa esplorava e conquistava il mondo che
cos'erano per loro? Zero. Erano idolatria, da distruggere senza
rimpianti. Il nuovo sacco di Roma raggelò gli italiani cresciuti tra
Alfonso il Magnanimo e Lorenzo de' Medici, gli Sforza di Milano e i
dogi di Venezia. Del resto in “Germania”, uno spazio a
differenza dell'Italia privo di chiare demarcazioni geofisiche (il Reno
non equivale alle Alpi), altrettanto avveniva da anni e continuò.
L'Europa intera fu flagellata da un'onda di follia, repressa duramente.
Migliaia di incisioni e di dipinti attestano la ferocia di quei
decenni. Ce lo ricorda l'“albero degli impiccati”. Gli anabattisti
vennero sterminati da cattolici e riformati, perché costituivano
pericolo di incendio permanente. La piaga andava cauterizzata. Ma,
si dirà, quelli erano nemici. Come tali si comportavano: niente
prigionieri, se non per cavarne riscatti. L'Europa meritava quella
sorte? Da secoli l'Occidente aveva combattuto quel che rimaneva
dell'Impero romano a Bisanzio. Quando, favente il loro dio clemente e
misericordioso, i turchi ottomani di Maometto II espugnarono
Costantinopoli (1453) l'Europa occidentale, Italia in testa, si voltò
dall'altra parte. Finse di non vedere, di non sapere, di non capire il
massacro messo a segno dai conquistatori. Continuò a farlo anche dopo
la Grande Guerra, quando l'antica Costantinopoli venne lasciata alla
Turchia. Da lì è ripartita la rivendicazione del Califfato, che dalle
coste della Libia ora guarda agli antichi domini islamici, dalla
Sicilia alle “teste di ponte” sulla costa francese. Ogni
invasione cancella i simboli dei vinti, perché solo così la dominazione
si consolida e dura. L'iconoclastia politica, la distruzione delle
immagini dei sottomessi, è connaturata ai confitti tra i popoli. Però
la guerra da tempo in corso contro gli emblemi dell'espansione europea
è anacronistica. Fa parte dell'infantilismo oggi imperversante, della
pretesa “innocenza” di chi un tempo fu vittima di avanzate altrui e
addebita l'origine dei suoi mali a esploratori e a conquistatori, dalle
Americhe all'Asia e all'Africa. Di fatto, i popoli afro-asiatici e
amerindi cinque secoli addietro raggiunti dai grandi navigatori europei
avevano alle spalle millenni di conflitti ferocissimi. Al loro
confronto, nell'arte di incrudelire i Cortés e i Pizarro erano meri
apprendisti. Cristoforo Colombo, le cui statue da tempo vengono
decapitate e gettate nei fossi, era un' educanda. Da decenni la storia
universale, scritta dalle grandi Accademie europee tra Otto e
Novecento, viene capovolta su impulso dell'Unesco, avamposto della
“vendetta” antieuropea e antistatunitense. Elevare la “sofferenza” a
metro discriminante della storia significa sostituire giudicare gli
eventi alla luce di una presunta “morale”, basata su valori di recente
conio e tuttora niente affatto universali, come mostrano le nuove
frontiere dei conflitti planetari in corso. Da Genova a Torino contro la memoria del Padre della Patria Ma
non questo qui preme. Merita invece attenzione l'uso dialettale
imperversante in Italia della rilettura storiografica uneschiana. Tra i
suoi segnali recenti, ne spiccano due. Sabato 23 maggio alcuni genovesi
hanno deposto una corona d'alloro con coccarda tricolore e nastro
azzurro al monumento di Vittorio Emanuele II in piazza Corvetto a
Genova: omaggio al Padre della Patria nel bicentenario della nascita,
anche a nome di un amico sepolto quel giorno, Arduino Repetto, mite
componente della Consulta dei senatori del Regno. Deporre una corona ai
piedi di quel monumento non è impresa da poco: occorre fendere il
traffico e scavalcare la pesante catena che circonda l'aiuola e
ostacola l'accesso. Chi la recò forse non avvertì le “autorità
competenti”; ma recare fiori a un monumento come sul luogo di un evento
memorabile non costituisce chissà quale trasgressione nel Paese dei
lumini e delle fiaccolate. Di fatto, però, quei cittadini incapparono
in un paio di sedicenti portavoce della “repubblica di Genova”, da ore
in agguato e pronti a “contestare”. Per costoro Vittorio Emanuele II
rimane “un nemico”, come poi dichiarato dal presidente
dell’associazione “A Compagna”. A loro avviso quel monumento andrebbe
addirittura rimosso e sostituito con una lapide a ricordo dei rivoltosi
che nel 1849 furono vittime della repressione attuata agli ordini del
generale Alfonso La Marmora. Senza entrare nel merito della vicenda
(l'insorgenza repubblicana colpiva alla schiena il Regno di Sardegna
vinto dagli austriaci a Novara il 23 marzo e rischiava di farne il
campo di battaglia tra Vienna e la Francia come altre volte in passato:
ma la Gran Bretagna non sarebbe stata spettatrice), resta il fatto che
di lì a poco la corona memoriale sparì. Chi la tolse? Un
altro sabato, il 7 giugno, un “Kollettivo studentesco” ha imbrattato la
statua di Vittorio Emanuele II a Palazzo Civico di Torino, presenti e
silenti agenti di forza pubblica. Gli autori del misfatto ritengono che
la statua de Re non appartiene al loro “patrimonio culturale” e
chiedono che vengano cancellate le intitolazioni di piazze, corsi e
viali a “protagonisti del colonialismo italiano” quali Francesco Crispi
e Giovanni Giolitti. Queste due recenti manifestazioni di
settarismo oscurantista non sono affatto nuove. Da anni il nome di
Vittorio Emanuele III è stato abraso anche nella sua città nativa,
Napoli, con la benedizione del sindaco, De Magistris. Questo
accanimento è il punto di arrivo di cent'anni di guerriglia ideologica
contro l'Unità nazionale, divenuta guerra totale nel 1945-1946. Per
comprenderne genesi e ripercussioni va ricordato che la Terza Italia
nacque quale addizione e fusione degli Stati pre-unitari. Il Regno
unitario valorizzò le tradizioni delle Cento Città, costruì le
infrastrutture che mancavano, aprì scuole e ospedali dove non non ve
n'era neppure l'ombra. Nel 1861 metà delle ferrovie italiane erano nel
regno di Sardegna. In Sicilia, Calabria, Puglie e Abruzzi-Molise non ve
n'era nemmeno un chilometro. L'Italia prese sulle spalle una parte del
“fardello dell'uomo bianco”, con il pieno consenso degli hegeliani di
Napoli e dell'unico socialista scientifico italiano, Antonio Labriola,
apprezzato da Engels e aspirante iniziando nella loggia “Rienzi” di
Roma. Anche secondo Marx, senza l'espansione planetaria le scienze e la
produzione industriale sarebbero rimaste nane come avvenne
nell'Europa orientale. Anche per la sua posizione geografica, a metà
strada fra la Gran Bretagna e le Indie passando dal Canale di Suez (il
cui 150° è stato vergognosamente ignorato), l'Italia doveva
compartecipare alla colonizzazione capitanata dalle grandi potenze o
rimanerne succuba come nei secoli andati. Tanto valeva non dar vita al
Regno e restare vassalli. Per l'Italia dei Lumi europei Chi
si contrappose all'Unità? Non i repubblicani più lungimiranti, come
Aurelio Saffi, né i radicali. I garibaldini continuarono a riconoscersi
nell'insegna “Italia e Vittorio Emanuele” del loro referente, che fu
sempre deputato e venne ricevuto dal Re al Quirinale. Prima o poi gli
iconoclasti odierni proporranno di abbatterne le dozzine di statue (a
cominciare da quella al Gianicolo, con tanto di squadra e compasso) e
di cancellarne il nome da vie e piazze. Per la Nuova Italia si
schierarono ovviamente i seguaci di Cavour (l'anniversario della sua
morte, il 6 giugno, è passato sotto silenzio, come ha deplorato Mino
Giachino), la destra storica, i seguaci di Urbano Rattazzi e i
democratici. Gli avversari dell'Unità furono i clericali, gli anarchici
e i proto-socialisti, nemici dell'unità d'Italia perché essa era
frutto dell'Illuminismo italo-europeo fiorito a Napoli e a Milano nella
seconda metà del Settecento, asceso a dirigenza nell'età
franco-napoleonica e poi antesignano del Risorgimento e delle guerre
per l'indipendenza, come ricordò Giosue Carducci, storico e politico
ancor più che poeta. Fu quell'Italia “occidentale” a
consentire in questo dopoguerra la riscossa e il miracolo economico,
grazie a personalità come Alberto Tarchiani, ambasciatore a Washington,
vero garante della collocazione “a Ovest”, insieme a Randolfo
Pacciardi, e a scienziati, umanisti e strateghi dell'economia, come
Raffaele Mattioli e Vittorio Valletta. Che l'Italia odierna viva con la
testa fra le nuvole è comprovato dall'oblio riservato da Torino proprio
alla memoria di quest’ultimo. ...e contro L'Italia
euro-illuministica, “occidentale”, ancor oggi è il bersaglio polemico
di chi contrappone il Mezzogiorno all'Italia Settentrionale
(dimenticando che vi è anche la Centrale, corposissima) e continua la
litania vittimistica contro i “piemontesi”, la “deportazione” dei
prigionieri borbonici in mai esistiti campi di sterminio, lo
sfruttamento coloniale del Sud e, naturalmente, contro “i Savoia”,
mandanti dei “carnefici” responsabili della morte di almeno 500.000
abitanti delle regioni meridionali secondo un giornalista che non
merita d’esser nominato. Da decenni perdura questa
stucchevole polemica che costituisce una pesante palla al piede per
un'Italia sempre più in ritardo rispetto all'Europa. Gravissima è, al
riguardo, la responsabilità del Partito comunista italiano, nel cui
ambito i militanti provenienti dalle file dei liberali, del presto
disciolto partito d'azione e del Partito nazionale fascista (un mosaico
di “correnti” tenute insieme dall'esercizio del potere), dovettero
accodarsi in seconda fila rispetto ai “rivoluzionari di professione”,
ai quadri di formazione sovietica. Lo si vide anche nei lunghi anni
dalla sanguinosa repressione della rivoluzione in Ungheria alla fine
della “primavera di Praga”, schiacciata dai carri armati sovietici
(1956-1968). L'euro-comunismo era ancora lontano dall'orizzonte. Quella
ideologia oscura la realtà: mentre il Regno unitario nacque per
sommatoria, la repubblica collezionò sottrazioni: la limatura del
confine occidentale, la tragica potatura di quello orientale, le
colonie, Rodi e il Dodecanneso, che l'Italia di Vittorio Emanuele III
nel 1912 aveva liberato dal giogo turco (va reso omaggio alla
memoria dell'ammiraglio Giovanni Ameglio, le cui lettere a Giolitti ne
attestano l'alto sentire culturale e umano). Giuseppe Conte, il Boscaiolo Se
ancora oggi l'Italia balbetta e stenta a prendere coscienza della
propria storia, dal Risorgimento all'attualità, lo si deve a decenni di
lotta sistematica contro la “memoria”. Solo facendo “tabula rasa” del
passato la stragrande maggioranza dei parlamentari oggi in carica può
atteggiarsi a classe dirigente, malgrado la calvizie culturale che la
contraddistingue. Lasciando dov'è il ministro della Pubblica
istruzione, ne è esempio insigne il presidente del Consiglio dei
ministri. Solo chi ignori o finga di ignorare la montagna di Progetti e
di “piani” messi a punto dal Cnel, dal Club di Roma, dalla Svimez e da
una cospicua schiera di Accademie (a cominciare ovviamente dai Lincei)
può oggi drappeggiarsi negli stinti panni di demiurgo degli “stati
generali dell'economia”, posponendo il fatto economico alla cultura,
cioè quanto di più oscurantistico si possa immaginare. Tra
i molti esempi possibili della pochezza intrinseca dei pomposi messaggi
di Giuseppe Conte all'Italia spicca l'annunciato proposito di voler
mettere a dimora un milione di alberi. Qualcuno gli ricordi che, mal
contati, l'Italia ha oggi almeno due miliardi di alberi, sicché il suo
milioncino è un volo di farfalla. Forse Conte dimentica che già Benito
Mussolini (come annotò Ciano nel Diario) si prefisse di imboschire
fittamente l'Appennino e il Mezzogiorno per abbassarne la temperatura
media annua e così costringerne gli abitanti a una condotta più
austera, meno incline all'indolenza del clima mediterraneo. Sappiamo
come finì: quelle regioni divennero teatro di due anni di una guerra
devastante, sul modello di quella dei generali bizantini Narsete e
Belisario contro gli ostrogoti. L'Italia non ha bisogno di
altri “progetti”, di altri “balocchi”, non di “menti brillanti”
selezionate motu proprio dal Potere ma di un governo che governi con
l'approvazione del Parlamento, espressione effettiva dell'opinione
nazionale. Ed ha bisogno che i vertici dello Stato rendano finalmente
pubblico omaggio ai protagonisti dell'unificazione nazionale, da Carlo
Alberto a Vittorio Emanuele II e a Vittorio Emanuele III. Diversamente
quei vertici condannano se stessi all'oblio, nel quale già sono
sprofondati molti capi di Stato susseguitisi al Quirinale dopo la
partenza di Umberto II il 13 giugno 1946.
Aldo A. Mola
Foto:
La corona d'alloro deposta il 23 maggio al monumento di Vittorio
Emanuele II a piazza Corvetto (Genova) nel 200° della nascita del Padre
della Patria. Venne rimossa da ignoti.
L'AGONIA DELLA SCUOLA ABOLIRE IL VALORE LEGALE DEL TITOLO DI STUDIO
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 7 Giugno 2020, pagg. 1 e 11.
Questo
governo “uccide l'uomo morto”. Ha inflitto un colpo fatale alla Scuola,
già agonizzante, sia la pubblica sia la paritaria. Non muore la Scuola
di questo o quel partito. Con la Scuola muore l'Italia. Segniamo “nigro
lapillo” i nomi dei due “esecutori”: Giuseppe Conte, presidente del
Consiglio dei ministri; Lucia Azzolina, ministro della Pubblica
istruzione. Ma che Stato è mai questo? I
fatti. Nei quattro mesi dalla deliberazione con la quale il 31 gennaio
2020 avocò poteri speciali per fronteggiare la diffusione del contagio
da covid-19 il Governo, cioè lo Stato, ha fatto una cosa sola per la
Scuola di ogni ordine e grado, dagli asili nido alle università: ha
chiuso tutto dall'oggi al domani con un Decreto del presidente del
Consiglio dei ministri, poi “assorbito” nel decreto-legge 8 aprile
2020, n. 22: misure urgenti sulla “regolare conclusione” dell'anno
scolastico in corso, l'“ordinato avvio” di quello futuro e sullo
svolgimento degli esami di Stato. Due mesi dopo abbiamo alcune certezze. In
primo luogo, a differenza di tutti gli altri Paesi dell'Unione Europea,
solo la Repubblica italiana non ha riaperto e non riapre le scuole
neppure per un giorno. In quattro mesi nulla è stato fatto per ospitare
scolari e studenti almeno per qualche ora. I giovani sono finalmente
liberi di andare ovunque, “sanza meta”, tranne che a scuola. In cambio
della forzata latitanza, tutti gli iscritti, inclusi quelli dell'anno
conclusivo della scuola dell'obbligo (la cosiddetta terza media), sono
automaticamente promossi all'anno successivo senza valutazione alcuna.
Quelli dell'ultimo anno del quinquennio superiore affronteranno un
esame la cui modalità a dieci giorni dal suo inizio rimangono labili
per quanto attiene l'accertamento della loro effettiva preparazione
scolastica. Al momento non si sa quante commissioni di esame
risulteranno regolarmente insediate (presidente esterno e sei
commissari interni) e se, pertanto, esse avranno i requisiti di
legge. Il punto è lì. Le Commissioni rilasciano
diplomi che hanno valore legale per iscrizione alle Facoltà
universitarie (con o senza numero chiuso e relative selezioni, mai come
quest'anno discutibili) e per ogni altro utilizzo pubblico e privato.
Sono titoli “di Stato”. Ma di quale Stato? L'interrogativo non si ferma
sulla soglia del Palazzo di Viale Trastevere, né negli ambulacri di
Palazzo Chigi. Arriva al Quirinale, perché i titoli di Stato (come
onorificenze et similia) sono convalidati dall'emblema della
Repubblica, impegnano il suo Capo, che anche sotto questo profilo è
lontano successore di Vittorio Emanuele II di Savoia, primo Re d'Italia. Tra metri quadri, classi e allievi non tornano Conte né Azzolina In
tutt'altre faccende affaccendato (anzitutto a sopravvivere alla crisi
di credibilità, ormai prossima a deflagrare il presidente del Consiglio
si è occupato del “decreto scuola” solo quando, molto tardivamente, ha
capito che l'immagine sua (alla quale tiene più che a sé stesso) è
compromessa agli occhi dei dieci e più milioni di famiglie coinvolte
dal sistema scolastico, lasciato in abbandono per mesi. In famelica
caccia di “consensi” Conte ha percepito che la Scuola non è “quantité
négligéable à merci”. A sua volta Azzolina, forse vagamente consapevole
che, senza alcuna prova scritta, in un'ora di vezzeggiante colloquio
non si accerta affatto la preparazione disciplinare, ha suggerito ai
commissari di domandare ai maturandi come abbiano vissuto l'emergenza e
la chiusura delle lezioni: una stucchevole litania priva di valore
scientifico. Dal confronto di Conte e del ministro con “le
parti” (sindacati della scuola, di cui Azzolina risulterebbe esperta
essendone stata militante) sono emerse alcune altre certezze degne di
attenzione. In primo luogo (come in questa sede ampiamente segnalato) a
ormai meno di tre mesi dal 1° settembre, data d’inizio formale
dell'anno scolastico venturo (compresi i “contratti” con i “precari”:
da segnalare a Bellanova, ministra dell'Italia sedicente Viva), Governo
e Ministero della Pubblica istruzione non hanno alcun progetto chiaro
sul suo “ordinato avvio”. Azzolina ha archiviato
drasticamente il piano abborracciato dal “suo” comitato tecnico
presieduto da un altrimenti ignoto prof. Bianchi (non sappiamo se per
un residuo scatto di dignità questi si sia immediatamente dimesso da
ogni incarico o se si tratti solo di un gioco ai quattro cantoni). Ha
promesso un po' di quattrini ai sindaci, da elevare a “commissari” per
gli interventi urgenti in vista della “ripresa”: un ventaglio
vastissimo. Scartata l'ipotesi di doppi turni generalizzati, di
ingressi scaglionati per classi (che richiederebbero un'intera mattina
per edifici sciaguratamente edificati con strutture “verticali”, su
quattro-cinque piani e con ascensori da sempre inadeguati per numero e
capienza) e di “spacchettare” le classi (metà in aula, metà collegata
via internet: un pasticciaccio impraticabile), la ministra ha
affacciato alcune spassose proposte. Poiché l'Esecutivo
lamenta di essere bersaglio di polemiche aprioristiche, per quanto
superfluo esse vanno sommariamente menzionate. In merito al rapporto
aule/classi ha tacitamente preso atto che si tratta di una realtà non
variabile a capriccio. I metri quadrati sono quelli e quelli saranno.
Le classi non sono verdure per insalata russa, da prendere e
redistribuire “secondo quanto basta” ma gruppi di “persone” o, se si
preferisce, “cittadini”: una somma di esperienze umane, di
“sentimenti”, da rispettare, a meno di ricorrere ai metodi cinesi così
cari a tanta parte del governo Conte e dei parlamentari che ne
costituiscono la palafitta (Leu, Democratici e Cinque stelle),
miscuglio di fanatici di estrema sinistra e di analfabeti totali. Mentre
per motivi “storici” una buona metà degli edifici scolastici non è “a
norma” e spesso versa in condizioni deplorevoli, anziché pensare a
lezioni in sedi esterne (musei, teatri, parchi..., come in primo tempo
ventilato), la ministra prospetta di moltiplicare tensostrutture e
interventi “leggeri” (cartongesso? cortine di bambù? tettoie in lamiera
o recuperate da discariche di amianto?) nelle adiacenze degli edifici
esistenti, ma sempre all'interno degli spazi di loro competenza. Forse
ignora che la maggior parte degli “istituti” manca di palestre,
giardini, parcheggi almeno per il personale tenuto a rimanervi 36 ore
alla settimana (dirigenti e amministrativi), per non parlare dei
docenti. Essa trascura altresì che, a differenza della sua nativa
Siracusa, il clima della maggior parte dei comuni d'Italia da ottobre
ad aprile (cioè per otto mesi sui nove dell'anno scolastico vero) non è
affatto propizio all'utilizzo di “locali” privi di adeguato
riscaldamento e di servizi igienici collegati alla rete idrica e
fognaria. Di concerto con l'astuto presidente Conte, la
ministra mira a scaricare nelle mani dei sindaci la patata bollente
della predisposizione di spazi scolastici improvvisati ma al tempo
stesso “a norma”. Un tiro mancino beffardo, giacché comporta
l'azzeramento delle procedure di legge e quindi espone a verifiche,
ricorsi e infine a denunce per le prevedibili ricadute negative sulla
salute degli utenti, a cominciare dai bambini. Non solo. In questa
Repubblica che fa trascorrere mesi e a volte anni prima di rilasciare
una banalissima licenza edilizia per nuova costruzione o
ristrutturazione, che mette mille “paletti” di traverso alla loro
realizzazione, sottoposta al vaglio di una serqua di commissioni
comunali, provinciali, regionali e che costringe all'abuso edilizio per
risolvere le urgenze indifferibili, vedremo se i sindaci saranno
disposti a fare gli “eroi” o gli “angeli” per conto del governo
scaricabarile (quanta melensa retorica viene impiegata per nascondere
le magagne del cattivo funzionamento delle istituzioni pubbliche, a
cominciare dalla sanità) o chiederanno “poteri speciali”, a cominciare,
quindi, dal conferimento di lavori senza gare d'appalto e, ciò che più
conta, senza l’acquisizione a bilancio delle somme necessarie. L'effettivo
trasferimento di fondi dall'amministrazione centrale a quelle
periferiche e lo stallo dell'esecuzione della montagna di opere
pubbliche già deliberate e “coperte” da appositi stanziamenti non
inducono affatto all'ottimismo. Il presidente Conte non è minimamente
credibile quando assicura che verrà snellita la burocrazia: un
ritornello scandito da tutti i governi precedenti e salmodiato da
quello in carica, che si è prodotto in decine di decreti-legge e di
DPCM, con la moltiplicazione di decreti, ordinanze, circolari
attuative, cui si sono aggiunti analoghi provvedimenti di regioni e
comuni sulle materie più disparate. Il caos, altro che semplificazione. Fatti non foste a viver come elmuti Dagli
edifici passando agli studenti, la ministra (non sappiamo quanto in
perfetta intesa con Sua Emergenza Conte) con uno dei molti “potremmo” e
“vorremmo” con i quali condisce la sua impotenza (“cento vorrei non
fanno un voglio”) pare orientata a scartare l'imposizione a scolari e
studenti di mascherine dall'utilità e validità più che dubbia
(andrebbero sostituite, e quindi “cestinate”, a metà mattina...) con
“visiere”. Per essere efficaci, queste dovrebbero coprire dalla nuca al
mento. In concreto ogni studente di ambo i sessi dalle elementari ai
18/19 anni dovrebbe prendere posto in file di banchi separate da
paratie di plexiglass e calcare sul capo una visiera in plastica o
chissà cosa: la caricatura dell'Elmo di Scipio... Questo
fantasma era già stato affacciato per isolare gli spazi di un
ombrellone e due lettini negli stabilimenti balneari: ipotesi folle,
bocciata perché avrebbe ridotto a caldarroste gli aspiranti bagnanti.
La domanda doverosa è: su quali basi sanitarie e sulla scorta di quali
sperimentazioni viene ora prospettato il combinato disposto paratie di
plexiglas/caschi di chissà che? (attendiamo aggiornamenti dal
cantilenante Arcuri Domenico). A parte lo spirito di Aladino e il
proprio specchio, il ministro Azzolina ha mai consultato al riguardo un
genitore, un pediatra, uno psicologo? Ha provato a far indossare
visiere a una classe “in carne ed ossa”? Il Ministero si è interrogato
sulle ripercussioni della sua “invenzione” sul rapporto
allievo/allievo, allievo/docente e sulla sua ricaduta
sull'apprendimento? Con ogni evidenza questo Governo vaga
nel bosco incantato dell'improvvisazione perpetua. A tutto danno della
credibilità non solo sua, del presidente Conte (di cui poco ci cale),
del di costui portavoce/suggeritore e dei ministri ma, va detto una
volta per tutte, dello Stato, e quindi, fatalmente, del suo Capo. Quando lo Stato c'era... La
Pubblica Istruzione in Italia non è una variabile dipendente
dall'Esecutivo. È un dovere dello Stato: un dovere, diciamolo, scritto
sia pure in maniera assai confusa nella “Carta più bella del mondo”. Lo
Statuto albertino non parlava di Scuola, ma il regno di Sardegna e
quello d'Italia ebbero all'Istruzione ministri di prim'ordine, da Carlo
Boncompagni e Carlo Cadorna a Gabrio Casati (che dette il nome alla
celebre legge del 1859), da Francesco De Sanctis e Michele Coppino sino
a Benedetto Croce, titolare dell'Istruzione esattamente cento anni fa
nel V Governo Giolitti, e poi Giovanni Gentile, che davvero non
meritava di essere vilmente assassinato nei modi oscuri indagati da
Luciano Mecacci nel poderoso volume “La Ghirlanda fiorentina e la morte
di Giovanni Gentile” (Adelphi), che meritò il Premio Acqui Storia,
suscitando dispute meschine. La Scuola venne intesa quale
corpo della Nazione. Come è avvenuto sino a ieri, tra i suoi banchi
sono nate amicizie e “affetti durevoli” destinati a perpetuarsi per la
vita intera. Lì nascevano emulazioni del tutto positive. Durò sino alla
nefasta crisi del 1967 e al devastante “sessantottismo” dei vari Mario
Capanna e di quanto ne seguì. L'associazionismo universitario, che
aveva alle spalle la gloriosa Corda Fratres, fu palestra della
dirigenza politica, come attestano gli studi di Giovanni Orsina e di
Marco Albera. Tra altri, lì si formarono Paolino Ungari e Marco
Pannella. La trincea avanzata dei tablet: battaglia mai ingaggiata In sintesi, l'anno scolastico 2019-2020 finisce nel peggiore dei modi. Mentre
Azzolina, clone perfetto di Sua Emergenza Conte, mira a rendere gli
allievi atomi incomunicanti, nessuno sa prevedere quando e come otto
milioni di scolari e di studenti torneranno effettivamente in aula, né,
meno ancora, per farci cosa, con centomila cattedre vuote e l'imminenza
del consueto degrado degli edifici scolastici a seggi per elezioni
regionali, comunali e referendum. Tra marzo e settembre
questo inutile governo ha avuto ed ha a disposizione tempo, modi e, se
richiesti, mezzi per affrontare la partita vera, anticipando i fondi da
mettere in conto MES: acquistare tutti i tablet necessari ad assicurare
parità tra gli allievi di tutti i Comuni d'Italia, fornire gli istituti
dei fondi per predisporre server decenti in assenza della “banda larga”
(che si guarda e si guarderà bene da raggiungere aree poco
profittevoli) e organizzare corsi per genitori e studenti non ancora
alfabetizzati all'uso dell'informatica. Questa era la grande partita,
la sfida da vincere. A settembre saremo nuovamente all'anno zero. I docenti peggio pagati d'Europa Ma
se la Scuola oggi precipita nel baratro non è solo colpa del ministro
in carica, né di un governo che si regge su una maggioranza
parlamentare asimmetrica rispetto all'opinione nazionale. Cinque
Stelle, democratici, Leu e Italia Viva hanno come unico cerotto il
terrore di doversi ripresentare alle urne. Ma non è questo il tema. In
Italia la Scuola è agonizzante da quando è stata messa tra i titoli
finali dei governi ispirati dall’ideologia catto-comunista
imperversante dall'eclissi della cultura liberalsocialista che ebbe tra
i suoi propugnatori il cattolico liberale Francesco Cossiga. Una
mazzata le venne inflitta da Luigi Berlinguer. Superfluo qui ricordarne
le “imprese”. Basti, fra altro, lo sconvolgimento dei programmi di
storia e l'appalto dell'aggiornamento dei docenti agli istituti di
storia della resistenza, fondati per “ragione sociale” sull’apologia di
un segmento della storia nazionale. In secondo luogo vi fu
l'avvilimento della docenza, umiliata da retribuzioni mortificanti.
Sommato lo stipendio base, il contributo fisso e il variabile, in
Italia la retribuzione degli insegnanti è “piatta”: dai 30.000 dollari
a inizio carriera ai 44 finali. In Francia si passa invece da 30 a
57.000 dollari, in Belgio da 37 a 65.000; in Germania da 42 e 72.000;
in Spagna da 40 a 57.000; in Svizzera da 54 a 82.000 dollari... E
nell'ammiratissima Corea del Sud? Da 32 mila dollari iniziali a 90 alla
vigilia della pensione. All'estero viene premiato il merito. In Italia
l'indolenza. I docenti percepiscono un salario pari a quello di un
“operaio”, con la differenza che i primi debbono avere una laurea. Gli
altri si specializzano, si aggiornano e guadagneranno di più. I
“professori” stagnano in una palude mefitica. Governi fa venne loro
concessa una mancia di 500 euro l'anno per acquisti di prima necessità…
didattica. Con tutto il rispetto, perciò in Italia l'insegnamento
venne e viene considerato un mestiere sottopagato per un lavoro
apparente, tagliato per chi proprio non ha meglio da fare. Abolire il valore legale del titolo di studio Conte e Azzolina uccidono l'uomo morto. Sic
stantibus rebus non resta che tornare al mònito di Luigi Einaudi:
abolire il valore legale dei titoli di studio. Poiché non prende sul
serio la Scuola, lo Stato non può pretendere che abbiano valore i
diplomi dispensati lippis et tonsoribus solo per esistenza in vita,
come accade nell’anno sciagurato 2020. Ma anche a questo riguardo il
peggio ha da venire...
Aldo A. Mola
Immagine:
Michele Lessona (Venaria Reale, 1823-Torino, 1894), scienziato,
pedagogista, Rettore dell'Università di Torino, senatore. Con “Volere è
potere” concorse a edificare la Terza Italia, il cui pilastro portante,
la Scuola, viene sgretolato dal governo attuale.
ALLA RICERCA DI UNA FESTA NAZIONALE PER CHI SUONA IL “DUE GIUGNO”?
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 31 Maggio 2020, pagg. 1 e 11.
Due giugno. Festa perché? Festa per chi? Che
cosa festeggiare questo 2 giugno 2020? La catastrofe del sistema
scolastico italiano? Una vera vergogna nella storia d'Italia, come
mostra lo sciopero generale fissato per l'8 giugno dal personale
scolastico stufo di essere esposto al ludibrio e di finire
colpevolizzato da allievi e famiglie quale complice di una ministra del
tutto inadeguata, “esperti compresi”. Il collasso di migliaia di
aziende e l'azzeramento di un milione di posti di lavoro? Il conflitto
di competenze tra l'Esecutivo e le banche sulle quali Sua Emergenza
Conte scarica la responsabilità della mancata corresponsione di mance
una tantum? L'indifferenza del governo e della miriade di suoi
“suggeritori”? La confusione dei “messaggi” quotidianamente diffusi con
decreti-legge e decreti del presidente del Consiglio? I ritardi nelle
grandi e piccole misure per prevenire, fronteggiare e contenere il
contagio del Covid-19? Quelli, anche più gravi, nel prevedere il
baratro economico e la crisi sociale che ne deriverà? Il protervo
soffocamento di libertà costituzionali col pretesto di tutelare la
salute dei cittadini? Il rimpallo di responsabilità tra governo,
regioni e comuni (quanto alle province, parce sepulto...)? Dietro
la mascherina (un addobbo facciale rapidamente fetido) si nasconde
l'incapacità di governare, il timore di questa compagine
transitoriamente al timone di presentarsi non alle videoconferenze ma
alle urne. Sua Emergenza disse che attende il giudizio della Storia,
quasi sia quello di un dio; verrà espresso dagli elettori, perché,
piaccia o meno, prima o poi o verranno convocati o rovesceranno i
“palazzi”. Come stupirsi se gli altri Paesi europei escludono dalle
mete turistiche l'Italia, quando il suo governo, per primo, dichiara
che essa è a rischio per i suoi stessi cittadini? Perciò è inevitabile domandarsi cosa mai ci si sarebbe festeggiare questo Due giugno 2020. I
calendari a strappo dovrebbero avere migliaia di foglietti per
richiamare tutti i “ricordi” ordinati o consentiti. Solo per stare al
calendario civile dello Stato d'Italia, sono festivi le domeniche e
altre ricorrenze religiose quali Capodanno (lo è dal 1874), Pasqua e il
lunedì dell'Angelo, l'Assunta, Ognissanti, l'Immacolata Concezione.
Quando mette in programma eventi dal valore legale (come gli esami e i
concorsi pubblici) lo Stato tiene conto anche delle festività delle
religioni che hanno stipulato le intese previste dalla Costituzione. Lasciati
dove sono i “Giorni” memoriali (alcuni passano in sordina, altri
imperversano per settimane), il calendario è zeppo di festività
(religiose e civili), di “giornate celebrative”, sostitutive di antiche
“feste” (i Patti Lateranensi nel 1930 oscurarono Porta Pia, in vigore
dal 1895; la Vittoria, durata dal 1922 al 1949; le ricorrenze del
“regime”: il Natale di Roma dal 1923, la Marcia su Roma dal 1930, la
proclamazione dell'Impero dal 1939, cioè due anni prima di perderlo) e
di solennità civili, come il “25 aprile” noto come “festa della
Liberazione”. In realtà quel giorno non finì affatto la guerra. Il
“saldo” venne col trattato di pace del 10 febbraio 1947: punitivo e
irridente nei confronti del contributo dell'Italia alla vittoria
degli Alleati. Che cos'altro potevano toglierle in più? Tra
le ricorrenze civili un tempo fu in vigore persino la scoperta
dell'America, oggi deplorata con tanto di rimozione delle statue di
Cristoforo Colombo quasi fosse sterminatore degli amerindi e
vessillifero della tratta dei negri. Sulle poche festività
civili sopravvissute al diserbante del pensiero politicamente ottuso
ancora svetta il 2 giugno, “festa della Repubblica”. Precedentemente
“mobile” e dal 1974 fissata in coincidenza della prima domenica di
giugno (come era stata quella dello Statuto albertino, in realtà
promulgato nel marzo 1848), con legge 23 novembre 2012, n. 222 essa ha
assunto la veste attuale. Ma il 2 giugno davvero è la festa di tutti?
In realtà, a differenza del 4 luglio degli USA e del 14 luglio della
Francia, quella data non rievoca affatto l'unanimità degli italiani:
ricorda, invece, la loro profonda divisione tra il Nord quasi tutto
repubblicano (con l'eccezione delle province di Cuneo, Asti, Bergamo e
Padova) e il Mezzogiorno compattamente monarchico. Rimanda alle radici
profonde della vittoria della repubblica che nel Centro-Nord molto deve
ai due anni di martellante campagna antimonarchica della Repubblica
sociale italiana. Nel 1946 comunisti, socialisti, ex azionisti, da un
canto, ed eredi della RSI, dall’altro canto, erano divisi in tutto
tranne che dall'odio nei confronti di Vittorio Emanuele III, del suo
successore, Umberto II, e dei loro ministri, da Pietro Badoglio ai
liberali come Benedetto Croce e Luigi Einaudi. I democristiani se la
sfangarono perché i loro maggiorenti alla vigilia del voto di
schierarono per la Repubblica mentre buona parte del clero, anche al
Nord, sconsigliò il “salto nel buio”. Avevano già dato e non volevano
finire sotto il calcagno dell'Armata Rossa. Premesso
che un giorno festivo fa sempre piacere alla quasi totalità di quanti
se ne giovano, perché malgrado Ciampi, Napolitano e altri il 2 giugno
ha stentato a entrare nelle corde della popolazione? Per comprenderlo
occorre ripassare le cronache del referendum del 1946. Una “festa” proclamata con anticipo di dieci giorni “Né
di venere né di marte non si sposa, non si parte né si dà principio
all'arte”. La Repubblica in Italia prese corpo un martedì: l’11 giugno
1946. Sabato 8 giugno, tre giorni prima che la Suprema
Corte di Cassazione comunicasse l'esito del referendum
monarchia/repubblica, il presidente del Consiglio dei ministri, Alcide
De Gasperi, democristiano, informò il governo che avrebbe assunto “i
poteri di Capo Provvisorio di uno Stato repubblicano”. Il liberale
Leone Cattani, ministro per i Lavori pubblici, si oppose fermamente.
Altri ministri liberali e demolaburisti, come il torinese Manlio Brosio
(ministro per la Guerra) e Mario Cevolotto (Aeronautica), nonché
l'ammiraglio Raffaele De Courten (Marina) erano per la repubblica. Quel
giorno il socialista Pietro Nenni (ministro per la Costituente,
probabilmente non “al di sopra delle parti”) propose che martedì 11
fosse dichiarato festivo “a tutti gli effetti civili”. Doveva essere la
prima celebrazione della Repubblica. La storia, però, ebbe altro corso. Alle
20 del 10 giugno il governo si radunò per decidere cosa fare dinnanzi
allo stallo generato dal rinvio dei risultati finali a martedì 18
giugno. Secondo Mario Bracci, esponente del Partito d'azione (già
sminuzzato in vari frammenti) e ministro per il Commercio con l'estero,
l'esito ormai era indiscutibile e quindi i poteri di capo dello Stato
dovevano passare subito a De Gasperi. Con lui, a parte Cattani, si
schierarono tutti i presenti, tra i quali il socialista Giuseppe
Romita, ministro dell'Interno, e il democristiano Giovanni Gronchi. De
Gasperi propose che un ministro riferisse al Re che a parere del
governo l'esito del referendum aveva prodotto la decadenza della
monarchia. Cattani obiettò che toccava a lui recarsi dal sovrano, per
individuare la soluzione atta a “salvare le pretese di ogni parte e
salvare così la pace del paese”. Il Consiglio riprese alle 0.45 di
martedì 11. De Gasperi riferì l'esito del colloquio con il Re. Umberto
II era disposto a delegare i poteri al presidente del Consiglio e ad
allontanarsi da Roma in attesa dell'esito finale, nel rispetto della
legge. Inizialmente Nenni e altri videro con favore la soluzione: De
Gasperi avrebbe avuto funzione di “Luogotenente”. Però il segretario
del partito comunista Palmiro Togliatti la respinse, poiché avrebbe
significato un’“investitura” da parte del sovrano. Ebbe il sostegno di
Bracci, Brosio, Cevolotto e De Courten. Alle 2.30, con il voto
contrario di Cattani, il governo approvò un “comunicato” che sanciva la
vittoria della Repubblica e proclamava festivo il giorno ormai
iniziato. Come farlo sapere alla popolazione? In realtà ben altro
premeva. In Italia il clima non era affatto esultante. In molte città
si verificavano manifestazioni di monarchici, duramente represse dalla
polizia a Napoli. A Taranto militari monarchici si scontrarono con
commilitoni repubblicani. Si riaffacciava lo spettro della guerra
civile mentre tutti sapevano che il partito comunista aveva una corposa
riserva di armi bene oliate: non decisive ma pericolosissime in caso di
coinvolgimento di potenze estere. Lo stesso
martedì 11 il governo si radunò tra le 12 e le 13, poi alle 18 e alle
21. La terza seduta fu decisiva. Bracci propose di conferire a De
Gasperi i poteri di capo dello Stato. Secondo il democristiano Mario
Scelba ormai il Re non era che “un privato cittadino”. Quindi era
intollerabile che De Gasperi si recasse ancora a colloquio con lui. De
Gasperi obiettò che era “vero in teoria”, ma politicamente sarebbe
stato un errore: non era il momento di “fare un passo che può
determinare la guerra civile”. Il governo camminava su una corda esile. Chi aveva votato per chi? Il caos dello scrutinio e della verifica Appena
un giorno prima, alle 18 di lunedì 10, il presidente della Corte di
Cassazione aveva comunicato l'esito del referendum: 12.672.767 voti per
la Repubblica contro 10.688. 905 per la Monarchia. Ufficialmente
mancavano i dati di circa 150 seggi. Il Presidente si riservò di
emettere in altra adunanza il giudizio definitivo su contestazioni,
proteste e reclami e di comunicare il numero complessivo degli elettori
votanti, le loro scelte e quello dei voti nulli, che in prima battuta
nessuno si era preso la briga di computare. Il
governo sapeva bene che in realtà mancavano i dati definitivi di almeno
21.000 sezioni. Pendevano molti ricorsi. Nessuno aveva conteggiato le
schede bianche, nulle, contestate e non assegnate. Per venirne in
chiaro sarebbe stato necessario controllare le schede; ma secondo
Togliatti questa verifica era impossibile perché, come egli
seraficamente asserì ai colleghi, forse erano già state distrutte. Il
governo era al bivio: attendere la pronuncia della Suprema Corte
annunciata per mercoledì 18 giugno, come chiedeva il Re, o varcare il
Rubicone? Gli elettori erano 28 milioni. Secondo Nenni alle
urne ne andarono circa 24.837.000. Più di tre milioni furono esclusi: i
militari ancora prigionieri di guerra, gli abitanti di province “in
forse” (Bolzano, l'intera Venezia Giulia e le altre città italiane
ormai nelle grinfie della Jugoslavia di Tito), i cittadini privati del
diritto di voto per motivi politici o non reperiti dagli uffici
elettorali comunali. La repubblica aveva ottenuto il consenso del 52%
dei voti validi ma appena del 42% del corpo elettorale. Era
manifestamente minoritaria. Che fare? Il Consiglio si riunì alle 0.30
di mercoledì 12. Togliatti avvertì allarmato che se fosse stato accolto
il ricorso presentato da Enzo Selvaggi la maggioranza si sarebbe
ridotta di molto. Bracci prospettò allora che a decidere la partita
potesse essere l'ammiraglio Ellery Stone. La decisione ultima andava
rimessa agli anglo-americani. Quando De Gasperi assunse le funzioni di capo dello Stato Il
governo tornò a riunirsi alle 21 dello stesso mercoledì 12 giugno.
Togliatti informò che le verifiche dei ricorsi avrebbero richiesto
quattro giorni e ammise: “C'è del caos”. Per sveltire le procedure si
computavano solo i voti validi. Dopo ore di dibattito al calor bianco e
un’interruzione, De Gasperi preparò la dichiarazione in forza della
quale assumeva le funzioni (non i poteri) di capo dello Stato e alle
23.45 ne dette lettura. Curiosamente il testo non è allegato ai Verbali
del Consiglio dei ministri pubblicati nel 1996 a cura di Aldo Giovanni
Ricci, all'epoca sovrintendente dell'Archivio Centrale dello Stato
(vol. VI, 2, p. 1388). Il suo testo è in Il referendum
monarchia-repubblica del 2-3 giugno 1946 (ed. BastogiLibri con
prefazione della Principessa Maria Gabriella di Savoia). Esso afferma
che sulla base della comunicazione dell'esito provvisorio dei risultati
del referendum (10 giugno) l'esercizio delle funzioni di capo dello
Stato spettava al presidente del Consiglio sino a quando l'Assemblea
costituente non avesse nominato il presidente provvisorio della
repubblica. Ancora una volta Cattani si dichiarò contrario ed esortò a
“evitare la guerra civile”. Dal canto suo Epicarmo Corbino, ministro
per il Tesoro, domandò a De Gasperi se la decisione rispondesse al suo
pensiero intimo. Il presidente democristiano confermò: “accipio”. Così
nacque la Repubblica. Era ormai il 13 giugno. Per gli scaramantici
quella cifra non porta bene, ma a Roma il giovedì è giorno di
trippa. Maramaldi... E
il Re? Posto dinnanzi al dilemma se arroccarsi al Quirinale, appellarsi
ai monarchici, lasciare temporaneamente Roma o allontanarsi dall'Italia
e protestare contro il “gesto rivoluzionario”, optò per quest’ultima
soluzione. Gli anglo-americani gli fecero sapere che non ne avrebbero
garantito l'incolumità personale. Tutto voleva tranne che uno
spargimento di sangue. Dal 5 giugno aveva ordinato alla Regina Maria
José di raggiungere Napoli con i quattro figli e di salpare per il
Portogallo con lo stesso incrociatore che aveva recato Vittorio
Emanuele III e la Regina Elena ad Alessandria d'Egitto. Nel corso di
una cena al Quirinale chiese ai congiunti di lasciare l'Italia. Già si
era congedato da Pio XII in visita privata. Ne ottenne un piccolo
prestito per le minute spese perché partiva senza una lira. Restituì.
Alle 15 di giovedì 13 lasciò il Quirinale e poi il suolo d'Italia, da
Ciampino alla volta del Portogallo. Sciolse dal giuramento di fedeltà alla monarchia, ma non alla Patria, quanti l'avevano prestato. Per
milioni e milioni di italiani fu un giorno di profonda mestizia. Aprì
anni amari. La sola esposizione del tricolore con lo scudo sabaudo
divenne reato. Il 18 giugno la Suprema Corte compì un colpo
di stato linguistico: a maggioranza, contro il parere del Procuratore
Generale Massimo Pilotti e del presidente Pagano, essa stabilì che per
votanti si intendono i voti validi. Ignorò le schede bianche, nulle,
non assegnate. In tal modo la differenza tra le due opzioni sarebbe
rimasta di circa 2 milioni, anziché di soli 250.000 voti, e nessuno
avrebbe insistito per il controllo delle schede. D'altronde il Re era
ormai all'estero, seppur nella convinzione di tornare prima o poi in
Italia. Ma la Costituente interdisse il rientro e il soggiorno a lui,
alla regina e ai discendenti maschi, confondendo discendente con erede
al trono. Altre severe misure furono adottate contro i militanti
monarchici, che presto si divisero in fazioni. Sin dalla sua prima
visita clandestina in Italia Luigi Federzoni distinse tra monarchici e
monarchisti, tra quanti nella Corona vedevano l'Italia e chi invece
dell'ideale monarchico fece “un mestiere”, un “partito”. Purtroppo nel
corso dei decenni i monarchici uguagliarono il Partito repubblicano
nella lotta fratricida. Repubblica senza scudo La
repubblica non venne mai “proclamata” perché la legge sul referendum
prevedeva solo la “comunicazione” dei risultati elettorali. Per
radicarsi essa si dovette dotare di “attributi” e mostrarli
festevolmente negli anni: un inno provvisorio per il giuramento dei
militari il IV novembre, la bandiera (strappò lo stemma sabaudo dal
Tricolore) e un emblema. Quest'ultimo è di interpretazione così ardua
che in l'“Italia immaginata. Iconografia di una nazione” (il Mulino)
Giovanni Belardinelli scrive che esso consta di “una stella dentro una
croce dentata”, mentre, come sappiamo, la stella (antico simbolo
d'Italia, della monarchia, della massoneria e persino della Madonna)
insiste in una ruota dentata: quella del Rotary, come venne spiegato a
De Gasperi quando negli Stati Uniti d'America gli venne impartito un
corso accelerato di tolleranza nei confronti di rotariani e di
“fratelli” come l'ambasciatore Alberto Tarchiani. Fra gli
altri emblemi di quando in quando tornati in auge per evocare l'Italia
vi sono anche i corbezzoli a suo tempo cantati da Giovanni Pascoli:
arbusto patriottico dalle foglie verdissime, fiori bianchi e frutti
rossi. Ai corbezzoli ci si può afferrare per scongiurare i guai del
passato, del presente e quelli che attendono l'Italia al varco: non in
autunno ma dalle settimane prossime se il governo continuerà a
mostrarsi del tutto al di sotto delle attese minime per risalire la
china. In questo Due giugno non si sente alcun bisogno di feste che
ricordano la divisione degli italiani in fazioni contrapposte e la
sopraffazione dei vinti da parte dei vincitori, maramaldi. Lo
sussurrano sommessamente Vittorio Emanuele III e la Regina Elena dalle
loro tombe nella quiete del Santuario di Vicoforte.
Aldo A. Mola
Immagine: Emblema
della Repubblica Italiana. Bozzetto di Paolo Antonio Paschetto
(885-1963), vincitore del primo concorso su 346 candidati e oltre 600
proposte. Approvato da apposita commissione presieduta dal
demolaburista Ivanoe Bonomi e formata da artisti già affermati durante
il regime, come Duilio Calbellotti ma bersagliato da critiche (ad
alcuni parve una tinozza rovesciata) esso non non fu realizzato.
Paschetto prevalse su 197 candidati anche nel secondo concorso.
Approvato dall'Assemblea costituente il 31 gennaio 1948 il nuovo
bozzetto (in bianco e nero) fu sostituito con quello varato a
fine aprile del 1948. Esso non è stemma (gli stemmi includono uno
scudo) ma “emblema”. Artista versatile e di vasta cultura, docente di
Ornato all'Accademia di Belle Arti di Roma, Paschetto professò la
religione valdese.
CULTURA E SCUOLA VITTIME DEL MALGOVERNO, NON DEL COVID-19
Editoriale
di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della
Liguria” di domenica 24 Maggio 2020, pagg. 1 e 11.
È in azione la nuova OVRA... Gli
italiani hanno sopportato due mesi di clausura non per virtù civica ma
perché terrorizzati da immagini lugubri del “Morbo” 24 ore su 24 a reti
unificate e dalla minaccia di “multe” salate se appena avessero messo
un piede oltre la soglia. Credevano di respirare dal 18 maggio, invece
sono nuovamente subissati dai fulmini. Chi prima si accertava che
stessero ben chiusi in casa ora ne scruta le mosse, pronto a infliggere
nuove e più gravi sanzioni, in specie ai giovani che sono come erano
due mesi fa: svagati in cerca di vita. Dopo la GADU (Grande
Associazione Delatori Uniti, che ambisce al riconoscimento di Ong) è
nata l' OVRA-BA, Opera Volontaria Repressione di Adulti, Bambini e
Anziani. Per mesi chi quatto quatto raggiungeva casa (dimora,
domicilio, residenza, una casa qualunque...) veniva adocchiato dalla
GADU, i cui archivi, raccolti con apposite app e debitamente
classificati, sono stati trasmessi all'OVRA-BA. Chi per anni si era
accontentato di staccare dal notes e infilare sotto il tergicristallo
l'avviso di penalità per una banale sosta anomala ha vissuto mesi di
turgori esercitando la sua quota parte di Potere Assoluto. Anziché
acquattati dietro una siepe per cogliere falli, i vigilanti
dell'OVRA-BA ora si specializzano nell'adocchiare e segnalare
prontamente chi esce dall'acqua e si sparapanza al sole invece di
correre gocciolante e ignudo verso casa (dimora, domicilio,
residenza...), naturalmente senza “congiunti”, che è tra vocaboli più
strambi infilati da Sua Emergenza Conte in uno dei suoi ormai
leggendari DPCM,ruvidamente stigmatizzati dalla presidente del Senato,
Maria Elisabetta Alberti Casellati: una “Torre di Babele” del
non-senso normativo, come ha acutamente sintetizzato Cesare Maffi in
“ItaliaOggi”. Di certo non sono di buon augurio i latrati
dei ministri Boccia (Rapporti con le Regioni) e Speranza (Sanità) che
vorrebbero protrarre sino a chissà quando la libertà di circolazione
tra una regione e l'altra, sulla base di dati epidemiologici spacciati
da comitati tecnico-scientifici e da “esperti”. Sulla loro credibilità
si è pronunciato l'INPS che giudica “ormai poco attendibili” quelli
forniti dalla Protezione civile, a parte il pandemonio di dispute tra
virologi, epidemiologi e inventori di algoritmi previsionali di curve
d'ogni genere e colore, basate su induzioni/deduzioni. Una pandemia di norme arcaiche Visto
il Codice di Hammurabi, re di Babilonia, viste le norme iugulatorie
imposte da Dracone agli Ateniesi, le leggi incise a Roma sulle XII
Tavole dai decemviri legibus scribundis, il Corpus iuris civilis di
Giustiniano, l'Editto emanato dal longobardo Rotari a Pavia nel 643
d.C., la Magna Carta, l'Habeas Corpus, il Codice Napoleone, invocati
tutti i protettori, ispiratori e innovatori del diritto, da san
Bobuleno a Irnerio e al “fratello” Giuseppe Zanardelli, che nel 1889
abolì in Italia la pena di morte, Sua Emergenza Conte e i ministri di
sua fiducia hanno sfornato e continuano a produrre decreti-legge sulle
materie più disparate, non sappiamo con quanta mestizia controfirmati
ed emanati dal Capo dello Stato, Sergio Mattarella. Dopo il “Cura
Italia” (un palliativo, anzi, un “tampone” del tutto inadeguato a
fronte della crisi economica e, conseguentemente, sociale) il
decreto-legge approvato al rallentatore ed enfaticamente intitolato
“Rilancio” (quasi il governo stia giocando a poker) è un erbario di 266
articoli nel quale tanti frugano cercando balsamo. Il “Governatore” del
Veneto, Luca Zaia (nome di evangelista, quindi veridico), ha subito
detto che per lui è destinato al cestino della carta. Gli ha fatto eco
il campano Vincenzo De Luca. Non bastasse, anche il prudente “Sole 24
Ore” ha segnalato che occorreranno un centinaio di altri “Atti” per
farlo passare dai vagiti ai fatti, a parte la solita pletora di
“aggiornamenti” scritti apposta per intorbidire le acque. Alle
due Camere con rito pleonastico Sua Emergenza ha solennemente
dichiarato che occorre procedere celermente a semplificare le leggi
vigenti intralcianti le nuove. Ha esibito un tipico caso di
sdoppiamento di personalità (quando la destra non sa che cosa faccia la
sinistra) o di illusionista che sfida la credulità del pubblico. Astuto
Frate Cipolla dei tempi nostri, dal 31 gennaio Conte ha prodotto una
sterminata messe di decreti, ordinanze e circolari, dapprima
pioggerellina di marzo, poi goccioloni battenti, infine rovinosa
tempesta, secondo umori e suggestioni di consulenti tecnico-scientifici
(mancano notizie di Colao, che di nome fa Vittorio, ma forse non lo è
di fatto) e di “portavoce” che talora, a ruoli invertiti, vegliano “a
vista” i “domini”, ridotti a “subiecti”. Il 24 maggio 1915... Mentre
la generalità dei commentatori delle condizioni in cui versa il Paese
bada ai “fondamentali” dell'economia (stringi stringi sono i risparmi,
sui quali volteggia l'Avvoltoio di Volturara Appula), va posta al
centro dell'attenzione la “cittadinanza italiana”, cioè i veri
capisaldi dello Stato d'Italia, quale ne sia la forma istituzionale, le
“virtù” antiche che gli hanno consentito di sopravvivere a due rovinose
guerre mondiali, al cambio Monarchia/repubblica e alla scomparsa di
tutti i partiti rappresentati alla Costituente del 1947-1948. Va fatto
in una domenica che vede scivolare via sotto oblivioso silenzio
l'anniversario di una fra le date più importanti della storia
nazionale: l'intervento dell'Italia nella Grande Guerra. Comunque lo si
voglia giudicare. Alla luce dei documenti, chi scrive lo ritiene un
errore colossale per i modi nei quali venne deciso e attuato: il
governo Salandra-Sonnino scaricò sulle spalle del Comandante Supremo,
Luigi Cadorna, le offensive e le trincee, ma non gli assicurò la
“grande riserva”: il sostegno convinto del Paese, né la copertura
finanziaria. Quel 24 maggio va comunque ricordato quale spartiacque
della nostra storia d'Italia. Ma non è questo il tema. La riflessione
va concentrata sull'assenza di un Progetto Italia nei disegni sinora
prospettati dal governo con riferimento ai due pilastri portanti del
Paese: i laboratori (o atanor) della cultura e la macchina
dell'Istruzione/educazione, la Scuola. Il bavaglio alla libertà di pensiero Commentare
il decreto-legge maximus “Rilancio Italia” sarebbe al momento esercizio
retorico. Esso è aperto a emendamenti. Sennò che decreto-legge sarebbe?
Un diktat? Un ultimatum? Un “verbale” prendere o lasciare teletrasmesso
da remoto alle Camere? Da oggi alla sua eventuale approvazione, entro
metà luglio, tante novità possono insorgere. Meglio quindi soffermarsi
sul decreto-legge minor (16 maggio 2020, n. 33), “Ulteriori misure
urgenti per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da Covid-19” e sul
DPCM di domenica 17 maggio 2020, firmato da Sua Emergenza e dal
ministro della Salute. Il DL minor andrà ricordato perché ebbe
efficacia a decorrere dal primo minuto di lunedì 18 maggio. Come coro
stentoreo dall'alto di un minareto, il presidente Mattarella, Conte e
quattro ministri (Speranza, Lamorgese, Bonafede e Gualtieri)
annunciarono che cessava l'efficacia delle restrizioni imposte per
quasi due mesi e via via inasprite per contenere la propagazione del
contagio da Covid-19, ma vietarono ai cittadini di spostarsi prima del
2 giugno “in una regione diversa rispetto a quella in cui attualmente
ci si trova”. È pur vero che era stato preceduto da bozze, brogliacci,
sussurri e grida e che in molti avevano ormai programmato l'intera
settimana; nondimeno va stigmatizzata l'incapacità del governo di
parlare chiaro e per tempo, anziché considerare i cittadini come
pupazzi da mettere in moto girando una chiavetta conficcata nella
schiena. Ora il Governatore della Liguria, Giovanni Toti, ha deciso di
rendere comunicanti almeno i comuni frontalieri. Ancora una spallata e
finalmente le province liguro-piemontesi torneranno a vivere
quali sono: una realtà unitaria. Altro preme evidenziare.
L'articolo 8 subordina “le manifestazioni, gli eventi e gli spettacoli
di qualsiasi natura con la presenza del pubblico, ivi compresi quelli
di carattere culturale, ludico, sportivo e fieristico, nonché ogni
attività convegnistica o congressuale, in luogo pubblico o aperto al
pubblico, alle modalità dettate dall'art. 2 del precedente
decreto-legge n. 12 del 2020”. Il legislatore, insomma, si rincorre, si
auto-certifica, si auto-celebra e vorrebbe auto-protrarsi sino al 30
gennaio dell'anno venturo. Da Conte le “manifestazioni” sono consentite
nel rispetto delle condizioni riservate allo “svolgimento” delle
funzioni religiose. Un devoto di Padre Pio da Pietrelcina meglio
scriverebbe che le funzioni religiose non “si svolgono” ma “si
celebrano”. Ma non è il caso di spaccare in quattro ogni capello dei DL
e dei DPCM, quasi unanimemente giudicati capolavori di disordine
linguistico e soprattutto concettuale. Stiamo ai fatti. Il DL tace
completamente sui “circoli culturali”, che sono altra cosa dalle
“manifestazioni”. Essi sono all'origine della cultura, come il clero e
i fedeli sono i fondamenti delle celebrazioni liturgiche. Ma questo
presidente e questo governo, intrisi di paleo-materialismo, ignorano il
prima e il poi, il basso e l'alto, le priorità filosofiche e ideali e
le loro connessioni con la quotidianità. Chi voglia comprendere il
ruolo dei circoli culturali dispone di decine di metri di scaffali
gonfi di libri, memoriali, biografie... Fresco di stampa, si è aggiunto
ora il corposo volume “Incontro con la massoneria: cento anni fra
squadra e compasso” di Arnaldo Francia (Torino, Arti Grafiche
Tricerri), portolano che percorre secoli di intreccio tra lo Spirito e
la Pietra. Per capire la rotta tenuta da Sua Emergenza e
dalla maggioranza che lo sorregge è ancora più interessante il DPCM di
domenica 17 maggio. In altri Atti governativi sono state richiamate
norme dell'età vittorioemanuelina a cominciare dal Regio decreto 14
aprile 1910, n. 639. Nell'ultimo decreto presidenziale, dopo vari altri
richiami il professor Conte stabilisce che “lo svolgimento delle
manifestazioni pubbliche è consentito soltanto in forma statica (…)
nelle prescrizioni imposte dal questore ai sensi dell'articolo 18 del
Testo unico di pubblica sicurezza di cui al Regio decreto 18 giugno
1931, n. 773”. In mancanza di meglio, l’esecutivo odierno continua a
farsi forte di una tra le leggi più famigerate del governo Mussolini,
varata dopo l'azzeramento della libertà di stampa e di ogni
opposizione, l'instaurazione del regime di partito unico, il ripristino
della pena di morte, il bavaglio alla libertà non solo di espressione
ma, se possibile, di pensiero attraverso l'organizzazione di una
macchina repressiva fondata su delazione, spionaggio, asservimento
degli spiriti. Quell'anno ai pubblici impiegati statali e degli enti
locali fu imposto il giuramento di fedeltà al “duce”. Sorto quale
Patria delle libertà, con quel Testo unico l'Italia divenne “Stato di
polizia”: è paradossale che le sue tenaglie roventi vengano usate
ancora oggi per “disciplinare”. Il preludio fu la
soppressione dei circoli culturali e ricreativi non allineati alle
direttive di un regime che l'anno successivo si celebrò con la Mostra
nel Decennale dell'“Era fascista”, nella convinzione che, in vario modo
benedetto, sarebbe durato nei secoli. Quei circoli spesso non erano che
riunioni di amici affratellati nel tempo non già da uniformità di
vedute ma, all'opposto, dal piacere di confrontare i diversi punti di
vista, di corrispondere con analoghi sodalizi all'estero, di pensare in
europeo. Non per caso Benedetto Croce pubblicò in breve la Storia
d'Italia e quella d’Europa. Era il modo pacato di ricordare che
l'Italia non si era unificata per caso ma su impulso di minoranze
colte, orgogliose del passato prossimo e remoto della Saturnia Tellus e
al tempo stesso proiettate verso l'Universo. La creatività di quei
circoli consisteva anche nella “libertà di circolazione” dei loro
componenti, perennemente in viaggio nei secoli dei Grands Tours, di
esplorazioni coincidenti con iniziazioni. I sodalizi italiani
(Accademie e circoli privati) a loro volta erano meta di visitatori
insigni, come Goethe che in Italia venne perché bisogna conoscersi di
persona per cementare la foscoliana “eredità di affetti”. Di
tutto ciò non vi è traccia nelle logorroiche “informative” da Sua
Emergenza dispensate alle Camere, né nei sermoni impartiti agli
italiani: misto di esortazioni, buffetti e minacce, quasi siano
seminaristi di età pre-conciliare. Inconsapevole delle ritorsioni che
ci riserveranno gli altri Stati, il professore-presidente si è spinto
persino a dire dove i cittadini debbono “andare in vacanza”. Tra breve
detterà se e come potranno spogliarsi quando vanno in spiaggia o
indossare giacche a vento sui monti, quante bracciate o falcate
potranno fare, vegliati sempre dall'OVRA-BA col supporto di droni e
sanzionati da Militi dediti a rieducare giornalmente cittadini
altrimenti inconsapevoli di sé. Azzolina e la morte della Scuola Clone
perfetto di Sua Emergenza è la ministra della Pubblica Istruzione
Azzolina Lucia. Le di costei roride gote sono speculari alle chiome or
composte ora con ciuffo al vento dell'Avvoltoio appulo. In comune hanno
anche la casualità del loro Avvento nei cieli d'Italia. Dai dettagli
biografici salendo alla sua funzione, di Azzolina si sa che, conseguite
due lauree, docente in un istituto qualunque e militante in un
sindacato scolastico, eletta deputata sotto il segno delle Cinque
Stelle, trentottenne senza infamia e senza gloria essa ascese al
governo su proposta di Conte per dimissioni del predecessore; ma il
dicastero venne “spacchettato”: Università e Ricerca andarono a Gaetano
Manfredi, presidente della conferenza dei Rettori. A lei rimase la
Scuola dagli asili ai diplomi. L'Istruzione era il
Grande Malato, come un tempo si diceva dell'Impero turco-ottomano. E
tale sarebbe rimasta in tempi ordinari: edifici inadeguati, poche
palestre, centomila e più precari e, ciò che più differenzia l'Italia
dagli altri Paese dell'Unione europea, con salari miserabili, del tutto
insufficienti a consentire l'auto-aggiornamento dei docenti e a
incoraggiare giovani di belle speranze a intraprendere la via
dell'insegnamento: una carriera “piatta”, senza incentivi né
valorizzazione del merito. Se le aggressioni a medici nei pronto
soccorsi almeno fanno notizia, quelle ai docenti sono ormai rubricate
come incidenti del mestiere, come i fischi e gli insulti agli arbitri. Anche
senza pandemia e al di là dei suoi pregi personali, Azzolina non aveva
i requisiti né i mezzi per mettere ordine nella babele scolastica.
Chiudere in tutta fretta le scuole sine die, con riti conclusivi
all'insegna del “fai da te” per terze medie e maturità, è stata una
decisione sciagurata e imperdonabile. È impossibile valutare se tale
misura abbia o no salvato vite umane. Di sicuro ha accoppato la
credibilità del sistema scolastico italiano e lascia presagire un anno
scolastico 2020-2021 all'insegna del caos, tra agitazioni di studenti e
loro famiglie (anche i genitori più distratti hanno già aperto gli
occhi sul baratro), scioperi di docenti e fuga di presidi (pardòn,
“dirigenti”), ai quali Azzolina fa sapere che non scaricherà sulle loro
spalle “tutte” le responsabilità della catastrofe, quasi già non ne
siano gravati. A ormai solo tre mesi effettivi dall'inizio del nuovo
anno, le premesse della catastrofe ci sono tutte: la distanza
incolmabile tra numero di allievi e capienza delle aule secondo le
norme “anti-contagio”, l'impraticabilità dell'insegnamento “a distanza”
a livello nazionale, “isole comprese”, la nebulosità di un serio
Progetto Scuola. Per ora assistiamo al balbettio di esperti che dicono
e si contraddicono e all’inadeguatezza di una ministra che si trova a
fare i conti con una montagna di guai insoluti (sindacati, concorsi,
precariato…), al vertice di un Ministero che da anni si cullava nella
consolante previsione della decrescita felice per riduzione demografica
degli allievi: non per febbri influenzali transitorie ma per il crollo
delle nascite. Per la Scuola e per i circoli del libero pensiero questi mesi costituiscono l'Anno Zero.
Aldo A. Mola
Immagine:
La ministra Azzolina e l'Imbuto, nella profetica “Estrazione della
pietra della follia” di Hieronimus Bosch (1460 ?- 1516)
CONTRO LA MASSONERIA LA PRIMA LEGGE “FASCISTISSIMA” (1925)
Editoriale
di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della
Liguria” di domenica 17 Maggio 2020, pagg. 1 e 11.
La vera emergenza è “lo Stato in Emergenza” Ma
davvero leggi, ordinanze e circolari vanno eseguite e rispettate con
religiosa devozione? Se così fosse saremmo ancora al trapassato remoto,
proni a Poteri via via implosi per corrosione interna o travolti perché
non più rispondenti al “comune sentire”, cangiante nel tempo e nei
luoghi. Questa considerazione, apparentemente banale
invero, si impone a cospetto del diluvio di “norme” da quattro mesi
deliberate dal governo, dal presidente del Consiglio, Sua Emergenza
Conte, da ministri (quali la dottoressa Lamorgese e l'on. Speranza) e
via via discendendo per li rami. Ora l'INAIL pretende di imputare al
datore l'eventuale contagio da Covid-19 del proprio dipendente: ciò
sulla base della presunzione che esso sia avvenuto sul luogo di lavoro
e non, magari, altrove e per chissà quali altre promiscuità. Ciò
costituirebbe un precedente del tutto abnorme, anche perché privo di
qualunque fondamento scientifico e di “prove” attendibili. Potrebbe
valere per qualunque malattia, quasi che una persona, succuba del
“negriero”, si ammali solo durante le ore di lavoro e non quando, nel
tempo libero, va a fare bisboccia con chi gli pare. “Le
leggi son, ma chi pon mano ad esse?” fa dire Dante Alighieri da
Marco Lombardo dinnanzi alla servitù dell'Italia, prona ai famelici
disegni “stranieri” e alla pochezza dei suoi “signori” locali, quasi
sempre peggiori degli altri. La questione, oggi, non è di “porre mano”
alle leggi, ma di passarle al setaccio per separare la farina di quelle
buone dalla crusca delle oscure, farraginose, insensate e, in sintesi,
“cattive”: parecchie da molti anni. Queste, anche se recenti, vanno
abrogate alla svelta prima che la loro inapplicabilità e il rifiuto di
piegarsi alla loro stolida tirannia salgano sino a divenire sfiducia
totale nei confronti del legislatore e di una “legalità” da tempo in
manifesto conflitto con i capisaldi della Costituzione. Se la Carta
segna un prima e un poi nella storia d'Italia e, in quanto tale, è la
cornice nella quale si riconoscono i suoi cittadini, quale ne sia la
loro opinione sulla forma dello Stato, il primo a doverne rispettare i
“principi fondamentali” dev'essere appunto il legislatore, che è
e rimane il Parlamento. Infatti “l'esercizio della funzione legislativa
non può essere delegato al governo se non con determinazione di
principi e criteri direttivi” e soltanto “per tempo limitato e per
oggetti definiti”, mentre il governo “adotta provvedimenti provvisori
con forza di legge” solo “per delegazione delle Camere” e “in casi
straordinari di necessità e di urgenza”. Quando discussero
e approvarono gli articoli 76-78 della Carta, con una visione unitaria
della loro concatenazione, i costituenti avevano ben presente che
dall'agosto del 1917, molto prima di Caporetto, gran parte dell'Italia
settentrionale fu dichiarata “zona di guerra”, perché manifestamente
infetta da sobillazioni rivoluzionarie, come accadde a Torino. Tale
misura comportava l'adozione della legge marziale, con quanto ne
discendeva per il controllo di luoghi e persone, e l'impiego del codice
penale militare, come sarebbe accaduto il 28-29 ottobre 1922 se
Vittorio Emanuele III non avesse saggiamente rifiutato di decretare lo
stato d'assedio, dal momento che la crisi extraparlamentare grazie a
lui stava imboccando la via istituzionale. Guerra, rivolte e catastrofi
naturali sono casi straordinari di necessità e urgenza. La diffusione
di un morbo per sua natura non lo è perché quando assume carattere di
epidemia o viene dichiarata pandemia ha superato i confini dell'urgenza
e va affrontata con misure vaste e durevoli, l'opposto di quanto è
avvenuto in Italia, ove da mesi dura l'improvvisazione.
Ora, dopo centoventi giorni dal primo tardivo
“allarme” lanciato da Sua Emergenza (all'epoca poco convinto e mai
convincente), urge il ritorno all'articolo 70 della Costituzione: “La
funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere” e
dagli “organi ed enti ai quali sia conferita da legge costituzionale”
(le Regioni). Va pertanto fermato il proposito ventilato dal prof.
Conte di protrarre lo stato di emergenza per altri sei mesi, magari a
suon di decreti presidenziali o di decreti legge in “vacanza” delle
Camere o per loro svaporamento nell'esercizio delle funzioni.
L'emergenza sanitaria, enfatizzata oltre misura, non può degenerare e
sboccare in uno “Stato in emergenza permanente” se non mettendo a
rischio la democrazia parlamentare sopravvissuta alla decomposizione e
alla scomparsa dei partiti del CLN (i cui acronimi suonano oscuri a
giovani e meno giovani: DC, PCI, PSI, PLI, PdA, DL), agli “anni di
piombo” (ne ha scritto recentemente Gianni Oliva) e alle ripercussioni
degli ondivaghi pronunciamenti dell'elettorato sulla governabilità del
Paese. Mussolini, artefice del regime di partito unico All'inizio
del “regime di partito unico”, cioè del “fascismo” come esercizio del
potere da parte del “capo del governo”, vi fu una legge approvata dalle
Camere: passaggio al quale Benito Mussolini non si sottrasse, perché,
gli piacesse o meno, per lo Statuto Albertino (come poi per la
Costituzione della Repubblica) erano esse fonte del diritto. Ma il
“duce del fascismo” (movimento? rivoluzione? regime? gli storici sono
ancora divisi al riguardo, ma si veda almeno la trilogia di Roberto
Vivarelli sulle origini del fascismo) riuscì nell'intento di estorcere
l'assenso del Parlamento usando metodi brutali per piegarlo ai suoi
disegni, nell'apparente continuità statutaria. Per giungervi mirò a
isolare il Re, a tarparne l'esercizio palese della funzione, ad
avvolgere la monarchia nelle nebbie delle organizzazioni di massa
allestite per oscurare i pilastri portanti dell'Italia unita (le Forze
Armate e l'ordine giudiziario) con la Milizia volontaria per la
sicurezza nazionale, con le organizzazioni para-fasciste e con la
fascistizzazione di quelle di antica data, dapprima neutre ma da un
certo momento in poi contaminate dall'aggiunta sistematica
dell'aggettivo “fascista”. Questo inizialmente fu accettato o subìto
quale orpello esornativo ma via via divenne scorza per separare i
cittadini buoni dai cattivi, gli allineati col regime dagli altri. Quel
processo si sostanziò in oltre tre milioni di tesserati al partito
(quando nel 1942 esso raggiunse l'acme del “consenso”) e una decina di
milioni di associati al “Dopolavoro” e alla pletora di enti, istituti e
sodalizi debitamente ornati dalla fatidica “F”. Così accadde, per
esempio, che per assicurarsi una supplenza in una scuola di Saluzzo il
giovane Cesare Pavese chiese la tessera del PNF mentre Ada Gobetti,
vedova di Piero, obtorto collo rimediò l'iscrizione all’Associazione
“fascista” degli insegnanti, che comportava vantaggi nella vita
quotidiana per chi da Torino doveva raggiungere la cattedra al liceo di
Savigliano. Poste dinnanzi all'alternativa tra fascistizzazione e
difesa della propria identità, molti sodalizi scelsero
l'auto-scioglimento. Fu il caso del Circolo 'L Caprìssi di Cuneo, che
contava centinaia di associati liberi, di buoni costumi, mai proni. L'incipiente
regime di partito unico sapeva di dover fare i conti non solo con la
Monarchia (nel cui ambito il governo Mussolini fu sempre come il meno
nel più: se n'ebbe conferma il 25 luglio 1943) ma anche con due Entità
metastoriche: la Chiesa cattolica e la Massoneria. Con la Santa Sede il
duce avviò una composizione disputante. Iniziò con il salvataggio del
vaticanesco Banco di Roma nel 1923 e approdò ai Patti Lateranensi l'11
febbraio 1929. Questi non furono affatto “Conciliazione”, se per tale
s’intende convergenza di amorosi sensi, ma segnarono i confini tra
Stato e Chiesa, tra il Regno d’Italia e lo Stato della Città del
Vaticano: preludio di tensioni, anche aspre, quanto più il regime mirò
ad andare oltre l'amministrazione dei corpi, puntò al possesso delle
anime ed entrò in collisione con l'Azione Cattolica e la FUCI,
Federazione Universitaria Cattolica Italiana, vivaio della classe
dirigente postbellica, prevalentemente democristiana, alternativa ai
Gruppi Universitari Fascisti (GUF), che contarono nelle loro file
Giorgio Bocca e Leonilde Jotti. Nei confronti dell'altra
Entità metastorica, la Massoneria, Mussolini puntò alla soluzione
perseguita da quando nel 1914 fece espellere i “fratelli” dal Partito
socialista italiano, nella cui ala rivoluzionaria militava. Era sicuro
che il suo annientamento sarebbe stato gradito all'altra riva del
Tevere. Perciò la genesi e il varo della “legge contro la Massoneria”,
che occupò l'intero 1925, merita più attenzione di quella sinora
dedicatagli dalla storiografia, ordinariamente riluttante a occuparsi
della Setta Verde. Mentre all'Università di Cuba esistono da anni
Istituti e cattedre di storia della massoneria e in Costa Rica non ci
si occupa solo di ananas e banane ma anche di esoterismo, misteriosofia
e massonismo, in Italia il tema rimane un tabù, tra sussiegosa
irrisione e allarmato sospetto verso chi se ne occupa non in termini
apologetici ma scientifici. Il 16 giugno 1925: unica sconfitta di Mussolini... Il
17 maggio 1925 i quotidiani uscirono a titoli cubitali. Contro tutte le
previsioni, il giorno prima la ormai famosa “legge contro la
Massoneria” non era stata approvata dalla Camera dei deputati,
presieduta da Antonio Casertano, originariamente socialisteggiante,
massone e infine fascista. Fu l'unica bruciante sconfitta parlamentare
di Mussolini nei ventun anni dal novembre 1922 alla sua destituzione da
capo del governo. Il duce s'infuriò anche perché, sicuro del trionfo,
aveva presenziato alla seduta e era intervenuto ripetutamente nel
dibattito. Che cosa accadde? Quasi al termine della seduta, dopo una
serqua di leggine irrilevanti, la Camera approvò l'ammissione delle
donne alle elezioni dei consigli comunali e provinciali: una vittoria
di Pirro per i fautori del voto femminile, poiché pochi mesi dopo
quegli stessi organi furono sostituiti da podestà e “prèsidi” (poi
governatori), di nomina governativa o prefettizia. La legge fu
approvata da 212 deputati sui 242 presenti; 28 votarono contro, due si
astennero. Subito dopo si aprì la vera partita del giorno: la
discussione preliminare della “regolarizzazione di Associazioni, Enti e
Istituti e sull'appartenenza ai medesimi del personale dipendente dallo
Stato, dalle province, dai comuni e da enti sottoposti per legge alla
loro tutela”. Poiché al termine dell'esame generale fu astutamente
chiesta la votazione per appello nominale prima del passaggio alla
discussione degli articoli, il segretario della Camera, Angelo
Manaresi, iniziò a far votare partendo dal deputato Amato Di Fausto,
ragioniere, estratto a sorte. Al termine della “chiama”, il presidente
prese atto che la Camera non era in numero legale per deliberare. Il
verbale non dice quanti abbiano risposto. Di certo erano anche meno dei
242 di poco prima, un numero molto lontano dai 535 deputati in carica.
Anche a non contare le opposizioni (socialisti, repubblicani, popolari,
democratici seguaci di Giovanni Amendola: arroccati sul cosiddetto
“Aventino”, un colle politicamente sterile), balzò agli occhi l'assenza
compatta dei liberali e, scandalosa per Mussolini, anche di molti
fascisti. Il “Serpente Verde”, come la Libera Muratorìa era detta dai
massonofagi, ancora una volta aveva affondato i suoi denti avvelenati
nelle carni di chi la voleva morta? Un puntuale confronto
tra i presenti e l'elenco dei deputati fascisti in carica e assenti
giustificati non è mai stato compiuto. Di sicuro a favore della legge
votarono fascisti di spicco certamente massoni, anche se da tempo “in
sonno”, cioè non più usi a frequentare le logge. Fu il caso di Giacomo
Acerbo, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, di Italo Balbo e
di Edmondo Rossoni, tutti affiliati alla Gran Loggia d'Italia, e di
Alessandro Dudan, Roberto Farinacci e Achille Starace, iniziati al
Grande Oriente d'Italia. Tra i massoni “di passo” e da tempo in congedo
votarono Giuseppe Bottai e Araldo Crollalanza, entrambi della Gran
Loggia. La seduta del 16 maggio 1925 rimase memorabile per
l'elevato tenore degli interventi svolti dallo storico Gioacchino
Volpe, dal paleo-fascista Massimo Rocca, dal clericale Egilberto
Martire e soprattutto da Antonio Gramsci, secondo il quale la
massoneria era stata il partito della borghesia e quindi sarebbe
divenuta un'ala del fascismo che ne era l'espressione sorta dalla
guerra. Votò contro la legge non per simpatia verso le logge ma perché
essa preludeva al regime di partito unico attraverso il divieto dei
partiti di opposizione, incluso il partito comunista d'Italia,
depositario della rivoluzione del proletariato. Nel suo intervento, in
linea con la Terza Internazionale di Mosca, ispirata da Lenin e
Trotzky, Gramsci implicitamente precorse la condanna dei riformisti
come social-fascisti. ...e la sua rivincita e “orma profonda”. Il
19, debitamente rimessa in linea, la Camera approvò la legge da tutti
detta “contro la Massoneria” anche se nel suo titolo la “parolaccia”
non compariva. La partita si spostò in Senato, presieduto da Tommaso
Tittoni (sospettato di affiliazione massonica), ove i “patres” in
camicia nera erano una minoranza esigua e sembrava prevalere la
tradizione liberal-risorgimentale, laica e tollerante, condivisa dalla
Corona. Come venirne a capo? Mussolini adottò le maniere forti.
Ripresero gli assalti squadristi alle logge, che furono saccheggiate,
mentre callidi camaleonti ne asportarono gli archivi per far sparire la
traccia della loro affiliazione. Il colpo da maestro fu pilotare
l'organizzazione dell'attentato a Mussolini da parte dell'ingenuo Tito
Zaniboni (mai massone), il 4 novembre. L'indomani il generale Luigi
Capello, alto dignitario del Grande Oriente, fu arrestato a Torino per
supposta ma mai provata complicità con Zaniboni. Seguì un'impennata di
attentati alle logge e di delitti, mentre ministro dell'Interno era il
nazional-fascista Luigi Federzoni, da sempre massonofago. La canaglia
invocò l'immediato ripristino della pena di morte per gli antifascisti. Dopo
tre giorni di dibattito il Senato approvò. Contro la legge parlarono
Benedetto Croce e Francesco Ruffini, docente insigne di diritto
ecclesiastico. Fu il canto del cigno del liberalismo italiano. Non
intervennero senatori massoni, come Salvatore Barzilai, per non
incattivire il duce. Quella “timidezza” indignò i “fratelli di base”
che temevano di finire cacciati dagli impieghi, malmenati, costretti
all'esilio. Fu una pagina buia della storia d'Italia.
Ignorando o fingendo di non sapere, Mussolini continuò a circondarsi di
massoni “capaci e meritevoli” sia del Grande Oriente sia della Gran
Loggia d'Italia. La libertà della ricerca umanistica ne rimase
pesantemente condizionata. La plurisecolare Accademia dei Lincei
cedette il passo all'Accademia d'Italia. Con le leggi razziali del 1938
avvenne di peggio. Tornò in auge l'autore di
Giudaismo-bolscevismo-plutocrazia-massoneria, uno spretato che nel 1920
pubblicò per primo in Italia I protocolli dei Savi anziani di Sion. Ma
va detto che anche oggi, con i decreti-legge governativi e quelli di
Sua Emergenza si riaprono bar, ristoranti, palestre e piscine e si
spalancano le porte dei centri estetici ma non quelle dei centri
culturali. E' il segno più emblematico della distrazione di massa
inoculata nella società italiana dal regime emergenziale, con effetti
che solo alcuni presaghi intuiscono. Per gli altri, la stragrande
maggioranza, di cultura e di libertà dello spirito poco importava
prima, poco importerà domani. Sul Parlamento che si piegò
supino al diktat massonofago del “Truce” scende lapidario il brocardo
(che vale anche per altri o altre comparse dei giorni nostri): “Coactus
voluit, sed voluit”. La sua connivenza col fascismo pertanto non può
essere considerata “nulla”, anche se poi venne “annullata” dalla
riscossa antifascista. La legge del 1925 fu approvata da persone
consapevoli delle loro azioni e di quanto ne sarebbe derivato. Essa
rimane una macchia indelebile nella storia del Parlamento.
L'antimassonismo ha poi proiettato la sua ombra lugubre sui tre quarti
di secolo che separano l'Italia odierna dalla fine del regime di
partito unico. Anche in questo Mussolini ha lasciato “orma profonda”,
più di quanto solitamente si ammetta.
Aldo A. Mola
Foto:
Copertina dell'opuscolo La Massoneria. Accuse, difese, critiche,
giudizi (Roma, Libreria Politica Moderna, 1925) comprendente scritti di
Mussolini e dei Grandi maestri Ernesto Nathan e Domizio Torrigiani.
CENTENARIO COLLASSO DELLA SCUOLA, VORAGINE DEL DEBITO PUBBLICO COME MORÌ IL LIBERALISMO IN ITALIA (1919-1920)
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 10 Maggio 2020, pagg. 1 e 11.
Il fratricidio “Ho
sempre considerato Mussolini come un avversario e Giolitti come un
nemico”. Lo scrisse Francesco Saverio Nitti (1868-1953) nelle
Meditazioni dell'esilio, vergate durante l'“internamento” da parte dei
tedeschi a Hirschegg, in Austria, e pubblicate nel 1947, dopo vent'anni
di vita all'estero. Da alcuni venerato come capofila dell'“antifascismo
democratico”, con quelle parole Nitti mise a nudo le radici profonde
del fallimento politico suo, del microcosmo che lo sorresse al governo
nel 1919-1920 e della tabe che ormai aveva corroso dall'interno il
“liberalismo all'italiana”: un nido di serpenti, pronti ad allearsi con
chiunque, anche l'avventuriero più antidemocratico qual era Mussolini,
pur di annientare il “nemico interno”. Ai danni di Giovanni Giolitti lo
aveva già fatto Antonio Salandra nel 1915. Roma nacque dall’assassinio di Remo da parte di Romolo. Da lì il fratricidio discese per li rami… e colpisce ancora. Socrate non usò la teledidattica Prima
dello Stato vi è l'uomo. Prima della “disciplina” vi è la libertà. Dopo
mesi di ponzamenti, il ministero della Pubblica istruzione emana
ordinanze sugli esami finali della scuola secondaria inferiore (“terza
media”) e di quella superiore (“maturità”). Un'unica certezza:
insufficienti o meno, gli studenti “passeranno la nottata”: tutti
promossi. Saranno esaminati in diretta o “da remoto”. Di sicuro alla
debita distanza. La “prova” durerà poco. I ragazzini si faranno
precedere da una tesina entro fine maggio (all'opera, genitori!). Gli
altri siederanno un'oretta davanti al sinedrio dei loro docenti. L'articolo
34, comma 2, della Costituzione recita: “i capaci e meritevoli, anche
se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli
studi”. Già. Ma con gli esami alla maniera della ministra Azzolina e
dei suoi esperti chi stabilisce quali siano gli allievi capaci e
meritevoli e, soprattutto, chi li rintraccia nella pletora di ragazzi
che non hanno il personal computer né un tablet o se li hanno non
vengono raggiunti dalla “banda” perché la telecomunicazione è stata
abbandonata dallo Stato a interessi voraci che vanno dove li porta il
profitto e se ne infischiano delle genti periferiche, reiette ai
confini dell'impero di internet? E' lo stesso Stato che finge di avere
ferrovie, poste e persino una compagnia aerea che ha dissanguato anche
chi non ha mai volato. Una furbata, come quella delle banche che stanno
chiudendo filiali e sportelli e lasciano interi comuni senza neppure un
bancomat. Va male, va malissimo. Ma andrà peggio
quando, sull'onda di una “moda” estemporanea propiziata da Sua
Emergenza Conte Giuseppe e dai suoi accoliti, si decidesse che la
teledidattica dovesse primeggiare sulla scuola vera: quella “in carne e
ossa”, tra quei banchi che, come fossero una antica compagnia di
ventura o una trincea della Grande Guerra, per secoli hanno cementato
amicizie durate una vita. Ai turibolanti
dell'insegnamento “a distanza” ricordiamo che la filosofia
“occidentale” ha per cardine l'ateniese Socrate (369/70-399 a.Cr.).
Cultore dei sofisti (come Protagora e Gorgia), Socrate non “insegnò”,
non dettò mai formulette: sapeva di non sapere, ascoltava, dialogava,
confutava, ricercava. La conoscenza per lui non era predica,
catechismo, imbonimento, ma indagine. Perciò dava fastidio. Venne
condannato a morte dai suoi ottusi concittadini, primo martire della
libertà di pensiero e di coscienza. Ne furono interpreti il sommo
Platone, che da Atene si allontanò guardingo per non subire analoga
sorte, e Aristotele. Tra esoterismo ed essoterismo ammise l'esistenza
di un Dio, ma come motore immobile: di modo che gli uomini non
potessero imputargli la colpa delle loro bestialità, tante nei millenni
e tuttora innumerevoli, perché dai guai sopraggiunti o commessi nel
passato, cioè dalla Storia, gli uomini poco o nulla apprendono. Perciò
essa non è magistra vitae se non per chi la frequenta. A conferma,
Conte, i “suoi” ministri e i cosiddetti governatori hanno
nominato una fungaia di “esperti” comprendenti di tutto tranne che
storici, filosofi, pedagogisti. Vivesse oggi, di sicuro Socrate ne
sarebbe escluso; forse, invece, verrebbe insediata sua moglie Santippe,
anche per appagare Lilli Gruber. È dalla grande guerra che l'Italia affoga nei debiti Nel
1926 il governo Mussolini concluse l'accordo per restituire agli Stati
Uniti d'America il prestito ottenuto per fronteggiare la Grande Guerra.
Il debito era enorme; ma nulla rispetto a quello che Roma doveva ad
altri “alleati”, generosi nel concedere, esosi nel sollecitare il
saldo. L''Italia s'impegnò a versare il dovuto con rate semestrali per
i successivi 60 anni, sino al 1987. Nel 1941, sempre al potere,
Mussolini dichiarò guerra agli USA. Forse fu una decisione imprudente. Lasciamo
al lettore curioso accertare quanto ne derivò per il debito pubblico
contratto dall'Italia nella seconda guerra mondiale, a parte le rovine
materiali di un Paese che per cinque anni subì bombardamenti e per due
fu teatro di una guerra guerreggiata dalla Sicilia alle Alpi come non
se ne vedevano da quella tra bizantini e ostrogoti, che la
desertificarono. Chi oggi vocifera di Piano De Gasperi anziché di Piano
Marshall dovrebbe ricordare l'imbarazzo di De Gasperi quando venne
fotografato in America con in mano l'assegno per la Ricostruzione (in
cambio di quanto sappiamo: ne ha scritto Nico Perrone in saggi
documentati). Nitti l'economista: un cattedratico al governo... L'ascesa
di Nitti a presidente del Consiglio il 23 giugno 1919 nacque dalle sue
personali qualità di studioso di economia e finanza, dalle buone prove
date da ministro con Giolitti (1911-14) e con Vittorio Emanuele Orlando
(1917-gennaio 1919) e soprattutto dal disastro del governo precedente,
presieduto da Orlando con Sidney Sonnino agli Esteri. Al congresso
della pace di Parigi, malgrado il supporto di Salvatore Barzilai e di
un modesto seguito di consiglieri, irrilevante rispetto alle centinaia
di tecnici messi in campo dagli altri Paesi, a cominciare dagli Stati
Uniti d'America, la delegazione italiana si condusse con manifesta
incapacità. Dinnanzi al rifiuto della richiesta di Fiume in aggiunta ai
compensi previsti dall'accordo di Londra del 26 aprile 1915, essa
abbandonò i lavori. Il presidente degli USA, Wilson, rispose esortando
direttamente gli italiani a darsi una regolata. La replica di Roma
cadde nel vuoto. Al governo non rimase che riprendere la via
francigena. Come ha scritto efficacemente Valerio Perna, acuto studioso
di storia della diplomazia, Orlando e Sonnino ignorarono i profondi
cambiamenti introdotti dalla Rivoluzione russa, dall'intervento degli
USA, dal crollo di quattro imperi e dalla costituzione della Lega delle
Nazioni. Pensavano di usare ancora la moneta vecchia nei tempi nuovi.
Rientrata a Roma, la delegazione ebbe la sconfessione più bruciante. Il
governo venne sfiduciato dalla Camera dei deputati. Da presidente,
Nitti tenne per sé l'Interno. Come narra il suo biografo, Francesco
Barbagallo, si valse del fedelissimo segretario, Giuseppe Magno. Gli
Esteri andarono al giolittiano Tommaso Tittoni, presto sostituito da
Vittorio Scialoja. Paradossalmente, il 28 giugno 1919 Orlando e Sonnino
rappresentarono l'Italia alla firma del Trattato di Versailles benché
non fossero più al governo. In tal modo ebbero sulle spalle il passivo
del trattato: la delusione per la mancata assegnazione di Fiume. ...di un Paese nel caos Guazzabuglio
di correnti, clan regionali e clientele personali, la Camera si era
spesso mostrata cinica e spietata, soprattutto quando tirava vento di
elezioni. Quella in carica nel giugno 1919 era stata eletta nel remoto
29 ottobre 1913. Risultò la più durevole e meschina della storia
d'Italia. Approvò tutto quello che non voleva (a cominciare
dall'intervento in guerra e dal conferimento al governo di poteri
legislativi “in caso di guerra”), salvo vendicarsi alla prima
occasione. Nel giugno 1916 sfiduciò Salandra e così fece col suo
successore, Paolo Boselli, il 25 ottobre 1917, quando a Roma i deputati
ancora nulla sapevano della sconfitta di Caporetto e del forzato
ripiegamento dell'Esercito. Prima di essere sciolta, la Camera sguazzò
nelle roventi polemiche suscitate dalla malvagia “Inchiesta sugli
avvenimenti dall'Isonzo al Piave (24 ottobre-9 novembre 1917)” (nota
come “Inchiesta su Caporetto”), usata quale atto d'accusa nei confronti
dei vertici militari (Luigi Cadorna,comandante Supremo; Carlo Porro,
suo vice; Luigi Capello, comandante della II Armata...). A metà agosto
approvò la masochistica legge elettorale che introdusse il riparto dei
seggi in proporzione al numero dei voti ottenuti dai partiti nelle 54
circoscrizioni del regno. Eletta per la prima volta a suffragio quasi
universale maschile, ma con lo scudo dei collegi uninominali, quella
Camera mostrò nei fatti quanto sia fatuo il diritto di voto se
non esprime una dirigenza all'altezza del compito che le viene affidato
dai cittadini. Il 10 settembre a Saint-Germain l'Austria,
sorta dalla dissoluzione dell'impero asburgico, sottoscrisse il
trattato di pace con le potenze vincitrici, Italia inclusa. Fiume
rimase qual era. Il 12 vi irruppe Gabriele d'Annunzio che ne rivendicò
l'annessione all'Italia chiesta sin dal 29-30 ottobre 1918 dal
consiglio comunale fiumano eretto in Consiglio nazionale. Il governo di
Roma sconfessò l'“impresa”, preparata da una cordata di militari e da
una rete di massoni delle due comunità, il Grande Oriente e la Gran
Loggia d'Italia, decisamente osteggiate dalle massonerie dei paesi
alleati. Il settantottenne Giolitti, già quattro volte
presidente del Consiglio, tramite il conterraneo Facta aveva invano
esortato Orlando a indire le elezioni nella primavera del 1919,
nel clima della vittoria da poco conseguita e prima che ne emergesse
l'onerosissimo costo. Caddero nel vuoto analoghi suggerimenti fatti
pervenire a Nitti. Le elezioni ebbero luogo il 16 novembre in un clima
avvelenato, dominato dalla contrapposizione tra socialisti, dilaniati
in correnti ormai incompatibili (estremisti decisi a “fare come in
Russia” e “moderati” come Filippo Turati e Claudio Treves), cattolici
del neonato Partito popolare italiano, allestito da don Luigi Sturzo,
liberali “costituzionali” e fautori accesi della repubblica. Anche il
gran maestro del Grande Oriente, Domizio Torrigiani, si pronunciò per
la costituente (fatalmente repubblicana) e caldeggiò un partito del
lavoro per mediare tra il bolscevismo e la borghesia, a suo giudizio
ormai avvizzita. La fantasia al potere... Al
disordine delle idee si accompagnò quello della vita pubblica e
sociale, fra scioperi a getto continuo, occupazione di terre e un
rimpasto ministeriale senza crisi vera e propria (14-22 marzo 1920).
Economista di vaglia e autore di saggi apprezzati anche all'estero,
Nitti tentò di spostare il confronto politico dall'interno allo
scenario internazionale, la cui dinamica, però, non era alla portata
dell'Italia. Lo si era constatato nelle conferenze diplomatiche di
Londra e di Sanremo che nei primi mesi del 1920 segnarono la
spartizione dell'impero ottomano e dei domini coloniali germanici tra
Francia e Gran Bretagna, con l'Italia spettatrice. La
guerra, con 15 milioni di morti per cause belliche dirette, e
l'epidemia detta “spagnola” (il cui bilancio continua a oscillare tra i
20 e i 50 milioni di vittime) insegnarono poco o nulla. I governi
rimasero egoisti e arroccati nella strenua difesa dei propri interessi.
Il Congresso degli USA rifiutò di ratificare la pace di Versailles.
Wilson fu condannato al repentino tramonto. La lega delle Nazioni, in
vigore dal 10 gennaio, ridotta a espressione degli appetiti preminenti
di Londra e di Parigi, perse rapidamente di credito. Nitti
resse sino a quando gli riuscì di nascondere la verità: lo spaventoso
debito pubblico contratto dall'Italia per fronteggiare la guerra. Dopo
due militari di valore (il contr'ammiraglio Giovanni Sechi alla Marina
e Alberico Albricci alla Guerra) dal 14 marzo titolare della Guerra fu
l'ex socialriformista e poi “democratico” Ivanoe Bonomi, ritenuto
massone anche dalla Santa Sede, ma senza prove documentarie.
Sicuramente affiliati al Grande Oriente erano invece vari
sottosegretari di Stato, quali Andrea Finoccchiaro Aprile, Alberto La
Pegna, Bortolo Belotti, Bartolomeo (Meuccio) Ruini e altri, disseminati
in ministeri chiave (Guerra, Giustizia, Tesoro, Industria e commercio),
un “partito” all'interno della macchina statuale. I nazionalisti e
Mussolini prendevano nota. ...e il ritorno all'Ordine L'11
maggio 1920 il governo Nitti venne sfiduciato alla Camera da
socialisti, popolari, destra liberale: “per lo sfacelo dello Stato e di
ogni disciplina morale” commentò Filippo Turati, dimentico che si pecca
per pensieri, atti e omissioni. Nitti aveva sempre omesso di appoggiare
con franchezza il liberale Giolitti, l'unico statista capace di
resuscitare l'Italia dalle rovine. Dopo frenetiche quanto vane
consultazioni (tanti sono pronti ad abbattere, pochi disposti ai
sacrifici della ricostruzione), Vittorio Emanuele III, consultati
invano il cattolico Filippo Meda e Bonomi, incaricò nuovamente Nitti,
che formò un governo snello comprendente democratici, popolari (come
Giulio di Rodinò alla Guerra) e massoni, subito messi sotto processo
dal Grande Oriente, contrario alla collaborazione con i cattolici. Però,
a differenza di quanto era accaduto nel 1908 questi ultimi non vennero
condannati né “bruciati tra le colonne”, ma solo perché poche settimane
dopo Nitti venne nuovamente sfiduciato. A quel punto il Re incaricò
Giolitti che il 16 giugno “prese le consegne” del potere in una sobria
cerimonia al Quirinale. Da anni lo statista aveva pronto il
programma. Lo aveva enunciato dall'agosto 1917, ripetuto il 12 ottobre
1919, ribadito altre volte: abolire il prezzo politico del pane,
risanare il debito pubblico (quasi 90 miliardi contro i 13
dell'anteguerra: una voragine), eliminare gli sprechi, ripristinare
l'ordine dei servizi e il senso dello Stato. Giolitti non ebbe mai
alcuna cattedra universitaria. Non si atteggiò ad economista. Per
capire gli bastavano le peregrinazioni nel suo vecchio Piemonte, misto
di orgoglio e di onesta povertà, e le sgambate per Roma, bastone in
mano e senza scorta. Vedeva, capiva. Andava in ufficio alle 9, ne
usciva alle 12 per una refezione; vi tornava alle 15 e ne usciva alle
19 o 20. Cenava e alla moglie, Rosa Sobrero (“Gina”), scriveva “di
salute sto bene”: appetito e sonno regolari. Nitti, invece, vi andava
all'alba e ne usciva a notte avanzata. All'Istruzione Giolitti chiamò
Benedetto Croce, quintessenza del liberalismo italiano di statura
europea. Il filosofo (apprezzato dallo statista che lo trovò “di buon
senso”) impostò la rinascita dell'Italia sulla serietà della Scuola,
anzitutto sull'istruzione scientifica e tecnica. Sui banchi si
formano i cittadini e la loro classe dirigente. Il napoletano Croce,
uso a passare le vacanze in Piemonte, di tanti apprendisti a docenze
universitarie e di aspiranti politici soleva dire “hai fatto, hai fatto
e non hai fatto niente”. Il V governo Giolitti, che merita apposita
memoria, fece quanto possibile per risanare il Paese gravato dalla
morte di 680.000 maschi adulti per cause di guerra, di circa 600.000
vittime della “ febbre spagnola” e da un debito pubblico che un secolo
fa lo privò di vera indipendenza e dal quale non si risollevò alzando
fasci littori e vantando otto milioni di baionette. I fatti
sono ostinati. Quelli di un secolo fa dovrebbero aprire gli occhi
sull'Italia di oggi e di domani, nella cauta previsione di due anni di
convivenza con la pandemia. Che fare dunque? Anzitutto rivendicare la
libertà di circolazione inter-regionale, l'abitazione delle case di
proprietà, quante esse siano e ovunque siano, e di rialzare la prora
verso la vita perché, dopotutto, questo morbo non è nulla rispetto a
quanto abbiamo saputo fare nel secolo delle guerre mondiali, dei campi
di sterminio, del lancio delle atomiche (non solo sul Giappone ma nella
miriade di esperimenti a cielo aperto) e di centrali nucleari un po'
difettose. Il peggio potrebbe ancora venire.
Aldo A. Mola
FOTO: Giovanni
Giolitti (Mondovì, 1842- Cavour, 1928), anziano, per le vie di Roma.
Cinque volte presidente del Consiglio e ministro dell'Interno
passeggiava svelto e senza scorta. Amava la libertà per gli italiani; e
anche la sua.
SU CONTE DA VOLTURARA VOLTEGGIA L'OMBRA CUPA DI SALANDRA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 3 Maggio 2020, pagg. 1 e 11.
Crisi di sistema L’emergenza
sanitaria precipita in crisi di sistema. Lacera il tessuto sociale.
Investe le istituzioni. Da decenni la “politica” è scesa di molti
gradini nell'interesse dei cittadini. Lo documentano due fatti
inoppugnabili. In primo luogo il crollo dell’affluenza ai seggi, scesa
al di sotto del 50% anche in elezioni regionali e persino comunali, le
più sentite. Presidenti di regioni e sindaci rappresentano un quarto o
meno degli amministrati. I presidenti delle province sono gufi
impagliati che spesso non vedono come sono ridotti gli edifici
scolastici e le strade di cui rispondono. In secondo luogo la
lontananza, vieppiù lacerante, tra le istituzioni e il Paese. Ne è
specchio la logorroica auto-apologia pronunciata giovedì 30 aprile da
Giuseppe Conte alla Camera e al Senato. Tutto ha detto il presidente
del Consiglio, di sé e per sé, tranne un pur misero cenno all'incipit
della Costituzione: “L'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”.
Ancora una volta ha rimediato il presidente della Repubblica, Sergio
Mattarella, che per viatico del 1° maggio ha esortato ad affrontare i
“ritardi antichi”, riecheggiando i “vizi originari” del Paese deplorati
dal suo predecessore Giorgio Napolitano anche nel 150° del Regno
d'Italia. Se mai nella “festa del lavoro” fossero sfilati cortei, vi
avrebbero fatto ala i volti impietriti di imprenditori, cassintegrati,
disoccupati e dei disperati in cerca di un lavoro qualunque (anche in
nero se non si ritorna almeno ai “voucher”) e ormai alla fame, che è
sempre pessima consigliera. A risalire la china non basta la pioggia di
redditi di cittadinanza, elemosine, prestiti mascheranti partite di
giro (“tanto ti do, tanto mi restituisci, e con interessi”), di congedi
parentali per mettere toppe private alla mancanza di una seria politica
per le famiglie. Riaprire le fabbriche a inizio maggio e promettere
“micro-asili” da giugno per i bambini da 3 a 6 anni la dice lunga
sull’acclarata incapacità del governo di programmare e fronteggiare
l'urgenza. Procede a strappi, a segmenti, ignorando gli italiani da 6 a
14 anni, quelli fino ai 18 e via via per classi di età sino ai
vituperati “anziani”. La crisi, dunque, investe tutto e
tutti. Anzitutto i “ludi cartacei”, come “Buonanima” definì le
elezioni. Durante il suo non rimpianto regime si registrò la massima
partecipazione al voto, perché bisognava “credere, obbedire,
combattere”: ritornello in questi tempi riecheggiato da chi
retoricamente dice che “siamo in guerra”. E poi i “tornei oratori”
nelle Aule parlamentari: esibizione di parole e gesti “ad usum” dei
telespettatori, cioè dell'esigua minoranza che ancora cerca il bandolo
di una matassa troppo ingarbugliata. Come ha ricordato Matteo Renzi,
tempestivo interprete del malessere serpeggiante nel paese, i cittadini
non si attendono un uomo della provvidenza né un capo dai pieni poteri.
Ne hanno già avuti abbastanza. Attendono che le istituzioni facciano
quello che compete loro, senza travalicare il limite di legge e dando
prova di “senso dello Stato”, che poi è solo elementare buon senso,
come insegnò il più grande statista italiano dall'unità a oggi,
Giovanni Giolitti. Diversamente il sistema è condannato a crollare di
schianto, come accadde agli Stati pre-unitari, corrosi al loro interno
e sprofondati nell'abisso che essi stessi avevano generato. Conte, figlio dell'Emergenza Sua
Emergenza Giuseppe Conte, classe 1964, avvocato, docente universitario,
è presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica italiana.
Com'è potuto accadere? Che cosa accadrà? Il saggio di Miguel Gotor su
“L'Italia nel Novecento” (Einaudi) offre una robusta cornice. Per
focalizzare la scena odierna occorre fare un passo indietro: il
fallimento della riforma della Costituzione “siglata” da Maria Elena
Boschi e propugnata da Matteo Renzi. Il progetto mirava a salvare il
“sistema”, ma risultò aggrovigliato e confuso, in specie su natura e
scopi del Senato. Fu affossato dal referendum del 4 dicembre 2016.
Renzi si dimise l'indomani. Il suo successore, Paolo Gentiloni, in
carica dall'11 dicembre, ebbe il merito di traghettare il paese sino
alle elezioni del 4 marzo 2018 senza traumi. Il quadro partitico, già
segnato da profonde crepe, ne uscì sconvolto. Il Movimento 5 Stelle
ispirato da Beppe Grillo conquistò 222 deputati su 630 ed elesse
capogruppo Giulia Grillo. La Lega ne contò 125, il Partito democratico
111, Forza Italia 104, Fratelli d'Italia 32. Il gruppo “misto”, come la
Zattera della Medusa, aggregò 14 deputati di Liberi e Uguali, esponenti
di gruppi minori, antieuropeisti e europeisti, chierici vaganti e
altri, già sotto le insegne del M5S ma poi reietti. Dopo
quei ludi cartacei iniziò la crisi più lunga della Repubblica. Il
centro-destra (Lega, Forza Italia, Fratelli d'Italia) si propose quale
coalizione di governo. Invano. “In alto” venne sommessamente osservato
che esso non aveva la maggioranza dei seggi alla Camera. Non era saggio
mandarlo a procacciarsi i voti mancanti tramite manovre oscure prima
della fiducia dell'Aula. Tra Pentastellati e Lega iniziò la laboriosa
trattativa conclusa con il “Contratto per il governo”: un “patto” tra
partiti comprendente clausole del tutto incostituzionali (quali, tanto
per memoria, l'esclusione dal governo di chi risultasse massone, quasi
fosse appestato) e una sorta di “gran consiglio” delegato a dirimere in
sede extraparlamentare eventuali différends tra i “soci”. Il 21 maggio
2018 la “ditta” M5S-Lega propose a Mattarella di nominare presidente
del Consiglio Giuseppe Conte. Chi era costui? Carriera forense e
accademica a parte, il 27 febbraio il capo politico dei 5S, Luigi Di
Maio, lo aveva ventilato ministro della Pubblica amministrazione (ruolo
oggi ricoperto da Fabiana Dadone, pentastellata, cebana, laureata in
legge). Incaricato di formare il governo, il 27 maggio Conte cozzò
contro il rifiuto del Quirinale di nominare Paolo Savona ministro
dell'Economia e delle Finanze. Sulle orme di Giorgia Meloni, Di Maio
minacciò di incriminare Mattarella per tradimento della Costituzione.
Per tenersi in forma il M5S adesso interdice il Quirinale, ora per
allora, alla presidente della Corte Costituzionale prof. Cartabia, rea
di sostenere che il presidente del Consiglio ha “funzioni legislative”
solo “per tempi limitati e per oggetti definiti” (art. 76 della Carta).
Il capo dello Stato affidò la formazione di un “governo tecnico” a un
economista, Carlo Cottarelli, che poche ore dopo rinunciò poiché era
miracolosamente risorta la “possibilità di un governo politico”.
Nuovamente incaricato (31 maggio), Conte accettò “senza riserva” e
presentò la lista dei ministri, comprendente quali vice presidenti il
segretario della Lega, Matteo Salvini, ministro dell'Interno, e Di
Maio, ministro dell'Industria e dello Sviluppo Economico, con Savona
alle Politiche comunitarie. La navicella del governo prese
il largo fra tensioni quotidiane dei suoi vogatori. Il navarca Conte
subì umiliazioni pubbliche, masticò amaro ma resse sino a quando il 9
agosto 2019, in un raptus mai spiegato, Salvini annunciò la sfiducia al
governo (senza però lasciare la carica) e spalancò una voragine
(governi “al buio”, elezioni emotive...) nella quale il sistema rischiò
di precipitare. Fu Matteo Renzi a salvare il salvabile. Prospettò la
coalizione di diversi, dagli affetti per nulla stabili: M5S, Liberi e
Uguali (ai quali non parve vero di divenire partito di governo) e
Democratici, il cui segretario, Nicola Zingaretti, non è neppure
deputato: sorte curiosa per il partito che accomuna la tradizione di
grandi esponenti parlamentari quali Palmiro Togliatti, Enrico
Berlinguer, Achille Ochetto, da un canto, e Alcide De Gasperi, Aldo
Moro, Benigno Zaccagnini, dall'altro. Mattarella incaricò
Conte di formare un nuovo governo, che si insediò il 5 settembre.
Basata su numeri abbastanza ampi alla Camera ma risicati al Senato,
divisa nei presupposti e nelle prospettive ultime (i Pentastellati
erano e rimangono intrinsecamente anti-sistema), l'alleanza fu ed è
“condannata” a durare per la sua minorità elettorale nel Paese, come
mostrato dalle consultazioni che si sono susseguite dal rinnovo degli
eurodeputati (maggio 2019) sino ai consigli regionali di Umbria,
Calabria ed Emilia Romagna: tormentoni enfatizzati oltre ogni
opportunità. Le ultime (dagli esiti diversi: al successo del piddino
Stefano Bonaccini in Emilia e Romagna si contrappose quello della
forzista Jole Santelli in Calabria) furono celebrate il 26 gennaio
2020. Era appena ieri, eppure sembra un'era geologica fa. Qual era
l’agenda politica in quel momento? Conte, soci di governo, opposizioni
e “media” già si struggevano in vista del rinnovo di consigli regionali
e comunali in calendario per il resto dell'anno, nonché del referendum
confermativo sulla riduzione dei Parlamentari, fissato per il 29 marzo.
Era la via maestra per distrarre l'attenzione dai problemi del giorno.
La produzione industriale andava male, i debiti non esigibili dalle
banche pure, il malcontento cresceva. Il governo studiava le alchimie
più sofisticate per aggiralo e tacitarlo, anziché per dare risposte
concrete. Poi d'improvviso il Paese fu da un vento rapito.
Ma non prese affatto a volare. Dovette iniziare a fare i conti con
l'epidemia, un mese e mezzo dopo classificata pandemia a sgravio di
responsabilità nazionali. Mentre dai videoschermi dispensava futili
assicurazioni sulla preparazione dell'Italia a fronteggiarla, Conte
mise le mani avanti con la memorabile delibera del Consiglio dei
ministri del 31 gennaio 2020, con la quale, ignari Parlamento
(colpevolmente distratto) e cittadini in spasimante attesa del Festival
di Sanremo, il governo si prese sei mesi per decretare ad libitum. Dopo
i decreti legge vennero introdotti sino alla nausea quelli del
Presidente del Consiglio e di ministri vari, talora validi per pochi
giorni. Salandra, figlio di Tròia Conte
nacque a Volturara (detta Appula per distinguerla dall'omonima Irpina),
sparuto villaggio sui colli della Daunia (nome di un'antica loggia cara
al neognostico Carlo Gentile: “I Dauni costanti nel dovere”). Da lì la
strada verso est conduce a Lucera, ove Federico II di Svevia stanziò la
sua più fedele guardia del corpo, islamica. Lucera è un simbolo ed è
anche un bivio: o per Foggia o per Tròia, la città nativa di Antonio
Salandra (1853-1931), un notabile dalla lunga carriera politica (per il
Mulino ne ha scritto con eleganza il suo biografo, Federico Lucarini).
Dopo traversie e tappe che qui non mette conto narrare, giurista di
fama, autore di opere insigni, sottosegretario di Stato alle Finanze
con Rudinì e Crispi, ministro con Pelloux e Sonnino, nel marzo 1914
Salandra fu nominato presidente del governo da Vittorio Emanuele III su
consiglio del suo predecessore, Giolitti. Con la
gratitudine tipica di uno dei dodici apostoli, come ha scritto Luigi
Compagna nell'acuto saggio “In guerra contro Giolitti” (ed. Rubbettino)
Salandra si prefisse un obiettivo precipuo: annientare lo statista
piemontese, fargli terra bruciata all'intorno, cacciarlo da Roma. A
offrirgli la grande occasione furono la conflagrazione europea e il
cammino “lento pede” dall'alleanza con gli Imperi Centrali a quella con
l'Intesa, sconsideratamente sottoscritta a Londra il 26 aprile 1915.
Essa impegnò l'Italia a entrare in guerra contro “tutti” i nemici entro
30 giorni dalla firma. Già a inizio marzo Salandra aveva avuto un
sussulto lacerante: il governo non aveva il sostegno del Parlamento, né
la certezza dell'accordo con l'Intesa né, tanto meno, il placet del
taciturno Capo dello Stato. Dopo vicende talmente
aggrovigliate che non possono essere riassunte in poche righe, il 13
maggio 1915 il governo rassegnò le dimissioni perché sulle sue
“direttive nella politica internazionale” mancava “il concorde consenso
dei partiti costituzionali richiesto dalla gravità della situazione”:
figurarsi quello degli anti-sistema (repubblicani e socialisti). Ma il
17 seguente, avuto il reincarico, Salandra approntò il disegno di legge
per avere la “delegazione di poteri legislativi in caso di guerra e per
l'esercizio provvisorio”. Il 20-21 ottenne la fiducia dalle Camere, pur
contrarie alla guerra. Sotto “ricatto morale” esse non votarono
l'intervento ma eventuali poteri straordinari. Il trucco funzionò. Così
Salandra ebbe mano libera per dichiarare la guerra, ma, con doppiezza,
lo fece solo contro l'impero austro-ungarico, in violazione
dell'accordo di Londra, alimentando così la diffidenza dei nuovi
alleati. Con lungimiranza analoga a quella mostrata dal
governo Conte che è rimasto sostanzialmente inerte dal 31 gennaio al 23
febbraio 2020, l’esecutivo del 1914-1915 non provvide alle urgenze
dell'esercito, nella stralunata convinzione che la guerra si sarebbe
chiusa prima dell'autunno. Non armi, non munizioni, non cavalli, non
vestiario per l'inverno. Il Comandante Supremo, Luigi Cadorna,
tempestava quotidianamente il governo di richieste, che lo lasciava
senza risposte. Nel maggio 1916 gli austro-ungarici
lanciarono la spedizione di primavera per alleggerire la pressione sul
fronte sud. Il re chiese personalmente allo zar di Russia di attaccare
da est l'esercito nemico. Nicola II aderì. Nel frattempo Cadorna non
solo fermò la “spedizione punitiva” ma in pochi giorni spostò
segretamente la massa critica sul fronte est e lanciò l'offensiva
conclusa con la liberazione di Gorizia. Che cosa escogitò Salandra? La
convocazione di una sorta di “consiglio di guerra” comprendente egli
stesso, il ministro degli Esteri Sonnino e una pletora di “politici” e
di “esperti” per imbrigliare il Comandante Supremo. Cadorna rifiutò
seccamente. Benché all'oscuro delle manovre di un presidente in caccia
di consensi e di plausi a sostegno del “sacro egoismo” e della sua
convinzione di essere entrato da protagonista nella Storia, la Camera
lo mise in minoranza. Costretto alle dimissioni, non tornò mai più al
potere. Gli subentrò la compagine presieduta da Paolo Boselli, succubo
delle fazioni parlamentari. L'ombra di Salandra aleggiò a lungo
sull'Italia. Oggi è monito per il suo conterraneo. “El Condor pasa...” Per
dirla con Alessandro Manzoni, qual è il “sugo” di quella vicenda? La
politica è arte di governo. In una democrazia parlamentare essa non si
basa sull'arroganza, sulla furbizia. È responsabilità. Governare
richiede senso dello Stato, che è anzitutto – ripetiamo – buon senso,
capacità di ascolto, dedizione al Paese. Virtù che non si apprendono
sfogliando le pandette. Ora, nessuno mette in dubbio la
buona volontà di alcuni ministri del governo attualmente in carica, né
la buona fede di quanti gli hanno dato e magari ancora gli daranno
fiducia “a emergenza in corso”. Però due considerazioni s’impongono. La
prima è che per fronteggiare la crisi l'esecutivo ha varato misure
tardive e poco efficaci a contenere il virus e altre certamente in
grado di limitare – talora in modo illegittimo – le libertà
costituzionali dei cittadini. La seconda è che il governo nella
sostanza ha demandato la responsabilità d’individuare i presupposti di
quelle stesse misure a “esperti” nominati ex post in numero esorbitante
con “ritorni” di dubbia utilità. Quando il 24 maggio 1915
l'Italia entrò nella “fornace ardente” il Re, capo delle forze di terra
e di mare, andò da Roma al fronte (anzi,“alla fronte”, come scriveva
Cadorna) e vi rimase ogni giorno per vedere, capire, incoraggiare.
Partiva la mattina per i segmenti più disparati delle battaglie e lungo
itinerari noti a lui solo, consumava due uova sode e un'insalata seduto
a terra con gli ufficiali del seguito, assisteva agli assalti, più
volte scampò le bombe nemiche anche, si disse, per le sue qualità
rabdomantiche. Non visse la guerra nella solitudine del Quirinale, ove,
anzi, la Regina Elena organizzò l'Ospedale Territoriale n. 1 per curare
feriti gravissimi. L'Italia sopravvisse ai governi
Salandra, Boselli e Orlando. Resse anche alla sconfitta (non disfatta
né rotta) di Caporetto e infine vinse. Alzava il tricolore con lo scudo
sabaudo come ha ricordato il generale Oreste Bovio nella sua esemplare
Storia dell'Esercito italiano. La Stella d'Italia splendeva
in un cielo azzurro terso, ben diverso da quello del maggio 2020, che
ha poco di “radioso”, gonfio di cumuli forieri di grandinate e solcato
da sinistri battiti d'ali...: quelle dell'avvoltoio. Volturara
Appula, sito natio di Conte, trae nome da “voltur”, un rapace della
famiglia degli accipitridi. Scaltro, audace, arrogante, orgoglioso del
collaretto di penne sotto il collo pelato, occhio quasi aquilino,
micidiale becco rostrato e schiocco raggelante, quell'uccello ha il
fascino del predatore che si pasce di teneri agnelli e di carogne.
Aldo A. Mola
Francisco
Goya, “Saturno divora i suoi figli”. Il 30 aprile Matteo Renzi,
fondatore di Italia Viva, ha annunciato la dissociazione dalla deriva
populista del governo che più ogni altro concorse a far nascere nascere
nell'agosto 2019.
QUO VADIS ITALIA? SCUOLA VERA PER TUTTI
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 26 Aprile 2020, pagg. 1 e 11.
Scambio alla pari... In
cambio di qualche mascherina certificata, guanti usa e getta e di un
“gel”(buono anche per i capelli) prestiamo al prof. avv. Conte
Giuseppe, ai “suoi” ministri (come esso usa dire), in specie ad
Azzolina Lucia e ai loro multiformi esperti, un Bignami di storia, un
atlante d'Italia e una copia di “Pedagogia come scienza filosofica” di
Giovanni Gentile (1913). I destinatari dell'omaggio perdoneranno se
sono due volumi, usati, con segni a margine. Valutato all'estero
massimo filosofo italiano del Novecento, Gentile fu assassinato a
Firenze da un partigiano comunista il 15 aprile 1944. Le sue opere a
lungo rimasero “all'indice”. Ancora oggi scriverne è “politicamente
scorretto”. Però in questi tempi di forzata clandestinità Conte,
Azzolina, Colao Vittorio (classe 1961: sulla soglia dei fatidici 60
anni e quindi prossimo a “scadenza”) et alii potrebbero utilmente
sfogliare di nascosto quest'opera dalle idee antiche ma sempre attuali:
la centralità della Scuola per uno Stato civile. Come nota a pie' di
pagina suggeriamo quanto nel 1978 Philippe Ariès scrisse nell'
Enciclopedia diretta per Einaudi da Ruggiero Romano: “La
scolarizzazione della società risponde ai nuovi bisogni di una nuova
famiglia, e se la sua estensione è stata in effetti favorita dai poteri
e dai partiti politici, essa è stata resa possibile dalla complicità e
dalla collaborazione delle famiglie”. Tragico ma vero. Andiamo per ordine. Il primato della pedagogia e della didattica: scuola dell'anima” Un
tempo l'Italia vantò un primato nelle scienze dell'educazione. Fu culla
dell'Umanesimo e del Rinascimento. In epoche di drammatico degrado ebbe
protagonisti ordini religiosi specialmente dediti al recupero e
all'istruzione di bambini e adolescenti. Tra i molti, meritano memore
gratitudine San Filippo Neri e San Giuseppe Calasanzio (1557-1648),
spagnolo d'origine e fondatore delle scuole popolari, breviter Scolopi
(ne fu allievo Giosue Carducci, sempre sodale del suo maestro, “Cecco
Frate” e di padre Barsanti, inventore del motore a scoppio). La chiesa
tridentina era cattolica. Poi seguì la durissima lotta contro l'
“Ordine di Loyola”. Ne ha scritto Gianpaolo Romanato nel succoso saggio
“Gesuiti, guaranì ed emigranti nelle Riduzioni del Paraguay” (ed.
Longo). Dopo l'Illuminismo, che gareggiò con le età precedenti proprio
sul terreno delle scienze e delle arti, nell'Occidente euro-americano
la Pedagogia visse secoli d'oro. I maggiori filosofi (Hegel, Fichte,
Shelling, Krause:due su quattro sicuramente massoni...) posero al
centro l'uomo. Si susseguirono pedagogisti celebri a partire, per
esempio, dal “fratello” Pestalozzi. L'Ottocento fu il banco di prova
dell'educazione, tutt'uno con la moltiplicazione degli Stati nazionali.
Quelli già esistenti ribadirono i loro primati. La Francia camminò nel
solco di Napoleone I. Nei “collegi” della Gran Bretagna a suon di
vergate venne forgiata la dirigenza dell'Impero vittoriano. Gli Stati
nuovi nacquero da progetti educativi propri. Fra questi spiccò l'Italia
di Antonio Rosmini, Terenzio Mamiani e del lungo treno di politici
impegnati a giustificare l'unificazione politica in nome del “Progetto
Italia”. I dibattiti parlamentari su scuola, istruzione ed educazione
furono sempre di livello eccelso. Michele Coppino, otto volte ministro
dell'Istruzione nell'arco di vent'anni e promotore dell'istruzione
elementare obbligatoria e gratuita, interrogò l'Aula sul dilemma
angosciante: la Scuola ha il dovere di “istruire” (grammatica,
matematica, storia, geografia, potare e innestare gli alberi,
igiene...); ma ha anche il diritto di “educare”, di imporre un “abito”
al futuro cittadino? Non era un dubbio da poco mentre gli Stati si
armavano, si studiavano in cagnesco, si preparavano a scagliarsi gli
uni contro gli altri in duello mortale, come poi avvenne nella guerra
dei Trent'Anni del 1914-1945, conflitto tra opposte “concezioni del
mondo”, razzismo incluso (che non fu un'invenzione di Hitler ma covava
da più di un secolo). Gentile a parte, la Nuova Italia non
ebbe né “filosofi” né “pedagogisti” di fama universale. Nulla di
paragonabile alla nutrita serie degli idealisti tedeschi e di Herbart,
dei positivisti francesi (che iniziarono come revisionisti del
cristianesimo con Saint-Simon e finirono addobbati da chierichetti in
libera uscita, come Bartolomeo Prospero Enfantin). Ebbe però una
schiera di persone serie come Gino Capponi, Raffaello Lambruschini e
tanti uomini e donne che unirono pensiero e azione: più didattica, meno
astruserie, più cura dei bambini quali sono. Nel loro novero spiccò
Maria Montessori. Il fulcro del dibattito fu e
rimase il rapporto tra il bambino e il futuro cittadino. Il repertorio
dei ministri della Pubblica istruzione della Terza Italia indica il
livello culturale dei suoi titolari. Si confrontavano con i
sistemi educativi degli altri Stati e con l'altra riva del
Tevere: gli scrittori della “Civiltà cattolica” e l'Università
Cattolica fondata da padre Agostino Gemelli (1878-1959), nato in
ambiente massonico e anticlericale, laureato in medicina a Pavia,
trascorso al cattolicesimo, studioso delle avanguardie di psicoanalisi
e psicologia sociale fiorenti negli Stati Uniti d'America. Da pedagogia e didattica ad “amministrazione” Che
cosa rimane di quel retaggio? Nel dopoguerra la Scuola italiana si
affrettò a tradurre Dewey, rincorse Piaget e brancolò nel bosco
incantato di modelli stranieri, persino di ispirazione sovietica. Lo
ricorda Maria Corda Costa in un nitido panorama della pedagogia nel
Novecento. D'altronde quale progetto pedagogico unitario potevano
esprimere i governi del Comitato di liberazione nazionale che andavano
da Benedetto Croce a Palmiro Togliatti? Chi oggi retoricamente dice che
bisogna “tornare allo spirito del 1945” dimentica che all'epoca le
parti in conflitto non raggiunsero alcuna sintesi superiore, ma
solo un armistizio. Eliminata la monarchia, la Costituente nacque dal
rinvio del “regolamento dei conti” da parte degli opposti fronti. Dopo
i successori di Gentile (Giuseppe Belluzzo, Balbino Giuliano e Giuseppe
Bottai: tutti e tre massoni) all'Istruzione si susseguirono Leonardo
Severi, Giovanni Cuomo, Guido De Ruggiero, Vincenzo Arangio Ruiz ed
Enrico Molè. L'Istruzione ebbe ministri pensosi ma presto imboccò la
china discendente. Le ultime leggi organiche sulla Scuola
italiana risalgono agli Anni Settanta del Novecento: hanno mezzo
secolo: norme sugli edifici e sull'amministrazione, non sul dilemma
Istruzione/Educazione. La “politica” rinunciò tacitamente a enunciare
un Progetto. Dalla pedagogia e dalla didattica la Scuola ripiegò sulla
mera “amministrazione”. Gestì stipendi. Uno dei suoi titolari, che
ambiva a un dicastero “di spesa”, lamentò (non solo in privato) di
essere stato nominato “ministro dei bidelli”. Del resto, una scorsa
all’elenco dei titolari dell'Istruzione la dice tutta sulla possibilità
(non la capacità: è altra cosa) che essi potessero varare e realizzare
una “politica”. Dopo il quinquennio di Guido Gonella e i due anni di
Antonio Segni, a Viale Trastevere si susseguirono persone anche degne
(come Franca Falcucci e Sergio Mattarella), ma solo per breve durata:
nove diversi ministri tra il 1953 e il 1960. Dal 1968 al 2001 si
alternarono 22 titolari, i più per pochi mesi: appena il tempo di
capire quale disastro dovessero governare. La mercificazione della “missione” La
sindacalizzazione del personale docente ridusse la missione docente a
mestiere, pessimamente remunerato. Imperversò l'assillo di ridurre il
numero degli istituti scolastici in base alle classi e agli iscritti.
Poi i “presidi” furono classificati “dirigenti”. In cambio di propine
mortificanti molti vennero gravati della responsabilità di scuole
disperse sul territorio, dai requisiti sempre più estranei alla loro
competenza specifica. L'Istruzione decadde a variabile dipendente dalle
“circostanze”. Non sorprende che dallo scorso febbraio in
Italia siano state chiuse di schianto le scuole di ogni ordine e
grado, come bar, ristoranti, rivendite di articoli non essenziali, e
che sia esplosa la retorica dell'insegnamento “a distanza”. Una
televisione, un computer, un cellulare: un “progetto” sessant'anni
orsono messo a punto dall'ONU per “alfabetizzare” il Quinto Mondo con i
mezzi dell'epoca. E con risultati ben noti. Vedremo nel tempo quelli
del metodo Conte-Colao-Azzolina. Nel 1975 Igino
Vergnano, un professore torinese di talento, autore di un robusto
manuale di educazione civica, pubblicò opere di vasto respiro per la
nuova scuola. Tra le molte spicca “Il problema della società educativa.
Atlante bibliografico di scienze dell'educazione”, aperto con una
citazione di Dewey: “Quello che i genitori migliori e i più saggi
desiderano per il proprio figlio, la comunità deve desiderare per i
suoi ragazzi”. Ma questa “comunità italiana” che cosa vuole davvero
oggi per i suoi ragazzi? Bastano insegnamenti “a distanza” e
arruolamento di “baby sitter” per consentire ai genitori di lavorare
senza ricorrere ai mortificanti “congedi parentali”? Manifestamente
succubo dell'emergenza sanitaria il governo mira a ghettizzare gli
“anziani”e ignora i “bambini”. Ma ha un'idea dell'Italia, dei suoi
cittadini e dei loro diritti non negoziabili? Quale risposta dà
al dovere dell'Istruzione? Da qui a settembre mancano appena quattro
mesi. Di sicuro le sedi scolastiche non saranno affatto in grado di
assicurare lezioni “regolari” (cioè “a norma covid-19”) a otto milioni
di scolari e di studenti e a un milione di docenti e “amministrativi”,
con tanti saluti all'“itala gente da le molte vite” proprio nel
150° di Porta Pia. Questa Repubblica non potrà addossare l'opacità del
suo governo all'età monarchica. E' affar suo. I confini interni dell'Italia A
Conte va donato anche un atlante d'Italia, magari con corredo di carte
dell'Istituto Geografico Militare di Firenze, in modo che ne veda con
chiarezza i particolari. Lo esortiamo a farne copie per i tanti
“esperti” presenti e futuri, da lui chiamati a dar consigli su cose che
dimostrano di non conoscere, a cominciare dai confini tra regioni,
province, comuni. Premesso che le demarcazioni delle
regioni attuali non ricalcano quelle degli Stati preunitari va
osservato che in molti casi esse hanno radici in eventi storici remoti,
oggi ignoti ai più, e pertanto di rado rispondono a criteri oggettivi,
non facilmente decifrabili. Dall'età di Augusto, quando l'Italia venne
ripartita in undici regioni (Sicilia, Sardegna e Corsica, da due secoli
e mezzo francese, non erano nel novero), alla nascita del Regno
d'Italia (1861) e al suo completamento (1918-1924) i confini regionali
sono mutati. Per esempio, il Vecchio Piemonte si fermava a Vercelli. Le
conquiste sabaude del Settecento (Alessandria, Novara...) hanno creato
un “Piemonte” molto diverso dall'originario. Dal 1861 le ripartizioni
in gran parte sopravvissero solo perché nel Regno d'Italia le “regioni”
erano solo “dipartimenti”, distinti per meri fini statistici, senza
alcuna ricaduta sulla giurisdizione e quindi senza vincoli per i loro
abitanti. L'Italia era Una, Libera e Forte. In alcuni casi i confini
furono rettificati ma senza alcun dramma. Senza
perderci nei dettagli della storia dei confini amministrativi, la rete
autostradale, giusto orgoglio del lungo e da decenni tramontato
“miracolo italiano”, ignorò le demarcazioni regionali. Doveva servire
agli italiani, nonché al traffico internazionale e poi
intercontinentale. Tra le conferme, valga la Parma-La Spezia che parte
dall'Emilia, attraversa un tratto della Toscana e sfocia in Liguria,
con buona pace per i divieti immaginati dal dottor Colao Vittorio e dai
suoi sedici compagni di task force, contrari agli spostamenti
interregionali. Al momento urge invece ripristinare proprio
la libertà di circolazione dei cittadini tra il Piemonte e le regioni
confinanti. Ed è vitale, in particolare, consentire gli spostamenti tra
le province meridionali piemontesi e la Liguria. Piaccia o meno,
quest’ultima si avviò alla sua vera unità solo dal 1814, con
l'annessione al Piemonte sabaudo. È stata largamente ripagata con la
rete di infrastrutture che di due regioni hanno fatto un unicum. Valgano
d'esempio la ferrovia Torino-Alessandria-Genova voluta da Cavour; la
linea Cuneo-Ventimiglia-Nizza quasi completata in età giolittiana; la
“camionabile” Serravalle Scrivia-Genova e l'“autostrada” Ceva-Savona:
altrettante tappe della crescita civile ed economica dell'intera area.
Tra Genova e Ovada, cioè dal Mar Ligure al Piemonte, vi sono appena 40
chilometri. Non per caso l'ampia plaga tra Alessandria e Asti è la
piattaforma logistica del porto di Genova. Che senso ha vietare la
circolazione tra due regioni che a ben vedere sono una sola? Lo stesso
vale tra Piemonte e Lombardia, del Lombardo-Veneto e via via scorrendo
lungo la penisola. Ritardare, ostacolare o, addirittura,
punire la circolazione dei cittadini tra regioni diverse non
significa solo conculcare una libertà costituzionalmente garantita:
vuol dire andare contro la Storia, intralciare l'economia e penalizzare
gli sforzi compiuti nei secoli per promuovere l'integrazione del tra
l'Italia e i paesi confinanti. Ed è un ostacolo alla “ripresa” di cui
l'Italia ha urgenza. Il Paese intero deve guardare al di là
dell'emergenza e di farsi sentire a Roma come a Bruxelles. Il diavolo si nasconde nei dettagli... delle “seconde case” Per
settembre o a ottobre si annunciano elezioni regionali e comunali, con
il consueto abusivo esproprio degli edifici scolastici a beneficio dei
seggi (dai quali non sempre vengono eletti i più saggi). È ormai chiaro
a tutti che fino ad allora lo Stato, abdicando ai propri doveri,
“scaricherà” ancora sulle famiglie gran parte del “fardello”
dell'istruzione. Occorre dunque affrontare subito e in termini pratici,
non ideologici e di stucchevoli schieramenti governo/opposizione,
l'utilizzo delle “seconde case”, ovunque esse si trovino, da parte di
famiglie che da due mesi vivono stipate in abituri spesso del tutto
inadeguati al “soggiorno coatto” di cinque-sei persone in 50-60 metri
quadri, spesso privi di balconi e di “doppia aria”. Francamente
non si vede perché, chi può farlo, non possa trasferirsi in tutta o in
parte (sono affari privati) dalla “abitazione principale” in altra casa
di proprietà, grande o piccola sia, tanto più che per le “seconde
case”, avite o frutto di sudati risparmi, i proprietari pagano tributi
salati. Non è questione di alta politica, di diritti dell'uomo e del
cittadino e neppure della “Critica della ragion pratica” di Immanuel
Kant (ad Azzolina Lucia ne suggeriamo l'edizione tradotta dal cuneese
Alberto Bosi per la Utet, ed. 1993), ma di elementare buon senso:
quello che impone di restituire ai cittadini la libertà di passeggiare
per i clivi e per i colli, sulle spiagge e dove altro piaccia loro
andare senza infastidire nessuno né necessariamente ammucchiarsi (o
assembrarsi, che dir si voglia). L’Italia è con l'acqua
alla gola. Dalla retorica parolaia è ora di passare al pragmatismo del
“fare le cose”, sull'esempio di quanto è già avvenuto negli altri Paesi
europei non meno colpiti da Covid-19: dalla Svezia all'Olanda e
alla Germania, dalla Francia alla Spagna, che apre le scuole, riattiva
la sua formidabile macchina del turismo e ancora una volta prevarrà sul
Bel Paese. Il tempo stringe. In assenza di un
Progetto politico e mentre tira una brutta aria di “chi ha avuto ha
avuto, chi ha dato ha dato...”, le Istituzioni (tutte, dal
cacumine a ogni comune) lascino ai cittadini l'esercizio delle libertà
costituzionali senza ulteriori intralci. Essi sono l'unico vero “terzo
settore” dell'Italia odierna; pagano di tasca propria e soffrono sulla
propria pelle, mentre il tessuto socio-economico si slabbra e centinaia
di migliaia di piccole imprese rimarranno in ginocchio. Nel
frattempo si impone una domanda, semplice ma centrale: quale futuro
assicura l'Italia odierna ai propri cittadini minorenni? Al momento
sono i “grandi dimenticati”. Anziché assillare gli anziani con tutele
pelose, il governo si occupi seriamente di bambini e ragazzi, da
restituire alla scuola vera, alla vita, per non avvizzirli e
intristirli precocemente, come purtroppo a volte accadde nei
secoli andati.
Aldo A. Mola
foto:
Mezzo secolo fa l'Italia spalancava il futuro alle nuove generazioni:
scuola, viaggi, scienze, professioni. Le rovine (nella foto Bussana
Vecchia) erano alle spalle. E ora? Restituiamo ScuoIa vera a scolari e a studenti. Hanno bisogno di luce, di aria, di sole. Il chiuso avvizzisce.
NEL BARATRO DELLA SCUOLA L'ITALIA SPROFONDA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 19 Aprile 2020, pagg. 1 e 11.
I tre dell'Ave Maria...: Azzolina, Ascani, De Cristofaro Crolla
la Scuola, pilastro portante della nazione. In Italia non si era mai
fermata. Accade ora, senza alcuna giustificazione attendibile, se non
la sua pluridecennale fatiscenza e la pochezza del governo, mentre
funziona a pieno ritmo in Germania. Dagli Anni Settanta del Novecento
la Scuola è stata lo specchio di un Paese sempre in affanno, quasi
brodo primordiale dell'emergenza nazionale. Ha tirato avanti come ha
potuto. La salveranno la ministra Azzolina Lucia e i suoi due
sottosegretari? Che parte giocheranno Conte Giuseppe e i suoi “esperti”? Azzolina
passerà alla storia per vari motivi. Ministra dimidiata, si trovò tra
capo e collo l'epidemia del Covid-19 e si mise sulla scia dei
Decreti-legge e dei Decreti presidenziali senza alcuna idea originale.
Classe 1982, laureata in storia della filosofia a Catania e in
giurisprudenza a Pavia, docente tra Sarzana e Biella, al concorso per
dirigente scolastico risultò al 2542° posto su 2900 vincitori. Il
presidente della Commissione d'esame, Massimo Arcangeli, ricordò che
aveva ottenuto risultati modesti: 0 in informatica e molto indietro in
inglese, secondo un quotidiano. Era lontana insomma dalle tre “I”:
inglese, informatica, impresa. Del resto il movimento dei Cinque
Stelle, al quale appartiene, predica che “uno vale uno”, invoca la
“decrescita felice” e quindi va bene un mondo senza scuola, come si
vociferava a metà Anni Sessanta. La fiancheggiano due sottosegretari:
la 33enne del Partito democratico, Ascani Anna, laureata in filosofia
teoretica e dottoranda in Political Theory, e Giuseppe De Cristofaro, a
giudizio del quale la scuola italiana era e rimane “di classe”, come
mezzo secolo fa si leggeva in “Proletari senza rivoluzione”. Il
crollo verticale della scuola comporta quello del Paese in ogni sua
componente, poiché spalanca una voragine al cui confronto l'eruzione
del Vesuvio, da tempo paventata, sarà uno scherzo. Decretite, commissionite e Trenta Tiranni L'Italia,
60 milioni di abitanti, terzo paese manifatturiero d'Europa, da anni
non ha un governo all'altezza della sua storia e delle sue esigenze.
Travolto dal Covid-19, l'attuale risulta pessimo. Perciò l'elenco
dei delusi, impazienti e indignati cresce di giorno in giorno. Ormai
prossima al livello di guardia monta l'onda degli arcistufi di un
esecutivo che da inizio marzo ha reiterato e indurito tre volte la
reclusione dei cittadini nelle loro case (anche con assurde ordinanze
da “stato di guerra” ed episodi grotteschi di caccia al “vagante”)
senza vero coordinamento Stato/Regioni e, ciò che più conta, senza un
progetto chiaro e credibile. Nessuno scommette sulle prossime mosse del
Conte. Davvero dal 3 maggio i cittadini potranno uscire dai confini
comunali e lasciarsi alle spalle i gabellieri che da settimane li
vessano con pretesti spesso insulsi? Il neo-presidente
della Confindustria, Carlo Bonomi, appena eletto ha esordito bollando
come “smarrita” la “classe politica”. Ha errato. Il migliaio di
parlamentari, infatti, non sono “classe politica” ma in larga parte
personcine passate da professioni casuali o dal nulla a rappresentanti
dei cittadini in forza di una legge elettorale sciagurata che lascia la
scelta dei candidati ai vertici di “partiti” che, come noto, non
rendono conto a nessuno né della loro democrazia interna, né
dell'impiego del fiume di danaro che ricevono dallo Stato, cioè dalle
tasche dei cittadini. Certi partiti che hanno raccolto valanghe di
consensi promettendo di far nuove tutte le cose (come il Mostro
dell'Apocalisse) sono poi i primi a occultare il proprio funzionamento
effettivo. Indeciso a tutto, il governo è affetto da due
malattie di gran lunga peggiori della polmonite da Covid-19: la
commissionite e la decretite, come è stato più volte autorevolmente
osservato anche da costituzionalisti di buon cuore, come Sabino Cassese
e Michele Ainis. Dati alla mano, l'Esecutivo conta un presidente del
Consiglio, 21 ministri e ben 42 sottosegretari, in barba alla legge
Bassanini sulla composizione del governo. A Palazzo Chigi Conte si vale
di una tribù di circa 270 dirigenti e 2100 dipendenti. Per fronteggiare
la lotta contro la diffusione del contagio, sin dalla dichiarazione
dello stato di emergenza del 31 gennaio scorso il presidente si è
coperto il fianco con il capo della Protezione Civile (un arcipelago
sterminato), nonché con il Consiglio Superiore della Sanità (30 membri)
e l'Istituto Superiore della Sanità (2000 aggregati). A sua volta, al
di là della pletora di impiegati, funzionari e dirigenti, ogni ministro
ha la sua brava dose di consulenti e non rinuncia a valersi di almeno
una commissione di fedelissimi, scelti “ad nutum principis”. L'assetto
del potere istituzionale italiano odierno rievoca i “Tyranni triginta”
descritti da Trebellio Pollione nella “Historia Augusta”: Postumo,
Postumo il Giovane, Lolliano, Vittorino Quieto, Erode e un paio di
tiranni dai nomi profetici: Ingenuo e Ballista. Alla fine arrivarono
Zenobia (“siamo veramente alla fine della vergogna” ne scrisse il
biografo) e Vitruvia o Vittoria...: dopodiché il diluvio. Chi
volga lo sguardo al passato, agli organigrammi ministeriali della
Ricostruzione, del “famigerato regime” e dell'età liberale (da Depretis
e Crispi a Giolitti) coglie l'immane differenza. Ogni politico (se
bravo rieletto più e più volte, perché governare bene richiede lunga
esperienza sul campo) disponeva di una manciata di funzionari capaci e
devoti allo Stato. Se oggi Roberto Garofoli e altri contrappongono ai
“politici” il primato della “grande burocrazia” lo si deve proprio al
decadimento della “politica”, improvvisata, priva di formazione
culturale e professionale e quindi succuba dei suoi stessi consigliori. La
retorica sulla “lotta contro il contagio” e il “distanziamento sociale”
(neologismo risibile e infelice) ha le ore contate. Urge un governo
all'altezza dell'emergenza vera: rianimare la Scuola e produrre, due
volti di una stessa medaglia. Si trova invece sotto il confuso
“ombrellone” di un esecutivo litigioso sugli obiettivi primari e di
ministri che appaiono e scompaiono secondo la scena di giornata
(Interno, Difesa, Sanità, Giustizia...). I due antichi pilastri dello
Stato, politica estera e difesa, ricordano sempre di più quelli dei
viadotti che mostrano a nudo i tondini di ferro corrosi, ormai privi di
guaine e di cemento, inesorabilmente condannati al crollo, come da
vent'anni ammonisce, tra altri, la genovese Donatella Mascia, docente
di ingegneria: dati i materiali di composizione, sin dalla costruzione
essi hanno una durata prevedibile e presto o tardi crolleranno
tutti, uno via l'altro, lasciando l'Italia in pezzi, come dopo anni di
bombardamenti aerei. Esteri e Difesa, tuttavia, sono meno
periclitanti di quanto si possa temere, poiché l'Italia, privata di
indipendenza effettiva dopo la sconfitta nella seconda guerra mondiale,
vive sotto tutela: essa non può quindi ripetere errori catastrofici
come quelli che, nella prima metà del secolo scorso, ne annientarono il
patrimonio coloniale e ne misero a rischio la stessa unità politica,
poi rabberciata con l'istituzione delle regioni a statuto speciale,
fonte di privilegi ormai ingiustificabili. Però l'Italia
ha, o potrebbe avere, pieno autogoverno almeno su un “mondo” tutto suo
e al tempo stesso universale: la Scuola di ogni ordine e grado.
All'indomani degli armistizi del 1943 un’apposita Commissione
anglo-americana, integrata da “esperti” nostrani, provvide alla
defascistizzazione del sistema scolastico, intrecciandola con
l'epurazione, cioè con l'allontanamento dal servizio di quanti erano
bollati quali manutengoli delle due fasi del “fascismo”: quello in auge
sino al 25 luglio 1943 e la Repubblica sociale italiana. La pretesa era
palesemente assurda. Sin dal 1931 per rimanere in funzione insegnanti e
professori avevano dovuto giurare di essere fedeli non solo al re e ai
suoi successori ma anche al duce. Tranne una dozzina di professori
universitari, gli altri si prosternarono. E che cosa avrebbero potuto
fare gli impiegati in servizio nell'Italia centro-settentrionale
all'indomani dell'8 settembre se non rimanere ai loro posti? Le scuole,
dagli asili alle Università, continuarono a funzionare anche sotto i
bombardamenti e malgrado la guerra civile. La defascistizzazione
riguardò persino i libri di testo e le biblioteche scolastiche,
civiche, pubbliche. Dal 1938 erano state tolte dagli scaffali le
opere di autori ebrei considerati incompatibili con le leggi “per la
difesa della razza” (per coerenza avrebbero dovuto gettare dalle
finestre anche l'Enciclopedia Italiana, detta Treccani, la cui
dottissima voce “Ebrei” è scritta da israeliti insigni, come Giorgio
Levi della Vida). Dopo il 1945 fu il turno degli autori “fascisti”,
additati al pubblico disprezzo e condannati all'oblio, anche se a volte
erano stati perseguitati o poco apprezzati dal regime. Dopo
una prima stagione di esagerazioni, che confuse il nazionalismo (ala
destra del liberalismo) con il totalitarismo liberticida e il
filonazismo, il malato si riprese e trovò equilibrio con la
Costituzione. Il suo articolo 34 recita: “La scuola è aperta a tutti”.
La Scuola è stata tra i più potenti volani della Ricostruzione, del
miracolo economico e della dinamica sociale, con fasi di accelerazione
straordinaria, quali l'istituzione della scuola media unica (non era
scritto da nessuna parte che vi si dovesse abolire lo studio del
latino) e la liberalizzazione degli accessi alle Facoltà universitarie
dapprima senza alcuna filtro, poi con talora discusse forme di
selezione. La ministra abolisce il valore sostanziale dei titoli di studio Qual
è lo “stato dell'arte” della Scuola italiana in tempi di coronavirus?
Non potrebbe stare peggio. Il decreto-legge 8 aprile 2020, n. 22,
emanato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che fu anche
ministro della Pubblica Istruzione, e firmato dal presidente Conte e
dai ministri Azzolina, Manfredi (Università e Ricerca), Di Maio
(Esteri), Bonafede (Giustizia), Gualtieri (Economia e Finanza) e Dadone
(Pubblica Amministrazione), delinea le “misure urgenti sulla regolare
conclusione dell'anno scolastico e sullo svolgimento degli esami di
Stato”, previsti dall'articolo 33 comma 5 della Carta, e demanda al
ministro l’emanazione di “ordinanze” che, per non essere impugnate e
annullate, dovranno conformarsi alle fonti superiori del diritto. Con
buona pace dei suoi illustri firmatari, quel decreto-legge è un cumulo
di affermazioni campate in aria. In primo luogo, quando già era chiaro
che a scuola non si potrà rientrare né il 18 maggio (come tuttavia vi
si ipotizza) né ai primi di giugno, esso abbozza le forme di
valutazione degli studenti (terza media e maturità) e indica il ritorno
a scuola generalizzato al 1° settembre 2020. Luigi Einaudi, liberale
autentico e niente affatto reazionario, propugnava l'abolizione del
valore legale del titolo di studio. Azzolina ha fatto di più: ne ha
abolito il valore sostanziale. Tutti gli studenti passeranno all'anno
successivo, anche se insufficienti gravi: “todos caballeros...”. Col
decreto-legge (che dovrà essere convertito in legge entro il 7 giugno,
a pena di decadenza) l'esecutivo ha mancato di chiarire, ora per
allora, la reale prospettiva dell'estate e dell’autunno prossimi. Sulla
Scuola, come del resto su ogni altro aspetto della vita dei cittadini,
esso ha giocato e gioca a rimpiattino. La dilazione è ormai la sua
regola aurea, ma dopo ormai due mesi nessuno più se ne fida. Il
governo, infatti, nasconde la verità. Nel caso della scuola essa è una
sola: né a maggio né a giugno la “macchina scolastica” sarà in grado di
reggere l'impatto di 9 milioni di presenze, tra allievi e docenti, in
condizioni minime tali da escludere il rischio di contagio. Questo non
significa però che essa debba rimanere “chiusa” nei tre mesi estivi.
Come tutti gli impiegati pubblici, i docenti hanno diritto a 32 giorni
di ferie. Essi possono quindi essere chiamati in servizio anche a
luglio e ad agosto. È questione di organizzazione del loro calendario e
di volontà/capacità di ministro, “provveditori” e “dirigenti
scolastici”, se davvero preoccupati di recuperare gli allievi. Sulla
“macchina scolastica” ai cittadini va detta tutta la verità: essa era
molto malmessa prima della diffusione del contagio ma reggeva su
silenzi e finzioni, sull'inclinazione a non vedere, a rinviare e a
sperare che nulla accada di clamoroso, salvo insabbiare i disastri in
qualche fascicolo processuale, nelle relazioni di ispettori e nel
chiacchiericcio di commissioni d'inchiesta. L'amministrazione pubblica
strizza l'occhio al cittadino. Ne invoca la connivenza e la complicità,
ma talora gli fa “la faccia feroce”. Ma le scuole sono “a norma”? Stiamo
ai fatti. Adesso tanti strepitano perché il sistema sanitario ha
mostrato molte gracilità e perché le case di riposo si sono rivelate
per quel che sono: affollati veicoli di epidemie da anni previste. Per
capirlo i loro amministratori e i medici che a vario titolo vi si
affacciavano dovevano proprio attendere che vi infuriasse il morbo?
Altrettanto, e molto più grave, è stata la distrazione di massa nei
confronti della macchina scolastica italiana, sia a gestione pubblica
sia privata. Molto prima che il Covid-19 si affacciasse, i dati
statistici ufficiali, reperibili nei vari siti istituzionali ma oggi
curiosamente trascurati, dicevano e ripetono che il 54% degli
edifici scolastici del Paese è privo del certificato di agibilità e
quasi il 60% non ha quello di prevenzione incendi. La Scuola campa alla
giornata, tra giaculatorie e gesti scaramantici, mentre regioni,
province (evanescenti ma a loro volta impiccione) e comuni
vessano i cittadini. Per decenni abbiamo assistito al rimpallo
della Scuola fra Stato ed enti territoriali. Altrettanto, del resto, è
accaduto per il personale, sia docente sia amministrativo, e per i
“bidelli”. Nei licei scientifici presidi e professori erano “statali”,
il personale ausiliario provinciale, i bidelli comunali.
Quando un classico (tutto statale) e uno scientifico erano in uno
stesso edificio non avveniva come a Betlemme, ove i sacerdoti cristiani
di diverse confessioni si prendono a colpi di scopa. Semplicemente
interrompevano la pulizia del corridoio mezzo metro prima del confine
di competenza. Vedute le norme vigenti sugli edifici
scolastici, già anche troppo soffocanti per classi normali (risalgono
al 1975, un'era “zoologica” fa), ce la faranno la ministra
Azzolina e le varie amministrazioni a mettere a norma gli edifici e le
loro adiacenze entro l'imminente 1° settembre 2020? Perché non adattare
alla svelta a sedi scolastiche i molti edifici pubblici
inspiegabilmente inutilizzati? Tra le storielle su Cuneo, Beozia
d'Italia (chi ci è nato ne va orgoglioso), una narra che quando
Vittorio Emanuele II vi andò in visita il sindaco e i consiglieri
comunali si avvidero all'ultimo che il salone comunale non era
abbastanza capiente. Allora, per allargarlo, sedettero a terra e tutti
insieme spinsero la schiena contro le pareti. Per incitarli le signore
presenti sporsero persino le labbra tumide sino a farle divenire
paonazze. Neppure oggi basta un po' più di rossetto ministeriale per
moltiplicare e ampliare aule, palestre, spazi di ricreazione, parcheggi
e quel “verde” che la normativa impone ma è l'ultimo dei pensieri delle
amministrazioni tenute a fornire le basi materiali
dell'istruzione. La dis-unità d'Italia Un'ultima
considerazione si impone. Da mesi le forze dell’ordine vigilano sui
cittadini, sanzionando, talora arbitrariamente, chi circola in
violazione di decreti e ordinanze di dubbia legittimità. Ma quegli
stessi “tutori della legge” sono mai stati mandati a constatare se gli
edifici scolastici siano o no “a norma”? A verificare se davvero “la
scuola è aperta a tutti” e se “i più capaci e meritevoli hanno diritto
di raggiungere i gradi più elevati degli studi”? Nel Regno
d'Italia la Scuola funse da ascensore sociale. Ne furono campioni
insigni anche ministri della Pubblica istruzione, come l'albese Michele
Coppino, figlio di un ciabattino e di una cucitrice, asceso ai vertici
della cultura nazionale. Era anche massone, come il fossanese Balbino
Giuliano, primo titolare del Ministero dell'Educazione Nazionale. Mentre
la ministra Azzolina gonfia le gote dichiarando che nessuno sarà
lasciato indietro, in realtà oggi la Scuola trascura metà dei bambini e
dei ragazzi, privi dei costosi strumenti per seguire le lezioni “da
remoto”. Andavano e andranno alfabetizzati ai nuovi linguaggi.
Occorrono investimenti adeguati, corsi accelerati e un impegno civile
colossale, ancor più che finanziario. Nel frattempo la massa di quanti
né studiano né lavorano (almeno un quarto dei giovani fra i 15 e i 29
anni) è condannata a ingrossarsi. E l'Italia diviene paese del quarto
mondo. La sua dis-unione è alle porte per la voragine esistente tra chi
ha o non ha possibilità di connettersi a internet in modo efficiente;
tra chi ha o non ha accesso a strumenti di studio efficaci. La
divisione tra Nord e Sud non è più geografica, ma si ritrova
all'interno di ciascuna regione e provincia, nel cuore di ogni città. Mancano
solo quattro mesi al 1° settembre. Senza lavoro, senza vacanze, senza
un reddito qualunque, dall'elemosina di Stato a quello in nero, il
prossimo non sarà un “autunno caldo” bensì rovente, per colpa di un
governo riluttante a mettere la Scuola al centro della “questione
nazionale”. Basti constatare che nella cosiddetta task force capitanata
da Vittorio Colao non vi è alcun esperto del mondo scolastico, a
riprova del fatto che, nonostante i proclami di Conte e di Azzolina,
l'Istruzione è proprio l'ultima ruota del carro della vociferata
“ripartenza”. Mala tempora currunt...
Aldo A. Mola
L'EUROPA NON ESISTE E L'ITALIA SI SFARINA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 12 Aprile 2020, pagg. 1 e 11.
L'“Europa” non risorgerà perché non esiste Molti
si domandano se l'“Europa” sopravvivrà alla crisi attuale. Ce la farà
di sicuro, perché è un guazzabuglio di poteri e di norme, capaci di
adattarsi a qualsiasi catastrofe. È indistruttibile perché nebulosa,
evanescente, lontanissima da responsabilità oggettive e quindi
invulnerabile. A crollare sono gli Imperi, gli Stati, i regimi
politici. Ma l'Europa non è nulla di tutto ciò. È come il ponte di
Aulla, metafora di tante “istituzioni”. Si affloscia ma è sempre lì:
una congerie di materiali. Non svolge più la funzione originaria, ma è
persino più seducente di prima. Appena ne avranno la possibilità (ma
chissà quando, col vento che tira) le moltitudini andranno a
fotografarlo, come fecero con “Costa Concordia” adagiata su un fianco
all'isola del Giglio. L'Unione Europea non ha né le
fattezze né la consistenza di un Impero o di uno Stato, monarchico o
repubblicano che lo si voglia. Non ha potere decisorio sui suoi membri,
non ha politica estera univoca, né difesa comune. Perciò non le si può
chiedere di essere quel che non è, né di agire al di là dei vincoli che
si è data da quando, 65 anni orsono, scartò la via maestra, farsi
Stato, e imboccò il viottolo degli “affari” e della conseguente
voracissima elefantiasi burocratica. Questa Unione Europea è il punto
di arrivo di una lunga serie di finzioni travestite da funzioni.
“Scoprirlo” adesso può essere comodo per sviare l'attenzione dalla
realtà, ma non cambia i fatti. Non si cava il sangue da una rapa. Per
comprenderlo basta rileggere il farraginoso Trattato di Lisbona, varato
in una terra che ama il riso condito con sangue crudo di pollo,
innaffiato da vino più acidulo che aspro. Lì l'UE stabilì che non ha
radici greco-latine o ebraico-cristiane ma genericamente “umanistiche”.
Cioè? L'Europa (da dove a dove? dall'Atlantico agli Urali
come proponeva, inascoltato, Charles De Gaulle? o solo fino alla
Polonia, con recisione della terra di Tolstoj, Erenburg, Pasternak...)
per ora rimane un'“espressione geografica”. Le prime
pulsioni verso vaghe forme di federazione europea risalgono all'inizio
del Novecento. La principale vetrina della possibile unione del Vecchio
Continente fu l'Esposizione di Parigi del 1900, assise mondiale delle
scienze e dei buoni sentimenti. Subito dopo, il sociologo Giacomo
Novicow propose la Federazione europea, antemurale contro l'altrimenti
inevitabile guerra fra Stati, che poi durò trent'anni, dal 1914 al
1945. Durante la sua prima fase (1914-1918: quindici milioni morti solo
in Europa, va ricordato a chi oggi, riferendosi all’emergenza da
coronavirus, parla di “guerra”) alcuni lungimiranti, come Luigi
Einaudi, Attilio Cabiati e Giovanni Agnelli proposero una Federazione
europea. Inascoltati. La gara sitibonda di profitti e di sangue,
alimentata da odio sociale, razziale e ideologico riprese nel
1939-1945. Fra l'uno e l'altro macello la Società delle Nazioni
accampata a Ginevra rimase misera spettatrice. In quell'intervallo il
conte Coudenhove Kalergi propose invano la Pan-Europa, visione
ammodernata e corretta degli Imperi: Romano e Carolingio (dopo la
“debellatio” del Sacro romano impero da parte di Napoleone I, quello
degli Asburgo d'Austria stette ai precedenti come un bonsai sta a una
sequoia). Durante la seconda fase della guerra dei
Trent'anni vennero proposti alcuni progetti di Unione. Spiccano, fra i
molti, il “Manifesto per un'Europa libera e unita” di Altiero Spinelli
ed Ernesto Rossi, scritto al confino politico a Ventotene (1941) e la
Carta di Chivasso (19 dicembre 1943), mirante a conciliare Stato e
autonomie locali. Non per caso a inizio Anni Novanta l'istituto
magistrale di quella città venne intitolato “Europa unita”: un'idea
forte, che fa dell'Europa il soggetto, non un semplice aggettivo come è
invece “Unione Europea” (assonante con la non efficientissima Unione
Africana). Bisognava ripensare la sovranità di ogni Paese nei suoi
rapporti con gli altri Stati e anche al suo interno in nome della più
matura libertà dei cittadini. Va riletto “Federalismo, autonomie
locali, autogoverno” di Giorgio Peyronel (maggio 1944), militante del
Partito d'azione, unico movimento nettamente federalista ed europeista,
come il socialista profetico Ignazio Silone. In quella temperie, nel
1944 Luigi Einaudi scrisse “Via il prefetto!”, contro l'incubo dello
Stato accentratore, rivelatosi tiranno, liberticida e inetto malgrado
le rodomontate degli “otto milioni di baionette”. Per
l'Europa il cammino seguente fu irto di sassi e di spini. Dalla guerra
essa uscì nel maggio 1945; il Giappone in agosto, dopo le due bombe
atomiche sganciate dagli Stati Uniti. L'Europa visse lo strascico di
guerre civili all'interno dei singoli Paesi (per numero di morti e di
odio sprigionato nel “regolamento di conti” quella italiana fu di gran
lunga superata dallo sterminio dei “collaborazionisti” perpetrato in
Francia), nuove divisioni muro contro muro, reviviscenza di separatismi
armati all'interno dei singoli Paesi. Oggi dimenticato, l'Esercito
Volontari per l'Indipendenza della Sicilia (EVIS) rimane una lugubre
pagina della nostra storia. Dinnanzi alla minacciosa
contrapposizione tra Stati Uniti d'America e Unione Sovietica,
nell'Europa occidentale, rinascente anche grazie al celebre e molto
interessato Piano Marshall, alcuni Paesi avviarono le prime forme di
collaborazione interstatuale, come l'Organizzazione Europea di
Cooperazione Economica (OECE). L'anno di svolta fu il 1949: 71 anni fa.
A Ovest fu varato il Trattato Nord-Atlantico di difesa (NATO). Mosca
fece esplodere la sua prima bomba atomica. Iniziò l'equilibrio del
terrore. I partiti di sinistra (in Italia erano il PCI e a lungo il
Partito socialista, ancora uniti nel fronte popolare) avversarono
qualunque vera alleanza politica europea e, sulla sua scia, economica:
una pregiudiziale che durò anche dopo la sanguinosa repressione
dell'insurrezione in Ungheria (1956) e in Cecoslovacchia (1968). I
comunisti liquidavano gli “europeisti” (Mario Albertini, Mario Zagari,
Giuseppe Petrilli...) come utopisti da strapazzo e servi sciocchi del
capitalismo. Ai progetti di federazione europea timidamente coltivati
da Schumann, De Gasperi e Adenauer, nell'età del bipolarismo vennero
contrapposti, quale forza d’interdizione, i Paesi “neutrali”,
comprendenti persino la Jugoslavia del sanguinario Tito, che non è
certo un campione dei diritti umani. L'Europa morì in fasce col fallimento della CED L'“Europa”
morì nel 1954. Nel 1951 fu istituita a Parigi la Comunità europea del
carbone e dell'acciaio. L'anno seguente venne proclamata la Comunità
Europea di Difesa (CED), che in Italia ebbe il sostegno convinto di
Ferruccio Parri e di Giuseppe Romita. L'alternativa alla CED sarebbe
stata l'alleanza USA-Germania. Nel 1953 fu elaborato lo statuto della
Comunità Politica Europea: il traguardo sembrava a portata di mano, ma
nel 1954 il Parlamento francese, in un raptus di neo-nazionalismo
(condiviso dalle “destre” di altri Paesi, Italia inclusa) respinse il
Trattato costitutivo. Così gli Stati Uniti d'Europa morirono in fasce.
La possibile Federazione non si è più riavuta. Il suo sudario avvolse
però anche quel che restava degli imperi coloniali. In quello stesso
anno la Francia si prese la legnata in Vietnam. Poi affondò nel sangue
dell'insurrezione dell'Algeria che le costò la guerra civile scatenata
dall'OAS e il ritorno di De Gaulle. La Gran Bretagna ripiegò passo dopo
passo, dal Kenia alla Rhodesia. Ritirandosi dal Sud Africa lasciò in
eredità l'apartheid. L'Olanda dismise il suo dovizioso impero. Infine
il misero Belgio scomparve dal Congo... In pezzi, l'Europa mostrò il
suo ritardo nei confronti della Storia. I paesi più retrogradi, come il
Portogallo, furono gli ultimi a lasciare le loro colonie, da Diu, Goa e
Damao in India sino ad Angola e Mozambico in Africa. La pur
lungimirante Conferenza di Messina (1955), i Trattati di Roma (1957),
con cui l’Europa dei “sei” (Italia, Francia, Germania federale e
Benelux) diede vita alla Comunità economica europea e al Mercato
Europeo Comune (CEE-MEC) e all’EURATOM, e gli accordi degli anni
successivi non colmarono mai il vuoto della politica. Anziché tendere
la mano alla Gran Bretagna, la Francia si provvide della bomba
atomica: “force de frappe”, quando già le maggiori potenze avevano
quella all'idrogeno. Le attuali istituzioni
comunitarie sono un conglomerato di villette, neppure a schiera:
disseminate senza un preciso piano regolatore. Perciò i loro vertici
non hanno “sensibilità politica”. Questa Europa è un “contratto”, con
una serie di clausole per compensi e rescissioni. Un “affare” che dura
sin che giova ai contraenti. Non ha alle spalle né progetto né affetto:
solo un calcolo di convenienza. E si sa come finiscono queste partite:
sono la fortuna dei burocrati, a discapito dei cittadini. L'Europa è un
edificio non di bronzo o di pietra ma di materiali deperibili, come il
cosiddetto cemento armato, condannati dal tempo che li corrode. Anziché
dalla base, cioè dal consenso dei suoi abitanti, è sorto da accordi
economici, incardinati infine sul Sistema monetario europeo e, di
seguito, su una moneta, l'“euro”, rifiutato da alcuni suoi membri (non
pare siano i meno avveduti). Inoltre le istituzioni “europee” non hanno
convinto molti cattolici apostolici romani che vi intravidero la loro
“deminutio capitis” rispetto a evangelici, riformati, non credenti e ai
temutissimi massoni, secondo la leggenda annidati nei palazzi del
potere comunitario. Dopo il crollo dell'Unione Sovietica
l'Unione Europea ha incluso Stati dell'Europa orientale per ampliare il
raggio d'azione della Nato. Così ha suscitato la reazione di Mosca: i
cui abitanti prima che zaristi o comunisti si sentono “russi”. Lo
spiegò bene Franco Venturi in un'opera magistrale. La disunità d'Italia: cittadini o sudditi? Dalla
crisi sanitaria, dall'esasperante regime di costrizione e dal collasso
senza riparo di tanta parte del suo sistema produttivo, a cominciare
dal turismo, l'Italia non risorgerà o lo farà con enorme fatica.
Rimarranno ferite profonde, sulle quali governo, regioni e comuni bene
farebbero a riflettere per imboccare una via diversa da quella percorsa
dal 31 gennaio a oggi e ormai proiettata sulla vita quotidiana sino al
3 maggio (se ne veda una rassegna nel sito
www.giovannigiolitticavour.it). Al netto delle ormai ampie e reiterate
riserve mosse anche da costituzionalisti di indole quanto mai mite
(incluso Sabino Cassese che paradossalmente rimprovera ai cittadini di
non farsi sentire abbastanza contro la burocrazia paralizzante: quasi
non lo facessero in invano tutti i giorni!) il vizio di fondo della
decretazione d'urgenza che da due mesi e mezzo incombe sulla
quotidianità pubblica e privata è di trattare gli italiani da sudditi
anziché da cittadini, da pupattoli ai quali non si deve dire la verità
per non impressionarli, insomma da minorenni se non da minorati. È il
modo peggiore di “fare politica”. Suscita discredito delle istituzioni,
irritazione e diffidenza. Le continue e ormai arroganti minacce di
sanzioni sempre più gravi per chi violi decreti e ordinanze costringe a
rileggerle e a scoprirle caotiche e in tanta parte immotivate,
irrazionali, scritte da chi manifestamente non conosce i loro
destinatari: le persone e il territorio. Quando finalmente a scuola? Come
non si può chiedere all'Unione Europea di essere ciò che non è, cioè un
governo politico della pletora esorbitante di 27 Stati e statuzzi che
la compongono, così non si può chiedere agli italiani di chiudersi in
casa a tempo indeterminato, mentre si spalanca la voragine del crollo
vertiginoso del benessere quotidiano, frutto di inenarrabili sacrifici.
Non per caso gli italiani vantano il primato di risparmi e di proprietà
della “casa”, approdo di secolari lotte per la propria libertà, fondata
sulla possibilità di chiudersi la porta alle spalle contro ogni
intruso, politico, religioso, ideologico. Ora due
considerazioni si impongono. In primo luogo la condotta del presidente
Conte e dei ministri risulta incoerente: un tira e molla quotidiano con
le ormai stucchevoli comparsate di scienziati di fiducia e l'invenzione
di sempre nuovi comitati di esperti. Ma non bastano i ministri?
Governare comporta scegliere. O gli scienziati sono stati incapaci di
prevedere e allora possono essere sostituiti da maghi e indovini.
Oppure il governo gioca con le previsioni credibili e non le incrocia
con provvedimenti di elementare buon senso, chiedendo la leale
collaborazione dei cittadini. Invece seminare mine divisive, con
linguaggio estraneo alla tradizione politica. Pertanto,
e in secondo luogo, qualcuno inviti Conte (e la “sua” ministra della
Pubblica Istruzione, qui non meritevole di menzione) ad ammettere sin
d’ora che la scuola non potrà riaprire a metà maggio e che quindi è
inutile procrastinare al 4 del mese prossimo quanto non sarà possibile
nemmeno dopo. La scuola non potrà riaprire i battenti, né a maggio né a
settembre. La causa è nei fatti. In Italia si contano, invero, circa
otto milioni di studenti, 800.000 docenti e oltre 100.000
“amministrativi”. Le aule sono quelle che sono. L'ultima legge
sull'edilizia scolastica risale al 1975, appena un po' spennellata nel
1992. Ogni aula deve contare almeno 45 metri quadrati, vale a dire 6
metri per 7 e mezzo. Quanti banchi possono stare in quella misera
superficie, che deve ospitare anche la cattedra e magari una
bibliotechina di classe? Al massimo 9 o 10. Ma la normativa impone che
le classi abbiano da 18 a 26 bambini negli asili, sino a 26 nelle
elementari, da 18 a 27 nelle medie e da 27 a 30 nelle secondarie. Tra
il 1966 e il 1969 chi scrive ha fatto lezione in varie città di antica
tradizione, sempre in aule inadeguate o del tutto indecenti. Fu poi
preside in edifici “di risulta”: un ex seminario, un antico palazzo
civico del tutto fuori norma, un ex convento di clarisse, in un
convento francescano il cui primo piano (quello delle aule) non
crollava a patto che reggesse il porticato sottostante, una caserma. I
servizi igienici erano inadeguati, spesso ributtanti e senza palestre a
portata di piede. La richiesta al Comune di spogliatoi separati per
allievi e allieve di classi miste sembrava un capriccio della docente
di educazione fisica. L'alternativa era chiudere e mandare a spasso
centinaia di studenti. Questa è l'Italia. Non c'è governo Conte che
possa rimediare da qui a metà maggio né da qui al 1° settembre. E
allora? Una soluzione saggia sarebbe stata e ancora può essere
consentire senza tanti intralci prefettizi (a cominciare dal prefetto
ministro dell'Interno) di consentire a chi può (mezza famiglia,
tutt'intera, secondo i casi) di trasferirsi dalla reclusione forzata in
città nelle “seconde case”, ovunque esse siano, collegato da remoto col
lavoro e con la “scuola”. Del pari occorre smetterla di
interdire spazi pubblici, anzitutto quelli demaniali, come gli arenili,
a chi mostra di saperli usare con maggior saggezza di quanta è stata
adoperata nelle case di riposo. Anziché considerarli sudditi da
adocchiare a ogni passo (addirittura con vigili in borghese o con i
droni: siamo ormai al ridicolo), lo Stato e le sue articolazioni
lascino mostrino fiducia nei cittadini. Se proprio essi vogliono fare
l'interesse dei loro territori, anziché sguinzagliare pattuglie a
caccia di chissà quali untori, i sindaci dei comuni rivieraschi alzino
“osservatori” (come quelli dei “bagnini”) sulle spiagge e ingaggino
giovani e meno giovani a scrutare se chi ama prendere il sole e magari
fare un tuffo tiene le debite distanze dagli altri: il “distanziamento
sociale” come dice lo stolido burocratichese contiano. Il tempo esige
di uscire dal torpore. Richiede il discernimento predicato dal gesuita
papa Francesco. Occorre inventare in fretta rimedi, prima che la
pressione superi il livello di guardia. In ormai quasi tre mesi abbiamo
sentito sindaci dire sciocchezze, salvo pentimenti tardivi, e usare
turpiloquio convinti di risultare più suadenti. Non è questo il modo di
governare, perché tosto o tardi anche gli “utenti” potrebbero
rispondere alla stessa maniera. La pasqua ebraica ricorda
l'Esodo; quella cristiana la Resurrezione. La pasqua italiana del 2020
rimarrà negli annali per le sempre più ampie allarmanti crepe tra
istituzioni e cittadini. Sic stantibus rebus difficilmente i cittadini
si consegneranno tramite “app” a controlli sulla loro persona. Se poi
venisse loro imposto, scapperebbero dall'Italia a gambe levate nel
timore del peggio. Aldo A. Mola
In
foto: Un'aula di ieri (Alessandria, Museo Etnografico). Non manca
la stufa a legno, unica fonte di calore (a parte insegnante e
allievi...). Così era nelle scuole medie di Cuneo, in piazza Santa
Chiara.
IL VIOTTOLO DELLA DECRETAZIONE SPECIALE E LA VIA MAESTRA DELLA COSTITUZIONE
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 5 Aprile 2020, pagg. 1 e 11.
La debolezza dell'Unione Europea rispecchia i suoi membri La
risposta dell'Unione Europea alla crisi generata da Covid-19 da molti è
stata giudicata debole e tardiva. Talora essa è accompagnata dallo
scambio di cortesie epistolari tra la presidente Ursula Von der Leyen e
i capi di governo. È il caso dell'Italia. Questa Europa dei 27 è fiacca
perché, proprio all'indomani della funesta Brexit, anche i governi dei
Paesi membri sono logori. Per limitarci ai più rappresentativi (per
popolazione e prodotto interno lordo) valgano i casi della Germania,
con il netto calo di popolarità della “grande coalizione” che le
assicurò lunga prosperità, della Francia, ove Macron è appena uscito
sconfitto e umiliato al primo turno delle amministrative (celebrate
quando ormai il contagio virale galoppava), e della Spagna, il cui
governo rosso-paonazzo di Sánchez e Iglesias è il peggiore dalla morte
di Franco. L'Italia non se la passa certo meglio. Al di là dei seggi al
Parlamento, tutti i sondaggi indicano che i partiti dell'attuale
maggioranza sono minoritari nel Paese; ma anche l'opposizione, più
divisa di quanto paia, è lontana dall'avere un ampio seguito: e
comunque le elezioni sono lontane sull'orizzonte. Per ancora molto
tempo si governerà “a vista”. Alla vigilia del contagio l’Italia era
“sospesa”, in attesa del referendum confermativo sulla riduzione del
numero dei parlamentari e del rinnovo di alcuni consigli regionali e
comunali. Ora rimane in apnea, come gli altri Stati europei,
nell'insieme incapaci di reagire incisivamente di fronte alla svolta
autoritaria attuata da Orban in Ungheria, benché questa non sia solo un
campanello d'allarme ma la profezia della catastrofe della democrazia
parlamentare. Se accettasse supina il regime del premier magiaro,
l'Unione perderebbe la sua stessa ragion d'essere, che è politica prima
ancora che economica. I governi più sono deboli, più sono
tentati di introdurre restrizioni alle libertà dei cittadini. Lo
storico Yuval Harari ha messo in guardia sul rischio che l'intero
assetto civile venga stravolto dall’uso presente e futuro del controllo
biometrico delle persone. Non per caso, dopo lungo silenzio anche il
segretario generale dell'ONU, Guterres, ha finalmente ricordato che le
misure anti-contagio non possono violare i diritti dell'uomo, conquista
irrinunciabile. Ormai cancellata la libertà di circolazione
tra Stati dell'Unione (la Francia ha ripristinato il controllo alle
frontiere sino a fine ottobre 2020), del sogno europeo originario
rimane ben poco. Perciò risulta ancora più importante che ogni Paese
rifletta sulle ripercussioni della rispettiva legislazione di emergenza
e blocchi sul nascere al proprio interno ogni possibile deriva
dall'eccezione alla regola, dall'episodico al durevole. Mentre
molti costituzionalisti deplorano la diffusione della “decretite” e
Michele Ainis auspica il varo di un Testo unico che sintetizzi gli
oltre 150 decreti e ordinanze sin qui emanati, si intravvedono altre e
maggiori urgenze per avviare l'Italia alla “normalità”. In
primo luogo, il Parlamento vari una legge di un articolo unico: “Le
norme vanno scritte in italiano”. Ai tanti organismi di controllo (che
chissà perché da noi son dette “authority”) e ai comitati
tecnico-scientifici (spesso disaccordi) di cui il Potere ama
circondarsi (anche per scarica-barile: ogni Nerone ha il suo
Tigellino), se ne aggiunga uno composto da membri dell'Accademia della
Crusca, incaricati di vagliare gli atti normativi prima della loro
pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, con potere di rispedirli al
mittente se risultino oscuri, ambigui, vergati in “politichese” o
criptici per i molteplici rimandi da un provvedimento a un altro, come
da decenni avviene a tutto discapito del principio irrinunciabile della
certezza del diritto. Inoltre, in vista della Pasqua si
faccia la pulizia più urgente: il ripristino della gerarchia delle
fonti del diritto previste dalla Costituzione. Comunque finisca, non andrà affatto niente bene Per
ora tutto fa presagire che il peggio ha da venire, non solo per il
numero delle vittime del covid-19 ma soprattutto per le crepe che si
aprono negli equilibri tra le istituzioni e nella “società”, sempre
meno “civile”. Dopo alcune settimane di concessioni benevolenti
espresse anche da costituzionalisti solitamente esigenti, si stanno ora
moltiplicando le deplorazioni del vulnus all’ordinamento. Tra altri,
Cesare Maffi in “Italia oggi” ha scritto lapidariamente: “È difficile
ricostruire l'edificio della civiltà giuridica una volta che ne vengano
sottratti i mattoni”. L'allarme si diffonde. È ora di rimettere ordine
poiché l'“emergenza” si protrae ormai da mesi e si allungherà per non
si sa quanto, perché il governo procede a strappi, con mezze verità
quasi gli italiani fossero bambini, e si trincera dietro il “dies ad
quem” del 31 luglio indicato alla chetichella lo scorso 31 gennaio,
quando il Paese era tenuto del tutto all'oscuro del pericolo incombente
e “nelle more della valutazione dell'effettivo impatto dell'evento”
Conte delegò Borrelli a emanare ordinanze e stanziò cinque
milioni di euro. Una miseria. La Costituzione “riconosce e
garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” (art. 2): sono
Principi “non negoziabili”, preesistenti alla Carta e allo Stato
stesso. Dal 1981 alcuni si essi sono stati ripetutamente calpestati da
assemblee regionali. È il caso del diritto di “associarsi liberamente,
senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla
legge penale”. Ma non è questo il tema del giorno, anche se non va
dimenticato, visto l'azzeramento della libertà di riunione pur nel
rispetto del “distanziamento sociale”, ovverosia, in italiano,
tenendosi a debita distanza: cautela di elementare buon senso. In
discussione vi è invece il diritto sancito dall'articolo 16 della
Carta: “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in
qualsivoglia parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che
la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di
sicurezza”. Tale diritto costituisce estrinsecazione della libertà
individuale garantita dall’art. 13 e non può recedere di fronte “alla
tutela della salute” che, pur essendo un “fondamentale diritto
dell'individuo”, in nessun caso può venir disciplinata in modo da
“violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”: cioè
proprio i “diritti inviolabili dell'uomo” enunciati dall'articolo 2.
Anche in campo sanitario il diritto all'autodeterminazione, che è somma
espressione della libertà morale individuale, prevale dunque
sull'intervento del Potere. Le cronache degli anni recenti ne hanno
offerto molteplici ed eloquenti esempi. La disputa sulla
libertà di “circolare” è racchiusa nella sequenza fissata dal
Costituente: sin dove può arrivare la limitazione dei diritti non
negoziabili per motivi di sanità nell'interesse della collettività?
Apparentemente la risposta è semplice: lo stabilisce il governo. Ma
l'ordinamento repubblicano non lo prevede affatto. La Carta
fissa una gerarchia chiara e precisa delle fonti del diritto. Il
Presidente della Repubblica ha quello di promulgare le leggi o
chiederne una nuova deliberazione con messaggio motivato alle Camere, e
per una sola volta (art. 74). Il presidente del consiglio dei ministri
dirige la politica generale del Governo, ne è responsabile e mantiene
l'unità d’indirizzo politico e amministrativo, come già stabilito dal
Regio Decreto Legge 14 novembre 1901 (Governo Zanardelli-Giolitti). Sin
da allora fu escluso che il presidente dica una cosa, un ministro o
un'altra “fonte” ne dica una diversa. Purtroppo, invece, da troppe
settimane all'emergenza sono state date risposte normative sempre più
convulse e farraginose, suscitando incertezza nei cittadini e, il che è
peggio, in chi è chiamato a chiederne l'osservanza, salvo sanzioni
sempre più onerose. Gli esempi ormai possono ormai riempire molti volumi. Ma neppure questo è il punto. La via maestra dell’art. 76 della Costituzione La
domanda tuttora priva di risposta franca è e sempre più diverrà: “il 31
gennaio 2020, allorquando con delibera del consiglio dei ministri fu
dichiarato lo stato di emergenza per sei mesi, il governo ne aveva
chiare l’entità e le proporzioni?” In caso negativo, il giudizio sulla
condotta dell’esecutivo non spetta alla “storia” (come invocato dal
presidente Conte pur di allontanare da sé l'amaro calice di
render conto “hic et nunc” del suo operato) ma alla “politica”, ovvero
al Parlamento, che non può essere “sospesa” in attesa di tempi migliori
(l'estate? l'autunno? il 2021?). Se invece il governo aveva
informazioni sufficienti sul pericolo incombente, allora doveva
chiedere al Parlamento la “delega dell'esercizio della funzione
legislativa”, nei precisi limiti previsti dall’art. 76 della
Costituzione, ovvero “con determinazione di principi e criteri
direttivi e soltanto per un tempo limitato e per oggetti definiti”. Non
sarebbe stata la prima volta nella storia della Repubblica.
Quell'articolo - insegna Livio Paladin, principe dei costituzionalisti
- venne introdotto per “inquadrare e circoscrivere il fenomeno della
delega legislativa” e arginare la sempre incombente prevaricazione del
governo nei confronti del potere che compete alle Camere. Il
Costituente si premurò di precisare che il governo, quantunque
delegato, non dispone mai delle attitudini a legiferare oltre le
competenze proprie del Parlamento. La delega riveste carattere di
istantaneità e di obbligatorietà, cioè è circoscritta nel tempo e nella
materia. Essa è la via maestra. Per fronteggiare la crisi
il governo ha invece seguito un’iter contorto, che cozza con
l'equilibrio del poteri fissato dalla Costituzione, avendo pretermesso
il Parlamento, anziché renderlo corresponsabile di una scelta grave.
Facendo un balzo di duemila anni all'indietro, il ricordo va alla
Repubblica romana (dalla quale deriva l'ossatura del diritto) quando si
ricorreva alla decisione “Videant consules ne quid detrimenti
respublica capiat...”. In via del tutto eccezionale i consoli
assumevano la somma dei poteri e la esercitavano nei tempi accordati.
Non v'era bisogno del dictator, dell'“uomo solo al comando” con “pieni
poteri”: erano i consoli a farsene carico, nell'armonia del “genus
mixtum” repubblicano descritto da Cicerone. Resse sino alle guerre
civili e allo sfascio che ne seguì. Il viottolo stretto della decretazione speciale L'opzione
a favore dei DPCM ha aperto la preoccupante stagione di un’affannata
decretazione d'urgenza, con sovrapposizione e contrasti tra “fonti del
diritto” (governo, presidenti di regioni, sindaci...). L'emergenza ora
va molto oltre il contagio del coronavirus e investe i rapporti fra il
Potere, nelle sue varie forme, e i cittadini. Tra le manifestazioni più
memorabili rimarrà la “fulminea”ordinanza Lamorgese-Speranza che una
domenica pomeriggio di marzo intimò agli italiani di rimanere là dove
fossero, poi assorbita da un di poco successivo Decreto del presidente
del consiglio. Un'altra è l'oggettiva discrepanza tra i chiarimenti
diramati il 31 marzo ai prefetti dal capo gabinetto del ministro
dell'Interno, Matteo Piantedosi, sulle “misure urgenti in materia di
contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica” e l'ennesimo
Decreto Conte del 1 aprile. Il dottor Piantedosi concesse a “un solo
genitore” di “camminare con i propri figli minori... in prossimità
della propria abitazione”, nonché l'accompagnamento di anziani e
inabili da parte di persone che ne curano l'assistenza, confermando al
tempo stesso il divieto di attività ludica (che vuol dire “gioco”) o
“ricreativa” ma non quella motoria, quasi occorra uscire di casa con la
mestizia quaresimale dipinta sul volto. Con illuminata saggezza il capo
gabinetto pregava (sic!) i Prefetti di voler estendere i chiarimenti
alle forze di polizia esortandole alla “ragionevole verifica dei
singoli casi”. In effetti, lo Stato che si conduce da “buon
padre di famiglia” non ha motivo di “fare la faccia feroce” verso i
cittadini. Spiega e ne ottiene comprensione e collaborazione.
Sennonché, pressato da presidenti di regioni (sedicenti “governatori”:
titolo improprio e abusivo), il presidente del Consiglio si è poi
affrettato a prorogare sino al 13 aprile le misure precedenti, volte a
escludere l'“ora d'aria” per bambini e adolescenti, malgrado le
insistenti raccomandazioni di pediatri e psicologi. Il governo dice di
valersi di scienziati. Ma vi sono scienziati più scienziati degli
altri? O prevalgono quelli che “danno ragione” al timoniere e si
guardano bene dall'avanzare dubbi per non essere cacciati sotto coperta
e gettati in mare? Se mai fosse “guerra” (ma non lo è), così sarebbe perduta... Poiché
la retorica dell'emergenza continua a propinare la fiaba secondo la
quale l'Italia è “in guerra” va ricordato, ancora una volta, che
l'articolo 78 della Carta (a suo tempo splendidamente commentato da
Andrea Giardina) dice chiaro e netto che “Le Camere deliberano lo stato
di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari”. Nessun Paese
contagiato dal virus è “in guerra”. La ratio dell'art. 78 però è
chiarissima: il Governo non può percorrere in tempi indefiniti il
viottolo della decretazione d'urgenza, a singhiozzo, con correzioni e
contraddizioni, se non suscitando sconcerto, renitenza e, alla fine,
diserzioni. Se proprio si volesse parlare di stato di guerra, la linea
imboccata e pervicacemente seguita dal presidente del Consiglio e dal
governo mostrerebbero che il Paese è tragicamente condannato alla
sconfitta. Sempre più si palesa, infatti, quanto in guerra è
assolutamente fondamentale: la catena di comando. Per averne la
percezione va riletta l'opera di Luigi Cadorna, Capo di stato maggiore
dell'esercito dal 1914 al 9 novembre 1917: “La guerra alla fronte
italiana fino all'arresto sulla linea della Piave e del Grappa” (ed.
Bastogi). Gli odierni presidenti di regione sono paragonabili ai
comandanti d'armata dell'epoca. Mai sarebbe stata concepita e tollerata
la loro contrapposizione al Comandante Supremo. Lo sforzo doveva e non
poteva che essere unitario: ciò che oggi purtroppo non è. Inoltre, in
una visione strategica “alla Cadorna”, la “guerra” contro il contagio
andava e va impostata non solo sulla prima linea ma all'interno del
Paese, alimentando il consenso con misure convincenti anziché con
“grida” minaci. Tanto più perché insorgono nuovi e via via più
drammatici problemi sociali, in specie per la tutela dei minori, in
taluni casi rimasti soli per il ricovero dei genitori o dell'unico
parente prossimo. L'inspiegabile “damnatio” delle “seconde case” Infine,
proprio in vista del prevedibile prolungamento dell'emergenza sarebbe
stato saggio favorire il trasferimento dalle megalopoli alle cosiddette
seconde case di chi era (ed è) in grado di farlo senza danni per terzi.
In tal modo si sarebbe allentata (e si potrebbe allentare) la pressione
demografica nelle aree troppo antropizzate, tanto più in vista della
primavera incipiente. Se si decidesse a parlare chiaro ai cittadini
invece di farsi precedere da messaggi di “tecnici”, come il capo della
Protezione civile e smettesse di procedere a fari abbassati, il governo
potrebbe ancora assumere misure di buon senso, anche consentendo la
libera circolazione tra Comuni esenti dal contagio: ampie aree
perfettamente individuabili all'interno di ciascuna regione e in grado
di partire “da subito”. Di certo prima o poi da queste
costrizioni e contraddizioni si uscirà. E prima o poi l'Esecutivo dovrà
confrontarsi in Parlamento con le opposizioni. Secondo la narrazione a
quel punto prevalente il merito dell'“uscita” dalla crisi non sarà del
governo ma di chi l'avrà “costretto” a sia pure modeste “concessioni”.
Aldo A. Mola
IL PARLAMENTO: A CURIA O A EMICICLO? AULE VETUSTE E CONTAGIOSE
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 29 Marzo 2020, pagg. 1 e 11.
In memoria di Marco Papirio Anche
per il Parlamento la forma è sostanza. Fa riflettere lo spettacolo
fornito in questi giorni dalle Aule di Montecitorio e di Palazzo
Madama. Mentre il presidente del Consiglio Giuseppe Conte mercoledì e
giovedì sciorinava “molto è stato fatto e molto resta da fare”,
lasciando ai posteri l'ardua sentenza su meriti e demeriti del
barcollante governo in carica, l'occhio dello spettatore andava
sbigottito agli scranni vuoti, alle fronti corrugate, o inutilmente
spaziose, contratte da mascherine variegate, alla desolazione di un
rito celebrato senza pubblico né giornalisti. Preso atto dell’elusiva
promessa di future “informative” ogni quindici giorni da parte
dell’esecutivo, è lecito domandarsi: quanti ministri deve avere il
governo se poi quelli in Aula (con dichiarazioni fatue: è il caso della
titolare dell'Istruzione) si contano sulla dita di una mano? E ancora:
servono davvero 630 deputati e 315 senatori o ne possono bastare 200 e
100, rispettivamente? Le spettrali sedute dei giorni scorsi anticipano
nei fatti l'esito del referendum confermativo della legge che ha
ridotto il numero dei parlamentari: una consultazione popolare che non
potrà certo essere rinviata “sine die”. Per quel che deputati e
senatori mostrano di saper e voler contare, invero, la loro latitanza
dalle Aule induce a restringerne ulteriormente i ranghi, a tutto
vantaggio della concentrazione del potere nelle mani di una
ristrettissima cerchia di tecnocrati, per nulla bisognosi di consenso
elettorale e quindi indifferenti al malumore che sale dal Paese. Altri
due mesi di mancate sedute plenarie affosserebbero la credibilità di un
Parlamento incapace di rispondere, sia pure in via provvisoria, a sfide
eccezionali. In presenza dell'emergenza sanitaria che impone di tenere
le distanze tra persone non documentatamente infette, Roma e l'Italia
intera mancano forse di “contenitori” capaci di assicurare la
partecipazione di tutti i parlamentari? Ridurli a una manciata di
“selezionati”, scelti dai loro capibastone, significa svuotare di
rappresentatività gli organi parlamentari. Il confronto va, nella
memoria, al senatore romano Marco Papirio che nel 390 a.Cr., mentre
tutti (militari e popolani) erano fuggiti per scampare al saccheggio
dell'Urbe, rimase seduto al suo posto; talché uno dei Galli gli tirò la
barba per vedere se fosse vivo e, da barbaro qual era, lo uccise. Nella
Roma dei Consoli e dei Cesari, il Senato si radunava nella Curia che
dal Foro continua a dare lezioni al tempo presente. Rettangolare, 18
metri di larghezza, 27 di lunghezza e 21 di altezza (proporzioni
perfette anche per l'acustica), essa è percorsa ai lati maggiori da tre
gradini bassi e larghi che assicuravano accesso facile e comoda seduta
(molti “patres”, reduci da gloriose battaglie, soffrivano di acciacchi
alle giunture). Sul fondo dell'Aula non troneggiava un presidente: vi
si ergeva, invece, l'Altare della Vittoria, rimosso una prima volta da
Costanzo II e infine da Teodosio nel 384 d.Cr. su intimazione del
vescovo di Milano, Ambrogio (poi santo). Fu la prima sconfitta della
Romanità e della Forma che è anche Sostanza, dell’aristocrazia del
Merito, tipico di un Ordine fondato sul confronto tra Pari. Ognuno si
alza, parla breve e siede. L'Aula vota. Decide “erga omnes”, come
insegnano i due altorilievi traianei che decorano la Curia romana: la
remissione dei debiti e i prestiti agricoli a beneficio dei bambini
poveri, sintesi della “Res publica” che nelle insegne recava il motto
“Senatus populusque romanus”. Aule contagiose La
forma del Senato romano ha un'unica replica negli Stati retti da
Parlamenti, di qua e di là dell'Atlantico: quella dei Comuni e dei Lord
a Palazzo Westminster a Londra. Due file di banchi contrapposti,
separati da uno spazio strettissimo, tutti vegliati dallo “speaker”,
garante dell'ordine dei lavori. L'“Inghilterra” sarebbe tale e quale è
se il suo Parlamento avesse aule a emiciclo come nella generalità dei
Paesi al di qua della Manica? Dopo l'incendio che nel 1834 distrusse
quasi completamente l'edificio preesistente, gli inglesi avrebbero
potuto mutare stile. Invece l'architetto Charles Barry ripristinò
l'allestimento originario; anzi nel trentennio 1837-1868 lo vestì in
panni gotici, più solenni e “antichi”, con le Torri dell'Orologio e
Victoria. Quel passato remoto, sorto appena ier l'altro, segna la
distanza tra la quotidianità e la Storia; ricorda che ogni decisione
odierna ha radici nel passato e deve guardare alle generazioni venture. Con
le Rivoluzioni di fine Settecento l'Occidente ebbe la grande occasione
di prendere esempio dalla prima monarchia parlamentare e fare
altrettanto. La dichiarazione d'indipendenza delle colonie della Nuova
Inghilterra a Philadelphia (1776) e il “giuramento” nella Sala della
Pallacorda a Parigi, ove rappresentanti di borghesia, clero e
aristocrazia s'impegnarono a non separarsi e poi si proclamarono
Assemblea nazionale (1789), avvennero in sale rettangolari, assai
disadorne. Eppure cambiarono il mondo. L'emiciclo venne a assunto a
modello solo nel corso dell'Ottocento. Tra i suoi massimi esempi è il
Palazzo del Congresso a Washington, che in un unico edificio comprende
le due Camere. Gli “americani” ebbero tutto il tempo di pensarci. Il
loro parlamento originario fu incendiato dagli inglesi nel 1814.
L'attuale, il Campidoglio, venne eretto tra il 1851 e il 1867, ma nelle
forme ritenute classiche: con le aule a “teatro”, replicate di Paese in
Paese, dall'Austria alla Prussia e all'Ungheria, dall'Argentina al
Messico. Altrettanto del resto aveva fatto la Francia della
Restaurazione, che allestì per i deputati l'aula a Palazzo Borbone
(1828-1833), già sede dei Cinquecento, e per i senatori quella di
Palazzo di Lussemburgo (1836-1841). Dalla ex Sala da Ballo di Palazzo Carignano a Montecitorio Quando
istituì il Parlamento con lo Statuto del 4 marzo 1848 Carlo Alberto di
Savoia, all'epoca re di Sardegna, mise a disposizione due edifici “di
famiglia”. Il Senato, che all'inizio contò una sessantina di membri, fu
allocato a Palazzo Madama, in Piazza Castello, due passi da Palazzo
Reale. Ai “patres” fu riservato un salone molto sobrio. Per i 208
componenti della Camera dei deputati (che all'epoca comprendeva anche i
rappresentanti della Savoia e del Nizzardo) nella sala da ballo di
Palazzo Carignano, da tempo dismessa, fu allestita alla svelta la
celebre Aula lignea che tuttora si ammira, con tanto di segnaposto a
ricordo di quanti vi sedettero. Essa calcò il modello d'Oltralpe: una
cavea che diede impulso al corso politico del Regno. Il connubio
tra il liberale Camillo Cavour e il democratico Urbano Rattazzi, germe
del futuro trasformismo perpetuo, fu favorito anche dalla distribuzione
degli scranni, propizia alla circolarità dei programmi e ai compromessi
anziché alla loro contrapposizione. Gli oppositori duri e puri
(cattolici e democratici intransigenti) finirono relegati agli estremi.
In un'aula che registrava continuamente rumori e brusii, difficilmente
le loro voci giungevano sino al banco del governo e della presidenza.
Cadevano nell'indifferenza. Con l'VIII legislatura del
regno subalpino (1860) la Camera salì a 443 componenti. Bisognò
approntare in fretta una nuova sede. Torino non ne aveva alcuna. Benché
fosse tempo di statizzazione dei beni degli ordini ecclesiastici
“contemplativi”, non vi erano edifici religiosi che si prestassero al
caso. La città contava anche molte caserme, ma nessuna era atta ad
accogliere i rappresentanti di un'Italia in parte federalista,
rivoluzionaria, garibaldina, con frange mazziniane. Per i senatori
Palazzo Madama bastò qual era, anche per il modesto numero di presenti,
di rado superiori ai 50-60 membri, come ricordano i pochi studi sulla
Camera Alta (sempre meritorio quello di Spartaco Cannarsa), poco
indagata perché i “patres” non erano preda di fazioni litigiose e
quindi risultano meno attraenti per una “storiografia” indulgente, su
influsso britannico, al pettegolezzo e all'autoflagellazione. Con
somma rapidità venne pertanto allestita un'aula lignea nel cortile di
Palazzo Carignano. Fu la grande occasione: tornare alla Curia romana,
meno costosa e più pratica, con due file di banchi a gradoni ai lati e
sul fondo presidenza, governo e palco reale per le grandi occasioni.
Invece venne replicato il modello della Camera subalpina: l'emiciclo,
completo di tribune per ex deputati e giornalisti, guardia nazionale,
esercito e pubblico. Spazi appositi furono riservati a senatori,
“signore”, corpo diplomatico, magistrati e consiglieri di stato. Il
trasferimento della capitale da Torino a Firenze, decisa il 15
settembre 1864 e attuata l'anno seguente, rese però superflua
quell'aula. Nella nuova capitale al Senato fu assegnato l'angusto
teatro mediceo nel Palazzo degli Uffizi. La Camera ebbe il Salone dei
Cinquecento a Palazzo Vecchio, che sembrava fatto apposta per ospitarne
i componenti, ma a sua volta fu pesantemente rimaneggiato per replicare
il modello torinese, benché incompatibile con la sua severità
originaria. Ancora una volta non venne colta l'occasione. Dopo
l'acquisizione di Roma (20 settembre 1870) il Regno d'Italia ricorse
all'“usato sicuro”. Il Quirinale, residenza estiva dei papi, divenne il
Palazzo Reale. Il Senato si insediò nel mediceo Palazzo Madama; la
Camera a Palazzo Ludovisi, edificato a metà Seicento da Lorenzo Bernini
sul Monte Citorio. I ministeri furono sparpagliati in vari edifici
storici. La Pubblica Istruzione s’installò nell'ex convento domenicano
a piazza della Minerva: bene augurante quando ministri erano Michele
Coppino e Francesco De Sanctis. L'unico palazzo ministeriale costruito
ex novo fu quello delle Finanze, che richiese molti anni. L'aula
di Montecitorio si mostrò subito inadeguata: irrimediabilmente torrida
d'estate e gelida d'inverno. Causò innumerevoli malanni ai suoi
frequentatori assidui: più agli impiegati, quindi, che ai deputati e ai
ministri. Si pensò pertanto a una scelta coraggiosa: edificare un
grandioso palazzo per i due rami del Parlamento, che fosse anche
monumento funebre di Vittorio Emanuele II, il Padre della Patria
provvisoriamente sepolto al Pantheon. Doveva sorgere sull'altura di
Magnanapoli, incombente sull'attuale Foro Traiano, due passi dal
Quirinale e non lontano da Termini. Ma per la terza volta
la Nuova Italia mancò di coraggio. I vari concorsi (per il monumento di
Re Vittorio, per il Palazzo onnicomprensivo...) ebbero esiti
importanti, ma solo per gli studiosi di storia dell'architettura. Nei
fatti, zero. Nel 1889 il governo presieduto da Francesco Crispi lanciò
una nuova gara. L'Italia che già possedeva l'Eritrea e si riteneva
tutrice dell'Impero d'Etiopia aveva diritto a un Palazzo di
Rappresentanza degno delle sue ambizioni. Invece, niente. Si ripiegò
sull'ammodernamento dell'“Aula Comotto”, cosiddetta dal suo navigato
ideatore. Vi lavorò Ernesto Basile, con gli scultori Domenico
Trentacoste e Davide Calandra, subalpino, che nell'altorilievo bronzeo
dominante il seggio presidenziale sintetizzò novecento anni di Casa
Savoia, da Umberto Biancamano a Vittorio Emanuele II, re costituzionale. Mitridatizzati all'orrore? La
Camera colà radunata non sempre si mostrò pari alla sua missione
storica. Più volte risultò succuba di intrighi e prepotenze. Nel maggio
1915 cedette a Salandra. Nel 1922 a chi la oltraggiò asserendo che
avrebbe potuto farne bivacco dei suoi manipoli. Umiliata e offesa
tacque. Succuba, votò a favore. Dalla Grande Guerra (come poi dal suo
devastante prolungamento, nel 1940-1945) milioni di giovani e meno
giovani tornarono con la morte negli occhi. Per molti mesi videro
quanto non avrebbero mai immaginato nella quiete del loro lavoro rurale
e manifatturiero, nelle prime industrie metallurgiche e meccaniche. Una
cosa era fabbricare automobili, un'altra la vita di trincea. Da quegli
orrori i combattenti non tornarono affatto “migliori” bensì assuefatti
alla violenza, come si vide nella guerra civile di bassa intensità sino
al 1925. V'è motivo di domandarsi come gli italiani usciranno
dall'“emergenza” attuale dopo mesi di martellamento televisivo di
ambulanze a sirene spiegate, personale sanitario in condizioni estreme,
morenti, bare... Che impressione ne rimarrà nei bambini e negli
adolescenti? La “psicologia delle folle” fiorente da un secolo e mezzo
insegna quali siano le ripercussioni degli spettacoli crudeli. Ma per
capirlo bastano gli affreschi medievali di roghi e supplizi contornati
da fanatici mitridatizzati al “male” e quindi più inclini a reiterarlo.
Lo spettacolo quotidiano della morte non suscita buoni sentimenti. Dalla guerra l'Italia uscì divisa La
storia, quella vera, non la retorica, ci dice che dalla seconda guerra
mondiale e dalla connessa “guerra civile” dilagata soprattutto
nell'Italia settentrionale e inasprita tra l'autunno 1944 e il maggio
1945 gli italiani non uscirono affatto “uniti”. Una parte continuò a
mirare al bagno di sangue purificatore, completo di eliminazione fisica
della “borghesia”. Altri sperarono che gli anglo-americani fermassero i
“rossi” al confine orientale e aiutassero la Ricostruzione iniziata dal
settembre 1943. La preoccupazione di Alcide De Gasperi, Luigi Einaudi e
Giuseppe Saragat fu di escludere dal potere effettivo i comunisti di
Palmiro Togliatti, mentre il socialista Pietro Nenni ne era succubo e,
con l'eccezione di Ugo la Malfa e Ferruccio Parri, anche il
borghesissimo partito d'azione inclinava a sinistra per
anticlericalismo arcaico. Le Camere tornarono a riunirsi
nei palazzi antichi, anziché voltare pagine utilizzando, per esempio,
quelli edificati nel quartiere dell'Eur. Le divisioni rimasero e
durarono persino oltre il crollo dell'Urss. Ma in tempo di
emergenze il problema è solo la vetustà degli edifici? L'orizzonte non
è affatto sereno. Non solo per le vittime quotidiane del “virus” ma per
le ripercussioni che questo avrà sul futuro di un Paese fragile, da
tempo allo stremo delle risorse, costretto a potare gli investimenti e
ora disorientato da altalenanti bollettini quotidiani sull'andamento
del “contagio”, dal cumulo di decreti e ordinanze “a singhiozzo”,
sempre meno sopportabili. Chi ha la responsabilità del governo non può
pretendere fiducia “in bianco” a tempo indeterminato senza indicare ai
cittadini prospettive chiare, tanto più a Camere socchiuse.
Aldo A. Mola
SONNAMBULI GUARDARE OLTRE IL “CONTAGIO”
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 22 Marzo 2020, pagg. 1 e 11.
Parole e fatti... L'Italia
non è “in guerra”. È alla prese con la diffusione di un virus,
classificato “covid-19”, in costante mutazione, di ampia diffusione e a
modo suo di normale letalità. Parlare di “stato di guerra” è un errore
grave, evitato (al momento) dal Governo in carica ma usato a sproposito
da altre “istituzioni”, che diffondono allarmi in un Paese di per sé
emotivo, superstizioso, incline a informarsi sui “siti” anziché da
fonti ufficiali, possibilmente attendibili. Le parole pesano. Parlare
di “guerra” per un’emergenza sanitaria è mancanza di rispetto nei
confronti della Guerra vera, quella che anche oggi viene combattuta in
tanti Paesi dai confini artificiosi e labili. Gli italiani ricordano i
bombardamenti su Sarajevo? Le centinaia di bombardieri in volo dal suo
territorio per annientare vite a pochi chilometri dai suoi confini? Le
stragi per motivi etnici e religiosi a due passi dall'ultima
“apparizione della Madonna”? Che cosa ha a che fare la
“crisi” del covid-19 con la tragedia dell'Afghanistan, dell'Iraq, della
Siria, del Vicino Oriente, della Libia? Guerra non significa essere
costretti a stare in casa, in condizioni spesso insostenibili come oggi
accade per milioni di italiani. Guerra vuol dire non sapere dove
scappare dai bombardamenti, vedere le città sventrate, i villaggi più
sperduti spazzati via in pochi minuti da missili e i loro abitanti
annientati col napalm, mitragliati dall'alto mentre cercano scampo,
feriti senza soccorsi, cadaveri insepolti. La fame. La disperazione. La
Guerra è Guerra. Evocarla a sproposito è errore grave, non
solo linguistico ma di Filosofia della Storia e di Politica. Se un
giorno mai vi fosse davvero bisogno di parlare di Guerra quale termine
bisognerebbe usare? La prima regola, dunque, è misurare le
parole. Ogni parola rappresenta un fatto. Lo insegnò Tommaso d'Aquino
ottocento anni orsono. Diversamente è vaniloquio, deformazione della
realtà, inganno, sia voluto, sia per retorica vanesia. Alzare
al massimo il volume delle parole ottunde la sensibilità, fa perdere il
contatto con la realtà. Inchioda al presente e fa scordare quanto è
avvenuto il giorno prima. L'informazione non è succuba del chiasso, non
canta dai balconi, non sventola bandiere, non sguinzaglia gabellieri e
delatori a caccia di chi senza nuocere a nessuno prende il sole in
perfetta solitudine, lontano dal frastuono di “grida” tardive emesse a
singhiozzo. L'informazione non cerca consensi. Recupera le tessere
disperse del mosaico quotidiano e ricompone la storia, giorno dopo
giorno. Usare termini sbagliati conduce a decisioni
inspiegabili. Fra queste una rimane senza risposta: perché impedire ad
abitanti non contagiati, non in quarantena e debitamente attrezzati di
trasferirsi nelle seconde case (ovunque le abbiano) così allentando il
sovraffollamento delle aree urbane? A quanti parlano a
vanvera di guerra vanno ricordati gli “sfollati” ai tempi della Guerra
vera, che picchiava soprattutto sulle aree molto antropizzate e
industriali. Sonnambuli di ieri... Quanto
è avvenuto in questi mesi evoca, ma molto molto da lontano (si parva
licet componere magnis, dicevano i Romani), l'inizio della Guerra dei
Trent'anni cominciata tra fine luglio e i primi d’agosto del 1914.
Imperatori, re, presidenti di repubbliche, capi di stato maggiore di
terra e di mare, governi, scrittori, sociologi, giornalisti tuttologi,
cronisti e poetucoli a noleggio (un tanto la quartina, come un famelico
Vate, foraggiato dal proprietario-direttore di un famoso quotidiano
milanese...) sapevano che le grandi potenze erano armate sino ai denti
e ogni anno accrescevano la loro capacità distruttiva. Nulla di nuovo.
“Sudate, o fochi, a preparar metalli” aveva scritto nel 1629 il
giurista, diplomatico e poeta bolognese Claudio Achillini (1574-1640)
per incoraggiare Luigi XIII di Francia a invadere la pianura padana.
Era l'anno della Peste descritta da Manzoni nei Promessi sposi. Malgrado
il fervore guerrafondaio e la gara a chi varava corazzate più
invulnerabili, produceva cannoni più rapidi e dalla gittata più lunga,
mitragliatrici più micidiali, fucili più precisi e persino i primi
velivoli, a inizio Novecento l'Europa era adagiata tra le piume della
Belle Epoque: lusso, divertimenti, viaggi, alfabetizzazione accelerata
delle masse, progresso in ogni aspetto della vita quotidiana,
riscaldamento e illuminazione elettrica delle abitazioni, acqua
corrente, igiene personale. Povero professore, celebre ma senza
proventi d'autore, quando si trovò a ricevere in casa l'ambasciatore di
Svezia, Carl Bildt, che gli annunciava il Premio Nobel, per non
sfigurare Giosue Carducci affittò un paio di lampadari. Ne andava del
decoro dell'Italia, che procedeva a piccoli passi. Più dell'attuale,
svagata e smemorata, ignara di sé ma misteriosamente corriva a
svacanzare nelle isole più remote. In “1913. L'anno prima
della tempesta” (ed. Marsilio) Florian Illies ha narrato giorno per
giorno quell'“Europa in pace”, colta, gaudente e tuttavia inquieta. Nel
dicembre Oswald Spengler avvertì che essa si stava spogliando “di
tutto: civiltà, bellezza, colori”. Lo stesso mese David Herbert
Lawrence, il cui “Figli e amanti” riscuoteva straripante successo,
scrisse “La mia grande religione è la fede nel sangue, nella carne, in
quanto più saggi dell'intelletto. Ciò che il nostro sangue sente, crede
e dice è sempre vero”. Il sano razionale positivismo ottocentesco
cedeva il passo allo “slancio vitale”, al volontarismo. La scienza a
rigurgiti di misticismo. Matisse e Picasso cavalcavano insieme. I
rimatori si ergevano a profeti, mentre veniva dimenticato l'ungherese
Ignace Semmelweiss (1818-1865) passato per pazzo perché diceva ai
chirurghi di lavare ben bene le mani prima durante e dopo gli
interventi per scongiurare la setticemia. Anche in Italia spopolavano
parolai come Mario Morasso e Filippo Tommaso Marinetti, inneggiante
alla guerra, “sola igiene del mondo”. La storia sembrava
correre su binari sicuri. Ogni tanto una galleria, una guerra
coloniale, completa di stragi efferate e di orrori, ma là, lontano, ai
confini del mondo. L'“Illustrazione italiana”, rivista di bellezza
editoriale inarrivabile, alternava immagini festose ad altre
orripilanti. Così si pensava di esorcizzare il Male, di allontanare il
“guerrone”, incubo di papa Pio X, come ha scritto il suo biografo
Gianpaolo Romanato. Ma quei costosi binari (accade anche
oggi) a volte avevano scambi difettosi. Nel 1914, come negli
esperimenti in uso nelle aule scolastiche di fisica e chimica, il
“precipitato” si cristallizzò. Un mese dopo l'assassinio di Francesco
Ferdinando d'Asburgo a Sarajevo il 28 giugno (né il primo né l'ultimo
di una testa coronata o di un suo erede), gli Stati si arroccarono, i
governi si minacciarono e in pochi giorni scattarono uno contro
l'altro, anzi uno prima dell'altro, nel timore di perdere il vantaggio
per vincere la “guerra lampo”. Gettarono nella conflagrazione tutta la
propria capacità offensiva e difensiva. Malgrado decenni di retorica
pacifista il sentimento dominante risultò l'odio. I “popoli” scoprirono
di doversi odiare a vicenda, per motivi in massima parte ignoti alla
maggioranza. Per combattersi a quel modo bisognava odiarsi. Una guerra
infame, come scrisse Luigi Cadorna, massimo stratega europeo. Tra le
migliaia di episodi spicca la leggendaria “battaglia dei morti
viventi”: il centinaio di russi che il 6 agosto 1915, sopravvissuti
alle bombe al cloro dei tedeschi, con ferite aperte appena bendate e
sputando sangue e pezzi di polmone, travolsero 7000 nemici assedianti
la fortezza di Osowiec. Pochi uomini politici (fu il caso
dell'italiano Giolitti) capirono che la guerra sarebbe durata anni e
avrebbe risucchiato le risorse del Paese per almeno una generazione. Ma
non furono compresi. Il socialista francese Jean Jaurès, contrario alla
guerra contro la Germania non perché filotedesco o traditore della
patria ma convinto che l'Europa potesse risolvere le tensioni antiche
in una visione continentale dei problemi locali, fu assassinato. I
dissenzienti vennero isolati come appestati. Romain Rolland si giocò la
vasta e meritata popolarità perché non bruciò incensi a Marte e a
Bellona. Cent'anni dopo la storiografia ha fatto passi
avanti nello studio della “catena di comando”, ma nessuno nella
comprensione del conflitto che sconvolse irrimediabilmente l'Europa.
L'opera più meditata rimane “I sonnambuli. Come l'Europa arrivò alla
Grande Guerra” di Christopher Clark (ed. Laterza): una “non
spiegazione”. La storia procede a zig-zag, sfugge di mano. Clio danza
avvolta nei veli delle molteplici interpretazioni che disputano sulle
“ragioni” delle sue venture. ...e di oggi L'incertezza
dinnanzi a quel passato, alle sue possibili cause e concause (Sidney
Sonnino, che certo non era un'aquila, una volta mestamente abbozzò che
forse tutto era dovuto al passaggio di una cometa: annunzio di
pestilenze anziché di vera Luce o, si diceva, di Epifania) ha poco da
spartire con la condotta dei governi odierni a cospetto della
diffusione del Covid-19. Travolti e sempre più infastiditi
dalle misure restrittive delle loro libertà elementari imposte dai
governi, i cittadini sono storditi. Motivo in più per fare sintesi
degli eventi nella loro arida sequenza: la cronologia è l'attaccapanni
della storia, che non è profezia del passato ma ricostruzione dei fatti
nella loro successione. Il meno che si può dire a ricapitolazione della
tempesta in corso è la constatazione della manifesta inettitudine
mostrata dai governi dei principali Paesi europei dinnanzi alla
prevedibilissima diffusione del contagio. Se le parole hanno un senso,
alcuni di essi si sono condotti da “untori di Stato”. La storia dirà se
e quanto lo abbiano fatto di proposito, per miope calcolo o per
colpevole inettitudine. O semplicemente nel timore
dell'opposizione, che è sempre più vociante e temibile della
“maggioranza borbottante” disposta ad assecondare provvedimenti
razionali. I fatti, comunque, sono sotto gli occhi. Ridotti all'osso, valgano quattro “casi di scuola”. In
Francia il presidente tuttofare Emmanuel Macron ha introdotto le prime
modeste misure anti-contagio solo dopo aver fatto “celebrare” le
elezioni amministrative nelle quali i suoi candidati di fiducia sono
rimasti travolti. A epidemia conclamata ha rinviato il ballottaggio a
data incerta. In un paese per mesi squassato dai “gilets gialli”
Asterix tace. In Francia si ammalano e muoiono come in Italia, sino a
poco prima irrisa dai “cugini d'Oltralpe” in modi arroganti e
indecenti. Lì il governo tecnocratico ha mostrato tutte le sue
rughe. In Spagna il vanesio Sánchez ha caldeggiato la
superflua festa dell'8 marzo quando ormai il contagio dilagava. Un
esempio clamoroso di imprevidenza e cecità. Il vicepresidente, in
quarantena, ha partecipato al consiglio dei ministri. L'imprevidenza
del governo di Madrid è colpevole. In Gran Bretagna
(che ormai non fa più parte dell'Unione Europea) Boris Johnson pensava
di pascere a piacer suo le pecorelle inglesi, ma il gregge, poco
rassegnato al buon pastore, dalla Scozia al Galles gli ha imposto
misure non troppo lontane da quelle italo-franco-iberiche.
L'“Inghilterra” è molto più fragile, anzi friabile, ora che deve fare
da sé. Che cosa le rimane aldilà della Regina e del Consorte Filippo di
Edimburgo non proprio adolescenti? La Germania rimane un
caso a sé: uncinata non solo dai neonazisti ma dalla frammentazione dei
suoi poteri e dal manifesto declino di Angela Merkel a due mesi
dall'inizio del contagio non sta prendendo misure adeguate. A
sua volta, con delusione dei suoi ammiratori nostrani, il presidente
degli USA Donald Trump sul coronavirus in pochi giorni ha detto tutto e
il contrario di tutto, quasi ventriloquo di uno dei tanti siti che lo
imputano a un complotto di Spectre (manca solo Licio Gelli) per
allontanare da sé l'addebito più ovvio: è un sonnambulo, come Macron,
Sánchez e i tanti altri che, a contagio ormai conclamato, o non hanno
preso precauzioni personali o non ne hanno imposte ai propri “vicini”.
È il caso di Alberto II di Monaco, “positivo” giorni dopo che il morbo
aveva contagiato il suo primo ministro, il vescovo e altri molti in uno
“stato” che sembra fatto apposta per la propagazione vertiginosa di un
qualunque raffreddore. L'Italia s’è desta? L'Italia,
per ora, è un caso a sé. Allertata per prima nell'Europa
centro-occidentale dall'evidenza di malati, ha fatto e fa i conti con
la sproporzione tra la sua volontà di circoscrivere la diffusione del
contagio e la modestia dei mezzi disponibili anche in regioni che
vantavano primati indiscutibili. Il mancato tempestivo
approvvigionamento di “mascherine” lascia sconcertati. Virologi a
parte, non era difficile intuirne l'urgenza e la quantità necessaria. Senza
nulla togliere ai meriti del governo, due constatazioni s’impongono. Il
potere politico si è affidato “toto corde” alla scienza, ma questa non
si è mostrata affatto unanime, né nell'analisi né nella terapia. Gli
sforzi si sono concentrati sulla prima linea, ma con mezzi inadeguati,
confidando che la tempesta presto sarebbe mutata in acquazzone e poi in
pioggerellina di marzo. Di lì la propensione, ancora perdurante, a
provvedimenti circoscritti nello spazio e nel tempo, “salvo intese”,
cioè con la riserva di proroghe, senza indicazione attendibile del
futuro superamento dell'“emergenza”. Assillato dall'opposizione e dai
“sondaggi” il governo si è occupato più della trincea avanzata
(vulnerabile, come sempre accade a chi sta in prima linea) che delle
seconde e terze linee e della grande riserva: la pazienza degli
italiani. Anche questo è un motivo ulteriore per evitare di parlare di
“guerra”. Quando proprio si è spossati, per uscire da un conflitto al
nemico si chiede un armistizio. Ma non lo si può chiedere al covid-19,
che non fa indice conferenze stampa. Com’è venuto, se ne andrà. Come e
quando non si sa. La frontiera è la guarigione. Potere
politico e scienza sono impegnati a raggiungerla. Vi sono però
“terreni” che vanno governati con polso e con chiarezza: il rapporto
fiduciario tra cittadini e amministrazione delle città e il sistema
scolastico-educativo. L'osservanza dei Decreti del presidente del
Consiglio dei ministri non può essere abbandonata all'arbitrio di
“poteri” locali e dei loro “agenti” se non rischiando di infrangere il
già vacillante rapporto di fiducia dei cittadini verso certe “autorità”
e di scatenare i peggiori istinti di rivolta contro irruzioni
pretestuose nella loro innocua quotidianità. Occorrono precisazioni
ulteriori, ferme, precise e valide erga omnes (“agenti” inclusi) da
parte dell'Esecutivo, nell'incalzare della “bella stagione” e nella
notoria inadeguatezza della capacità abitativa nazionale ai bisogni
elementari dei suoi utenti. Quanto al sistema scolastico,
tutto si può fare tranne che dare l'anno per concluso e valido con una
“promozione” generalizzata senza alcuna verifica dell’effettiva
trasmissione del sapere. Tanto vale dichiarare l'inutilità
dell'istruzione pubblica e dei suoi diplomi. Aveva dunque ragione Luigi
Einaudi a chiedere l'abolizione del valore legale dei titoli di studio.
In settantacinque anni la Repubblica non gli ha dato retta. Ci voleva
ora il covid-19 per dimostrare che egli era nel giusto? Altrove
il combinato disposto potere-scienza ha dato segni manifesti di
sonnambulismo. Nel Paese Italia, che al momento si è mosso molto meglio
degli altri, è il momento di abbassare i toni e di assumere misure
accettabili e di lungo periodo: di ritrovare quel “senso dello Stato”
che da troppo tempo si è perso a beneficio dei “sondaggi”, della
ricerca di consensi. Il Governo di un grande Paese non cerca applausi.
Non imita “il medico pietoso” che “fa la piaga cancrenosa” . La cura. E
così avrà la gratitudine dei posteri.
Aldo A. Mola
Immegine: Teofilo Patini (1840-1906), Il sequestro. L'Italia ce l'ha fatta e ce la farà.
200° della nascita di Vittorio Emanuele II ROMA PER IL RE D'ITALIA
Il
27 novembre 1871 Roma accoglie Vittorio Emanuele II (Torino, 14 marzo
1820-Roma, 9 gennaio 1878), che pronuncia il discorso inaugurale della
2^ sessione dell'XI^ Legislatura del Regno d'Italia.
Nell'allegoria la Città Eterna è raffigurata come Matrona, con stola di
ermellino e manti dai colori in uso per le immagini della Madonna. A
capo scoperto, con saluto iniziatico il Re sale il primo passo verso il
Colle più alto della Città “dei sette dolori”.
Gli elettori di Roma e delle Province Romane il 2 ottobre 1870
approvarono la loro “unione al regno d'Italia sotto il governo
monarchico costituzionale del Re Vittorio Emanuele II e suoi
successori”, con 133.681 “si” contro 1.507 “no”. Il 9 ottobre
l'esito del plebiscito fu presentato al sovrano in Firenze da don
Michelangelo Caetani duca di Sermoneta, poi affiliato alla loggia
“Universo”. Vittorio Emanuele II entrò in Roma la prima volta
alle 4 del mattino del 31 dicembre 1870. Se oggi Roma declina non è certo colpa del primo Re d'Italia...
Aldo A. Mola
GOVERNARE GLI ITALIANI? INUTILE? NECESSARIO? “VENTA GOVERNÈ BIN”
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 15 Marzo 2020, pagg. 1 e 11.
Nell'emergenza, massima chiarezza La
Costituzione (pensata e scritta quando in Italia gli stranieri erano
pressoché irrilevanti e gli “esuli” erano gli avversari del regime
rientrati dopo il suo crollo) riconosce a “ogni cittadino” il diritto
di “circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del
territorio nazionale”, salve le limitazioni stabilite dalla legge “in
via generale per motivi di sanità o di sicurezza” (art. 16). Proprio
perché dettati da conclamata emergenza, le norme eccezionali debbono
attenersi alla regola aurea: “in claris non fit interpretatio”. Vanno
scritte in termini chiari e univoci, a garanzia delle inviolabili
libertà di tutte le persone presenti sul territorio nazionale, inclusi
i milioni di abitanti senza cittadinanza e gli “stranieri”, tutelati
dalle convenzioni nel frattempo sottoscritte dalla Repubblica. La
chiarezza vale anche per chi è chiamato ad “amministrare” i
provvedimenti emergenziali. Li mette sull'avviso e al riparo da ricorsi
contro loro eventuali abusi di potere. Non sarebbe la prima volta. Purtroppo,
sin dalla pubblicazione nella “Gazzetta Ufficiale”, preceduta da
normale e nondimeno colpevole “fuga di notizie” a opera di “ignoti” (ma
prima o poi se ne dovrà venire in chiaro, a salvaguardia della
credibilità del governo), i decreti del Presidente del Consiglio dei
Ministri (DPCM) hanno dato adito a molteplici dubbi, sinora mantenuti
sottotraccia per carità di patria. A partire dalle imprecisioni
terminologiche e dalle conseguenti difficoltà interpretative ingenerate
dal “combinato disposto” del provvedimento che una settimana addietro
ha stabilito di “evitare ogni spostamento delle persone fisiche” in
entrata e in uscita dalla Lombardia e province limitrofe e di quello
che l’indomani ha esteso tale misura a tutto il Paese. Evitare gli
“spostamenti”. Con quale mezzo? A piedi? In velocipede? Coi trasporti
pubblici, di cui pure si rivendica il regolare funzionamento nonostante
l’emergenza? E in quali “territori”?Lo Stato, la Regione, la Provincia,
il Comune o forse anche la dimora, la “casa” e le sue “pertinenze”?
“Territorio” è troppo generico. A rendere ancor più impervia
l'applicazione di simili “misure” e opinabili le sanzioni comminate per
la loro violazione contribuiscono i “poteri locali” con provvedimenti
incoerenti, contraddittori, spesso palesemente impraticabili. E con non
richiesti e immotivati “suggerimenti” pressanti. È il caso, per citarne
uno fra i molti, del divieto di passeggio nei parchi urbani (per altro
rari e non sempre apprezzati per cure specchiate da parte delle
amministrazioni), cioè in uno tra i rari “sfoghi” per la attività
motoria dei cittadini, raccomandata da tutti i medici e che non
può essere ragionevolmente praticata nelle abitazioni (spesso poco più
che abitacoli, poco o nulla aerati: quante solo le camere e i bagni
privi di “doppia aria” o almeno di una?). Sic stantibus rebus, la
salute è meno a rischio in camporella che tra quattro pareti di
condominii angoscianti o in viuzze di rado raggiunte da un raggio del
Sole Invitto. Non bastasse, mentre i DPCM hanno ovviamente
indicato un termine a quo e uno ad quem, “dall'alto” si lascia
intendere che la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado verrà
prorogata almeno sino alla ancora lontanissima Pasqua. Tale protrazione
trarrà con sé a strascico tutte le altre misure messe in vigore in
questi giorni? Decreti che strizzano l'occhio, inducono i
cittadini a prendere le loro cautele. Poiché la limitazione delle
libertà fondamentali per conclamata emergenza, e quindi per il periodo
più breve possibile, costituisce un precedente di assoluta gravità, è
lecito domandarsi se la sua “proposta d'uso” abbia i requisiti
indispensabili a renderla efficace, in ragione della “riserva di legge”
stabilita in materia dalla Costituzione. E se la sua applicazione
avvenga nel rispetto dei diritti o non dia adito, piuttosto, a
interpretazioni applicative vessatorie da parte di “vigilanti” che
talora ricordano i gabellieri degli antichi borghi, più inclini a “far
cassa” che a rispettare i viandanti. Oggi non sono in gioco gli usuali
taglieggiamenti per mancato rispetto dei limiti di velocità su
rettilinei assolati in ore di morta o per sosta in parcheggi con una
ruota fuori dalla linea bianca (come accaduto in una “antica
capitale”), ma, come detto, diritti di libertà garantiti dalla
Costituzione. Perciò vegliare sul loro rispetto è d'obbligo, anche
perché la Piramide dei poteri ricorda un po' l'Olimpo descritto da
Omero: mentre greci e troiani si scannavano, ogni dio e ogni dea
pensava anzitutto ai fatti propri, un po' meno ai figli, a volte un po'
semidei, a volte meno. Torna dunque d'attualità una domanda antica. Governare gli italiani è inutile? In
“Colloqui con Mussolini” (Mondadori, 1932) lo scrittore Emil Ludwig
(Breslavia, 1881 - Ascona, 1948) narra di aver domandato al “duce” se
sia difficile governare “gente così individualista ed anarchica come
gli italiani”. Il duce gli rispose: “Difficile? Ma per nulla. È
semplicemente inutile”. Ludwig aveva alle spalle le fortunate biografie
di Napoleone (1926), Goethe, Bismarck, tuttora classici ristampati, e
quella, assai discussa di Gesù (1928). Poligrafo, amava scandagliare
l'animo dei personaggi storici del passato remoto e dei contemporanei
che via via riuscì a intervistare. Subito prima di Mussolini dialogò
con Stalin, che gli espose la sua visione del marx-comunismo e motivò
il suo duello mortale con Trotzky, che un decennio dopo fece
assassinare con ferocia. Biografato da Margherita Sarfatti in “Dux”
(1926: un bel sostegno a Mussolini dopo l'affaire Matteotti-Dùmini e
nel pieno delle leggi fascistissime), Mussolini si appagò di
colloquiare con il celebre poligrafo ebreo (Ludwig era “nome de plume”
di Emil Cohn), che pubblicava in Gran Bretagna e negli USA. Gli ostentò
quanto poteva di cinismo spacciato per machiavellismo
imparaticcio e la disistima di fondo verso gli italiani. Si atteggiò a
quel che voleva apparire: l'uomo del Destino. Ludwig tornò sulla sua
figura nel trittico “Hitler-Mussolini-Stalin” ora riproposto col titolo
“I dittatori non cadono dal cielo. Sono i popoli che vogliono esser
schiavi” (ed. Mind), perché di quando in quando si rifugiano
nell'irrazionalità più sfrenata e abdicano all'autocontrollo, all'uso
dei poteri loro riconosciuti e si concedono al “dittatore” di turno.
Ludwig aveva vissuto la catastrofe della Grande Guerra, la cui genesi e
il cui sviluppo sfugge tuttora a ogni spiegazione razionale. Con ogni
evidenza e al di là di ogni tentativo di “giustificazione”, nel 1914 la
storia “scappò di mano” a chi ne aveva o credeva averne il controllo.
Le conseguenze sono ancora sotto gli occhi. Il celebre
aforisma sull'inutilità di “governare gli italiani”, ripreso da Giulio
Andreotti, fu attribuito anche allo statista liberale Giovanni Gìolitti
(1842-1928), cinque volte presidente del Consiglio dei ministri. Nulla
di più errato. Anzi, di falso. A chi gli domandava quale fosse il
dovere dell'Esecutivo rispose: “Venta governè bin”. Governare bene
significa conoscere la realtà ed emanare norme a sua misura. Giolitti
lo fece da insuperato statista d'Italia. Le radici del ginepraio attuale: “gubernare necesse” Senza
smarrirsi nell'aneddotica, il fatuo motto mussoliniano va capovolto:
governare gli italiani (come ogni altro popolo) è utile, anzi
necessario. Però è molto difficile, se si percorre la via della
democrazia parlamentare. Non perché gli italiani siano più
individualistici e anarchici di altri popoli della Vecchia Europa, ma
perché le istituzioni e le norme vigenti nello Stato d'Italia sono una
rete labirintica plurisecolare dalla quale anche la volontà più
energica fatica a districarsi. Era più facile farlo ai tempi di
Augusto, quando Virgilio a “governare” preferì il cesariano “reggere”.
Prima di ricordarne sinteticamente le motivazioni remote e recenti, va
premesso che, a conti fatti, oggigiorno gli Stati “nazionali” europei
di peso demografico ed economico rilevante si contano sulle dita di una
mano e non se la passano affatto meglio dell'Italia. La Spagna è
attanagliata dalla rivendicazione dei catalani che chiedono di
costituirsi in repubblica indipendente, mentre il governo rosso
paonazzo Sánchez-Iglesias riapre il solco tra cattolici e anticlericali
infatuati. Nessuno è in grado di prevederne lo scenario a dieci anni da
oggi. Lo stesso vale per la Francia, che regge solo grazie a una
macchina che risale a Luigi XIV, a Napoleone I, a Clemenceau e a De
Gaulle: uomini forti in tempi eccezionali. Nulla di paragonabile a
Macron che in un paio di giorni ha declassato gli “assembramenti” da
1000 a 100 persone e tra un po' dovra scenderà a 10. La Germania sta
precipitando nel conflitto tra un “centro” sempre più debole ed
estremismi sempre più aggressivi, radicati nell'arretratezza generata
dalla sconfitta del 1945 e dal dominio sovietico, che lì e a Praga ebbe
i suoi strumenti più canaglieschi. Non se la passa benissimo la Gran
Bretagna, teatro di risorgenti contrapposizioni plurisecolari tra
Scozia e Inghilterra e tra Londra e Irlanda, con il noto irriducibile
conflitto confessionale tra cattolici e anglicani e fra questi e le
molte denominazioni evangeliche, con lo sfondo di islamici dalle varie
accentuazioni. Gli altri Stati e staterelli d'Europa ostentano a volte
arroganza pari alla loro non enorme rilevanza: dall'Austria
all'Ungheria e alla Boemia, sino ai Paesi baltici, croce e delizia dei
filatelici. Sorto quasi d'improvviso, dalla seconda
“tempesta magnifica” in appena un decennio (1859-1861), lo Stato
d'Italia ebbe dall'origine avversari interni irriducibili. Il suo
blocco dirigente (Destra e Sinistra storica: due screziature di una
medesima concezione dell'uomo e del cittadino) resse perché i suoi
nemici più strenui (i clerico-papisti e i mazziniani duri e puri) si
astennero dal voto politico e quindi, anche grazie alla legge
elettorale che saggiamente riservava il diritto di voto a cittadini
consapevoli e proclivi a sostenere il “regime”, gli consentirono di
mantenere il monopolio della rappresentanza parlamentare senza avere
quella del Paese. Maggioritario nell'esercizio del potere, quel blocco
era e rimase minoritario nel consenso di un’opinione che non v'era
motivo di “consultare”. Suo massimo garante fu Vittorio Emanuele II,
che, dall'alto delle valli ove andava a caccia, oggi scorre divertito,
gli strali che a duecento anni dalla nascita gli vengono lanciati anche
in quotidiani della antica capitale del suo Regno (di Sardegna prima,
d'Italia poi). Sopportò da vivo, figurarsi da morto. Non dimentica che
l'Uomo cosmico-storico non lo è per il cameriere, solo perché il
secondo è quello che è. Consci di camminare sulle
uova, dopo l'Unità governi e Parlamento si mossero con somma cautela
per non moltiplicare gli avversari. Dalle sue lettere emerge che
Vittorio Emanuele II teneva continuamente d'occhio i “masiniens”, i cui
propositi erano privi di prospettive nell'Europa di Napoleone III,
Bismarck, Francesco Giuseppe, ma avrebbero potuto avere la meglio se le
istituzioni si fossero mostrate impari alla loro funzione, come avvenne
in Spagna dopo l'abdicazione di Amedeo I di Savoia e l'avvento della
catastrofica prima Repubblica. I ministri del Re erano a loro volta
perfettamente consapevoli delle difficoltà di navigazione del giovane
Stato unitario. In una lettera del 1° maggio 1870, recentemente
proposta da Rosanna Roccia, lo ricordò Urbano Rattazzi a Michelangelo
Castelli che stava scrivendo la genesi del “connubio” di vent'anni
prima tra la sinistra democratica (da lui capeggiata) e Camillo Cavour:
“I principi che dovevano inspirare il nuovo partito (poi detto di
centro-sinistro, NdA) erano principalmente due, cioè all'interno
resistere a qualsiasi tendenza reazionaria e nel tempo stesso
promuovere, per quanto le circostanze lo permettessero, un continuo e
progressivo svolgimento della libertà consentito dal nostro Statuto, sì
nell'ordine politico come in quello economico ed amministrativo”.
Propiziata da Castelli e da Domenico Buffa, l'intesa tra Cavour e
Rattazzi fu la base della storia d'Italia sino alla Grande Guerra: essa
contenne le linee fondamentali dei governi seguenti, inclusi quelli di
Francesco Crispi e di Giolitti. Tra i suoi capisaldi vi fu
la legge sulle amministrazioni comunali e provinciali del 23 ottobre
1859 varata per il regno di Sardegna (all'epoca già comprendente la
Lombardia, per effetto dell'armistizio di Villafranca) e passata pari
pari nel regno d'Italia, con poche modifiche e sempre in direzione più
liberale. La sua “ratio” era la conciliazione tra la monarchia
rappresentativa e gli interessi locali, grazie alla mediazione della
Camera elettiva i cui componenti rappresentavano la Nazione e non le
province di elezione ed erano liberi da ogni “mandato imperativo” dei
loro elettori (art. 41 dello Statuto). La missione dell'Italia: ieri e oggi Appena
nato, però, quel povero Regno d'Italia dovette fare i conti con la
missione che gli era imposta dalla geografia, che non pratica sconti
alla storia: concorrere ad ampliare i confini dell'Europa in Africa e
sino alla Cina e al Giappone. In un Paese poco avvezzo a pagare tasse e
imposte, preso nella tenaglia di Quintino Sella (“lesina” da un canto
sulle uscite, tassa sulla macinazione delle farine dall'altro),
l'Italia dovette “fare politica estera” in un'Europa inquieta.
Significava spendere per le Forze Armate e costruire lo Stato al
proprio interno. Una fatica immensa. Quando, con la sconfitta nei
presso di Adua (Etiopia) stette per vacillare, fu il celebre
esploratore inglese Harry Stanley a dire che l'Italia doveva continuare
a farsi carico del “fardello dell'uomo bianco”. Continuò con le colonie
di Somalia (1907) e di Libia (1912). Ma l'intervento nelle due fasi
della Guerra di Trent'anni (1914-1945) hanno spossato l'Italia, ne
hanno squassato la cornice istituzionale, indebolita e allentata la
catena di comando. L'arroganza della burocrazia non è solo quella oggi
narrata dall'aneddotica vissuta a ridosso dei Poteri Centrali. È ormai
caleidoscopio dei potentati locali: regioni a statuto speciale,
aspiranti autonomie rafforzate, città metropolitane, sindaci che si
credono podestà... e poi, appunto, i “gabellieri” che si aggirano sui
confini dei comuni... Ma chi sa davvero quali siano i
confini degli 8.000 comuni d'Italia? Si va dai 302.000 kmq di Roma a
comunelli di un paio di chilometri e con meno di 100 abitanti. I più
vasti (a parte Ravenna e Ferrara) sono nell'Italia centro-meridionale.
I più piccoli nel Vecchio Piemonte. Tra le cose ben fatte (ne fece
anch'esso), il governo Mussolini ne incorporò molti. Ma nel 1945 tante
frazioni tornarono indipendenti: senz’acqua potabile né rete fognaria,
né altro, ma “libere”. Se davvero l'Italia vuol ripartire,
deve farlo immergendosi nell'acqua tonificante della propria storia.
Come nella Fontana della Giovinezza del Castello della Manta: emblema
di un mondo nel quale ci si ripeteva il saggio “Memento mori” e si
cantava il “Gaudeamus igitur...”. Un bell'esame di
coscienza vien bene in Quaresima, all'insegna del “Discernimento” al
quale richiama papa Francesco, gesuita. Ci esorta a comprendere che
dalla storia non si scappa. Possiamo fingere di non avere un passato:
epperò esso ci grava sulle spalle. Non ci si libera chiudendo confini,
cancelli, giardini.... Semmai, all'opposto, occorre ampliare gli
orizzonti come l'Italia seppe fare alle sue origini: aria, luce,
pulizia; leggi chiare, non la pioggia di “grida” manzoniane, e loro
corretta applicazione, nel rispetto degli inderogabili diritti di
libertà costituzionalmente garantiti.
Aldo A. Mola
VITTORIO EMANUELE II DI SAVOIA RE DEI POPOLI D'ITALIA (20 MARZO 1820 – 9 GENNAIO 1878)
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 8 Marzo 2020, pagg. 1 e 11.
“Per grazia di Dio e per volontà della Nazione” Il
14 marzo 1861 la Camera dei deputati approvò all'unanimità la legge
presentata da Camillo Cavour: “Il Re Vittorio Emanuele II assume
per sé e i suoi successori il titolo di Re d'Italia”. Con la sua
pubblicazione nella “Gazzetta Ufficiale” il 17 marzo nacque il Regno
d'Italia, il cui vero genetliaco rimane il 14 marzo. La data non era
affatto casuale. Re Vittorio era nato a Torino il 14 marzo 1820,
primogenito di Carlo Alberto di Savoia, principe di Carignano, e di
Maria Teresa d'Asburgo-Lorena. Il 13 marzo 1861 il generale Enrico
Cialdini comunicò la resa di Messina. Gaeta era caduta un mese prima.
Francesco II di Borbone e la consorte Maria Sofia di Wittelsbach erano
partiti alla volta dello Stato pontificio su vascello francese.
Civitella del Tronto si sarebbe arresa il 20 seguente. Il 17 aprile la
Camera deliberò che negli atti il nome del Re fosse seguito dalla
formula “per grazia di Dio e per volontà della Nazione”. Tradizione,
legittimità e volontà popolare. Così fu coronato il Risorgimento
d'Italia. Nel frattempo, il 27 marzo 1861 quasi
all'unanimità il Parlamento approvò il “voto” proposto da Carlo
Bon-Compagni su sollecitazione di Cavour: “Roma, capitale acclamata
dall'opinione nazionale, sia congiunta all'Italia”. Re e Nazione.
Sovrano, governo e Parlamento (il Senato di nomina regia e vitalizio,
la Camera elettiva) formavano la catena di unione evocata da Cavour il
14 marzo: “Tutti abbiamo diversamente lavorato per la medesima causa
(…); di qui parta unanime adunque quel grido di entusiasmo, qui
finalmente l'aspettata fra le nazioni si levi e dica Io sono
l'Italia!”. Cavour non amava la retorica. Stava ai fatti. Fra i
deputati vi erano Giuseppe Garibaldi, tanti patrioti già seguaci di
Giuseppe Mazzini, alcuni federalisti: la “concordia discors” dalla
quale la Patria aveva assunto forma di Stato e prendeva il suo corso. Dal Piemonte, l'Italia Perché la centralità del Re? Nell'età
franco-napoleonica (1798-1814) il “Piemonte” era stato annesso alla
Francia. Dopo otto secoli di storia gloriosa aveva cessato di esistere.
Come lingua ufficiale gli fu imposto il francese. Dopo la Restaurazione
del 1814, aveva ripreso la via delle libertà proprio con Carlo Alberto
di Savoia-Carignano che nel marzo 1821 promulgò pro tempore la
costituzione spagnola con la riserva del rispetto dei culti ammessi
(israeliti e valdesi). Dopo lunghe traversie e la sconfitta nell'impari
guerra contro l'Impero d'Austria, l'abdicazione e l'amaro esilio di
Carlo Alberto (1848-1849), il regno di Sardegna fu l'unico in Italia a
conservare lo Statuto che aveva introdotto la monarchia
rappresentativa, l'elettività alle cariche locali e dichiarava i
cittadini uguali dinnanzi alle leggi. Non per caso esso divenne rifugio
di esuli politici da tutta Italia, con i loro propositi, spesso fuori
misura, come Carlo Pisacane, ferocemente antisabaudo. Il regno di
Sardegna propiziò la nascita di una dirigenza politico-amministrativa
vastissima e varò la modernizzazione in ogni settore della vita
pubblica e privata. Con l’onerosa partecipazione all'alleanza
anglo-franco-turca contro l'impero di Russia (1854-1855) e al congresso
di Parigi (1856) entrò nel grande gioco delle Potenze europee.
Asceso al trono a 29 anni mentre il “Piemonte” era in condizioni
disperate, Vittorio Emanuele II si mostrò politico lungimirante.
Incoraggiò, accettò e a volte subì le pulsioni della Camera e di suoi
litigiosi capifila. Guadagnò la simpatia della Gran Bretagna e
l'alleanza con la Francia di Napoleone III, suggellata dalle nozze di
sua figlia, la sedicenne Clotilde, con Napoleone Gerolamo Bonaparte.
Ebbe chiaro che il Regno di Sardegna non poteva “fare da sé”. Alleato
con Parigi, nel 1859 ottenne la Lombardia, mentre i liberali
suscitavano insorgenze nei Ducati padani e nelle Legazioni pontificie e
inducevano il granduca di Toscana (un Asburgo-Lorena) a lasciare
Firenze. Le richieste di annessione furono ratificate da plebisciti.
Nel settembre 1860, mentre Garibaldi, vittorioso in Sicilia già era
arrivato a Napoli, Re Vittorio ebbe “via libera” da Napoleone III
(“fate, ma fate in fretta”): invase Umbria e Marche per proteggervi i
liberali dalle vessazioni dei papalini e proseguì nel regno delle Due
Sicilie, ove in ottobre si congiunse con il Generale, vittorioso a
Calatafimi, Palermo, Milazzo, al Volturno: valoroso condottiero assai
più che politico avveduto. Se n'ebbe conferma nel 1862 e nel 1867
quando Garibaldi capeggiò due “spedizioni” sconsiderate e sfortunate.
Altri plebisciti confermarono il Re costituzionale.
In diciotto mesi prese corpo il sogno di generazioni di patrioti: fare
l'Italia. Il difficile venne dopo, sia per gli ostacoli interni, a
cominciare dal “grande brigantaggio”, alimentato dall'estero e dal
clero, sia per l'enorme divario tra i popoli e le terre d'Italia.
Anzitutto occorreva ottenere il riconoscimento dello Stato nella
Comunità internazionale. Ci vollero sette anni ad averlo. Riconosciuto
nel 1861 da Gran Bretagna, Grecia, Svizzera e Stati Uniti, dalla
Francia solo dopo la morte di Cavour, nel 1862 da Russia e Prussia e
poi da Spagna e altri, nel 1867 il regno d'Italia sedette per la prima
volta in una conferenza diplomatica europea con la presenza
dell'Austria cui, grazie all'alleanza con la Prussia e la mediazione di
Napoleone III, nel 1866 aveva sottratto Mantova e Venezia. L'Italia dalla scomunica (beato Pio IX) al riconoscimento (san Paolo VI) Scomunicato
dal 26 marzo 1860, dopo esitazioni e tentativi di persuadere Pio IX a
risolvere pacificamente la “questione romana”, nel settembre 1870 il
cattolicissimo Re Vittorio ordinò la spedizione che agli ordini di
Raffaele Cadorna irruppe in Roma. Tra il 1861 e il 9 gennaio 1878,
quando morì, il sovrano vide susseguirsi quindici diversi governi.
Assisté alle logoranti diatribe tra maggiorenti e fazioni
parlamentari. Sulla fine del 1877 osservò sconsolato:“Non sono ancora
vecchio, e già mi trovo a essere il decano dei patrioti e degli uomini
politici del mio paese”. Da oltre un anno aveva nominato presidente del
Consiglio Agostino Depretis, esponente della Sinistra storica, già più
volte ministro. Nel 1878 l'irpino Francesco De Sanctis tornò ministro
della Pubblica Istruzione, come già con Cavour e Bettino Ricasoli. Di
lì a poco la Corona ebbe l'omaggio solidale di Giosue Carducci. In
“Piemonte” il “Maestro e vate della Terza Italia” evocò l'omaggio dei
patrioti a Carlo Alberto agonizzante a Oporto. Ricordò che erano stati
i patrioti, molti dei quali massoni, a volere i Savoia a Roma. Toccava
a loro di mantenerveli, perché i Re erano gli unici veri garanti di
unità, indipendenza e libertà degli italiani. Secondo il
racconto del cappellano maggiore, canonico Vittorio Anzino, che gli
impartì il viatico nei modi documentati da Aldo G. Ricci, Re Vittorio
invocò la benedizione del Signore sul figlio Umberto di Piemonte, al
quale passava “un brutto fardello, oh che brut fardel!”. Era andata
peggio a fra Giacomo da Poirino, sospeso a divinis per aver
amministrato l'estrema unzione a Cavour. Nel
trentennio di Vittorio Emanuele II l'Europa cambiò profondamente.
Malgrado conflitti circoscritti, la pace generale resse. Nacquero stati
indipendenti nell'Europa orientale e si moltiplicarono le
rivendicazioni dei popoli senza Stato. Sorto per propiziare la
stabilità, il Regno d'Italia estese la sua costruttiva influenza dalla
Grecia al Portogallo (il cui sovrano, Luigi I, sposò Maria Pia,
terzogenita di Re Vittorio) e alla Spagna, ove per breve tempo regnò il
suo secondogenito, Amedeo duca d'Aosta. Vittorio Emanuele instaurò
lungimiranti legami con il conferimento di Collari della SS.
Annunziata, comportanti il rango di “cugino del re”, anche a sovrani e
principi non cattolici, in una visione universale della missione
dell'Italia. Nel 2011 un importante “Fondo ambientale”
pubblicò i ritratti dei quattro artefici dell'unificazione: Mazzini,
Garibaldi, Cavour e Azeglio. Con un errore di merito e di metodo Re
Vittorio non vi comparve. Eppure l'Unità degli italiani è anzitutto
opera sua. Aprendo l'VIII Legislatura del regno, il 18 febbraio 1861,
egli affermò che l'Italia era “libera ed unita quasi tutta per mirabile
aiuto della Divina Provvidenza, per la concorde volontà dei popoli e
per lo splendido valore degli Eserciti”. San Paolo VI nel 1970
riconobbe che l'annessione di Roma all'Italia fu provvidenziale. Nel
150° di Porta Pia e nel 200° della sua nascita, Vittorio Emanuele II e
suo nipote Vittorio Emanuele III, che nel 1918 ne completò l'opera,
vanno ricordati inseme all'Altare della Patria, dinnanzi al Sacello del
Milite Ignoto, emblema dell' “Itala gente da le molte vite”.
Aldo A. Mola
VITTORIO EMANUELE II, RE SOLDATO
Una
significativa testimonianza della brutalità della guerra a metà
Ottocento è offerta dalle lettere di Vittorio Emanuele alla
consorte, Maria Adelaide di Asburgo, pubblicate a cura di Ffrenasco
Cognasso nel 1966. Duca di Savoia e comandante della Riserva, la
Divisione da lanciare in campo gli interventi risolutivi, in lettere
affettuose e briose “Luf Victor” o “Puozzi”, come si firmava nella
corrispondenza con “Chère Poucette”o “Mon Oiseau” (affettuosi nomignoli
della consorte, “Chère femme”, “Chère amie”...), il diciottenne
Vittorio Emanuele narrò quasi quotidianamente l’andamento della guerra
contro l'Austria (1848), spiegandole il crescente risentimento che la
condotta del nemico suscitava nei soldati dell’Armata Sarda: militari,
non orde barbariche. Il 3 aprile 1848 Vittorio Emanuele le
scrisse (in francese):“I nostri soldati sono magnifici e furibondi
(...). Quanto era stato detto dell’armata croata è nulla a confronto
della verità. Ciò che hanno fatto alle donne e ai bambini grida
talmente vendetta che sono sicuro che li si ammazzerà tutti. Essi
infilzavano tutti i piccoli sulle loro baionette e aprivano il
ventre delle donne mettendoci dentro due o tre cartucce, nel...e gli
davano fuoco; poiché erano stese, esplodevano come una mina”. Il
12 maggio 1848 Vittorio Emanuele fu decorato al valore nell’Ordine
Militare di Savoia. Lo stesso giorno lamentò di essere costretto a
rimanere rintanato in stato d’allerta in cascine disabitate e piene di
insetti. In un’altra lettera deplorò: “Ho visto una ritirata di
tedeschi verso Verona, costretta dalle nostre truppe che avanzavano
sempre a colpi di cannone. Ho visto saltare tre mine. Ho visto
l’incendio di tre paesi. Questa mattina sono stato circondato
dall’incendio fatto dai tedeschi; quando sono battuti, uccidono tutte
le donne e massacrano i bambini che impalano e danno fuoco a tutti i
paesi, mentre i nostri soldati, morti di fame e di fatica, si privano
del poco pane che mangiamo, perché non se ne trova più nulla, per darlo
ai prigionieri che facciamo. L’ira dei nostri soldati è all’ultimo
grado. Ho paura di non poterli più trattenere e sicuramente la vendetta
sarà terribile, perché hanno sete di sangue”. La guerra era
un’immensa fornace. Vittorio Emanuele fu scosso dal sacrificio degli
studenti universitari a Curtatone e Montanara e promise: “Noi saremo
sempre i valorosi difensori dell’Italia”, mentre il re delle Due
Sicilie, Ferdinando II di Borbone, “venendo meno agli impegni, ha
richiamato da Napoli le truppe che aveva inviato qua e fa cannoneggiare
Napoli e si mette al sicuro quell’imbroglione”. Se ne rammentò da Re
nel 1859; e ricordò pure la condotta dei repubblicani milanesi contro
suo padre: “Porto la vendetta nel cuore e un odio implacabile per
questa indegna città”. Il 9 agosto 1848 la marchesa
Costanza d’Azeglio a sua volta descrisse al figlio le condizioni dei
militari del regno di Sardegna: “Senza aver perduto una battaglia siamo
finiti in una ritirata come quella di Russia nel cuore di un paese
ricco e prospero come la Lombardia, un paese che volontariamente si era
unito a noi. I nostri soldati si sono battuti fintanto che le forze non
gli sono mancate, ma la fame e la sete li hanno decimati, la
demoralizzazione ha avuto il sopravvento. (…) Bisogna vederli. Sono
proprio delle mummie, la pelle nera e secca, lo sguardo fisso, si
capisce le sofferenze che hanno passato”. Tutti patirono, gli ufficiali come i soldati. E tutti insieme ripresero la guerra nel marzo 1849. La
sera della sconfitta di Novara (23 marzo 1849) Vittorio Emanuele
informò sinteticamente Maria Adelaide dell’abdicazione del padre, che
lo abbracciò l’ultima volta sul campo e chiese a lui e a suo fratello
minore, Ferdinando, di “non odiarlo troppo”. Con quel nodo in gola il
cinquantunenne Carlo Alberto partì per il Portogallo ove morì di
angoscia cinque mesi dopo. A sua volta Vittorio Emanuele soffocò il
singhiozzo, ma non dimenticò. Dopo quell’amara giornata, la “brumal
Novara”, come scrisse Giosue Carducci nell’ode Piemonte, iniziò la
riscossa, coronata nel 1859 con le vittoriose battaglie di Magenta e
Solferino-San Martino. L’Armata sarda mostrò che gli italiani sapevano
battersi. I marescialli di Napoleone III passarono dalla
sottovalutazione e dalla diffidenza alla stima. Gli italiani non erano
più sotto tutela, un alleato “corvéable à merci”. Erano una nazione.
Una nazione armata. Sul punto di partire per la nuova
guerra contro gli allemands, il 30 aprile 1859 Vittorio Emanuele II
scrisse il suo testamento a Giovanni Nigra, già ministro delle Finanze
con Cavour e poi della Real Casa: “Nella mia assenza vi affido tutto
ciò che ho di più caro e prezioso: i miei figli, la mia casa. Se sarò
ucciso ponete al sicuro la mia famiglia e ascoltate bene questo: vi
sono al Museo delle armi quattro bandiere austriache prese dalle nostre
truppe nella campagna del 1848 e là deposte da mio padre. Questi sono i
trofei della sua gloria. Abbandonate tutto, al bisogno, valori, gioie,
archivi, collezioni, tutto ciò che contiene questo palazzo, ma mettete
in salvo quelle bandiere. Che io le ritrovi intatte e salve, come i
miei figli. Ecco tutto quello che vi chiedo, il resto non è niente”. Onore,
fedeltà e memoria dei padri furono le vie maestre per fare l’Italia.
Perciò, a buon diritto, Vittorio Emanuele di Savoia tenne l'ordinale II
nel passaggio dalla corona di Sardegna a Re d'Italia.
CIVILTÀ SEPOLTE? IL “VITTORIO EMANUELE II” DI LEONARDO BISTOLFI A SALUZZO
Il
Comune di Saluzzo (Cuneo) e i suoi cittadini sottoscrissero l'erezione
di un monumento a Vittorio Emanuele II. Lo realizzò Leonardo Bistolfi
(Casale Monferrato, 1859-La Loggia, 1933), tra i più celebri scultori
italiani fra Otto e Novecento. Il bronzo è un capolavoro. Sempre per
Saluzzo Bistolfi realizzò il busto di Umberto I, scoperto l'8 settembre
1901 alla presenza di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena,
giunti dal Castello di Racconigi. Non rimane traccia
della base del monumento di Re Vittorio. Quella del busto di Umberto
recava la scritta: “Umberto I Re d'Italia/Prode nell'armi, della pace
leale custode,/ visse pel suo popolo, beneficando./ Morì martire./
Municipio-Città, MCMI 8 settembre”. I due bronzi, di alto
valore artistico e storico, giacciono in un sottoscala del Museo di
Casa Cavassa a Saluzzo, con quello di Carlo Alberto, sfregiato (forse
quando vi venne precipitato). Le loro fotografie, scattate da Gian
Carlo Durante, nel 2001 furono pubblicate in “Saluzzo. Una antica
capitale” (Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo - Newton Compton,
2001). Da allora nulla è mutato, se non l'accumulo di polvere. Sulla
storia. Il 24 dicembre 1885 il ventiseienne Bistolfi fu
iniziato massone nella loggia “Dante Alighieri” di Torino (matricola
7.167). Molto apprezzato da Vittorio Emanuele III, che lo incontrò
ripetutamente anche nella sua “officina” a La Loggia, il 1° marzo 1923
venne nominato Senatore del Regno con Giovanni Agnelli. Lui per la 20^
categoria (“illustrazione della Patria”), l'altro per la 21^ (il
censo). Patriota, Bistolfi credeva nello Stellone d'Italia. E
rispolverarne le Opere?
NACQUE PER L'INCUBO DEL COLERA LA PRIMA LEGGE SANITARIA D'ITALIA (1888)
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 1 Marzo 2020, pagg. 1 e 11.
L'Italia: Stato giovane, particolarismi arcaici. Mentre
ferve la sterile disputa di amministrazioni locali nei confronti della
strategia messa a punto dal governo per arginare il contagio del
Covid-19 giova ricordare gli albori della medicina sociale in uno Stato
recente qual è l'Italia. Il Paese ha raggiunto l'unità
politico-amministrativa solo nel 1861, o meglio nel 1870, quando anche
Roma fu annessa e si riconobbe nel Regno, o ancora più esattamente nel
1918-1924, con Trento, Trieste e Fiume (senza plebiscito confermativo).
L'unificazione fu voluta da una ristretta minoranza di illuminati
duramente osteggiata da potenze estere e da opachi potentati interni,
sorretti da interessi particolari, pronti a valersi di pregiudizi
arcaici e di superstizioni spacciate per spiritualità. La Costituzione
del 1948, nelle sue parti migliori ricalcante lo Statuto Albertino del
1848, nel Titolo V (regioni, province, comuni) è stata disfatta per
calcoli politico-elettorali le cui conseguenze si pagano e si
pagheranno. Mentre sono ormai del tutto immotivate le dispendiosissime
“Regioni a statuto speciale”, da abolire prima possibile, va ricordato
che quelle a statuto ordinario furono istituite mezzo secolo fa e, come
previsto, divennero e sono fomite di sperpero di pubblico danaro con
danno gravissimo per lo Stato, cioè per i cittadini perché, come
insegnavano i liberali di una volta (pochi ma buoni), è sulle loro
spalle che si scarica il debito pubblico in tutte le sue varianti e per
molte generazioni. Poiché sono ormai migliaia i Comuni prossimi al
fallimento e i debiti delle Regioni (sia a statuto speciale, sia
ordinarie) sono stratosferici, vanno rimpiante le Province, enti
tradizionalmente parsimoniosi oggi ridotti a uccelli impagliati da una
delle tante sconsiderate “riforme a mezz'asta” varate senza memoria
storica né visione di lungo periodo. I “capricci” si scontano, come
avverrà con la riduzione dei parlamentari, colpo di grazia sull'ormai
evanescente rapporto di fiducia tra cittadini e loro rappresentanti
sino al 1913 votati per libera scelta. Quanto ora avviene in presenza
della febbre virale che attanaglia l'Amministrazione pubblica, la vita
quotidiana, l'economia e le suggestioni di massa, merita rievocare
quando, come e perché lo Stato si dette la prima legge sanitaria:
necessaria proprio per colmare le immense lacune degli Stati
pre-unitari e fare dell'Italia un Paese moderno. Quando il cholera morbus nel 1884 dette la sveglia Centotrentasei
anni orsono fu l'ennesima devastante epidemia di cholera morbus ad
aprire gli occhi a chi ancora non voleva vedere per non capire e non
rimediare. Era l'Italia unita da un quarto di secolo. Milleottocentoottantaquattro.
L'anno si aprì con il “pellegrinaggio nazionale” alle spoglie di
Vittorio Emanuele II morto il 9 gennaio 1878, traslate
all'interno del Pantheon nella tomba in cui ancor oggi riposa il Padre
della Patria. Vent'anni dopo il trasferimento della capitale da Torino
a Firenze (1864-1865) e poi a Roma (1870-1871) nel capoluogo piemontese
fervevano i preparativi dell'Esposizione Nazionale inaugurata il 2
aprile dal Re, presenti la Corte, il presidente del Consiglio Agostino
Depretis e gli alti dignitari dello Stato. Su un paese complessivamente
tranquillo e operoso calò improvvisa la falce della Grande Visitatrice.
Tra fine giugno e inizio luglio a Saluzzo, nel Cuneese, due operai
risultarono affetti dal “vibrio cholerae”. Vi erano appena arrivati da
Tolone, in Francia, ove la temibile epidemia approdata dall'Africa
aveva iniziato a diffondersi e a fare strage. L'Italia conviveva con
malattie endemiche favorite da denutrizione e malnutrizione (pellagra,
malaria...), con le ricorrenti febbri influenzali e peggio: polmoniti,
pleuriti, tubercolosi. Le statistiche dicevano che ogni anno nasceva
circa un milione di bambini (più del doppio di quanti oggi vi vengano
al mondo) ma appena la metà arrivava al 15° anno di vita. La vita media
si fermava a 35 anni. Nel 1884 per la quinta volta
dall'inizio dell'Ottocento il colera tornò a imperversare nel bacino
mediterraneo e a colpire dapprima i paesi rivieraschi, poi quelli
interni. Presente in Italia dal 1832, la stessa epidemia era divampata
con conseguenze particolarmente gravi nel 1835-37, 1854-55 e nel
1856-67, quando causò almeno 160.000 morti, bloccando per un anno il
normale incremento demografico. Proprio nel 1883 il batteriologo e
microbiologo tedesco Robert Koch (1843-1910) isolò in Egitto il
vibrione del colera: ma i rimedi rimasero di là da venire. Nel
1884 le misure profilattiche si rivelarono inadeguate. In poche
settimane dal Piemonte il vibrione svalicò in Liguria, raggiunse
Livorno e in breve arrivò in Sicilia. Napoli risultò la città più
colpita. Accompagnato da Depretis, dal siciliano Francesco Crispi e dal
calabrese Giovanni Nicotera il 29 settembre Umberto I, il “Re Buono”,
visitò i colerosi ammassati nel Lazzaretto della città partenopea, che
lamentò quasi 8.000 morti contro i 1500 di Genova e i 1650 del Cuneese.
Era arrivato il momento di mettere a frutto il magistero di Max von
Pettenkofer: le epidemie non sono una punizione celeste. Dilagano negli
ambienti malsani. Lo si sapeva da quando il cholera morbus aveva fatto
la sua prima irruzione in Europa partendo dalle rive del Gange e dalla
fetida Calcutta. La dura lezione dei fatti era stata
bene appresa da Carlo Luciano Bonaparte, principe di Canino (Parigi,
1803-1857, figlio di Luciano, fratello e suggeritore politico di
Napoleone il Grande), ideatore e stratega dei Congressi degli
scienziati italiani che dal 1839, cioè all'indomani dell'epidemia,
misero a punto progetti per arginarne nuove possibili ondate con metodi
innovativi. Barriere confinarie, quarantene e suffumigi erano
insufficienti in un Paese che all'epoca contava otto diversi Stati e
una miriade di cinte tra centri urbani, frazioni e campagne. Meno
ancora servivano l'esposizione delle reliquie e delle statue dei santi
patroni, i pellegrinaggi, le prediche che spesso deragliavano nella
insinuazione di colpevoli del tutto fantasiosi: eretici, ebrei,
massoni... I Congressi (a Pisa, Torino, Firenze, Padova,
Lucca, Milano, Napoli, Genova e Venezia: significativamente tre volte
in Toscana, due nel regno di Sardegna e nel Lombardo-Veneto, una sola
nelle Due Sicilie, mai nello Stato pontificio) gettarono le basi morali
dell'unificazione italiana, come subito intuì il piemontese Clemente
Solaro della Margarita, reazionario avveduto: gli scienziati si
“affratellarono” e “si prepararono a travagliar concordi per essere
tutti uniti dalle Alpi al Faro per il gran giorno del sospirato
risorgimento”. In effetti, in corrispondenza con le menti più
illuminate d'Europa, essi cospiravano alla luce del sole. Come Kohelet
nell'“Ecclesiaste” si interrogavano su rapporti e distanze tra sapienza
e scienza, tra scienza e insipienza, tra sapienza e politica quale arte
di governo, missione suprema secondo la tradizione greco-romana da
Platone e Aristotele a Cicerone. Il Potere non è il Male. “Ogni cosa ha
il suo momento. Tempo di nascere e tempo di morire...”. Lo si aveva
chiaro dalla stagione degli Illuministi. Anzi, se bene ispirato, il
Potere è l'acceleratore dell'incivilimento, della moralità fondata
sulla ragione anziché sulla superstizione, su catechismi imparaticci.
Etica non vuol dire sopruso. La debolezza del Trasformismo Dimissionario
proprio alla vigilia dell'Esposizione di Torino, il 30 marzo 1884
Depretis varò il nono governo da quando il 25 marzo 1876 la Sinistra
democratica aveva sostituito la Destra storica. La sua rimase una
compagine debole. La Giovane Sinistra di Francesco De Sanctis e di
antichi mazzinian-garibaldini come Giosue Carducci (eletto
deputato a Lugo di Romagna nel 1876 e nuovamente candidato perdente a
Pisa nel 1886) rifiutava l'appello lanciato da Depretis a “collaborare”
per “trasformare” il Paese. “Trasformismo” divenne sinonimo di
compromesso al ribasso, anticamera della corruzione. “Trasformista” fu
(e rimane) un insulto in un Paese che non aveva “partiti” e che da
quando ne ha ha registrato il continuo via-vai da una all'altra parte.
Avvolti nei panni di nobili ideali, tanti “progressisti” si sottrassero
all'invito di Depretis, pertanto tentato da taciti accordi con la Santa
Sede per ampliare le basi del consenso dopo l'incremento degli elettori
da 600.000 a quasi tre milioni. Fra le vittime della
perdurante incertezza di indirizzo politico vi fu il varo di una legge
sanitaria, cocciutamente ostacolata da interessi locali e particolari
(avrebbe comportato nuova disciplina delle farmacie, feudi più
immarcescibili del Sacro romano impero). Dopo il codice sanitario
varato dal governo presieduto da Giovanni Lanza (dicembre 1870) e
logoranti discussioni nei due rami del Parlamento, la svolta arrivò con
l'ascesa di Crispi a presidente del Consiglio in successione a Depretis
(7 agosto 1887). Già ministro degli Esteri e dell'Interno, egli
impresse l'acceleratore. La via era indicata dalla gigantesca
“Inchiesta sulle classi agrarie” presieduta dal moderato Stefano Jacini
ma pilotata dal medico garibaldino Agostino Bertani, radicale. Ne era
emerso il quadro agghiacciante di un Paese dalle condizioni
igienico-sanitarie spaventose, già descritte dalla Società italiana di
igiene fondata nel 1879 e animata da Jacob Moleschott, Corrado Tommasi
Crudeli, Guido Baccelli, Nicola Badaloni, Antonio Cardarelli e altri,
anche massoni come Mario Panizza secondo il quale i “fratelli” sono i
“templari della democrazia”. Il disegno della legge
sanitaria (soli 62 articoli) fu incardinato in Senato il 22 novembre
1887. La sua discussione iniziò il 15 marzo 1888. Illustrato dal
celebre Stanislao Cannizzaro fu approvato il 1 maggio con 53 “si”
contro 21 “no”. Nel corso del dibattito Gacinto Pacchiotti raccomandò
l'insegnamento dell'igiene. Gerolamo Boccardo deplorò la costruzione di
ospedali monumentali anziché funzionali e raccomandò che venissero
edificati in sedi agevolmente accessibili per il personale sanitario e
per i malati, che all'epoca si muovevano a piedi o su carri. Il 15
maggio il testo passò alla Camera. Dopo un dibattito di tenore
elevatissimo fu approvato con 145 “si” e 59 “no”. Divenne la legge 22
dicembre 1888,n. 5849. Nel corso della discussione, Cardarelli si
schierò nettamente a favore del primato dello Stato sulle
amministrazioni locali, spesso prive di persone competenti nei ruoli di
responsabilità suprema, sindaci e presidenti di provincia inclusi. … e il suo “profeta”: Luigi Pagliani Il
demiurgo della legge sanitaria fu Luigi Pagliani. Oggi pressoché
dimenticato, merita qualche parola di ricordo. Nacque a Genola (Cuneo)
il 25 ottobre 1847. Suo padre, medico condotto, fu sindaco del piccolo
comune allo snodo stradale e ferroviario della linea Savigliano-Cuneo/
Fossano/Mondovì. Studente in medicina e chirurgia a Torino, condivise
una modesta soffitta con il futuro fisiologo e archeologo Angelo Mosso,
promotore della formazione degli insegnanti di educazione fisica, in
specie femminile. Libero docente di igiene a 30 anni e ordinario a 40,
nel 1878 Pagliani creò il primo laboratorio di igiene in Italia.
Incaricato di studiare genesi e conseguenze dell'epidemia colerica del
1884, richiamò l'attenzione sull'urgenza del risanamento urbano.
Bisognava abbattere antiche cinte murarie: aria, luce, pulizia e
soprattutto acqua potabile, rete fognaria, controllo dell'ambiente da
parte di personale scientificamente preparato in tutti i comuni, grandi
o piccoli fossero, perché malattie endemiche e, peggio, le epidemiche
non si fermano all'alt dei vigili urbani o di militari mandati a
vigilare sulle zone “infette”. Il 1° gennaio 1889
Crispi istituì la Direzione generale della sanità pubblica nell'ambito
del Ministero dell'Interno e gliela affidò. Pagliani si misurò con un
ampio ventaglio di problematiche e di responsabilità connesse. Operò
nel clima tipico dei medici umanisti dell'epoca, che condividevano
l'entusiasmo di “Fare l'Italia”: patrioti cresciuti nel solco di
Michele Lessona. I capisaldi della legge sanitaria
furono l'istituzione del Consiglio superiore della sanità, dei consigli
provinciali medici e veterinari, coordinati dai medici e dai veterinari
provinciali, la elevazione dei medici condotti a ufficiali sanitari
decorosamente remunerati e liberi da condizionamenti dei sindaci,
l'obbligo della denuncia di malattie contagiose, la vaccinazione
obbligatoria, la certificazione dell'abitabilità delle costruzioni,
nuove norme sulla sepoltura. Tutte norme sagge e tuttora vigenti. Come
Angelo Mosso, anche Pagliani promosse la cremazione dei cadaveri che
all'epoca la chiesa cattolica considerava aberrante e deprecava. Erano
passati pochi anni da quando Giuseppe Garibaldi, “primo massone
d'Italia”, era stato sepolto a Caprera sotto pesante masso in
violazione della sua richiesta di essere arso con la “pira omerica” poi
evocata da Carducci. Pagliani aveva orizzonti e vastissimi. La lotta
per il risanamento dell'igiene pubblica passava anche quella contro la
prostituzione femminile, il controllo sanitario delle “case di
tolleranza”, il miglioramento dei reparti di maternità e infanzia
(meglio se con cliniche apposite), le cause ambientali e lavorative che
spesso causavano malattie, in specie la tubercolosi. Si occupò inoltre
di urbanistica sociale, promozione delle case popolari e di bagni
pubblici comunali, di primaria importanza quando, in carenza di pozzi
bianchi e neri, essi erano risorsa indispensabile per quanti dai borghi
rurali affluivano nei centri maggiori per i mercati settimanali e ne
profittavano “una tantum” per una bella lavata. Quella era l'Italia ben
nota a chi, nato a Genola e cresciuto fra Torino e Roma, ne conosceva
ogni lembo di persona o attraverso i questionari inviati
obbligatoriamente dai sindaci al ministero dell'Interno. Già autore di
opere apprezzate anche all'estero, Pagliani sapeva bene che la maggior
parte degli amministratori locali non era all'altezza del suo compito.
In migliaia di comuni non vi era alcun servizio di nettezza urbana.
L'immondizia veniva raccolta e bruciata in cortili. In quasi 1300 non
vi era neppure una latrina. Ben 6404 comuni non avevano rete fognaria.
Perciò le statistiche lamentavano la diffusione di pustole, scabbia,
morva, tigna,...sino al terribile carbonchio. A garanzia dei cittadini,
la legge Crispi-Pagliani istituì ispezioni sanitarie alle quali i
sindaci non si potevano opporre. Certo essa non fece miracoli da un
anno all'altro: fu “un programma”, come la legge voluta dal deputato di
Alba, Michele Coppino, che il 17 luglio 1877 decretò obbligatoria e
gratuita l'istruzione elementare in un Paese che contava il 70% e più
di analfabeti in molte regioni, sopratutto della “Borbonia Felix” da
taluno ancor oggi stolidamente rimpianta. Post fata resurgo... Da
alcuni “storici” Crispi è stato ritratto come “dittatore”. Nella sua
più corposa biografia, Christopher Duggan manco cita Pagliani. Le
grandi riforme varate dai suoi governi erano “di destra” o “di
sinistra” o semplicemente indispensabili per traghettare l'Italia verso
la modernità? Da tanta parte del clero, che alla legge sanitaria
nazionale opponeva medici “cattolici”, quasi vibrioni e batteri abbiano
una confessione religiosa, Crispi fu dipinto quale un satanasso, anche
perché era massone notorio, come Carducci e Adriano Lemmi. E ancora non
si sapeva che l'11 gennaio 1889, poco dopo l'insediamento alla
Direzione generale della sanità, anche Pagliani fu iniziato massone
nella loggia “Rienzi” di Roma (Grande Oriente d'Italia, matricola
8.193). Dopo la caduta di Crispi (marzo 1896), il suo
conterraneo Antonio Starrabba di Rudinì ne cancellò le riforme: eliminò
la Scuola di igiene, trasferì il servizio di veterinaria al ministero
dell'Agricoltura, azzerò la Direzione generale della sanità e ne cacciò
il direttore. Pagliani tornò a Torino. Sino al 1913 fu preside della
Facoltà di medicina (bastione di scienza all'avanguardia in Europa),
fondò riviste, pubblicò il fondamentale “Trattato di igiene e sanità
pubblica”, promosse innumerevoli iniziative culturali e filantropiche
nel solco del “fratello” Tommaso Villa e, consigliere comunale dal 1906
al 1919, ebbe la stima del sindaco Teofilo Rossi di Montelera, di
Antonio Carle e di Giolitti. Pagliani era l'emblema dell'Italia civile:
niente retorica, molti fatti, visione alta dello Stato, dell'impegno
patriottico ed educativo. Morì a Torino il 4 giugno 1932. L'urna con le
sue ceneri veglia la Sala del Commiato nel Tempio crematorio che
funzionò anche negli anni del regime incardinato sulla Conciliazione
dell'11 febbraio 1929. Il suo magistero non andò affatto perduto. Lo
evocarono ripetutamente Achille Mario Dogliotti e Giorgio Cavallo, che
ne continuarono la Grande Opera. La loro lezione rimane attualissima
nell'Italia europea.
Aldo A. Mola
S.A.R. MARIA GABRIELLA DI SAVOIA CUSTODE DELLA STORIA D'ITALIA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 23 Febbraio 2020, pagg. 1 e 11.
Da Residenze Sabaude a Residenze Reali Piemonte... “Theatrum
Sabaudiae”? Fino a quando? Forse una futura edizione dell'ammiratissima
sontuosa opera verrà intitolata semplicemente “Teatro”. Via ogni
riferimento alla (e ai) “Savoia”. Lo stesso varrà per la “Galleria
Sabauda” nel 1984 amorevolmente descritta da Rosalba Tardito Amerio in
un bel volume della Cassa di Risparmio di Torino? Diverrà “Galleria” o
forse “Tunnel”, “Sottopasso”. “Gutta cavat lapidem...”. Uno
scialbo un giorno, una scalpellata l'altro, l'abrasione corruttiva del
passato procede sempre più celere. Quasi 75 anni dopo il cambio
istituzionale qualcuno ha sferrato un'altra mazzata: le Residenze
Sabaude, patrimonio mondiale dell'Unesco, non saranno più tali.
Divengono Residenze Reali Piemonte. Aleggia cupo il motto “Indietro
Savoia”, lanciato da un libello di Lorenzo Del Boca, che però combatte
a viso aperto. La decisione di togliere o aggiungere
un aggettivo non è mai casuale. Come ricorda il generale CdA Oreste
Bovio in un insuperato volume dell'Ufficio Storico dello Stato
Maggiore, all'indomani dell'Unità l'Esercito inizialmente fu
“Italiano”. L'aggiunta dell'aggettivo Regio suggellò la sua piena
identificazione con la monarchia che aveva unito l'Italia: e tale
rimase con le bandiere fregiate dallo scudo di Savoia al centro della
banda bianca, secondo le dinamiche descritte dallo stesso Bovio in
altre sue opere sull'Araldica militare. Ora le Residenze
fatte erigere nei secoli e via via abbellite da conti e duchi di
Savoia, poi re di Sardegna e d'Italia, da Sabaude declinano a un
generico “Piemonte”, con drastica amputazione della Valle d'Aosta, pur
orgogliosa del castello di Sarre, dal quale prese titolo comitale
Umberto II alla partenza dal suolo patrio il 13 giugno 1946, come
avevano fatto Vittorio Emanuele III, conte di Pollenzo alla partenza
per Alessandria d'Egitto, e Carlo Alberto, conte di Barge quando
andò esule a Oporto. La burocrazia sforbicia la Storia. Anziché un
passo innanzi nella ricomposizione della memoria ne fa uno di lato,
verso il vuoto. “Era ora” pare abbia inneggiato un supporter del
“cambio”. Un altro avrebbe aggiunto che “i Savoia hanno fatto di tutto,
e solo nel male”. E quelle Residenze, dunque? Per coerenza giacobina
andrebbero demolite come le Vele di Scampia. E, per conseguenza
logico-cronologica, chi oggi vi si accampa dovrebbe dare alle fiamme
sedia e scrivania e cercarsi un altro mestiere. Un atlante geo-storico di personaggi evocativi: il caso della Spagna Sarà
Wikipedia a far memoria di ogni Paese? L'esempio salutare (o allarme?)
arriva dalla Spagna, che ha classificato i personaggi più
rappresentativi della sua storia millenaria provincia per provincia
sulla base degli “articoli” nei quali essi vi compaiono: duemila anni
di vicende complesse e al tempo stesso lineari lungo i quali si sono
susseguiti romanizzazione, età dei Visigoti, invasione araba,
Riconquista, il balzo a impero mondiale con Carlo V d'Asburgo, il lungo
regno da Filippo II ai Borbone e le convulsioni dell'Otto-Novecento
sino all'età presente, incarnata da Filippo VI di Borbone. Lo spagnolo
più antico svettante nella classifica di Wikipedia non è Viriato,
strenuo combattente contro la conquista dell'Iberia da parte dei
Romani, assassinato a tradimento nel 139 a.Cr. e celebrato a Zamora, ma
Lucio Anneo Seneca, nativo di Cordova, filosofo, precettore sfortunato
di Nerone, che gli ordinò di suicidarsi dopo la fallita congiura di
Pisone. Lo seguono Traiano, l'imperatore di Roma (98-117 d.Cr.) nato a
Italica, il suo immediato successore, Adriano (117-138), e Teodosio
(380-395), della provincia di Segovia. Nella celebre e
abusatissima enciclopedia informatica i più citati tra gli “eroi”
rappresentativi della storia di Spagna sono anzitutto i sovrani:
Filippo II d'Asburgo, nato a Valladolid, come suo nipote Filippo IV
(altrettanto famoso: terzo in assoluto per numero di “articoli”),
Filippo III d'Asburgo, nato a Madrid, da poco “inventata” quale
capitale di uno Stato policefalico e centrifugo, Carlo II (ultimo
Asburgo), il discusso Fernando VII di Borbone, Alfonso XIII, che lasciò
la Spagna (ma non la corona) all'indomani di banali elezioni
amministrative. Tra le teste coronate ispaniche non mancano donne
memorabili, da Urraca la Temeraria, rappresentativa della provincia di
León, a Isabella la Cattolica, moglie di Ferdinando di Aragona, nativo
di Saragozza, ove il suo nome è oscurato da quello del pittore
Francisco de Goya. La “mappa” dei Re è una sorta di catena di unione
che conduce da Pedro I di Castiglia il Crudele (o Giustiziere?) a Pedro
IV di Castiglia il Cerimonioso e ad Alfonso VIII di Castiglia che
sconfisse gli almoavidi a Las Navas de Tolosa: battaglia decisiva per
le sorti della Spagna e dell'intero Occidente. Oltre a
teste coronate la Spagna vanta anche un papa, Alessandro VI Borgia,
rappresentativo della provincia di Valencia (ma andrebbe ricordato
anche l'antipapa Benedetto XIII “de Luna”, morto a Peñiscola), e
Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, originario della
provincia di Guipúzcoa. Seguono conquistatori che hanno ampliato i
confini dell'Europa: Hernan Cortés, originario di Badajoz, vincitore
sugli Aztechi in Messico, e Francisco Pizarro, nativo della provincia
di Cáceres, che soggiogò gli Incas in Perù. L'Ottocento risulta povero
di “politici”, a parte Práxedes Mateo Sagasta (La Rioja). Nel Novecento
con oltre mille “articoli” spicca ovviamente Francisco Franco y
Bahamonde (el Ferrol), superato in classifica nazionale solo da Filippo
II, e molte lunghezze avanti rispetto ai conterranei Manuel Fraga
Iribarne (Lugo) e Mariano Rajoy (Pontevedra). Il “caso Franco” è
eloquente. La sua salma è stata deportata dal Valle de los Caidos per
cocciuto capriccio del socialista Pedro Sánchez “l'Obliabile”, ma la
sua opera rimane nella Storia. L'“atlante” delle celebrità
designate da Wikipedia a rappresentare la Spagna “Una, grande y libre”
si completa con una pleiade di musicisti (Manuel de Falla per Cadice),
pittori (Salvador Dalì per Gerona) e Picasso (Malaga), architetti (è il
caso di Gaudì, tarragonese), poeti (Federico García Lorca, granadino),
filosofi e pensatori (Melchor Gáspar de Jovellanos, illuminista
ma non massone; Menéndez Pelayo e Miguel de Unamuno). Data
la reciprocità tra domanda e offerta, che vale per Wikipedia come per
ogni altra rappresentazione del sapere, dal I secolo dopo Cristo a oggi
la Spagna si racconta ed è narrata all'insegna della continuità: Roma,
cristianità, impero universale, costruzione e ricostruzione, tra
arroccamento sulla propria identità e missione planetaria. Il ritratto
che ne emerge è nell'insieme appagante, anche se qualche gigante rimane
soccombente. È il caso del madrileno Miguel de Cervantes, surclassato
da Filippo III d'Asburgo. Ma l'elenco delle celebrità forzatamente
restate in secondo piano (o “di riserva”) potrebbe essere lunghissimo,
a conferma della straordinaria ricchezza storica e culturale di un
Paese che ha tutti i requisiti di un Continente. Ed è motivo di
riflessione che, malgrado settecento anni di presenza su suolo ispanico
con tutte le ben note ricadute demografiche, costumali e toponomastiche
in regioni vastissime dall'Aragonese a El Ándaluz, gli “Arabi” non
abbiano lasciato alcun nome capace di far sintesi di una delle tante
province da loro dominate per secoli (lo stesso, del resto, vale per la
Sicilia). Le Province d'Italia in cerca di personaggi rappresentativi La
“mappatura” proposta sulla scorta della frequenza in Wikipedia fa
interrogare sull'immagine che gli italiani hanno oggi di sé e, ancor
più, su quella che si stanno dando a colpi di spugna sul passato. Se si
scorrono le più diffuse riviste di storia, le “terze pagine” dei
quotidiani e i maggiori successi editoriali sorgono molte perplessità.
A far la parte del leone è il Novecento. Nel suo ambito dominano il
fascismo, elevato a canone universale, e il duce, Benito Mussolini.
Piaccia o meno (a chi scrive, assai poco), il maggior successo
editoriale del 2019 è stato “M. Il figlio del secolo” di Antonio
Scurati (ed. Bompiani), presentato come “romanzo” dalle ambizioni
storiografiche. Anni addietro trionfò il “Canale Mussolini” di Gianni
Pennacchi. A nessuno scrittore è venuto in mente di incardinare la
memoria sul meritorio Canale Cavour… A confronto delle dozzine di
biografie più o meno sagaci dedicategli sin da quando era al potere
(come dimenticare “Dux” dell'ebrea Margherita Sarfatti e “Colloqui con
Mussolini” di Ludwig?), sono poca cose le opere sul coevo e anzi molto
più importante (e sicuramente meno rovinoso) Vittorio Emanuele III,
tuttora in attesa di un profilo biografico onesto. Ma se
anche per la storia d'Italia venisse utilizzata la chiave di lettura
usata per quella di Spagna quale mosaico ne uscirebbe? A parte l'ovvia
constatazione che i sette secoli di Roma già sono affollati di
nomi memorabili, in massima parte nati nell'Urbe o nella sua
“provincia”, la romanocentricità dell'età dei re, dei consoli e dei
Cesari renderebbe non indicativo il luogo di nascita, perché, come
scrisse Quinto Ennio “Nos sumus Romani qui fuimus ante Rudini”. Il
luogo di nascita di storici quali Tito Livio e Publio Cornelio Tacito o
di poeti come Publio Virgilio Marone è del tutto secondario rispetto
alla missione che essi si dettero: fissare le tavole della Latinità.
Nei secoli seguenti i nomi rappresentativi
della storia d'Italia risultano al tempo stesso innumerevoli ma non
solo “nazionali”, per l'intreccio indissolubile tra Impero e Papato,
tra Roma e l'Occidente e i radi falliti tentativi di riunificazione
dell'Impero, con gli Ottoni di Sassonia. Il re dei Franchi, Carlo, non
era nativo di una provincia italiana, ma è inseparabile dalla storia
d'Italia, al pari di Federico I Barbarossa e di suo nipote, Federico II
(peraltro nato a Jesi e sepolto nel Duomo di Palermo). Passando
all'età dei Comuni e delle Signorie, le potenziali candidature a
simboleggiare una “terra” divengono una pletora. A chi assegnare la
rappresentatività di Firenze dal Trecento di Dante, Boccaccio e
Petrarca al Quattro-Cinquecento di Lorenzo il Magnifico, Poliziano,
Brunelleschi, papa Leone X, e quella dell'Otto-Novecento? Lo stesso
vale per il Mezzogiorno dai Normanni agli Angiò e agli Aragonesi, per i
Ducati padani, a tacere di Milano (il più citato nelle enciclopedie
informatiche rimane Ludovico il Moro, anche se poco suffragato da
memoria positiva), di Venezia (il suo personaggio di spicco è lo
sfortunato Marcantonio Bragadin, martirizzato dai Turchi nel 1571 dopo
la conquista di Famagosta: tanto più memorabile rispetto alla serie
secolare di dogi), della Genova di Andrea Doria, sicuramente secondo
rispetto a Cristoforo Colombo, sia o no davvero genovese. Il “caso” del Piemonte Sabaudo Un
caso a parte è infine costituito dal “Piemonte” lentamente unificato
dai conti, duchi e re Sabaudi: un percorso plurisecolare approdato
all'Ottocento di Carlo Alberto di Savoia-Carignano e a suo figlio,
Vittorio Emanuele II (Torino, 14 marzo 1820 - Roma, 9 gennaio 1878),
primo re d'Italia. Posto che il suo volto meriterebbe di suggellare
l'intera Italia, se Torino dovesse essere sintetizzata in un unico nome
la palma spetterebbe a Emanuele Filiberto, che nel 1562 decise di
trasferirvi la capitale del Ducato da Chambéry e ne segnò il destino
storico, o a Camillo Cavour? E che cosa fare di Giuseppe Garibaldi? È
l'italiano più popolare in patria e all'estero, il più raffigurato in
statue, altorilievi, lapidi, targhe, intitolazioni di vie,
piazze,stazioni ferroviarie ma… fu nativo di Nizza, francese dal
1860. L'altro protagonista del Risorgimentale, Giuseppe Mazzini,
sarebbe invece oscurato da conterranei di gran lunga più
rappresentativi dei secoli della Superba. E quale rappresentatività
attribuire ad Arduino, Marchese di Ivrea, primo “re d'Italia”? Se
poi da Torino l'occhio si volge alle altre province liguro-piemontesi
la gara tra personaggi che ne scandirono i secoli si fa serrata.
Sicuramente il Cuneese verrebbe sintetizzato da Giovanni Giolitti;
mentre l'Alessandrino (una congerie di circondari dalle storie molto
diverse) potrebbe essere evocato da papa Alessandro, che ne volle la
fondazione, dal martire risorgimentale Andrea Vochieri o, su tutti, da
papa san Pio V, al secolo Antonio Ghislieri (1504-1572), nativo di
Bosco Marengo, domenicano, inquisitore, implacabile persecutore di
eretici, ugonotti, ebrei (chiusi nei ghetti), ma anche promotore della
vittoria navale sui turchi a Lepanto nel 1572, donde la pratica del
rosario. Maria Gabriella di Savoia custode della Memoria d'Italia Capitolo
a parte è Aosta. La sua figura più rappresentativa è Sant'Anselmo
(Aosta, 1033-Canterbury, 1109), teologo, filosofo, uomo di fede e di
ragione, propugnatore della dimostrazione ontologica dell'esistenza di
Dio: un gigante del pensiero in un'Europa appena uscita dal leggendario
“Anno Mille”. Alla sua rievocazione il 1° marzo 1988 presenziò la
Regina Maria José per la prima volta in Italia dopo il lungo esilio cui
era stata condannata dalla Costituente il 1° gennaio 1948, Ebbe a
fianco sua figlia, Maria Gabriella di Savoia. Custode della memoria
storica dell'Italia europea con la Fondazione Umberto II e Maria José,
la Principessa è nata il 24 febbraio 1940 a Napoli: la Città del
mistico Castel dell'Ovo e del Maschio Angioino dal solenne Portale
aragonese, del Palazzo Reale voluto da Carlo III di Borbone (la cui
statua equestre troneggia in piazza del Plebiscito: quello
dell'annessione all'Italia...) ornato dai Re susseguitisi in Napoli
sino a Gioacchino Murat e a Vittorio Emanuele II, e della Reggia di
Capodimonte. Napoli è Storia: spesso tragica ma infine rasserenante se
si sa da dove si arriva e dove si voglia andare. Da lì salparono
Vittorio Emanuele III il 9 maggio 1946 (cittadino italiano all'estero,
restituito all'Italia il 17 dicembre 2017) e la Regina con i quattro
principini il 6 giugno seguente. Di quel lungo passato è depositaria e
cultrice la Principessa, “Testimone del Tempo” per oculata decisione
del Premio Acqui Storia. L'Italia
è in cerca di simboli condivisi. Declassare le Residenze Sabaude a
generiche Residenze Reali Piemonte non è certo un passo in avanti verso
la ricomposizione della Memoria di una Terra, quale il Piemonte, che fu
ed è Italia e crocevia d'Europa: proprio come il millenario “Stato dei
Savoia”.
Aldo A. Mola
nella
foto: S.A.R. la Principessa Maria Gabriella di Savoia, nata a Napoli,
24 febbraio 1940, Presidente della Fondazione “Umberto II e Maria José”.
CAPORETTO? NON FU “CAPORETTO” LUIGI CADORNA: “POLITICI” E MILITARI
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 16 Febbraio 2020, pagg. 1 e 11.
Luigi Cadorna. Chi era costui...? Il
conte Luigi Cadorna (Pallanza, 1850-Bordighera, 1928), senatore del
regno dal 1913, è stato il massimo stratega dell'Italia unita. L'11
febbraio 2020 la sua figura è stata riproposta al Senato con la
presentazione del volume di suo nipote, Colonnello Carlo, Caporetto.
Risponde Cadorna” (ed. BCS Media), con interventi dell'Autore, di
Ferdinando Sanfelice e di Aldo G. Ricci, coordinati da Andrea Cionci:
un confronto innovativo, fondato su documenti. Quali “memorie” dell'Italia nella Grande Guerra? Giolitti, Cadorna, Diaz Il
1928 in pochi mesi si portò via Armando Diaz (classe 1861), Giovanni
Giolitti (1842) e Luigi Cadorna (1850), tre massimi protagonisti della
storia d'Italia: lo Statista e i due Comandanti Supremi dell'esercito
nella Grande guerra. Sonnino, ministro degli Esteri dal 1914 al 1919,
si era spento settantacinquenne nel 1922. Lasciò ai posteri l'ardua
sentenza sulla sua opera. Salandra (classe 1853, undici anni più
giovane di Giolitti) morì nel 1931, dopo due libri sui mesi dalla
neutralità all'intervento. Paolo Boselli, il decano della Camera, lo
seguì novantaquattrenne nel 1932 senza lasciare “memorie”. Diaz non
pubblicò nulla. Le sue carte sono state studiate dal generale Luigi
Gratton nell'insuperata biografia del Duca della Vittoria (Ed. Bastogi,
2001). Di Giolitti uscirono le Memorie della sua vita nell'80°
compleanno, il 27 ottobre 1922. Non vi aggiunse nulla. Cadorna
non tenne un “diario” né pubblicò “memorie”. Nel 1921 diede alle stampe
la sua opera fondamentale, apprezzata anche all'estero: La guerra alla
fronte italiana fino all'arresto sulla linea della Piave e del Grappa
(24 maggio 1915-9 novembre 1917 (ed. anastatica Bastogi, 2019). Grande
Storia, è la “biografia” dell'Italia dalla Conflagrazione europea
(luglio 1914) alla sostituzione di Cadorna con Armando Diaz al comando
dell'Esercito italiano. Quando scrisse, “intabarrato e inguantato” per
vincere il freddo, il Generale viveva appartato a Firenze, in un
villino senza riscaldamento acquistato per festeggiare il 68°
compleanno. Comandante Supremo dal 24 maggio 1915 al 9 novembre 1917,
rappresentante dell'Italia nell'appena costituito Consiglio superiore
di guerra interalleato con sede a Versailles dal dicembre 1917, il 20
gennaio 1918 egli fu messo “a disposizione” della Commissione
d'inchiesta sugli avvenimenti dal 24 ottobre al 9 novembre 1917, quasi
non potesse essere “audito” diversamente. Qualcosa non gli tornava. Il Generale nella tempesta scrive la verità dei “fatti” Tirava
vento pessimo. Poi la bufera. Nel luglio 1918 fu drasticamente
collocato “a disposizione in sovrannumero”, con riduzione di rango e
assegni: provvedimento considerato “una vera e propria destituzione”.
Indomito, dall'autunno 1919 in pochi mesi Cadorna scrisse due volumi.
Nell'aprile 1921 pubblicò, come detto, La guerra alla fronte italiana
con la prestigiosa Casa Fratelli Treves di Milano, due anni dopo
ampliata con la limpida difesa delle armi italiane dal giudizio del
francese maresciallo Foch. Mentre scriveva l'Opus magnum,
come fosse due persone in una, con due teste e quattro mani, il
Generale scrisse l'“altro libro”. Il primo era la Storia, il secondo
una “nota aggiuntiva” di centinaia di pagine puntuali e puntute per
“testimoniare” dinnanzi all'opinione nazionale e internazionale.
Illuminò i passaggi fondamentali del différend tra la sua opera di
Comandante Supremo e i quattro governi susseguitisi dalla
conflagrazione alla sua rimozione (Salandra I, Salandra II, Boselli,
Orlando), con sette ministri della Guerra (Grandi, Zupelli, Morrone,
Giardino, Alfieri, Zupelli, Caviglia) cui seguirono i quattro del primo
governi Nitti (Sechi, Albricci, Bonomi, Finocchiaro Aprile): prova del
disordine della “politica”. Sin dai primi mesi
dell'intervento dell'Italia in guerra Esecutivo e Comando Supremo
giunsero ai ferri corti su molti versanti sostanziali delle rispettive
competenze. Lo aveva anticipato il ministro della Guerra Domenico
Grandi quando, consultato proprio Cadorna sulla preparazione del Paese
a un eventuale intervento nel conflitto, il 23 settembre 1914 aveva
scritto a Salandra che solo il governo era titolato a valutare lo
spirito pubblico e le esigenze politiche e a stabilire se “il
Paese”avrebbe assecondato o no. Secondo Cadorna l'Italia poteva fare
solo una guerra “grossa” ma “breve”. Lo pensavano anche Giolitti e San
Giuliano: poteva intervenire contro l'Austria-Ungheria solo quando
questa fosse stata allo stremo. Non era “cavalleresco” ma realistico.
Chi governa non deve badare alle forme ma alla salute dello Stato. Ad
aggravare la tensione tra Comandante Supremo e “politici” all'inizio
del 1916 intervenne la decisione del governo di intraprendere
un'impresa in Albania per assicurarsene il dominio. Attestarsi a
Vallona (come all'epoca si diceva) secondo Salandra e Sonnino
significava fare dell'Adriatico il “lago italiano”, come a grandi linee
tratteggiato dall'“accordo” siglato a Londra il 26 aprile 1915 in vista
dell'adesione all'Intesa anglo-franco-russa. A giudizio di Cadorna
l'apertura di un fronte bellico su una “quinta sponda” avrebbe
sottratto mezzi e uomini al campo di battaglia primario e assorbito
risorse sempre più ampie, in uno scenario politico-militare colmo di
incognite e di sorprese negative. Lo stesso valeva per le truppe
italiane Oltremare, dalla Tripolitania al Mar Rosso e alla Somalia. Ve
n'era invece urgente e prioritario bisogno sul lunghissimo sinuoso
fronte italo-austriaco, sempre nel timore di un attacco
austro-germanico attraverso la Svizzera. L'invasione del Lussemburgo e
del Belgio mostrava in quale conto Berlino tenesse le dichiarazioni di
neutralità. L'Italia, soleva ripetere, avrebbe riconquistato la Libia
sul Carso, ove, diversamente, rischiava di perdere tutto. L'esercito
doveva concentrare tutte le sue risorse per sfondare il fronte
austro-ungarico a est, arrivare a Lubiana e Zagabria e aggirare da sud
l'impero asburgico, suscitandovi l'insorgenza delle “nazioni senza
Stato” o, come poi si disse, dei “popoli oppressi”. Giustamente nel
saggio introduttivo al citato Caporetto. Risponde Cadorna, suo nipote
Carlo Cadorna scrive che il Comandante Supremo era “un generale del
Risorgimento italiano”. Il Comandante Supremo, infatti, ricordava che
il regno di Sardegna aveva ottenuto Milano grazie all'alleanza con
Napoleone III (1859) e Venezia con quella a fianco della Prussia di
Bismarck (1866). L'Italia non poteva “fare da sé”. Doveva anzi
suscitare l'insorgenza dei popoli dominati da Vienna e da Budapest.
Cadorna era, insomma, un Militare dal fiuto politico, erede del meglio
di Mazzini e Garibaldi. Un italiano dalla visione costantemente volta
all'Europa e con una certezza granitica: l'unicità del comando, fondata
su senso dello Stato e della responsabilità, sull'“Etica attraverso le
Istituzioni più amate dagli italiani” di cui ha scritto Tito Lucrezio
Rizzo (d. Aracne). Il “différend” tra governi allo sbando e il Comandante Supremo La
risposta del governo ai suoi mòniti e, presto, alle sue rimostranze,
consegnate anche al carteggio con il titolare degli Esteri, Sonnino, fu
deludente. Lo documentano i verbali del Consiglio dei ministri, tuttora
inediti. L’esecutivo avocò a sé la regia dell'impresa di Albania. Così
l'Italia condusse due guerre diverse, una agli ordini del Comandante
Supremo, un'altra gestita direttamente da Roma. Ma quella d'Albania era
pro o contro la Serbia? Gradita o no all'impero di Russia? Rientrava o
no nel quadro dell'Intesa? Ad allarmarsene non erano solo gli “slavi”
ma anche i greci e, ancor più determinanti, i francesi e, non solo a
strascico, gli inglesi. L'apertura del fronte albanese prospettava
comunque due diverse politiche estere, perché (lo aveva insegnato
Clausewitz) le armi sono la prosecuzione della diplomazia con altri
mezzi. Ma la politica estera era appunto il “ventre molle” del governo
italiano. Lo si vide con il governo Boselli (20 giugno 1916-29 ottobre
1917), quando Roma non poté più esimersi dal dichiarare guerra alla
Germania, che sin dal 26 aprile 1915 l'Italia si era impegnata a
combattere entro un mese dalla firma dell'engagement. Dopo la
spedizione austro-ungarica “di primavera” (o “punitiva”) del maggio
1916 e la controffensiva rapidamente e abilmente allestita da Cadorna,
culminata con l'ingresso in Gorizia il 10 agosto, la guerra mutò volto
e “ragione sociale”: non poteva più essere confinata nel recinto del
“sacro egoismo” accampato nel 1915 da Salandra, il cui vero e miope
obiettivo era annientare Giolitti, come ha scritto Luigi Compagna. La tardiva dichiarazione di guerra alla Germania (24-28 agosto 1916) Solo
il 24 agosto 1916, presenti tutti i ministri, il governo Boselli mise a
verbale il passo fatale. Udita la relazione del ministro degli Esteri,
deliberò “in conformità degli impegni assunti con gli alleati, di
proporre a Sua Maestà la dichiarazione di guerra alla Germania,
[autorizzando] il Presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri
di determinare il momento opportuno per dar seguito alla deliberazione
presa”. Roma doveva però motivare una decisione così gravida di
conseguenze. Lo fece con argomenti di basso profilo. La dichiarazione
fu comunicata alle 13.40 del 27 agosto con efficacia dall'indomani. Lo
stesso giorno la Romania scese in campo a fianco dell'Intesa. A quel
punto Cadorna chiese a Sonnino di farsi svelare dall'Intesa almeno “i
patti interceduti fra gli alleati circa la sorte eventuale dell'impero
turco: Costantinopoli, gli Stretti, l'Asia Minore, questioni di
primaria importanza per la preparazione della pace, a cui bisogna pure
pensare quando non ci sia altra guerra da dichiarare”. Sonnino non
rispose. La politica estera era suo riservato dominio. Di più e di
peggio fece Boselli col sostegno del ministro dell'Interno, Orlando. Lungo
tutto il 1917 e specialmente dopo la rivoluzione in Russia (marzo),
l'ingresso degli USA nella guerra (aprile) e in presenza di una
possibile offensiva austro-germanica, il Comandante Supremo incalzò il
governo con ben quattro lettere nelle quali chiese il potenziamento del
“fronte interno” e la lotta contro il disfattismo che dal paese
contagiava l'Esercito. Non ebbe alcuna risposta. Il 27 marzo e il 28
settembre Cadorna partecipò a due sedute del governo. Della prima non
v'è alcuna traccia nei verbali del Consiglio dei ministri; la seconda è
riassunta in poche righe, elusive, senza alcun cenno al dibattito.
Cadorna non vi è neppure menzionato. Secondo postume Dichiarazioni di
Orlando, il Comandante supremo gli condensò il proprio programma in
poche parole a seduta terminata: “Lei pensi ad assicurarmi le retrovie,
che ai soldati ci penso io”. Dunque la vera storia di quei
drammatici mesi non si comprende né dalle Memorie postume di Orlando o
dal carteggio di Sonnino né, tanto meno, dall'“Inchiesta su Caporetto”
(ripubblicata nel 2014 dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore
dell'Esercito con introduzioni di Antonino Zarcone e di chi scrive).
Emerge invece a luce meridiana da La guerra alla fronte italiana e dal
volume di Carlo Cadorna. Le vendette di Orlando Le
Memorie di Orlando, curate da Rodolfo Mosca (ed. Rizzoli), si
restringono agli anni 1914 -1919. Esse sono lo sfogo di due vendette,
contro la memoria di Giolitti e contro quella di Cadorna. Candidato nel
Listone mussoliniano nelle elezioni del 1924, Orlando mirò anzitutto a
“giustificare” la sua adesione all'interventismo: “Io credo che
l'obbedire alla pressione pubblica sia un elemento inseparabile
dell'istituto parlamentare”. L'“elogio della piazza” è l'opposto di
quanto dev'essere lo Statista. Ripeté poi più volte di aver subordinato
l'accettazione della presidenza del Consiglio (fine ottobre del 1917)
alla defenestrazione di Cadorna. Negò che Caporetto fosse stata causata
dal disfattismo dilagante nel paese e giunse a scrivere che la
“propaganda sovversiva” di origine socialistica era denunciata dal
Generalissimo per “una di quelle idee fisse che confinano coi domini
della psichiatria. Per ciò stesso e per ciò solo, al giudizio vien meno
ogni autorità”. Rivendicò infine a proprio merito di aver strappato a
Vittorio Emanuele III la “esonerazione” di Cadorna, le cui “capacità
tecniche” ritenne (non solo nel corso degli eventi ma anche nelle
Memorie”) viziate per eccesso o per difetto dal senso di responsabilità
e concluse: “Che valore può avere un Capo, non dirò irresponsabile, ma
non adeguatamente responsabile?” Quando Mussolini impedì la pubblicazione dell'“altro libro” di Cadorna Il
secondo libro di Cadorna rimase nel cassetto anche dopo le
manifestazioni entusiastiche che ne riportarono l'autore al centro
dell'opinione nazionale, con il dono della villa a Pallanza e il
conferimento del grado di Maresciallo (1924). Il Generale continuò a
limarlo. Il 15 dicembre 1926 lo ritenne pronto per la stampa, ma fu
bloccato da Mussolini tramite il generale Ugo Cavallero, come Cadorna
riferì al figlio da Viareggio l'11 dicembre: “Ora ho una grossa grana
col mio libro. Cavallero (massone affiliato dapprima al Grande Oriente
e poi alla Gran Loggia d'Italia, NdA) mi scrisse pregandomi di
sospendere la pubblicazione soprattutto perché il Governo considera
Sonnino come un rigido tutore degli interessi nazionali e non ama che
ne esca sminuito. Io ho risposto che mandavo la sua lettera a (Angelo)
Gatti (che ne stava curando l'edizione nella collana da lui diretta per
Mondadori, N.d.A.) ma che, allo stato delle cose, non vedevo la
possibilità di sospenderlo perché era legato da un contratto scritto e
registrato coll'editore e il libro era pronto ad uscire. Cavallero mi
rispose insistendo e dicendo che di fronte a un interesse superiore, si
debbono superare le difficoltà coll'editore”. Cadorna
tacque. Morì a Bordighera il 21 dicembre 1928. È sepolto nel Mausoleo
erettogli nella sua Pallanza da Piacentini. Silente. Per lui parlano la
sua Opera e la Storia. Per un bilancio storiografico sul Generale Luigi Cadorna Nel
1950 i figli del Generale, Carla e Raffaele, pubblicarono finalmente le
Pagine polemiche, che però furono accolte con freddezza nel clima del
tutto antimilitaristico del dopoguerra, quando tre deputati
democristiani (tra i quali Aldo Moro) non approvarono l'articolo 52
della Costituzione che dichiara “sacro dovere del cittadino difendere
la Patria”. Non era stato Cadorna a tramare per
l'assassinio dell'Arciduca Francesco Ferdinando d'Asburgo a Sarajevo il
28 giugno 1914 né a chiedere la propria nomina a Capo di Stato Maggiore
dell'Esercito, decisa da Vittorio Emanuele III dopo la morte improvvisa
di Alberto Pollio (illustre allievo della Nunziatella) a soli 62
anni, né a volere l'accordo di Londra. Assolse al compito immane di
organizzare lo “strumento militare”, che era del tutto impreparato per
affrontare una guerra immaginata dai “politici” come breve e di modesto
costo e risultò invece “lunga e grossa”. Il governo si procacciò una
miseranda apertura di credito finanziario all'estero quando già il
ministro Grandi aveva scritto che per portare l'esercito a regime
minimo adeguato alla guerra occorreva almeno un miliardo. Fu invece
lui, Comandante Supremo in piena e continua intesa con il Re, a
chiedere all'Esecutivo di mettergli a disposizione il necessario per
fronteggiare e vincere quello che nel Bollettino della Vittoria venne
poi detto “uno degli eserciti più potenti del mondo”. Ora
l'Italia deve fare i conti sine ira et studio con la verità della
Storia. Diversamente non recupera la bussola nella sua sempre
procellosa navigazione di Stato giunto all'unità con la pace di
Saint-Germain nel 1919, appena un secolo addietro e dopo immani
sacrifici. Quest'anno ricorrerà il 150° anniversario dell'irruzione
dell'Esercito italiano in Roma agli ordini di Raffaele Cadorna, padre
del Comandante Supremo: una “liberazione” per l'Italia e, a ben vedere,
per la Chiesa cattolica apostolica romana. Con la ristampa
di La guerra alla fronte italiana e con il volume curato da suo nipote
la figura e l'opera di Luigi Cadorna tornano al centro della memoria
nazionale. Non è mai tardi. La Storia è galantuoma.
Aldo A. Mola
ELEZIONE DIRETTA DEL CAPO DELLO STATO? CONTRO LEGITTIMITÀ E TRADIZIONE
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 2 Febbraio 2020, pagg. 1 e 11.
Il primo plebiscito: monarchia/repubblica Sarà
per l'anomalia del clima, “zeffiro torna e... il mal tempo rimena”:
rispunta la proposta dell'“l'elezione diretta” del Capo dello Stato. Nella
sua storia millenaria l'Italia ne ha viste di tutti i colori. Consoli,
cesari, imperatori romani “de Roma”, italici, oriundi, reguli, signori,
dogi, principi e despoti, ora di conio proprio ora imposti
dall'esterno, una gran varietà di “capi di stato” insomma. Ma, come ora
si narra quasi fosse chissà quale scoperta, alla fin fine al timone
della Storia sono sempre state minoranze consapevoli. Anche il più
tirannico degli autocrati si è sempre circondato di una cerchi di
fedelissimi: l'antico Senato romano, rafforzato con l'ingresso degli
“homines novi”, le oligarchie, il patriziato, le “classi dirigenti”,
impasto perpetuo di privilegi e visioni lungimiranti. In Italia come
altrove. Una sola volta l'Italia ha sperimentato un
“plebiscito”: per la propria forma istituzionale, una scelta dirimente,
tra monarchia e repubblica. Era il 2-3 giugno 1946. Quasi 75 anni dopo
non è affatto chiaro come davvero siano andate quelle votazioni. La
vittoria della repubblica sulla base di una “grande truffa”, a lungo
asserita, non regge all'esame critico. Per attuare il presunto “colpo
di mano” (l'immissione di un paio di milioni di schede contraffatte a
spoglio in corso) il ministro dell'Interno Giuseppe Romita
(repubblicano senza se e senza ma) avrebbe dovuto contare su una
miriade di complici, i cui “ricordi” prima o poi avrebbero riempito le
cronache e la memorialistica. Altrettanto va detto di supposte
direttive impartite dal governo (quasi tutto repubblicano) agli uffici
elettorali circoscrizionali e a quello centrale per manipolare l'esito
degli scrutini. Alla luce dei risultati acquisiti, non si comprende
perché esse sarebbero state efficaci in alcune regioni ma niente
affatto in altre. La verità è più semplice: la repubblica vinse con il
magro 42% dei suffragi di chi aveva diritto di voto (12.700.000 su
28.000.000): nacque minoritaria nel Paese, ma ebbe il consenso della
Costituente, eletta contestualmente, e dei “vincitori” che già avevano
pronto il “trattato di pace”che comportò la “potatura” dei confini del
1924 e l'esodo di centinaia di migliaia di dalmati, fiumani, istriani.
Da ricordare... Nell'Assemblea i deputati repubblicani
erano l'80% del totale: non solo nelle file di comunisti, socialisti,
partito d'azione, ma anche in quelle dei “liberali” (Manlio Brosio era
fautore del “cambio”) e, ciò che più conta, della Democrazia cristiana.
Se la maggior parte dei votanti lo Scudo Crociato erano monarchici
(soprattutto nell'Italia centro-meridionale) i loro rappresentanti
erano invece repubblicani, in linea con il pronunciamento del Congresso
nazionale e, ancor più, del movimento giovanile democristiano,
orientato dal clero da sempre contrario all'Unità nazionale. Certo non
mancarono brogli, manipolazioni, migliaia di piccole magagne che,
sommate, fecero la differenza. Ma il vero “colpo” non fu “di Governo”,
bensì “linguistico”: quando con dodici voti contro sei la Corte Suprema
di Cassazione stabilì che per “votanti” s'intende voti validi anziché
schede votate, comprese nulle, bianche, contestate...: circa 1.500.000.
Se queste fossero state conteggiate, la differenza tra monarchici e
repubblicani si sarebbe ridotta a circa 250.000 su 28.000.000 e la
partita si sarebbe potuta riaprire, con verifiche delle schede. Ma non
lo volle nessuno di chi davvero contava: non papa Pio XII, né gli
anglo-americani, che avevano il controllo dell'Italia, né, infine, lo
stesso Umberto II, che preferì lasciare il suolo patrio da Re per
scongiurare conflitti di piazza dalle conseguenze imprevedibili, nella
fiducia di esservi prima o poi richiamato. Come accennò Palmiro
Togliatti, plenipotenziario del Partito comunista in Italia, i parti
difficili vanno propiziati. Non era un'invenzione sua. Nei secoli lo
avevano detto e ripetuto filosofi, archimandriti e capipopolo. Capo dello Stato: eletto dai Costituenti, non da plebiscito Però
neppure il famoso referendum istituzionale del giugno 1946 decise chi
fosse il capo dello Stato. Esso cancellò la monarchia in Italia ma non
impedì che il Re partisse da sovrano: prerogativa implicitamente
riconosciutagli dalla Costituzione che vietò agli ex re, allo loro
consorti e ai loro discendenti maschi (confondendoli con “eredi al
trono”), ma non insediò un “successore”. Le “funzioni” di Capo dello
Stato furono assunte pro tempore da Alcide De Gasperi su decisione del
Consiglio dei ministri intorno alle 0.30 di giovedì 13 giugno: un
giorno dalla cifra scaramantica. Non furono gli italiani
(votanti, non votanti, esclusi dal voto per i motivi più disparati:
ancora prigionieri di guerra, abitanti di province in discussione,
privati del diritto di voto per ragioni politiche, non reperiti dagli
uffici comunali...) a eleggere il nuovo capo dello Stato. Il
19 giugno 1946 il governo presieduto da De Gasperi deliberò la nuova
intestazione dei decreti e l'intitolazione della “Gazzetta Ufficiale”.
Il 24 seguente De Gasperi emanò il decreto legislativo che ordinò la
cessazione del Regio Senato, ma la Corte dei Conti rifiutò di
registrarlo, sia pure con riserva, perché esso esorbitava dalle sue
competenze. L'indomani l'Assemblea si radunò nell'Aula di Montecitorio
ed elesse presidente il socialista Giuseppe Saragat. Il 28 fu la
Costituente a eleggere a larga maggioranza il presidente provvisorio
della neonata Repubblica italiana: Enrico De Nicola, liberale,
monarchico, napoletano, “uomo del Mezzogiorno d'Italia”, cioè proprio
delle regioni che avevano votato a larghissima maggioranza a favore
della monarchia. De Nicola aveva altri pregi. Deputato sin dal 1909
(prima del collegio di Afragola, poi di Napoli) nel 1924 era stato
candidato nel “Listone” nazionale organizzato dal Partito nazionale
fascista. Il 2 marzo 1929 fu creato senatore del regno. Uomo di grande
sobrietà (il suo biografo, Tito Lucrezio Rizzo, ricorda che si faceva
rivoltare il cappotto di lana: all'epoca con la camicia “buona” si
comperavano anche polsini e colletti “di riserva”), il napoletano De
Nicola non era molto diverso dal suo successore, Luigi Einaudi,
liberale, monarchico e piemontese “di Cuneo”, cioè della provincia che,
con Asti e Padova, nel 1946 ritenne che lo Stellone d'Italia fosse
tutt'uno con la Corona, e votò in prevalenza per la monarchia. Culla
della Resistenza (come poi è stata narrata), la “Granda” provò nei
fatti che la guerra partigiana non fu affatto monopolio di
“Garibaldini” e “Giustizia e Libertà” (come a lungo narrò Pansa). Vi
avevano concorso i monarchici delle formazioni autonome comandate da
Enrico Martini, “Mauri”, Ilicio Ronchi della Rocca e molti militari,
come l'eroico generale Giuseppe Perotti, capo del comando militare del
CLN piemontese, catturato, torturato e fucilato su condanna di un
tribunale della Repubblica sociale italiana. Il Presidente “blindato” dalla Carta Non
furono dunque gli elettori, ma i costituenti, a scegliere il successore
di Umberto II. L'Assemblea era popolata da personalità di lunga e
robusta esperienza politica: studiosi, scienziati, parlamentari
navigati, accomunati da una certezza: toccava a loro “tagliare l'abito”
per la nuova Italia. Bisognava tenerla al riparo dalle tentazioni.
L'articolo 1 della Carta sintetizzò il futuro: “La sovranità appartiene
al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della
Costituzione”, cioè nella cornice dei 138 articoli successivi e delle
XVIII disposizioni transitorie e finali, l'ultima delle quali stabilì
che sarebbe entrata in vigore dal 1° gennaio 1948. La Carta blindò la
figura del Presidente della Repubblica, che è “il capo dello Stato e
rappresenta l'unità nazionale”, formula ricalcante lo Statuto
promulgato il 4 marzo 1848 da Carlo Alberto di Savoia-Carignano. Il Re
era “il Capo dello Stato”, con quanto ne conseguiva: egli “comanda(va)
tutte le forze di terra e di mare”, così come il presidente della
Repubblica “ha il comando delle forze armate, presiede il Consiglio
supremo di difesa, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle
Camere...” e molto altro. Il sovrano “solo sanziona(va) le leggi e le
promulga(va)”, al pari del Presidente della Repubblica, che promulga le
leggi ed emana i decreti aventi valore di legge e i regolamenti. La
Carta stabilì inoltre che il Capo dello Stato è eletto dal Parlamento
in seduta comune dei suoi membri e da tre delegati di ogni regione (uno
solo per la Valle d'Aosta). Anzianità fa grado Se
ha ormai superato la “settantina”, vuol dire che il regime repubblicano
si fonda su un equilibrio di poteri capace di reggere anche a venti
tempestosi, che non sono affatto mancati nel suo corso: un
bilanciamento formale e sostanziale tra Presidente, Parlamento,
Consiglio dei Ministri, Magistratura, regioni, province (dimidiate e
agonizzanti per l'abolizione del loro “governo” ma ancora esistenti),
comuni e la Corte Costituzionale, un'architettura complessa, sulla cui
durata nel 1946-1948 e sino agli Anni Sessanta non tutti scommisero. Nel
tempo sono state affacciate molte proposte di riforma della Carta, ora
per alcuni articoli, ora per suoi capisaldi. Ricorrentemente si è
affacciata la richiesta dell'elezione diretta del capo dello Stato, su
modello degli Stati Uniti d'America e della Francia, due Paesi dalla
storia analoga: entrambi figli di ordinamenti monarchici e dalla
tradizione e vocazione imperiale. Gli USA nacquero dalla guerra per
l'indipendenza della Nuova Inghilterra contro la “madrepatria”. I
poteri del Presidente, geneticamente capo militare, vennero però subito
temperati da altri organi statuali. Il Presidente degli USA è frutto di
alchimie così articolate, lunghe e complesse che la sua “elezione
diretta” è più apparente che reale. Altrettanto vale per la Francia
odierna, debitrice verso Charles De Gaulle, i Bonaparte, Luigi XIV ma
anche verso la Terza Repubblica e Montesquieu, al quale risale
l'enunciazione lapidaria della divisione armonica dei poteri. Pro e contro cesarismo/bonapartismo: Randolfo Pacciardi, Guglielmo Ferrero Tra
i fautori dell'elezione diretta del Capo dello Stato merita speciale
menzione Randolfo Pacciardi (Giuncarico,1899 - Roma, 1991),
repubblicano, massone, ispirato al modello “americano”, fondatore
dell'Unione democratica per la Nuova Repubblica e del settimanale
“Folla”, diretto da Giano Accame, che fu tra i promotori del
“movimento” con il generale Raffaele Cadorna, Mario Vinciguerra, il
socialista Ivan Matteo Lombardo. Il programma aveva due cardini: una
legge elettorale maggioritaria e l'elezione diretta del presidente
della Repubblica. Vi si fondevano le riflessioni sul modello degli USA
(a lungo studiato da Pacciardi nel suo soggiorno in America, accanto ad
Alberto Tarchiani e a Carlo Sforza) e l'opposizione al centro-sinistra,
ritenuto antesignano occulto del “compromesso storico” tra la Dc e il
Partito comunista italiano, che di fatto risaliva ai governi presieduti
da Ivanoe Bonomi, Ferruccio Parri e Alcide De Gasperi sin dal suo
rientro dagli USA (1947) e alla rottura di Saragat con i socialisti di
Pietro Nenni. Pacciardi venne demonizzato e poi sospettato di
vagheggiare un colpo di Stato, accusa poi mossa anche contro Edgardo
Sogno. L'elezione diretta del capo dello Stato aveva
avuto uno strenuo avversario nello storico e sociologo Guglielmo
Ferrero (Napoli 1871 - Mont Pélerin, 1942), repubblicano, radicale,
interventista presto pentito nel 1915, antifascista, minacciato di
condanna al confino, passato in Svizzera ove insegnò all'Università di
Ginevra a al prestigioso Istituto Universitario di Alti Studi
Internazionali. Riproposto all'attenzione in anni recenti (anche con la
ristampa di molte sue opere), Ferrero combatté Francesco Crispi e il
suo “erede” e “continuatore” Benito Mussolini. Il secondo, in specie,
mirò a introdurre in Italia il bonapartismo, forma aggiornata del
cesarismo (da Ferrero aspramente combattuto anche in sede
storiografica), basato sulla privazione dei cittadini della libertà di
scegliere i propri rappresentanti, come anche oggi molti propongono. Poco
dopo il trasferimento di Ferrero all'estero, gli italiani furono
chiamati alle urne. Il governo aveva alle spalle la Conciliazione
Stato-Chiesa dell'11 febbraio 1929 e la riforma elettorale ideata da
Alfredo Rocco (1928): una sola lista di 400 candidati alla Camera
preconfezionata dal Gran Consiglio del Fascismo, a sua volta elevato a
organo della rivoluzione fascista. Fu una sorta di plebiscito, ma
riguardò il regime di partito unico, non lo Stato, che era e rimase una
monarchia statutaria. Il Re conservò la somma dei poteri. Li gettò
sulla bilancia della storia quattordici anni dopo, quando in un
colloquio di venti minuti revocò Mussolini che da vent'anni era capo
del governo. Altra cosa fu il plebiscito in Germania che il 12 novembre
1933 con 40.600.000 “si” contro 2.100.000 “no” consegnò il potere al
partito nazionalsocialista di Adolf Hitler, senza alcun contro-altare.
Il 19 agosto 1934 un altro plebiscito unì la carica di presidente del
Reich con quella di Cancelliere. A Mussolini Casa Savoia piacque poco;
dal 1938 il “duce” cercò di disfarsene, ma non arrivò mai a progettare
di unire il ruolo di capo di governo con quello dello Stato. Legittimità e Tradizione Le
proposte di elezione diretta del Capo dello Stato oggi qui e là
nuovamente serpeggianti in Italia, solitamente abbinate alla richiesta
di “pieni poteri” come se la storia non abbia insegnato nulla, si
scontrano con tre novità che hanno modificato profondamente lo scenario
politico-partitico-parlamentare e le rendono improponibili. In primo
luogo, a differenza di quanto avvenuto tra il 1945 e il 2008, non
esiste più alcun partito in grado di catalizzare cospicui e durevoli
consensi intorno a un programma di ampia prospettiva. I voti sono
povere foglie “frali” in balia dei venti umorali da tempo
imperversanti. Mentre essi vagano da uno ad altro imbonitore aumenta il
numero delle astensioni, anche in elezioni locali. Inoltre,
la riduzione del numero dei parlamentari, se confermata, aumenterà la
lontananza tra elettori e rappresentanti, riducendone l'antica capacità
di consolidare interessi locali e “clientele”, onesto e trasparente
fulcro della democrazia tradizionale, con quelli statuali. Infine, da
anni imperversa la sciagurata “personalizzazione” della rappresentanza
politica, che non trova adeguati correttivi istituzionali, a differenza
di quanto avviene nelle grandi repubbliche presidenziali (USA,
Francia...) e negli Stati monarchici. L'elezione diretta
del Capo dello Stato in Italia sommerebbe i vizi della tirannide e
dell’oclocrazia. Accecati dai “media” gli elettori voterebbero per il
“personaggio del giorno”: Masanielli di breve durata, in balia a folle
che già una volta tra Barabba e Cristo non fecero una scelta
oculata. L'Italia, già in grave affanno proprio per
l’assenza di progetti di lungo periodo, non può mettere a repentaglio
chi ne rappresenta l'unità, garante dei vincoli internazionali. È
curioso che anche taluni sedicenti monarchici propongano l'elezione
diretta del Capo dello Stato: sarebbe la fine di ogni sogno di
re-staurazione o di in-staurazione, così come lo sarebbe ripetere il
referendum sulla forma dello Stato. Per quanto discussa, la Repubblica
oggi riscuoterebbe comunque un consenso maggioritario schiacciante e
non certo minoritario, come nel 1946. I veri nodi da
sciogliere dell'Italia prossima ventura sono varare una legge
elettorale che garantisca rappresentanza e stabilità (quadratura del
cerchio!) e riportare i cittadini alle urne per convinzione, non per
convenzione né per coazione. All'insegna della libertà
consapevole: un traguardo forse lontano. Nel frattempo, meglio è
sperare che il prossimo Capo dello Stato sia scelto da un Parlamento
all'altezza dei suoi doveri.
Aldo A. Mola
ORAZIO RAIMONDO SOCIALISTA TRICOLORE E TRIPUNTINI
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 26 Gennaio 2020, pagg. 1 e 11.
Attualità di un politico giovane Orazio
Raimondo (Sanremo, 6 giugno 1875-11 gennaio 1920) è una parabola della
storia d'Italia tra Otto e Novecento, dalla nascita del Partito dei
lavoratori italiani (Genova, Ferragosto 1892), poi Partito socialista
italiano, e la crisi che avvolse il paese dopo la Grande Guerra. Rimane
un protagonista scomodo per i manipolatori della memoria. Il centenario
della sua morte non ha fatto notizia nei “media”. Presenti il labaro
della sua Officina e il sindaco della città, Alberto Biancheri, e
l'assessore Massimo Donzella a ricordarlo nella sua Sanremo è stata la
loggia “Giuseppe Mazzini” nella quale fu iniziato apprendista massone
il 3 dicembre 1901. Eppure Raimondo è modello “politico” di grande
attualità. È l'emblema di giovani che seppero scegliere tra reazionari
e progressisti e pensarono in grande. I suoi furono anni di utopia:
guardare lontano, vedere la piramide non dalla base ma dal vertice,
sognare un Mondo Nuovo e costruirlo, come avevano fatto per secoli i
marinai delle coste liguri, aspre e inospitali, da Antoniotto Usodimare
a Giuseppe Garibaldi, che fu la sua stella polare: cospiratore,
condannato, esule, massone, pronto a mettere la spada a servizio di Pio
IX, di Carlo Alberto di Savoia e di chiunque scendesse in campo per
l'indipendenza, l'unità e la libertà dell'Italia. Orazio
Raimondo nacque “figlio d'arte”. Ebbe alle spalle una solida famiglia
borghese (con le alterne fortune del paleocapitalismo) e uno zio
politicamente prestigioso, come Giuseppe Biancheri, deputato, ministro,
per diciotto volte presidente della Camera, cancelliere
dell'onnipotente Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, Collare
dell'Annunziata e quindi “cugino del Re”. Però, se, appunto, per “fare
l'Italia” la generazione precedente era stata “un po' ribelle”, anche
Raimondo imboccò giovanissimo il sentiero del cinabro. Conseguita la
licenza elementare a sei anni e la maturità classica a 15, ancor prima
di laurearsi in giurisprudenza a Genova appena ventenne, finì nel
mirino per contatti con due anarchici, collezionò denunce e
un'assegnazione al confino a Tortona e ne evitò una seconda solo perché
non ancora maggiorenne. Precocissimo collaboratore di periodici
battaglieri, aveva il dono della parola alata, in prosa e nelle aule
giudiziarie, che presto lo videro penalista di grido. Vi raggiunse il
trionfo con la difesa della contessa Maria Elena Tiepolo, imputata
dell'assassinio dell'amante, Quintilio Polimanti, attendente del
marito, Carlo Ferruccio Oggioni, capitano dei bersaglieri. Come quello
a carico di Linda Murri, imputata dell'omicidio del conte Francesco
Bonmartini in un contesto più che torbido: uno dei più famosi processi
a sfondo sessuale d’inizio Novecento, prima che l'Europa precipitasse
nella fornace della Grande Guerra, che dirottò l'attenzione morbosa da
“un caso” alla carneficina quotidiana e rimescolò carte e lenzuola
dell'intera Europa. L'oratoria di Raimondo affascinò Leonardo Sciascia,
che ne scrisse in “1912+1”: “Barba e chioma tempestosamente agitate dal
vento del suo eloquio”, Raimondo “recitò una di quelle arringhe piene
di vento su cui allora si misurava la valentìa di un avvocato”. Ironia
a parte, commosse tutti e strappò l'assoluzione per la sua assistita,
che rischiava l'ergastolo. Così era Raimondo. Attratto
nelle file socialiste dall'oratoria “umanitaria” di Filippo Turati,
egli, ventiseienne, bussò alle porte della loggia massonica di Sanremo.
Come documenta Luca Fucini in “Misteri e segreti della Massoneria a
Sanremo” (Ed. Atene) l'Officina, di Rito scozzese antico e accettato e
all'obbedienza del Grande Oriente d'Italia, era stata fondata alle 21
del 27 marzo 1900 da una manciata di Fratelli che elessero maestro
venerabile A. L. Rubino, padre del celebre scultore. Ai fondatori si
aggiunse il medico Gio.Bernardo Calvino, che dal 14 marzo 1874 aveva
fatto parte della loggia sanremese “Liguria”, originariamente
all'obbedienza del Grande Oriente istituito a Napoli dall'arciprete
calabrese Domenico Angherà e poi passata al Grande Oriente di Roma. Che
cosa comportava essere massoni nel Ponente Ligure a inizio Novecento?
Anzitutto i “Fratelli d'Italia” attivi e quotizzanti erano poco più di
4-5.000. In molte regioni non esisteva neppure una loggia. La
massoneria era bersaglio di tre offensive, durissime e a tutto campo.
Nel 1884 Papa Leone XIII ne aveva solennemente ribadito la scomunica
con l'enciclica “Humanum genus”. Insufflato dai “servizi” della Francia
il giornalista Léo Taxil da quindici anni inondava l'Europa di libracci
nei quali la massoneria era dipinta quale centrale occulta di tutti i
complotti e di omicidi politici con l'acqua tofana, i pugnali,
eccetera. Già segretario della lega degli atei, Taxil si divertì a
inventare le “Memorie” di Diana Vaughan, ex palladista, insidiata dal
demonio, convertita in “suor Raffaella”, e narrò come il diavolo
intervenisse alle orge massoniche in veste di coccodrillo e
accompagnasse al piano danze lascive... Un suo imitatore, Domenico
Margiotta, aggiunse altre fandonie con successo editoriale enorme.
Messo alle corde dal gesuita Hermann Gruber dopo il Congresso
antimassonico di Trento (1896), nel 1897 Taxil dichiarò di essersi
inventato tutto, ma molti continuarono a credere che avesse svicolato
solo per paura di essere ucciso dai massoni. In realtà lo fece perché
ormai non serviva più. Lui, Margiotta, la Francia e tutti i massonofagi
avevano un unico obiettivo: screditare e abbattere il presidente del
governo italiano Francesco Crispi, massone, sorretto da Giosue Carducci
e dal gran maestro del Grande Oriente Adriano Lemmi, perché la sua
politica estera era in rotta di collisione con Parigi. Non era
questione di “grembiulini massonici” ma di imperi coloniali. Però a far
cadere Crispi non furono né il papa né l'ateo vagante Taxil, ma le orde
di Menelik che il 1° marzo 1896 annientarono il corpo di spedizione
italiano ad Adua. Terzo nemico giurato dei massoni era l'estrema
sinistra rivoluzionaria che li accusava di fare da quinta colonna della
borghesia infiltrata nei sindacati e nei partiti socialisti europei
dirottati dalla Rivoluzione alle secche del riformismo. Il Riformismo: socialismo tricolore e fratellanza tra i popoli Raimondo,
in effetti, fu proprio il campione del socialismo riformista,
pragmatico, capace di conciliare utopia e realismo, nel solco
dell'imperiese Edmondo De Amicis e della fiorente tradizione di
liberali, radicali, democratici e di “politici” senza etichetta né
tessere di partito, impegnati a “fare” attraverso il progresso delle
scienze in tutti i campi: istruzione, educazione, ricerca negli ambiti
più disparati dello scibile umano e delle sue applicazioni. Il Ponente
Ligure tra Otto e Novecento era un lembo dell'Europa che si raccolse
nell'Esposizione di Parigi del 1900 a “ragionare”. Vi accorsero anche
gli studenti della “Corda Fratres”, Federazione studentesca
internazionale ideata dal canavesano Efisio Giglio-Tos, poi affiancato
da Angelo Fortunato Formiggini e da pattuglie di giovani, maschi e
femmine, quando le studentesse da poco erano state ammesse nelle
Università del regno (fu il caso di Emilia Santamaria, moglie di
Formiggini, pedagogista di prim'ordine). Eletto
consigliere comunale di Sanremo nel 1902, assessore nella giunta
capitanata dal socialista Augusto Mombello, da venerabile della
“Mazzini” e da sindaco dal 1906 al 1908 Raimondo determinò la svolta
della città verso gli orizzonti che ne avrebbero fatto la capitale del
turismo di alta qualità a tutto vantaggio di ogni ceto. Tra le sue
principali realizzazioni spiccarono la municipalizzazione
dell'acquedotto, il collegamento stradale con San Romolo e quello
tramviario verso Ventimiglia (ove suo cugino Mario Raimondo fu
venerabile della loggia “I Persistenti”, documentata da Fucini in un
ottimo saggio) e verso Porto Maurizio, il Kursal, antesignano del
Casinò, come ricorda Marzia Taruffi, direttrice dell'Ufficio Cultura
del Casinò stesso, nel sontuoso volume “Uno, cento, mille Casinò di
Sanremo, 1905-2015” (ed. De Ferrari) e la promozione di alberghi atti
ad attrarre turisti che poi avrebbero scelto di vivere nel Ponente.
Superfluo sottolineare come la promozione dell'edilizia sia stata
volano non solo di artigianato e di una moltitudine di grandi e piccoli
“affari”, ma anche di crescita culturale. Mentre difendevano docenti
del Classico invisi a certi settori retrivi, la loggia e il Comune si
attivarono nel decollo di un Istituto tecnico per la formazione di
quadri intermedi quando geometri e ragionieri erano la spina dorsale
della vita imprenditoriale e civica. Raimondo ebbe la
fortuna di avere compagno di officina Mario Calvino, figlio di
Gio.Bernardo e nipote di Francesco, che il 20 settembre 1870 era stato
tra i primi militari italiani a entrare in Roma attraverso la breccia
di Porta Pia. I due condivisero il grande disegno: conciliare lo
sviluppo urbano con l'“ambiente”, con particolare attenzione per la
floricoltura, passata da “dilettantismo” a “industria” di livello
nazionale e internazionale, col supporto di iniziative di vasto respiro
come il congresso nazionale di idrologia e climatologia. Al pragmatismo
(il varo dell'ospedale infantile) Raimondo unì il Messaggio
sintetizzato nel monumento di Garibaldi scoperto dinnanzi a una folla
sterminata accorsa dall'Italia e dalla Francia e naturalmente da Porto
Maurizio, ove dal 1900 erano state alzate le colonne della loggia
intitolata all'Eroe dei Due Mondi. Il “Garibaldi” di Sanremo, plasmato
dallo scultore massone Leonardo Bistolfi, è il Condottiero pacifico e
pacificante. Come nella “Mazzini” spiegò il pastore valdese Ettore
Janni, il nazionalismo è nemico dell'internazionale umanitaria, è
settarismo, è l'opposto alla fratellanza tra i popoli. Nel
1909, lasciata da un anno l'amministrazione di Sanremo, conquistata da
Alfredo Natta Soleri, (come, tra altri, ricorda un suo biografo, Andrea
Gandolfo), Raimondo tentò l'elezione a deputato del collegio
Sanremo-Ventimiglia ma fu sconfitto dal liberale Ernesto Marsaglia, che
ottenne il doppio dei suoi voti. Niente affatto scorato venne eletto il
29 ottobre 1913 con 7310 preferenze contro le 6626 del rivale. Il
suffragio universale maschile registrò una partecipazione elevatissima:
quasi 14.000 votanti su 17.995 aventi diritto, a conferma che
l'ampliamento del diritto di voto voluto da Giolitti era nelle corde
dei cittadini consapevolmente partecipi della vita pubblica. A
Montecitorio esordì con un applauditissimo discorso contro il
presidente del Consiglio, vaticinandone il tramonto. Non solo per i
suoi legami “tripuntini” coi massoni d'Oltralpe, Raimondo si schierò
per l'intervento dell'Italia a fianco della Triplice intesa e, come
Marcello Soleri e altri, benché deputato indossò la divisa di ufficiale
e andò al fronte. Dopo la caduta dello zar Nicola II fu inviato
in “missione” in Russia con altri tre massoni (Arturo Labriola,
Innocenzo Cappa e Giovanni Lerda) per convincere il nuovo governo a non
uscire dal conflitto. Non sapevano una parola di russo, ma
gesticolavano bene e furono applauditissimi, come ricorda Riccardo
Mandelli in “I fantastici 4 vs. Lenin” (ed. Odoya). Fondatore del
Fascio parlamentare a sostegno della guerra (con Federzoni e altri),
nel novembre venne rieletto deputato. Di rientro da un viaggio in
Sicilia, all'inizio del 1920 morì a soli 45 anni per un banale attacco
di nefrite. Suo fratello Riccardo tentò di calcarne le orme, ma senza
alcun successo. Orazio rimase una meteora: un Personaggio in attesa di una biografia documentata.
Aldo A. Mola
ESULI IN MEMORIA ORGOGLIO E PREGIUDIZI
Editoriale
di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della
Liguria” di domenica 19 Gennaio 2020, pagg. 1 e 11.
La “Grande Riforma” di Craxi: al di là del Ventennale Bettino
Craxi. Uno statista italiano morto all'estero vent'anni orsono. Guida
del PSI al culmine delle fortune, primo ministro, apprezzato all'estero
per le sue intuizioni ideali e culturali. Ora ne irrompono
rievocazioni, un mezzo scaffale di libri. Un film pienamente
decifrabile da chi già sapeva. Documentari. Molto, forse troppo, perché
tutto si affastella nell'era dei troppi “anniversari” usa e getta e
dell'alluvione di eventi che bussano procellosi alla porta di casa. Bettino
Craxi, dunque. Morto in esilio volontario o coatto? Per adesso,
malgrado tutto e l'impegno generoso di sua figlia Stefania, è ancora
esule dalla Storia, dalla percezione che la generalità degli italiani
ha del proprio passato prossimo. Le chiacchiere su seconda, terza,
quarta Repubblica sommergono la memoria dell'unica vera realtà
dell'ormai lungo trentennio dalla deflagrazione dell'Unione sovietica:
la sequenza vorticosa di movimenti, cartelli e loghi evanescenti
allestiti alla meglio per sostituire, senza fortuna, i partiti
(ri)-sorti nel 1942-1945 dalle rovine del regime di partito unico. Si
è perso nel tempo il mònito di Giuseppe Garibaldi, caro appunto a
Craxi, che esortava la sinistra democratica post-unitaria a tirar su e
a consolidare i muri della Nuova Italia. Poi sarebbe venuta l'ora di
discuterne la “tinta”. Bisognava partire anzigutto dal “tetto”. Craxi
bene sapeva che quello rabberciato dopo la Cortina di Ferro era datato.
Occorreva “la grande riforma”. Tra i suoi fautori vi fu Lelio Lagorio,
tra i migliori Ministri delle Forze Armate dell'Italia unita, un
avvocato che aveva appreso il culto della Patria dal padre, ufficiale
dei carabinieri. Il leader socialista sapeva, insegnava e mostrava nei
fatti che l'idea d'Italia si concreta con il progresso delle “classi
numerose”, con l'emancipazione dei diseredati, con la promozione dei
diritti civili e con l'Europa, che fu suo orizzonte. Dalla congerie di
opere che in questi mesi si sono affollate sulla sua figura e da quelle
che seguiranno nel corso dell'anno (inclusi convegni e studi per
campeggiarla nello scenario di lungo periodo: dal Risorgimento alla
crollo dell'URSS) Craxi verrà infine riscattato dall'oblio e dalle
deformazioni interpretative? Occorrono pazienza e longevità. Il tempo è
galantuomo. Attilio Prodam: l'esilio come destino storico Altri
italiani faticano invece a uscire dal cono d'ombra. Vanno ricordati in
vista del Giorno della Memoria. Ne citiamo due: Antonio Vio, massone
del Grande Oriente d'Italia, e Attilio Prodam, della Gran Loggia. Il
secondo è stato rievocato nell'“Incontro” su “La Massoneria: un
Universo” coordinato da Marzia Taruffi nell'ambito dei Martedì
Letterari del Casinò di San Remo con la partecipazione di Luciano
Romoli, sovrano e gran maestro della Gran Loggia d'Italia (Palazzo
Vitelleschi). Tra i suoi predecessori nel 1950-1953 vi fu appunto
Prodam (Fiume, 27 aprile 1877 - Roma, 5 maggio 1957). Correvano anni
difficili. Tra i prezzi più alti pagati dagli italiani per la divisione
dell'Europa in blocchi contrapposti vi fu il silenzio sulla sorte delle
centinaia di migliaia di italiani forzati a fuggire da Dalmazia, Fiume
e Istria e sulle vittime della feroce repressione sistematica degli
italofoni nelle terre occupate da Tito. In cambio della sua presa di
distanza dall'URSS di Stalin l'“Occidente” stornò l'occhio dai
crimini che la Jugoslavia perpetrava ai danni degli italiani al di là
del confine imposto col Trattato di pace del 10 febbraio 1947 e voltò
le spalle agli esuli, messi nel passivo generale della “guerra”, che
tutto dimentica e persino “giustifica”. Anche in opere
importanti come la autorevole “Storia di Fiume” di Giovanni Stelli (ed.
Biblioteca dell'Immagine) e in “Disobbedisco” di Giordano Bruno Guerri
(Mondadori), che ha riproposto l'epopea dannunziana nel suo centenario,
Prodam è citato fuggevolmente. In “Fiume, città di passione” di Raoul
Pupo (ed. Laterza) è del tutto ignorato. Eppure, come
Antonio Vio, Antonio Grossich e Riccardo Gigante, anche Prodam fu
protagonista della storia ufficiale della “questione fiumana” e
soprattutto di quella “segreta”, fatta di relazioni fitte ma spesso
necessariamente “coperte” tra la Zara dei Luxardo, Fiume, Trieste e
l'Italia intera. L'importanza del suo ruolo per l'italianità della
città quarnerina e per l'annessione di Fiume all'Italia è documentata
dall'imponente opera curata da Danilo L. Massagrande, “I Verbali del
Consiglio Nazionale Italiano di Fiume e del Comitato Direttivo,
1918-1929” pubblicato nel 2014 dalla benemerita Società di Studi
Fiumani con il contributo del Governo italiano e ampiamente illustrato
con documenti conservati nel Museo storico di Fiume (Roma, via Cippico
12). Il 24 gennaio 1919 il Consiglio Nazionale propose la
nomina di Prodam nel Comitato Direttivo e in tale veste dal 31 luglio
egli prese parte assiduamente alle sedute del Consiglio Nazionale. In
quale scenario e per quali meriti? In vista del centenario della Marcia
di Ronchi (12 settembre 1919) e dell'ottimo convegno di studi
organizzato a Villalta (Udine) dalla Gran Loggia d'Italia con
interventi di Valerio Perna, Ljubinka Toseva Karpowicz e del
sovrano-gran maestro Antonio Binni è stata messa in luce la figura del
massone torinese Giacomo Treves, fondatore a Trieste della loggia
“Guglielmo Oberdan” curiosamente inaugurata il 18 dicembre 1918 dal
massonofago Benito Mussolini (grande era la confusione sotto il cielo
del confine orientale tra guerra e dopoguerra). Oltre alle due logge di
Trieste (la “Oberdan”, appunto, e la antichissima e forzatamente
segreta “Alpi Giulie”), a Fiume da un ventennio operava la “Sirius”,
nata e vissuta all'obbedienza della Gran Loggia Simbolica d'Ungheria,
che affiliava anche polacchi, boemi e austriaci dell'Impero asburgico.
Tra i molti il padre di Carlo Schanzer, futuro ministro degli Esteri
apprezzato da Giolitti e cognato di Tancredi Galimberti che nel 1939
finì in camicia nera la lunga carriera politica di antico liberale:
deputato, ministro, senatore del Regno. Vienna vietava le logge in
Austria e nei suoi domini, inclusi il Trentino e la Venezia Giulia,
tranne che in Ungheria, ove la massoneria era tutt'uno con la
tradizione nazionale e con l'avvento della corona di Santo Stefano,
separata da quella dell'imperatore imperatore d'Austria ma calcata da
Francesco Giuseppe sulla base del “compromesso” del 1867, seguito alla
pesante sconfitta subita nella guerra contro la Prussia e l'Italia, cui
Vienna dovette cedere Venezia (tramite Napoleone III). In Ungheria la
massoneria evocava i nomi di Lajos Kossut e di Stefano Turr... Alla
vigilia del crollo dell'impero asburgico, gli ungheresi abbandonarono
Fiume. Su iniziativa del suo maestro venerabile, Antonio Vio, e dei
suoi principali collaboratori, la “Sirius” riorganizzò la loggia in
vista del vero obiettivo suo e del Consiglio comunale, che il 30
ottobre 1918 si autoproclamò Consiglio Nazionale, ottenne il consenso
plebiscitario della popolazione e, in nome della autodecisione dei
popoli (enunciata dai 14 punti del presidente degli USA, Wilson),
dichiarò Fiume “unita alla sua madrepatria, l'Italia”. Fu un corsa
contro il tempo nel timore dell'avanzata di croati, rompighiaccio (e
non solo) del nascente stato “serbo-croato-sloveno” insufflato da
Parigi, che (anche tramite il Grande Oriente e la Gran Loggia di
Francia) mirava al controllo diretto e indiretto di molte aree
dell'impero asburgico in piena deflagrazione. Bisognava fermare sul
nascere il progetto di costituire Fiume in “stato libero”, vagheggiato
da Riccardo Zanella (su quale Giovanni Stelli ha scritto pagine
equilibrate), destinato a “internazionalizzare” la questione di Fiume e
a impedirne l'incorporazione nel regno d'Italia. “Fare” e “fare in fretta” Fu
in quel momento che Prodam assunse l'iniziativa destinata a mutare il
corso della storia. Con altri quattro compagni (Giovanni Matcovich,
Giuseppe de Meischsner, l'avv. John Stiglich e il rag. Mario Petris) il
29 ottobre intraprese un viaggio rischiosissimo da Fiume a Trieste.
Dalla città tergestina raggiunsero Venezia sul piroscafo “Istria”
mentre infuriavano aspri combattimenti. Prodam si fece ricevere dal
Grande ammiraglio Paolo Thaon di Revel, capo di stato maggiore della
Marina, componente del Supremo Consiglio di rito scozzese antico e
accettato della Serenissima Gran loggia d'Italia e molto apprezzato da
Vittorio Emanuele III, e gli presentò il voto di Fiume: tutelare la
città in vista dell'annessione. L'ammiraglio aderì alla richiesta e il
3 seguente inviò una piccola squadra. Formata dalla “Emanuele
Filiberto”, scortata da quattro cacciatorpedinieri, questa giunse a
Fiume alle 9 mattutine del 4, giorno dal quale entrò in vigore
l'armistizio italo-asburgico. Fu accolta da una folla tripudiante.
Prodam narrò l'“avventura” nel sontuoso e da tempo rarissimo libro “Gli
Argonauti del Carnaro” pubblicato il 25 novembre 1938, ventennale
dell'impresa e omaggio a d'Annunzio, volato “altrove” pochi mesi prima
con tutti i suoi ricordi, segreti e messaggi, compreso un riferimento
estemporaneo a rituali massonici che nulla avvalora (diversamente
andrebbe annoverato terziario francescano, domenicano, novizio della
Compagnia di Gesù, buddista e chissà cos'altro..., da lettore onnivoro
qual fu). Classe 1877, laureato in ingegneria meccanica al
Politecnico di Mittweida (Sassonia), dal 1902 impiegato al “Silurificio
Withehead” di Fiume, inventore di un tubo lanciasiluri, camminò nel
solco del padre, Giovanni, chimico farmaceutico, patriota garibaldino,
ferito in battaglia. Tre altre volte ebbe ruolo di spicco.
All'inizio del settembre 1919, come attestarono due ufficiali presenti
al colloquio, Giovanni Host-Venturi (che poi accampò molti meriti) gli
mostrò scorato il messaggio sardonico inviatogli da d'Annunzio:
“Ardito, perché non ardisti'”. Mentre questi titubava, Prodam partì per
Venezia con la figlia, Lisi, che, propiziata da Alvise Foscari, a
Palazzo Ducale presentò ad Armando Diaz la sollecitazione a difendere
l'italianità di Fiume. Il 6 si fece ricevere da d'Annunzio e gli
prospettò l'“impresa”, d'intesa con ufficiali del 1° battaglione del
Reggimento Granatieri di Sardegna. Nelle stesse ore Giacomo Treves
faceva altrettanto. Il Vate promise a entrambi, all'insaputa l'uno
dell'altro, come soleva fare nella “vita orizzontale”. E nella notte
tra l'11 e il 12 settembre mantenne. Decisiva fu poi
l'opposizione di Prodam, liberale e monarchico, alla deriva della
Reggenza del Carnaro verso una fantasiosa “repubblica” sotto impulso
del già anarco-sindacalista Alceste De Ambris. Iniziato massone il 1°
agosto 1919 nella loggia “24 maggio 1915” di Venezia, all'obbedienza
della Gran Loggia, e rapidamente asceso al grado 33°, Prodam
fondò in Fiume “XXX ottobre”, in ricordo della data fatale. In
“tenuta bianca” (cioè senza rituali) vi riceveva personalità per
colloqui sul futuro della città quarnerina. Assediato e abbandonato da
visionari di passo, il Comandante non aveva alcun progetto realistico.
Mentre l'Europa, in fiamme, viveva sotto l'incubo dell'offensiva della
Russia in Polonia e l'Italia era alle prese con l'occupazione delle
fabbriche, Fiume si avviava al secondo inverno, ai margini della storia
dopo la firma del trattato italo-jugoslavo di Rapallo. Anche d'Annunzio
talvolta oltrepassò la soglia della “XXX ottobre”, senza però esservi
affatto iniziato, a differenza di quanto ventilato pur in mancanza di
prove. Lo fu invece suo figlio, Gabriellino, che ebbe compagno di
loggia il futuro storico Nino Valeri. Ma quella è proprio “un'altra
storia”. Dopo il “Natale di sangue” (dicembre-gennaio
1920-1921) e le lunghe tergiversazioni del 1921, il 3 marzo 1922 Prodam
guidò l'insurrezione armata che costrinse Riccardo Zanella a
riconoscerlo presidente del Comitato difesa nazionale. Passo dopo passo
quel percorso culminò con l'annessione della città all'Italia e la
solenne visita di Vittorio Emanuele III il 16 marzo 1924: giorno di
conciliazione nazionale. Sfilarono le organizzazioni del Partito
nazionale fascista, di cui Prodam era stato promotore. Ma chi,
all'epoca e negli anni seguenti, lì e in tanta parte d'Italia non fu
fascista o vicino al fascismo o favorevole al nazional-fascismo visto
come approdo del Risorgimento, della Grande Guerra, di un'“idea di
Italia” comprensiva e aperta? Il manifesto dei festeggiamenti elencò in
bell'ordine tutte le associazioni ammesse alla “sfilata”. Tra le molte
decine passarono i Giovani Esploratori Nazionali, la Gioventù Cattolica
Italiana, il Gruppo Orchestrale Fiumano, le Loggie (sic) Massoniche di
Fiume, il Partito Nazionale Fascista, il Popolare Italiano (cattolico),
il Nazionale Democratico (demolaburista), il Club Alpino Italiano, la
Dante Alighieri, la Filarmonico-Drammatica e persino la Società contro
l'Accattonaggio... Quali erano le Logge di Fiume e delle
terre vicine? Dal Grande Oriente dipendevano la “Italia Nuova”, sorta
dalla “Sirius”, con meno affiliati ma sempre tenace. La Gran Loggia
oltre alla “XXX Ottobre” contava la “12 settembre 1919”, la “IV
novembre” di Pola, la “Premuda” di Zara e altre “Officine” le cui
colonne erano state alzate in pochi anni in quella terra di frontiera
cara ai Fratelli Ugo Foscolo, Giovanni Prati, Giosue Carducci... Le
date, che sono l'“attaccapanni” dello storiografo riluttante
all'affabulazione, parlano chiaro. Dal febbraio 1923, un anno prima
dell'annessione, il PNF aveva dichiarato l'incompatibilità tra logge e
fasci. Però a Fiume fascisti e massoni, cattolici, laburisti e liberali
sfilarono insieme “avanti al Re”, senza bisogno di alcun“duce...”. Quel
mondo rimane in attesa di studi, documenti alla mano. Nel 1925, ancor
prima della legge che determinò lo scioglimento delle logge, anche i
massoni fiumani divennero bersaglio di indagini e di sorveglianza da
parte del governo centrale, peggio che ai tempi degli Asburgo. Negli
uffici di polizia si affollarono elenchi, informative, biglietti
anonimi… Il 30 dicembre l'avvocato Salvatore Bellasich pro bono pacis
non esitò a indicare al prefetto Emanuele Vivorio i nomi di “fratelli”
della “Italia Nuova”, tutti massoni notori: Guido Ancona, Aurelio
Allazetta, l'ing. Guido Lado, Ariosto Mini (alcuni dei quali,
dipendenti pubblici, risultavano prudentemente in sonno...) e sé stesso. Venticinque
anni dopo Attilio Prodam fu eletto sovrano gran commendatore della Gran
Loggia d'Italia, in successione al leggendario Raoul Palermi. Lo rimase
tre anni: 1950-1953. Operò come sempre per il ricongiungimento della
sua città all'Italia, come fece il “fratello” Manlio Cecovini a
Trieste. I corpi massonici marciavano divisi per colpire uniti... Orgoglio e pregiudizio Di
quelle figure va fatta memoria mentre si parla di recupero della
memoria “a parti intere” (a cominciare da quella di Craxi) e ancora
imperversa la demonizzazione della massoneria. Da una parte vi è
l'orgoglio di una “storia” dalla quale “trarre gli auspici”, del dovere
compiuto; dall'altra il pregiudizio. Lo statuto della Lega, cioè di un
“partito” che aspira a governare l'Italia da solo o con alleati
talvolta trattati da vassalli, afferma che “la qualifica di socio
ordinario militante è incompatibile con l'iscrizione o l'adesione a
qualsiasi altro partito o movimento politico, associazione segreta,
occulta o massonica...”. Su quale base storica, culturale, civile,
giuridica si fonda l'ostracismo della massoneria, associazione del
tutto compatibile con lo Stato? Se si trattasse solo di un circolo
privato, “nulla quaestio”. Ognuno è libero di chiudersi nello steccato
che preferisce e suonare la cornamusa o lo scacciapensieri a piacer
suo. Ma in un Paese che è sorto e risorto da lunghe e dolenti lotte per
la libertà anche grazie alle Comunità massoniche nel 150° di Porta Pia
il “pregiudizio” non può andare al “potere”. Condannerebbe all'esilio
in patria tanta parte dei cittadini, e non dei peggiori, come appunto
Prodam e Vio, entrambi morti lontani dalla città ch avevano voluto
unire all'Italia. Dimenticati? Esuli dal “ricordo” della loro Patria?
Non sono i soli, si diceva all'inizio. La “memoria” non va ridotta a un
giorno all'anno. Dev'essere più perenne del bronzo. Senza più
pregiudizi.
Aldo A. Mola
RIBOLLE IL GRANDE MAGMA IL SOCIALISTA SANCHEZ AL GOVERNO DELLA SPAGNA. EUROPA PIU' DEBOLE, MEDITERRANEO PIU' INSICURO
Editoriale
di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della
Liguria” di domenica 12 Gennaio 2020, pagg. 1 e 11.
Vitriol a Mayotte 11
novembre 2019. Dopo un paio d'anni di borboglii, da trentacinque
chilometri sotto terra un immenso magma esplode, genera un vulcano
sottomarino dalla pericolosità ancora da sondare, sposta di alcuni
centimetri l'isola di Mayotte nell'Arcipelago delle Comore, tra il
Madagascar e l'Africa, e l'abbassa di circa 20 centimetri. Non
c'entrano né le variazioni climatiche, né l'inquinamento atmosferico né
il peso dei turisti. È la Terra che dice la sua: un globo azzurro e
verde in superficie, di fuoco all'interno. Di quando in quando erutta.
Con esiti sgradevoli. Accade altrettanto nella “politica”. Lo
stesso 11 novembre 2019 gli spagnoli per la quarta volta in due anni si
sono recati alle urne, croce e delizia della “democrazia parlamentare”.
Le elezioni, lo sappiamo, sono il sistema meno infelice per legittimare
dirigenza e governo. Però sappiamo anche che esse non sempre dicono la
“verità”, e non solo nei regimi di partito unico, ove si risolvono in
farsa, ma anche altrove, dove sono ingabbiate in leggi e procedure che
lasciano mano libera agli eletti per giochi di potere dominati da
ambizioni personali mentre occorrerebbero progetti di lungo periodo. È
appunto il caso della Spagna. Il Partito socialista operaio spagnolo
(PSOE) ha una cupola di “baroni” in tensione crescente con il sistema
costituzionale e lo Stato stesso. Da Mayotte la Terra ha
mandato un segnale. Un preoccupante “ronzio” da lì si è diffuso in ogni
angolo del pianeta. Il messaggio è chiaro: meno chiasso in superficie,
più auscultazione delle profondità. È l'ora del “Vitriol”: “visita
interiora terrae, rectificando invenies occultum lapidem”, insegna
degli Alchimisti, dei sapienti che non fanno da zerbino ai Potenti di
turno ma sono votati al Progresso delle Scienze. Maghi? Stregoni?
Massoni? O semplicemente cittadini che non fanno baccano per futili
motivi perché sanno che il Tempo passa “e quasi orma non lascia”? A
Mayotte la Terra ha emesso un respiro profondo, come suol fare, senza
consultare chi ne popola la superficie: talora animato da molta
“pietas” e rispetto verso la Gran Madre, talaltra con spocchiosa
arroganza. Alcuni ne temono le scosse e percepiscono che prima o poi
potrebbe arrivare la catastrofe. Altri invece pensano che a placare e a
imbrigliare i sommovimenti della Saturnia Tellus bastino canti e suoni
di putipù. Il rischio del blocco continentale A
volte, però, non è la Natura Maligna a generare borboglii e a provocare
sconquassi abissali. Sono gli uomini, abbacinati da “miti” artificiosi,
passioni stagionali, eruzioni cutanee. Trent'anni in Italia addietro fu
il caso dell'estemporanea invenzione dei “celti”. Forse non tutti i
suoi turibolanti ricordavano che “celtico” era stato sinonimo di “morbo
gallico”, ovvero della sifilide il cui contagio gli italici imputarono
ai francesi anziché alle proprie incaute intemperanze. Ma
altri sono oggi i contagi e ben più drammatiche le conseguenze a breve
e a lunga distanza delle faglie che si stanno aprendo tra Terraferma e
Gran Bretagna. Due secoli dopo il “blocco continentale” ordinato da
Napoleone I per mettere in ginocchio gli inglesi adesso sono questi a
decretare il blocco contro il Vecchio Continente. Approdo di popoli
migranti che si accavallarono, combatterono e dominarono l'un l'altro
in guerre feroci, proprio mentre in molte plaghe e suburbi è ormai più
simile al Brasile che alla Sassonia oggi la Gran Bretagna si chiude in
se stessa: autosegregazione. Dal canto suo l'Unione Europea si riduce a
sommatoria di quattro Stati (Germania, Francia, Italia e Spagna) e di
una pleiade di Paesi minori, soggiogati da satrapi eterodiretti
(Polonia, Romania, Bulgaria...) e di statucoli dalle dimensioni
inversamente proporzionali ai capitali che vi trovano rifugio (il
riferimento a Belgio eLussemburgo, ben inteso, non è affatto casuale, per tacere dei principati di Andorra, Monaco e Liechtenstein). La Spagna, dunque: Mayotte dell'Europa ventura? La
Spagna ci riguarda da vicino. Torino e Genova sono più vicine a
Barcellona che a Santa Maria di Leuca. La loro distanza da Madrid è
pressoché uguale a quella da Palermo. La percorrenza e i cambi in areo
si equivalgono. Vale per le persone come per le merci: anzi, la Spagna
ha “corsie privilegiate” verso i porti italiani, documentate nei secoli
e consegnate ai corsi e ricorsi della storia. Una volta erano i Romani
a espugnare Numanzia; poi furono gli spagnoli a dominare l'Italia. Nell'età
presente, se la Spagna va male, va male l'Europa. Se la Spagna è più
debole, l'Europa conta di meno nel mondo, che parla spagnolo dalla
Patagonia a metà degli Stati Uniti d'America. Se la Spagna declina,
l'Italia ha tutto da perdere, perché il Mediterraneo diviene più
stretto e le sue coste settentrionali tornano vulnerabili. Le prime
ripercussioni negative ricadrebbero sull'Italia nord-occidentale, oggi
periclitante per il collasso delle comunicazioni ferro-stradali con
l'Oltralpe. Perciò il futuro della penisola iberica dovrebbe essere in
cima all'agenda di qualsiasi persona sensata, sia per l'ormai
incombente Brexit sia per gli argomenti ventilati da Erdogan a sostegno
della riconquista della Libia da parte dei turchi: vendicare la
sconfitta subìta da Istanbul nella guerra del 1911-1912, quando
l'Italia di Vittorio Emanuele III e Giolitti mosse contro l'impero
turco-ottomano per liberare gli arabi dal dominio turco al quale erano
sottoposti da quattro secoli. Il governo di minoranza di “Sanchez il Ricattabile” In
attesa che quel che resta dell'Europa faccia un serio esame di
coscienza sul suo stato attuale e sulle prospettive, il “caso Spagna”
richiama l'attenzione. Con l'“investitura” del socialista
Pedro Sánchez a capo del governo formato da Psoe e da Uniti Possiamo (o
“Podemos” come comunemente detto il partito capitanato da Pablo
Iglesias e dalla sua compagna, Irene Montero), il 7 gennaio la Spagna
ha fatto un balzo all'indietro di ottant'anni. La maggior parte dei
commentatori nostrani ha salutato l'avvento di un “governo di
coalizione” anche a Madrid, come in altri Paesi europei, quasi fosse un
passo avanti verso la “normalizzazione” dopo un quarantennio di
governi, ora socialisti democratici, ora del Partito popolare. Hanno
ignorato (o finto di ignorare?) che i governi di coalizione in Germania
e Italia nacquero dall'alleanza virtuosa tra grandi forze
(prevalentemente socialisti democratici e cristiani non clericali),
forti di ampia maggioranza. Le coalizioni costano un po' di sacrificio
(“sforbiciare le ali” diceva Franco Venturi, insuperato storico
dell'Illuminismo) ma assicurano lunghi periodi di stabilità. Mettono
tra parentesi i motivi di contrapposizione e fanno leva su valori e
obiettivi comuni: la ricostruzione, l'ampliamento della partecipazione
democratica, la convergenza tra cittadini e istituzioni, tra la
dimensione originaria dello Stato e la Comunità internazionale. Governi
di coalizione durarono in Italia col centrismo degasperiano e con il
centro sinistra sino al governo presieduto da Bettino Craxi. Furono gli
anni del miracolo economico, del palpabile avvicinamento tra Nord e Sud
col potenziamento della rete ferro-stradale, demandata a completare
l'unità nazionale frenata dal dirottamento di risorse dagli
investimenti civili alla guerra nel 1914-1918 e dal rovinoso
quinquennio 1940-1945. La coalizione il 7 gennaio varata a
Madrid è di tutt'altra natura. Sánchez ha ottenuto l'investitura a
presidente del governo solo alla seconda votazione, con appena 167 voti
a favore (PSOE e Podemos) contro 165 e 18 astensioni. È un governo di
coalizione, sì, ma tra tinte di un solo colore: è rosso-paonazzo e al
tempo stesso di “stretta minoranza”. Si è salvato per un pelo grazie e
una deputata delle Canarie che ha rotto la “disciplina di partito” e
solo in virtù all'astensione della Sinistra repubblicana catalana che
vuole la Catalogna repubblica indipendente. Una sua esponente ha
dichiarato alle Cortes (la Camera spagnola) che non le importa un
“fico” (traduciamo così) della governabilità della Spagna, che per lei
è ancor oggi una dittatura, un regime fascista. Per lei peggio va
Madrid, meglio è per i visionari che in Catalogna hanno rimosso i
ritratti del Re, Felipe VI di Borbone, impongono l'uso del catalano
(una “linguina” rispetto allo spagnolo, secondo idioma del pianeta) e
marciano in convergenza niente affatto segreta non con il “ragionevole”
Partito nazionale basco ma con “Bildu”, erede ideologico della
sanguinaria ETA. Dinnanzi ai ceffoni loro inflitti alle Cortes da
repubblicani e nemici dell'unità della Spagna tanto Sánchez quanto i
suoi alleati non hanno battuto ciglio. Hanno taciuto. A loro premeva
incassare l'“investitura” e formare finalmente l'agognato governo:
venti ministri e quattro vicepresidenti. Mai come in questo caso ha
vinto la fame di poltrone, del resto occupate da anni senza un consenso
maggioritario ma solo grazie a una legge elettorale che premia il
partito prevalente in collegi disegnati per un Paese del tutto diverso
dall'attuale. Ciliegina sulla torta della coalizione
è stato il voto favorevole dell'unico deputato del movimento “Teruel
existe”, eletto a metà strada fra Sagunto e Calatayud, lembo della
“Spagna profonda” dipinta come “vacía”: desolata, in abbandono, sede di
un vescovado comprendente l'incantevole Albarracin. Il riscatto dei
Turolensi, però, non passa attraverso la contrapposizione masochistica
tra Periferia e Centro, ma tramite gli investimenti stranieri e la
saggia amministrazione dei fondi europei, che hanno fatto la fortuna di
regioni quali la Andalusia. Il nuovo governo madrileno assomma
microcefalismo localistico (catalano, neo-etarra, turolense, un po'
canario...) e autocefalismo socialistoide di Pedro Sánchez, che per
anni ha brandito come clava la rimozione della salma di Franco dal
Valle de los Caídos in combutta con Carmen Calvo, antagonista
dell'andalusa Susana Díaz: un dualismo che riproduce in miniatura la
distanza abissale tra “Pedro, el Guapo” (rapidamente avvizzito) e
Felipe González, un gigante del socialismo democratico europeo. Il
nuovo governo ha per base un programma di decine di titoli e centinaia
di capitoletti (tipo il fallimentare “contratto di governo” pattuito da
Lega e M5S nel maggio 2018), elusivo dei veri problemi della Spagna
odierna: scongiurare la deflagrazione dello Stato in frammenti
alimentati dall'odio verso sé stessi. Per fortuna sua e
dell'Europa dalla morte di Francisco Franco (statista in attesa di
valutazioni equilibrate sul suo quarantennio di “jefatura del Estado”)
la Spagna è una monarchia costituzionale, voluta e apprezzata dalla
stragrande maggioranza dei suoi abitanti. Come convennero anche
comunisti alla Santiago Carrillo, re Juan Carlos de Borbón y Borbón era
consustanziale alla Spagna “como la sopa de ajo”. Cresciuta dalla
Transizione (che ebbe per timonieri costituzionalisti “di sinistra”
quale Gregorio Peces-Barba, anima dell'Università “Carlos III” di
Madrid) la Spagna odierna ha alto prestigio internazionale, un'economia
invidiabile e un assetto giuridico di prim'ordine, attestato dal
Tribunale Supremo nella spinosa vertenza di Oriol Junqueras, il
catalano separatista eletto eurodeputato ma condannato a 13 anni di
carcere e quindi ineleggibile perché temporaneamente privo di diritti
politici. Sarà vera gloria? Proprio
per la sua solidità e per l'ordinamento istituzionale la Spagna è
bersaglio di chi mina l'Unione Europea attraverso l'esasperazione di
localismi e di movimenti indipendentisti e secessionisti largamente
finanziati dall'estero, talora sorretti da un clero locale dimentico
dell'universalità della Chiesa che ebbe nella Spagna uno tra i suoi più
importanti “attori”. Comunque il cammino del governo
Sánchez-Iglesias non si annuncia affatto facile. A presentargli il
conto saranno anzitutto gli estremisti che lo hanno “investito” e i
separatisti che il 7 gennaio gli hanno spianato la strada con
l'astensione, attendendolo però al varco con pretese avulse dalla
storia, quali l'avvento di una Repubblica indipendente di Catalogna,
che spaccherebbe l'unità della Spagna, getterebbe metà della
popolazione catalana contro l'altra metà, del tutto contraria a
convulsioni arcaiche e costringerebbe chi va nella penisola iberica a
valicare una frontiera di troppo: l'opposto di quanto occorre. Come
noto, un passo di quel genere troverebbe inoltre innumerevoli imitatori
in Spagna (dalla Galizia ai Paesi Baschi) ma anche in altri Stati,
inclusa l'Italia dove fioriscono spinte centrifughe per la gracilità
della tenuta culturale unitaria e il declino della coscienza storica
che si espresse nelle opere di Benedetto Croce, Federico Chabod,
Ruggiero Romano, Giuseppe Galasso..., per i quali Italia ed Europa sono
tutt'uno e il pensiero liberale comprende tante possibili varianti (dai
radicali ai socialisti) all'insegna dei valori della democrazia
parlamentare e della moralità della politica, posta al centro della
riflessione dal robusto saggio di Tito Lucrezio Rizzo, L'etica, soffio
del Divino attraverso le Istituzioni più amate dagli italiani (pref. di
Tullio del Sette, ed. Aracne). Fatalmente Sánchez si
troverà presto a misurarsi con partiti e movimenti centrifughi. Ad
ambiguità, riserve mentali e giochi al rimpiattino seguiranno tensioni
e fratture. È da prevedere che la lezione dell'11 novembre
non verrà ignorata dalla Spagna maggioritaria nel Paese, centrista,
moderata, europeista, e che al prossimo non remoto turno elettorale le
divisioni tra Partito popolare, Ciudadanos (una cometa presto spenta) e
Vox cederanno il passo ad accordi e a convergenze elettorali collegio
per collegio (uniti si vince). Anche a legge elettorale immutata, basta
poco perché il centro-destra prevalga e ponga le basi per un governo
effettivamente duraturo e capace di esprimere l'unità tra Istituzioni e
cittadini. Un'ultima constatazione s’impone. In frangia
culturale nostrana, numericamente esigua ma politicamente influente, ha
nutrito a lungo pregiudizi nei confronti della Spagna, identificata con
“nemici storici”, quali gli Asburgo e i Borbone: dinastie che, con
imperatori e re, esercitarono in Italia il ruolo che gli italiani non
seppero svolgervi sino all'avvento di Casa Savoia, perno
dell'unificazione nazionale. Quella è comunque storia passata.
L'attuale e la ventura hanno un altro nome, la latinità e le radici
“umanistiche” evocate a fondamento del Trattato dell'Unione; un'Europa
nella quale Paesi come l'Italia e la Spagna hanno motivo di sentirsi
più che mai affratellati, superando all'interno e all'esterno i
particolarismi ideologici, etnocentrici (che poi a volte sono poco più
che tribali) e confessionali, tutti residui del “secolo lungo”: il
Novecento, scandito dalla guerra dei trent'anni (1914-1945) e dalla
lacerante divisione in blocchi militari contrapposti, durante la guerra
fredda e la sua tragica appendice nei Balcani sino alle soglie del
Terzo Millennio.
Aldo A. Mola
IL CENTENARIO. LA CONFERENZA DIPLOMATICA DI SANREMO, APRILE 1920 QUANDO A SANREMO FRANCIA E GRAN BRETAGNA SI SPARTIRONO LE SPOGLIE DEI VINTI
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 05 Gennaio 2020, pagg. 1 e 11.
La Porta del Paradiso abbarbicata a Sanremo Ebbe
per scenario il “Castello Devachan” la Conferenza diplomatica che tra
il 19 e il 26 aprile 1920 prese decisioni tuttora gravanti sulla storia
mondiale e, s'intende, sulla porziuncola di nome Italia. Lo vediamo
mentre nell'afasia dell'Unione Europea e nel borbottio della Farnesina
la Turchia ha deciso l'intervento militare in Libia, due passi da noi,
per rivendicare il Califfato e si teme che nel Vicino e Medio Oriente
possa esplodere una guerra apocalittica (subito pagata “alla pompa” dei
carburanti quasi fosse già in corso). “Devachan” nella parlata locale è
detta la Villa che, poco a occidente dal centro Sanremo, con la collina
del Berigo per sfondo, contempla il mare. Sul suo nome infuriarono
dispute filologico-interpretative del tutto in contrasto col suo
recondito messaggio: “secondo cielo del paradiso dell'anima”, raggiunto
o almeno intravisto da chi s'inerpica verso il Nirvana. Fu “impostata”
dal proprietario, John Horatio Sevile, conte di Mexborough (1843-1916),
che di rientro dall'India, convertito al buddismo, la dedicò alla
seconda moglie, Lucy. Era ed è un angolo di Paradiso, appunto... Ma
si sa che le vie dell'Inferno sono lastricate di buone intenzioni e,
talvolta, di denominazioni e “cartelli” invano bene auguranti. Nella
vita il conte curò molto l'arredo arboreo del suo spazio tra il cielo,
il mare e la costa sulla quale è abbarbicata la Villa perfezionata nel
1909 in stile liberty da Pietro Agosti, sindaco di Sanremo. Come poi
insegnò José López Rega, “el brujo”, i colori e i profumi esalanti dai
fiori ispirano visioni e pensieri alti. Da uno all'altro proprietario
il Castello passò nelle mani di Edoardo Mercegaglia, che fu in rapporti
con Francesco Saverio Nitti. Ancora non è chiaro come e perché proprio
tra quei primi tepori primaverili del 1920 vi si adunò la Conferenza
diplomatica (con militari aggiunti: per l'Italia Pietro Badoglio) che
decise e in parte ratificò la spartizione degli imperi coloniali dei
vinti, Germania e Turchia. L'Italia, pronuba, rimase a bocca asciutta. Cent'anni
dopo, la Conferenza diplomatica di Sanremo merita una rievocazione non
convenzionale, sibbene con gli occhi aperti sulle sue conseguenze
ultime. Per coglierne la portata occorre fare un paio di passi
all'indietro nel tempo. La Storia procede a ritmo lento, pesante,
ciclica. Felice chi riesce a contemplarla scansandone gli “effetti
collaterali”, da osservatore anziché da vittima, de a narrarla sine ira
et studio. Dalla “Società” alla “Lega” delle Nazioni Nel
gennaio-giugno 1917 il Grande Oriente di Francia (GOF) e la Gran Loggia
di Francia (GLF) stilarono lo statuto della Società delle Nazioni. Fu
un progetto della massoneria francese, consenzienti il Grande Oriente
d'Italia (GOI) e una decina di altre Comunità massoniche di Paesi (come
la Spagna e lembi dell'America centro-meridionale) ancora estranei alla
Grande Guerra che da tre anni stava devastando l'Europa. L'impero russo
era sconvolto dalla rivoluzione. Quello turco era alle prese con la
rivolta araba, che ebbe nell'inglese Thomas Edward Lawrence il suo eroe
eponimo (o mosca cocchiera?). Il 6 aprile gli Stati Uniti d'America
avevano dichiarato guerra alla Germania. “Marianne” doveva accelerare
il passo prima che il corso gli eventi le scappasse di mano. Quella
prima Società delle Nazioni nacque euro-centrica: identica
rappresentanza per ogni Stato, quale ne fosse il numero degli abitanti,
bandiera con tante stelle e un sole arancione. I due grandi
maestri del GOF e della GLF, Georges Corneau e il generale Paul Peigné,
avevano molti assi nella manica: il loro patto di ferro con il governo
di Parigi, la totale identità con il Grande Oriente del Belgio, che
aveva preceduto quello di Francia nell'abolizione del “Grande
Architetto dell'Universo” quale intestazione dei “travagli d'officina”,
il pieno sostegno dei radical-socialisti e dei vertici militari e,
soprattutto, l'affiliazione di esuli politici della Serbia, futura
Jugoslavia, e della Boemia, perno della futura Cecoslovacchia. Da un
secolo la massoneria francese “esportava” classe dirigente alla guida
degli Stati nascenti nell'Europa orientale (Romania, Bulgaria,
Serbia...). Mentre il governo italiano aveva ancora idee confuse sul
futuro dell'Impero austro-ungarico (secondo il ministro degli Esteri
Sidney Sonnino esso doveva sopravvivere al conflitto), Parigi era per
il suo annientamento. Mirava alla “repubblicanizzazione d'Europa” come
in Requiem per un impero defunto (Mondadori) ha scritto François Fejto.
Perciò lo statuto della Società delle Nazioni franco-massonica ebbe per
caposaldo l'“autodeterminazione dei popoli”. Ancor tutta da tracciare
in termini geo-politici, nelle aree mistilingue questa doveva
esprimersi attraverso plebisciti. L'Italia scoprì tardivamente di
essere entrata in guerra a fianco di chi non le voleva tanto bene.
Anzitutto la Francia, che mirava ad aggirarla a est affermando la sua
supremazia sull'Europa orientale (Polonia, Bulgaria, debitamente
sconfitta e “depurata” dall’originaria prevalenza germanica e, appunto,
gli Stati nascenti, inclusa l'Ungheria, la cui Gran Loggia Simbolica
dall'origine era ispirata da Parigi, che mirò anche a presidiare
Fiume). In secondo luogo la Serbia che non nutriva alcuna gratitudine
verso Roma e aspirava al controllo dell'Adriatico, in netto antagonismo
con i sogni italiani di talassocrazia, sia pure nella modesta
dimensione dell'Adriatico. Non basta dichiarare la sovranità nazionale
sui mari: bisogna affermarla coi fatti. Sempre investita
dalla martellante offensiva germanica, vulnerata da ammutinamenti
repressi con decimazioni e da scioperi, nel 1917 Parigi si affrettò a
divulgare il suo “progetto” di pace universale “pro domo sua” per
battere sul tempo interferenze americane. Ricorse anche a emissari in
Russia, per obbligare l'ex impero zarista, spossato, a rimanere in
armi. L'Italia si schierò nettamente contro l'ipotesi di subordinare i
confini futuri a referendum, che infatti non vi vennero mai celebrati a
differenza di quanto era avvenuto con le annessioni del 1848-1870. La
prevalenza di germanofoni nell'Alto Adige e di slavofoni a est di
Gorizia e in Istria avrebbe azzerato i “compensi” pattuiti con
l'accordo di Londra del 26 aprile 1915 e gli immensi sacrifici
sopportati dal paese in due anni di guerra. Il Grande Oriente d'Italia
si allineò alle direttive del governo nazionale. Ad affrettare il
cambio concorsero il disastro di Caporetto, il timore dell'avanzata
austro-germanica sino all'Adige o al Mincio, del crollo dell'unità
nazionale per insorgenza dei socialisti, decisi a “fare come in
Russia”, e dei cattolici, convinti che occorreva mettere fine alla
“inutile strage”, tanto più che di lì a poco si scoprì che su richiesta
di Roma l'Intesa escludeva la Santa Sede dal futuro “congresso di pace”. La
concezione francocentrica della Società delle Nazioni si scontrò con
l'indifferenza della Gran Loggia Unita d'Inghilterra, delle Grandi
Logge degli Stati Uniti d'America e con l'astensione della Gran Loggia
Alpina in nome della neutralità della Svizzera. Ma il vero colpo di
grazia lo inferse l'8 gennaio 1918 il presidente degli USA, Woodrow
Wilson, a lungo ed erroneamente ritenuto massone, con l'enunciazione
dei 14 punti per la pace futura. Per fondare la “pace nel mondo”,
l'“America” propose l'istituzione della Lega generale delle Nazioni,
ben diversa dalla Società delle Nazioni. Per garantire l'indipendenza
politica ai piccoli come ai grandi Stati, Wilson disconobbe ogni valore
ai patti internazionali pregressi, declassati a accordi “privati”, e
precisò che la rettifica delle frontiere italiane doveva essere
effettuata “secondo linee di nazionalità chiaramente riconoscibili”
(punto 9°). La spartizione dei popoli… incivili Inchiodata
a una visione italo-centrica del conflitto, ancor oggi dominante nella
“storiografia” nostrana su guerra e dopoguerra, Roma non comprese
affatto la portata del progetto wilsoniano, poi codificato nello
statuto della Lega approvato a Parigi il 26 aprile 1919 e inserito
quale premessa a tutti i trattati dettati dai vincitori ai vinti
(Germania, Austria, Ungheria, Bulgaria e Turchia) tra il 28 giugno 1919
e il 10 agosto 1920. L'articolo 20 del Trattato di Versailles abrogò
tutti i patti pregressi tra i suoi membri, ritenuti incompatibili con
lo statuto della Lega, mentre non lo era la “dottrina Monroe”, cioè
“l'America agli Americani”, inserita nello statuto della Lega quale
art.21. Questo stabilì che “i popoli non ancora capaci di reggersi da
sé nelle condizioni particolarmente difficili del mondo moderno”
sarebbero stati affidati alla “tutela” delle nazioni progredite che “in
ragione delle loro risorse, della loro esperienza o della loro
posizione geografica erano meglio in grado di di assumere questa
responsabilità”. Allo scopo furono ideati tre generi di “mandati”
secondo il grado di sviluppo dei popoli da… civilizzare. Alcune
“comunità” del fatiscente impero ottomano (non esplicitamente indicate:
si pensava alla Siria, all'Egitto e all'Iraq) vennero ritenute capaci
di reggersi da sé, sia pure con consigli e aiuti di un Mandatario;
altre (in specie dell'Africa Centrale) andavano invece affidate
direttamente a Mandatari; altri territori infine (quali l'Africa
del Sud-Ovest e isole del Pacifico australe) venivano senz'altro
incorporati nella sovranità del mandatario, completi dei loro abitanti. Le
paci di Versailles, di Saint-Germain (10 settembre) e di Neully (17
novembre) non chiusero affatto la complessità del contenzioso tra vinti
e vincitori. Gli italiani rimasero preda della rivendicazione di Fiume,
tardivamente chiesta da Roma in aggiunta ai compensi previsti
dall'accordo di Londra del 26 aprile 1915. La “questione fiumana”,
divenuta incandescente con la “marcia di Ronchi” e la sedizione
militare guidata da Gabriele d'Annunzio il 12 settembre 1919, catalizzò
l'opinione pubblica italiana su un aspetto marginale dell'assetto
europeo postbellico, nel cui ambito il caso di Fiume era tessera di un
caleidoscopio di “crisi”, e la distrasse da questioni di gran lunga più
importanti, quale la spartizione dell'impero turco e delle colonie
dell'impero di Germania. Italia senza bussola... Al
pettine della storia vennero tutti i nodi della politica estera dei
governi susseguitisi in Italia dalla conflagrazione europea agli
armistizi. Quale condizione della rescissione dell'alleanza difensiva
tra Roma, Berlino e Vienna e l'intervento in guerra a fianco di Parigi,
Londra e San Pietroburgo, nel 1914 il ministro degli Esteri Antonino
Paternò Castello, marchese di San Giuliano, aveva proposto la
costituzione di una Quadruplice Alleanza, come documenta GianPaolo
Ferrajoli in un'opera magistrale e insuperata sul grande diplomatico
siculo-normanno ispiratore di I Viceré di Federico De Roberto. L'Italia
doveva entrare in guerra “alla pari”, previa verifica di tutti i patti
istituiti tra gli alleati. Però, morto San Giuliano, il nuovo titolare
degli Esteri, Sonnino, d'intesa con il presidente del Consiglio,
Antonio Salandra, stipulò invece un accordo di “accessione” alla
Triplice: un “arrangement” asimmetrico. Roma non venne informata dei
patti di ferro preesistenti sull'assetto postbellico. Il comandante
supremo Luigi Cadorna se ne lamentò, invano, anche nell'estate 1916,
quando il governo Boselli tra il 24 e il 28 agosto decise la
dichiarazione di guerra alla Germania. Gli errori della
politica estera si ripercossero sulla conduzione della guerra. Cadorna
usava dire che l'Italia avrebbe riconquistato la Libia sul Carso. Vinta
la guerra sul fronte principale, avrebbe avuto tutti i titoli per farsi
valere nel confronto con “alleati” poco “amici”. Invece il governo
distrasse truppe su altri fronti. Arrivò anzi al paradosso. Decise una
“spedizione” in Albania e se ne assunse la responsabilità militare
diretta: fu un'impresa finita male per la pochezza del governo, dei
militari inviati allo sbaraglio, degli “alleati” (anzitutto i
francesi) che non la videro di buon occhio, e degli albanesi. Fu la
prova che la guerra è cosa troppo seria per lasciarla nelle mani dei
“politici” e che la politica estera è altrettanto importante. Va
affidata a diplomatici dotati di comprovate capacità: anzitutto
malleabilità e duttilità, aurei requisiti ignoti allo spigoloso Sonnino. Da Versailles a Sanremo La
delegazione italiana a Versailles rimase celebre per dilettantismo e
cocciutaggine. Dopo le sue molte prove negative, il governo fu
sfiduciato poco prima che il Congresso finisse. “Faute de mieux”, il 28
giugno Orlando e Sonnino figurarono firmatari del trattato di pace, ma
già sostituiti. Caso unico nella storia. Il nuovo presidente del
Consiglio, Francesco Saverio Nitti, si trovò sulle spalle la passività
del governo precedente, il colpo di mano di d'Annunzio a Fiume, la
diffidenza degli altri governi. S'aggiunse la sconfitta di Wilson nelle
elezioni e il rifiuto degli USA di aderire alla Lega delle nazioni, che
pertanto rimase per sempre orfana del suo ideatore. Londra
e Parigi fecero subito un passo verso il passato: tornarono alla
visione euro-centrica della Società (non più Lega) delle Nazioni. La
sua sede, originariamente ipotizzata a Londra, poi spostata a Parigi,
fu infine accampata a Ginevra in attesa che venisse terminato il
sontuoso Palazzo, adeguato alle sue ambizioni. Ebbe un organigramma
complesso e più ampolloso che funzionale, ma nessuna forza armata,
neppure simbolica. Avrebbe emesso voti, raccomandazioni e magari anche
deciso sanzioni economiche contro i propri membri discoli (fu il caso
dell'Italia, quando dichiarò guerra all'Etiopia). Perciò la SdN si
ridusse a porta girevole di Stati che entrarono e uscirono secondo le
convenienze. L'Italia, che era tra i Quattro Grandi originari (Gran
Bretagna, Francia, Italia e Giappone) vi tenne una condotta
discontinua, alternando retorica e polemiche. Il primo
appuntamento importante per dirimere le grandi questioni lasciate
aperte dalla sequela di trattati di pace del 1919 fu proprio al
“Secondo cielo del Paradiso dell'anima” in Sanremo nell'aprile 1920.
Alla Conferenza allestita al Castello Devachan parteciparono il primo
ministro francese Alexandre Millerand, il britannico David Lloyd
George, l'ambasciatore del Giappone Keishiro Matsui e Nitti, che nella
biografia del 1984 Francesco Barbagallo paragona nientemeno che a
Camillo Cavour (Utet, p.366). La “Porta del Paradiso” era suggestiva,
il paesaggio incantevole, la compagnia eccellente, l'ospitalità
memorabile. Poiché lo zucchero disponibile andò rapidamente esaurito,
giunse in soccorso l'Hotel de Nice. Alle spalle la
Conferenza di Sanremo ebbe anche gli antichi accordi Sykes-Picot per
l'egemonia franco-britannica su Vicino e Medio Oriente. Il governo
italiano ovviamente non ne era stato informato. Gli anglo-francesi
ignorarono tutti i precedenti riconoscimenti di indipendenza della
Siria, includente il Libano, Iraq ed Egitto. Con molto sussiego la
Francia dichiarò di assumere direttamente l'amministrazione della
Siria. La Gran Bretagna fece altrettanto con Mesopotamia, Palestina ed
Egitto. A Sanremo furono ratificate le decisioni assunte a Londra nel
febbraio precedente. E l'Italia? Quasi zero. Ottenne il riconoscimento
di Rodi e del Dodecanneso, che possedeva da quasi dieci anni, e
l'utilizzo di Konya e Antalya sulla costa di quella Turchia che da
decenni contava ampie comunità italofone e persino varie logge
massoniche sia del Grande Oriente sia della Gran Loggia d'Italia. Di
più. A Sanremo venne definita la spartizione delle colonie dell'Impero
di Germania, che già ne era stato privato dal trattato di Versailles.
Parte andarono alla Gran Bretagna, parte alla Francia e in quota minore
addirittura al Belgio, che era e rimase l'esempio peggiore della
colonizzazione più ottusa, come si vide quando nel 1960 Bruxelles
lasciò il Congo, subito teatro di guerre orrende e carneficine, tra le
cui vittime vanno ricordati anche i militari italiani assassinati a
Kindù e il segretario generale dell'ONU, Dag Hammarskjold (l'aero sul
quale viaggiava venne sabotato). Da San Remo a Sion La
vera novità di Sanremo però fu un'altra: l'approvazione della
Dichiarazione Balfour del 1917 che riconosceva il “focolare ebraico” in
Palestina. Fu una concessione al sionismo blando, che in sé non è
affatto un “male” ma legittimo rifugio di un popolo soggiogato,
annientato in patria, costretto alla diaspora dai tempi degli
imperatori Tito e Adriano e perseguitato per millenni. Del resto il
“focolare” venne incluso nella Palestina, sotto mandato di Londra, poco
incline a riconoscere speciali privilegi agli ebrei. Oltre
due anni dopo, il 24 luglio 1922, l'accordo di Sanremo ebbe veste
“definitiva” con la risoluzione della Società delle Nazioni redatta in
inglese, arabo ed ebraico. Mandataria rimase la Gran Bretagna. Venne
riconosciuto un “organismo ebraico conveniente” col diritto di “dare
pareri all'amministrazione della Palestina e di cooperare con essa in
tutte le questioni economiche, sociali, ed altre suscettibili di
interessare lo stabilimento della Sede nazionale ebraica e gli
interessi della popolazione ebraica in Palestina”. Il Mandatario
s'impegnò a “facilitare l'immigrazione degli ebrei, ferma restando la
salvaguardia dei diritti civili e religiosi di tutti gli abitanti della
regione a qualsiasi razza o religione appartenessero”, e assunse “la
responsabilità dell'ordine e della decenza dei Luoghi Santi, compresi i
diritti esistenti” per “assicurare il libero accesso ai Luoghi Santi,
agli edifici ed ai luoghi religiosi e il libero esercizio del culto per
tutti gli abitanti della Palestina”. Tutte partite ancor oggi aperte e
sempre più in forse per l'esasperazione degli opposti fanatismi. Il tramonto di Nitti Ci voleva la villa di un buddista per arrivare a una visione universale della religiosità e della pace? Un
mese dopo la Conferenza diplomatica di Sanremo, fallimentare per
l'Italia, Nitti venne messo in minoranza. Il 22 maggio formò un secondo
governo, sempre con Vittorio Scialoja agli Esteri. Crollò un mese dopo
e cedette il passo al settantottenne Giolitti, presidente del suo
quinto e ultimo governo (1920-1921). Nelle “Memorie di un fesso” (ed.
Forni) il “fratello” Alberto Giannini ha vergato un ritratto
indimenticabile di “Cagoia”, come Nitti venne appellato da d'Annunzio. Qualcuno
forse deplora che a Sanremo in quell'aprile di cent'anni orsono
l'Italia non sia riuscita a strappare qualche lembo di terre lontane,
un pezzetto di Tanganika, di Africa Australe, della Mesopotamia e,
chissà mai, non abbia rivendicato il Monte Ararat. In quel dopoguerra,
però, essa già non sapeva come condursi in Eritrea, Somalia e Libia,
tutta da riconquistare. E soprattutto doveva ricostruire se stessa
dalle macerie della guerra, vinta sul campo ma persa con
l'indebitamento dello Stato, passato da 7 a 90 miliardi di lire
dell'epoca. La delusione tuttavia rimase. Cocente. La sfruttarono i
nazionalisti, il d'Annunzio della Vittoria mutilata e, più abile di
tutti, Benito Mussolini, che poi ritenne di lenirla con la conquista
dell'Impero d'Etiopia: un'impresa anacronistica, costata una fortuna,
naufragata in soli cinque anni: 1936-1941. Perciò merita
tornare a Sanremo, per intravvedere il Castello Devachan, ombra di un
sogno fuggente. Apprezzarvi l'aurora, l'esalazione dei fiori, il
sentore del mare, il crepuscolo. È il “mondo” uguale nei secoli,
migliorato dal “Maestro” Mario Calvino e dai suoi emuli. “Porta”
dell'unico Paradiso sicuro: un lembo di questa “valle di lacrime”
ove rileggere in santa pace Epicuro e Lucrezio, al riparo dai “rumori
molesti”.