"Il Governo ha due doveri, quello di
mantenere l'ordine pubblico a qualunque costo ed in
qualunque occasione, e quello di garantire nel modo il piu'
assoluto la liberta' di lavoro."
Il Municipio di Cavour
"Le leggi devono tener conto anche dei
difetti e delle manchevolezze di un paese. Un sarto che deve
tagliare un abito per un gobbo, deve fare la gobba anche
all'abito."
Tomba della Famiglia Giolitti
"Nessuno si puo' illudere di potere
impedire che le classi popolari conquistino la loro parte di
influenza economica e di influenza politica. Gli amici delle
istituzioni hanno un dovere soprattutto, quello di
persuadere queste classi, e di persuaderle con i fatti, che
dalle istituzioni attuali esse possono sperare assai piu'
che dai sogni dell'avvenire."
Il busto di Giolitti
"Agli uomini politici che passano dalla
critica all'azione, assumendo le responsabilita' del
governo, si muove spesso l'accusa di mutare le loro idee; ma
in verita' cio' che accade, non e' che essi le mutino, ma le
limitano adattandole alla realta' e alle possibilità
dell'azione nelle condizioni in cui si deve svolgere
necessariamente."
Cavour, la rocca e le Alpi
"Agli uomini politici che passano dalla
critica all'azione, assumendo le responsabilita' del
governo, si muove spesso l'accusa di mutare le loro idee; ma
in verita' cio' che accade, non e' che essi le mutino, ma le
limitano adattandole alla realta' e alle possibilità
dell'azione nelle condizioni in cui si deve svolgere
necessariamente."
Proposte
In
questa sezione segnaliamo editoriali, articoli, note,
recensioni e saggi brevi di interesse.
I COLLEGI
UNINOMINALI
FORGIARONO LA CLASSE
DIRIGENTE UNITARIA
Editoriale
di Aldo A.
Mola,
pubblicato su
“Il Giornale
del Piemonte e
della Liguria”
di domenica
23febbraio
2025 pagg.
1 e 7.
Tra
le questioni aperte in Parlamento vi è il varo,
indispensabile, della legge elettorale. Merita
ricordare quella in vigore nel regno di Sardegna dal
1848 e poi in quello d'Italia dal 1861 al 1919. Essa
era incentrata sui collegi uninominali. Plasmò una
dirigenza politica competente, capace di pensare “in
europeo”. Nei collegi uninominali, l'elettore, sceglie
liberamente. Può essere ingannato una volta, ma
raramente di più.
La prima Camera di deputati “nazionale” fu eletta il 27
gennaio 1861con la legge in vigore nel regno di Sardegna
sperimentata nelle elezioni del 27 aprile 1848, 22
gennaio 1849, 15 luglio 1849, 9 dicembre 1849, 8
dicembre 1853 e 15 novembre 1857. I suoi artefici furono
statisti di prim'ordine: Cesare Balbo, Camillo Cavour,
Ercole Ricotti, Riccardo Sineo, Gustavo Ponza di San
Martino, Giacinto Gallina e Domenico De Ferrari. Lo
Statuto affermava che i deputati erano liberi da vincoli
verso gli elettori e quindi da “partiti” o “legami”,
inclusi quelli confessionali. Occorreva una dirigenza
lungimirante, capace di pensare ai problemi non solo del
momento ma di lungo periodo. Il sistema elettorale,
fondato sul collegio uninominale maggioritario con
eventuale ballottaggio, era il più adatto a eleggere i
deputati. Il regno venne suddiviso in 222 collegi,
ridotti a 204 nel 1849. Il modello furono la legge
rodata in Francia dalla Restaurazione del 1814 e
ulteriormente migliorata dopo il 1830 e quella del
Belgio. In entrambi i casi aveva dato buoni risultati.
Al primo turno risultava eletto chi otteneva un numero
di voti corrispondente ad almeno un terzo degli aventi
diritto e più di metà dei voti espressi, detratti i voti
nulli. Se nessun candidato otteneva l’elezione al primo
turno, i due più votati andavano al ballottaggio e
risultava eletto chi riportava il maggior numero di
preferenze. Il sistema dunque era semplice, sia per chi
affluiva ai seggi, sia per lo scrutinio delle schede, al
netto di errori e brogli, possibili ovunque.
Il primo scopo della legge era la
formazione di un ceto di notabili, composto da
aristocratici, borghesi, funzionari pubblici, possidenti
ed ecclesiastici, tutt’insieme interessati alla difesa
dello Stato e al progresso economico e sociale. Il suo
secondo obiettivo era la stabilità del governo. Il primo
anno di vita della Camera subalpina coincise con le due
fasi della prima guerra d’indipendenza (1848): un
esordio difficile. Spesso i dibattiti riguardarono
questioni secondarie e si risolsero in duelli oratorii,
lontani dalla drammatica realtà di un Paese che nella
guerra stava rischiando la sopravvivenza. I verbali
mostrano che tante volte il dibattito si concentrò su
aspetti procedurali o “fatti personali” che davano luogo
a diverbi su cavilli.
I lavori si svolgevano in “sessioni”,
“sedute” e “tornate” (antimeridiana, pomeridiana e
talvolta serale), secondo gli usi del tempo. I lavori
venivano sospesi verso le 12 circa e riprendevano alle
14 e, se necessario, alle 20. Le sedute erano aperte e
chiuse dal presidente o da un vicepresidente. I
presidenti del senato e i suoi vice erano di nomina
regia. Quelli della Camera invece erano eletti
dall’assemblea, come venne stabilito nella prima
adunanza. Nella prima votazione non venne prevista
un’urna. Per raccogliere le schede fu usato uno dei
capienti cappelli a cilindro che i deputati solevano
calcare. Successivamente furono apprestate due urne
nelle quali i deputati introducevano la mano e
lasciavano cadere palla bianca per votare a favore,
palla nera per votare contro, come nelle logge
massoniche per l'accettazione dei “bussanti”. Il
controllo dei voti espressi, eseguito in pubblico, era
quindi rapido e di rado dette motivo di contestazioni.
In alcuni casi i deputati dichiararono di essersi
sbagliati e negli Atti ne venne dato conto.
L’assemblea elettiva, come anche il Senato,
si dotò di un regolamento, aggiornato sulla base
dell’esperienza. Esso improntò i lavori a rigore e a
responsabilità. I deputati vestivano accuratamente di
nero. Negli interventi si rivolgevano al presidente;
quando interpellavano un collega lo facevano in terza
persona (“Ella”, più raramente “Lei”; “Eglino” o “essi”;
il “voi” era considerato irriguardoso) e di rado
citandone il cognome. La formula preferita era “il
preopinante”, per indicare chi aveva svolto l’intervento
precedente, o la carica (ministro, presidente,
deputato...). Il riferimento al cognome era sempre e
tassativamente preceduto da “onorevole”. In tal modo i
lavori parlamentari vennero improntati ad alto senso del
decoro, ispirati dall’orgoglio di far parte della
ristretta cerchia di chi era chiamato a decidere le
sorti dello Stato. Quando la discussione accennava ad
animarsi, il presidente di turno scampanellava,
richiamava i deputati, esortava, ammoniva. Se non
riusciva a ottenere l’immediata cessazione delle
intemperanze verbali si copriva il capo con il cappello,
che aveva sempre a portata di mano. Da quell’istante la
seduta era sospesa per la durata indicata dal
presidente.
Una svolta fu impressa con lo scioglimento
della Terza legislatura della Camera subalpina e la
convocazione dei comizi elettorali del 9 dicembre 1849.
Il re lanciò il proclama, redatto dal presidente del
Consiglio dei ministri, Massimo d’Azeglio, che esortò
gli aventi diritto a eleggere deputati disposti ad
approvare il trattato di pace con l’impero d'Austria:
una pagina triste, ma da voltare alla svelta. Di per sé
la legge elettorale non era in grado di assicurare la
stabilità di governo, che però venne via via propiziata
dagli interventi del re e da iniziative del primo
ministro o di uomini politici come Camillo Cavour e
Urbano Rattazzi che dettero vita al centro-sinistro,
cioè a una coalizione fondata sull’accordo su ciò che
unisce o può unire, lasciando ai margini ciò che divide
o può dividere. Una regola sempre attuale.
La stessa “forma” della Camera subalpina
favorì la convergenza tra le parti. Mentre in Gran
Bretagna la Camera dei Comuni contrappone due tribune
quasi a demarcare la suddivisione dei deputati in due
parti nettamente separate e destinate a combattersi, la
“piemontese”, come poi quella del Regno d’Italia e
quella attualmente in uso a Palazzo Montecitorio è ad
anfiteatro. I gruppi si toccano, si intersecano, si
mescolano. Anche in aula gli scambi sono continui. La
tendenza a trovare convergenze risponde a una legge
fisica, favorita dalla forma. Lo schema inglese a Torino
fu adottato invece per il Senato, le cui tribune furono
allestite a Palazzo Madama nella maniera più semplice:
due file di gradoni, che non creavano divisioni né
contrapposizioni, perché tutti i “patres” erano di
nomina regia e vitalizia. Quindi non avevano motivo di
far riecheggiare i loro dibattiti fuori dell’aula per
procacciarsi il consenso e propiziare la rielezione.
Come poi suggerì Giovanni Giolitti al neodeputato che
gli chiedeva come dovesse svolgere i propri interventi,
il parlamentare doveva alzarsi, dire quel che doveva e
sedere.
La legge elettorale del 20 novembre 1859 fu
varata dal governo La Marmora-Rattazzi, dieci giorno
dopo la pace di Zurigo che riconobbe indirettamente la
sovranità di Vittorio Emanuele II sulla Lombardia. Come
già la legge del 1848, quella del 1859 conferì il
diritto di voto ai maschi maggiori di 25 anni, alfabeti
e contribuenti diretti per 40 lire piemontesi annue in
Piemonte, regione più benestante del regno, e 20 nelle
altre. A prescindere dal censo avevano diritto di voto
nove categorie di cittadini dalle capacità riconosciute
(docenti universitari, membri di accademie, ufficiali
dal grado di capitano, impiegati civili con pensione di
almeno 600 lire annue), nonché laureati, notai,
causidici e gli iscritti negli elenchi di commercianti,
industriali, artigiani. Era eleggibile qualunque maschio
maggiore di trent’anni. Erano esclusi i condannati, i
falliti e gli interdetti, nonché i magistrati
inamovibili, i diplomatici in missione, i prefetti, gli
impiegati delle amministrazioni pubbliche e gli
ecclesiastici aventi “cura d’anime”. Non si trattava di
una pregiudiziale anticlericale, ma di una ovvia
separazione del magistero pastorale da possibili
strumentalizzazioni attraverso le prediche e soprattutto
l’amministrazione dei sacramenti, in specie la
confessione. Nel 1865 e ancor più nel 1889 il codice
penale stabilì misure severe nei confronti dei religiosi
che abusassero della propria funzione per valutare
negativamente l’opera del governo e dei suoi funzionari.
Ma sin dal 1859-1860 le prediche degli ecclesiastici
divennero motivo di continui conflitti tra la pubblica
autorità, sostenuta dall’ordine giudiziario, e il clero,
tanto da far dubitare che nel regno la Chiesa potesse
svolgere la propria funzione con piena libertà.
La legge limitava a un quarto del totale i
seggi della Camera assegnabili a pubblici impiegati,
inclusi magistrati e ufficiali. Questi ultimi erano
eleggibili solo in collegi nei quali non avevano
comando. Così si arginavano leggi a favore di speciali
categorie.
Paradossalmente, mentre saper leggere e
scrivere era requisito necessario per essere elettore
(ma la legge non prevedeva in quali modi dovesse essere
accertata tale capacità), non lo era per essere eletto.
Ogni cittadino era eleggibile anche se non si candidava.
Nel 1848 fu il caso, tra altri, di Vincenzo Gioberti,
che fu eletto trionfalmente in molti collegi senza
averlo chiesto. Analoga sorte ebbe Giuseppe Garibaldi,
eletto nel collegio di Cicagna. A individuare il
collegio nel quale puntare al seggio non era il futuro
deputato ma la cerchia dei suoi amici e, non di rado, il
governo, nella persona del presidente del Consiglio, che
solitamente era anche ministro dell’Interno e mobilitava
allo scopo la macchina dei dipendenti pubblici, in gran
parte di nomina governativa. L’elezione alla Camera non
comportava alcuna retribuzione o indennità. Poiché la
partecipazione alle sedute era obbligatoria pena la
decadenza dal mandato dopo assenze non giustificate da
indisposizione certificata o da missioni di Stato
comportanti il congedo, i deputati, convocati a
domicilio, dovevano soggiornare nella capitale a proprio
carico, lontani dalle professioni ordinarie, oltre che
dalla famiglia. In molti casi l'elezione generò dissidi
coniugali. Ma all'epoca, per chi ne aveva coscienza, lo
Stato veniva prima di tutto.
La legge del 20 novembre 1859 elevò i seggi
da 204 a 260: 102 per la Lombardia e 158 per il regno
sardo, i cui confini vennero ridisegnati. Essa però non
ebbe applicazione pratica, perché nel frattempo il regno
sabaudo venne ingrandito con l’Emilia (Parma e Piacenza,
Modena e Reggio, Bologna) e la Romagna (comprendenti 70
collegi) e con la Toscana (57 collegi). I deputati da
eleggere salirono a 387. Tornato alla presidenza del
governo, Cavour ottenne lo scioglimento della Camera.
Nelle elezioni successive, tenutesi il 30 marzo 1860,
gli elettori crebbero a 258.257. Alle urne andarono in
138.127. La nuova Camera non era solo subalpina, ma
neppure “italiana”. Essa comprese un’ampia maggioranza
di deputati favorevoli al governo (Cavour, La Marmora,
Ricasoli, Minghetti, Farini,...) e da almeno 65
rappresentanti della sinistra democratica: garibaldini,
ex mazziniani, qualche federalista.
Il 2 aprile 1860 Vittorio Emanuele II aprì
i lavori annunciando che «salvi il voto dei popoli e la
approvazione del parlamento, salve, in risguardo della
Svizzera, le guarentigie del diritto internazionale, [il
governo] aveva stipulato un trattato sulla riunione
della Savoia e del circondario di Nizza alla Francia» e
respinse il ricatto dell’uso delle armi spirituali che
la Chiesa usava per scopi temporali. Colpito da
scomunica, promise: «troverò la forza per mantenere
intera la libertà civile e la mia autorità, della quale
debbo ragione a Dio solo ed ai miei popoli.» L’Italia,
concluse il re, non era più quella dei Romani, cioè un
grande impero, né quella del medio evo, ma andava
orgogliosa dell’assetto raggiunto: «non deve essere più
il campo aperto alle ambizioni straniere; ma deve essere
bensì l’Italia degli Italiani.»
In meno di un anno, tra l’aprile 1859 e il
marzo 1860, i confini del regno erano divenuti molto più
ampi di quelli previsti dagli accordi di Plombières tra
Napoleone III e Cavour. Il Parlamento era chiamato a
fondere legislazioni e tradizioni diverse e ad
accelerare l’unificazione effettiva. Il 27 dicembre 1860
la Camera fu sciolta. Il 3 gennaio 1861 venne fissata
l’elezione della prima Camera effettivamente
“nazionale”. Dei 443 collegi elettorali 175 erano
nell’Italia settentrionale, 65 nella Centrale e 144
nella meridionale. Piemonte, Liguria e Sardegna
passarono da 204 a 83 deputati (56 per il Piemonte, 16
della Liguria, 11 della Sardegna). Parecchi deputati del
Parlamento subalpino erano però esuli politici eletti
nel 1861 nelle loro province originarie. Nelle “Antiche
province” del regno sabaudo l’ampliamento dei confini
dei collegi operò lo sfoltimento del ceto politico e
l’avvento di una nuova professionalità dei deputati,
anche perché la maggior parte delle opere pubbliche
avviate nel decennio precedente ma non ancora concluse
rischiava di rimanere incompiuta o drasticamente
ridimensionata perché lo Stato si trovò a fronteggiare
nuove immense priorità in tutti i campi.
Su 22.182.377 abitanti, gli elettori per i
443 deputati furono 418.696, pari all’ 1,9% del totale.
Per coglierne la vera dimensione tale percentuale va
rapportata alla popolazione maschile avente diritto di
voto. Le donne non erano elettrici in alcun Paese: non
v’è dunque motivo di stupore né di scandalo se non lo
fossero in Italia, ove sino a poco prima non lo erano
stati neppure i maschi. All’epoca gli italiani maggiori
di 25 anni, e quindi in età di esercitare il voto, erano
poco più di cinque milioni. Quindi, a differenza di
quanto solitamente si dice, la percentuale effettiva
degli elettori era l’8% dei cittadini maschi
ultraventicinquenni: una quota esigua, ma non molto
inferiore a quella di tanti altri paesi europei.
La proporzione degli aventi diritto al voto
registrò significative differenze tra le diverse aree
geografiche: essa sommò all’1,9% nell’Italia
settentrionale, nella meridionale l'1,6% e in
quella centrale 1,4% e ben il 3,4% in Sardegna, la
cui percentuale di aventi diritto al voto risultò dunque
quasi doppia rispetto alla nazionale. In Ancona gli
elettori furono appena lo 0,9% contro il 3,5 % di
Cagliari. Nelle votazioni della VIII Legislatura, ultima
del regno di Sardegna e prima di quello regno d'Italia,
i votanti furono 239.583, cioè oltre il 57% degli
aventi diritto. Nell’Italia meridionale votò più del 67%
(in Sicilia l’affluenza superò l’80%), mentre
nell’Italia centrale, più condizionata dal rifiuto della
Chiesa di riconoscere la Nuova Italia, alle urne andò
appena il 43% degli iscritti alle liste elettorali. I
deputati ministeriali furono circa 300, quelli di
opposizione (democratici e clericali) un centinaio; gli
altri, una trentina, si dichiaravano indipendenti,
sebbene in realtà inclini a votare per il governo in
cambio di vantaggi per il loro collegio. La Sinistra si
affermò soprattutto nel Mezzogiorno, che stava vivendo
gli inizi del “grande brigantaggio”.
L’VIII legislatura fu inaugurata il 18
febbraio 1861. Essa seguì di pochi giorni la resa di
Gaeta e il trasferimento di Francesco II e Maria Sofia
di Borbone a Terracina e da lì a Roma. Una guarnigione
borbonica resisteva ancora a Civitella del Tronto. Nel
discorso della corona, Vittorio Emanuele II affermò: «Ci
sono propizi gli equi e liberali principi che vanno
prevalendo nei Consigli d’Europa. L’Italia diventerà per
essa una guarentigia di ordine e di pace, e ritornerà
efficace strumento della civiltà universale […] Devoto
all’Italia non ho mai esitato a porre a cimento la vita
e la corona.» Il re rese omaggio all’Esercito,
all’Armata navale e alla «valente gioventù, condotta da
un Capitano [Garibaldi, NdA] che riempì del suo nome le
più lontane contrade». Però Napoleone III aveva ritirato
l’ambasciatore da Torino e Pio IX non riconosceva il
“fatto compiuto”. L’Italia rimaneva «libera ed unita
“quasi tutta…”».
Toccava al Parlamento mostrare la solidità
del nuovo Stato. Specialmente alla Camera elettiva, che
annoverò personalità di spicco: militari, magistrati,
medici, avvocati, ingegneri, banchieri, industriali,
imprenditori agricoli, giornalisti famosi, scrittori e
storici. Tra i deputati vi furono anche parecchi
ecclesiastici: Vincenzo Buonomo (eletto nel collegio di
Mola di Gaeta-Formia), Leopoldo Dorucci (Popoli),
Antonio Greco (Catanzaro), Pietro Interdonato-Ruffo
(Francavilla), Ottavio Lanza dei Principi di
Trabia-Bitera (Serradifalco), Antonio La Terza
(Castrovillari), Antonio Miele, arciprete e canonico
(Lacedonia), Pietro Palomba (Napoli IX), Carlo
Passaglia, abate (Montecchio), Giuseppe Robecchi
(Garlasco-Vigevano) e Flaminio Valenti (Monopoli).
Malgrado l’annessione dell’Umbria e delle Marche e la
scomunica lanciata da Pio IX nei confronti degli
“usurpatori”, i cattolici non si esprimevano solo
attraverso i clericali, come don Giacomo Margotti e i
fautori del Papa-Re. Questi erano soprattutto stranieri:
irlandesi, belgi, francesi… arrivavano da terre nelle
quali la lotta tra clericali e anticlericali aveva toni
esasperati e nei quali era degenerata in guerra civile.
In Spagna era ancora in corso la lotta tra lealisti e
carlisti. In Francia erano vivi i ricordi delle stragi
di sacerdoti e dei cattolici in Vandea. Il Belgio era
sempre diviso tra cattolici e calvinisti, un conflitto
che passava attraverso la lingua (francofoni contro
fiamminghi), costumi e ricordi. Nel Cinque-Seicento
l’Italia aveva avuto roghi di eretici (Giordano Bruno a
Campo dei Fiori in Roma) ma non aveva vissuto le guerre
di religione che avevano invece sconvolto l’Europa
centro-settentrionale e l’Inghilterra. Non v’era motivo
di scatenarne una proprio nel secolo della scienza,
della ragionevolezza, della tolleranza, del confronto
tra culture europee ed extraeuropee, dopo la scoperta e
la valorizzazione delle filosofie e delle religioni.
L’elezione di una decina di sacerdoti nella prima Camera
dei deputati del regno indicò che la Nuova Italia era la
patria di tutti. Lo intuirono e lo propugnarono due
figure di rilievo, il gesuita Carlo Passaglia, già
teologo di fiducia di Pio IX, e il garibaldino Vito
d’Ondes Reggio. Dunque, l’unità morale e politica del
Paese non era affatto pregiudicata.
Quell'esempio ha molto da insegnare anche
oggi. L’Italia, infatti, ha urgenza di una “buona” legge
elettorale che contribuisca a riportare alle urne,
almeno, la maggioranza assoluta degli elettori, pena il
rischio di sostanziale delegittimazione delle
Istituzioni, altrimenti rappresentative di una
minoranza.
Aldo A. Mola
QUANDO
LA SANTA SEDE
“RICONOBBE” L'ITALIA Editoriale
di Aldo A. Mola,
pubblicato su “Il
Giornale del Piemonte
e della Liguria” di
domenica 16 febbraio
2025 pagg. 1 e
7.
Quando l'Italia “mangiò del Papa” Nei “media” è scivolato come acqua su
levigatissime pietre l'anniversario dei Patti
Lateranensi sottoscritti l'11 febbraio 1929 da Benito
Mussolini, capo del governo, per il Regno d'Italia, e
dal cardinale Pietro Gasparri, segretario di Stato della
Santa Sede. Eppure quel giorno è davvero “particolare”
nella storia non solo d'Italia ma del mondo intero
perché segnò il riconoscimento formale dello Stato della
Città del Vaticano. Il ruolo universale del Papa,
vicario di Cristo e capo della chiesa cattolica
apostolica romana, non era stato messo in discussione
dalla spogliazione dello Stato pontificio da parte del
regno di Sardegna nel 1859-1860, che annesse
l'Emilia-Romagna, l'Umbria e le Marche, forte del
plebisciti dell’11-12 marzo e del 4-5 novembre 1860 con
cui gli elettori chiesero di far parte della monarchia
costituzionale di Vittorio Emanuele II. Papa Pio IX,
nato a Senigallia, divenne più italiano di quanto già
era.
Dieci anni dopo, il XX settembre 1870, quel
processo si concluse con l'ingresso in Roma del IV corpo
d'esercito comandato dal cattolicissimo Raffaele
Cadorna. La “debellatio” del potere temporale del papa
non comportò l'occupazione militare dei Sacri Palazzi
compresi nella “città leonina”. Il segretario di Stato
di Pio IX, cardinale Pietro Antonelli (che, va
ricordato, non era sacerdote) chiese per scritto a
Cadorna di entrarvi, ma solo in via eccezionale, per
tutelare l'ordine pubblico turbato da tumulti
anticlericali che minacciavano di degenerare in
violazione di luoghi sacri e atti inconsulti contro
ecclesiastici. Per ragioni di sicurezza il governo
nominò Camillo Manfroni commissario di polizia di Borgo,
il quartiere prospiciente il Vaticano: posizione
propizia per vegliare e al tempo stesso per tenere
contatti riservati con la Santa Sede, come da lui
narrato nel Diario, “Sulla soglia del Vaticano”.
Privo della tutela esercitata da Napoleone
III, antico carbonaro, sconfitto dai prussiani il 2
settembre 1870 a Sedan e cancellato dalla Francia, ove
fu proclamata la Repubblica (la terza, dopo quelle del
1848-1851 e del 1792-1804), malgrado tutto Pio IX non
rimase affatto isolato. Gli ambasciatori degli Stati
amici restarono al suo fianco. Per comprensibile
animosità contro il regno d'Italia che gli aveva
sottratto il Lombardo-Veneto e rivendicava il confine al
Brennero e al Quarnaro, l'impero d'Austria-Ungheria, il
regno di Baviera e persino Londra si attendevano
dall'Italia misure che garantissero la sicurezza del
pontefice, nel quale si riconoscevano i tanti cattolici
dei loro Stati. Valeva anche per molti Paesi delle
Americhe, inclusi gli Stati Uniti. Perciò il governo
italiano varò le leggi “delle guarentigie” che – ricorda
Tito Lucrezio Rizzo in “La Chiesa in prima linea, dal
Colle più alto al fango delle trincee” (Roma, Aracne,
dicembre 2024) – riconobbero al papa prerogative di
sovrano. Benché arroccato nei Sacri Palazzi, ove si
considerò “prigioniero”, Pio IX ebbe piena libertà non
solo di esercitare il magistero di capo della Chiesa
(poco prima dell'irruzione del XX Settembre il Concilio
Vaticano aveva riconosciuto l'infallibilità dei suoi
pronunciamenti “ex cathedra”, determinando la secessione
dei “vecchi cattolici”, prevalentemente tedeschi) ma
anche di svolgere un ruolo politico vero e proprio:
accreditare ambasciatori e nominare suoi nunzi e legati,
comunicare in cifra e conservare privilegi formali di
capo di Stato. La legge delle guarentigie (13 maggio
1871), fortemente voluta da Vittorio Emanuele II e dai
suoi ministri, specialmente Giovanni Lanza ed Emilio
Visconti-Venosta, stanziò anche una somma ingente a
ristoro dei beni sottratti alla Santa Sede.
“Conciliazione” e “laicizzazione” silenziose
Sino alla grande guerra del 1914-1918 si moltiplicarono
pulsioni sia conciliatoristiche sia di rigorosa
separazione dello Stato dalla Chiesa. La “conciliazione
silenziosa” (fortunata formula di Giovanni Spadolini,
storico e politico da ricordare nel centenario della
nascita) andò di pari passo con la “laicizzazione
silenziosa”. La prima non si tradusse nel riconoscimento
dell'Italia come “fatto compiuto”. Il re e i suoi
governi rimasero colpiti da interdetto. Sulla scorta di
insigni storici e giuristi, nel già citato saggio Tito
L. Rizzo documenta i travagli sorgenti in momenti
cruciali, quali la morte del cinquantottenne Padre della
Patria e la sua sepoltura non al centro del Pantheon,
come richiesto, ma nella cappella centrale, sul lato
destro del tempio, e l'abilità del Cappellano maggiore
della Real Casa Valerio Anzino nel superare via via gli
ostacoli per l'amministrazione del viatico (ne ha
scritto anche Aldo G. Ricci). La “comprensione” comportò
anche l'assoluzione “post mortem” di Umberto I,
assassinato da Gaetano Bresci a Monza il 29 luglio 1900.
La “laicizzazione silenziosa” a sua volta
si arrestò davanti a due muri invalicabili:
l'introduzione del divorzio e l'abolizione
dell'insegnamento della religione cattolica nella scuola
elementare. Entrambi divennero temi incandescenti nel
primo decennio del Novecento. Sicuro di avere partita
vinta, il presidente del Consiglio Giuseppe Zanardelli,
antico massone, spinse Vittorio Emanuele III a
preannunciare in un discorso della Corona una riforma
del diritto civile, ma dovette fare retromarcia dinnanzi
a tre milioni di firme antidivorziste raccolte in pochi
mesi dai parroci di tutta Italia. Propugnata dal
socialista temperato Leonida Bissolati, la cui
affiliazione massonica non è documentata, il 17 febbraio
1908 l'abolizione del catechismo nell'insegnamento
ottenne alla Camera appena 65 voti favorevoli su 508 (il
12%). Con molti massoni deputati, contro la riforma si
schierò Giovanni Giolitti, benché da presidente del
Consiglio avesse ammonito che Stato e Chiesa sono due
parallele destinate a non incontrarsi mai e che in
questioni religiose lo Stato è del tutto “incompetente”.
Quel voto spaccò il Grande Oriente d'Italia, proprio
mentre Pio X scomunicava i modernisti. Iniziava la
dis-unità d'Italia. Per Giolitti, ultimo uomo del
Risorgimento, l'accesso dei cattolici alle urne per
l'elezione dei deputati, in deroga “al non licet” e al
“non expedit” disposti dalla Sacra Penitenzieria, non
doveva tradursi in ingerenze del clero in questioni
politiche. Al tempo stesso lo Stato non doveva
interferire nelle coscienze delle famiglie.
Segno dei mutamenti in corso furono la
solenne consegna della bandiera e la benedizione della
corazzata “Roma”, celebrate a Civitavecchia il 3 ottobre
1909, presenti il Re e l'israelita Ernesto Nathan,
sindaco della Capitale e già gran maestro del Grande
Oriente d'Italia. Il segretario di Stato vaticano Rafael
Merry del Val (sul quale si veda la biografia scrittane
da Roberto de Mattei, ed. Sugarco, 2024) sconsigliò al
vescovo di presenziare. Intervenne invece e orò il
Cappellano maggiore della Real Casa, Giuseppe Beccaria,
che, ricorda Rizzo citando da “Il Popolo Romano”, tenne
un discorso da far invidia al Vate: «Il sacro, il
candido, il sempre vittorioso tricolor d'Italia,
benedetto da Dio sta sull'antenna. Chi contro di esso?
La bianca croce, labaro novello della novella Italia,
vaticina ancor essa “In hoc signo vinces”.» Rivolto
direttamente alla nave, il monsignore aggiunse: «A te
più vasto si dischiude il campo delle nuove conquiste.
Te acclameranno i popoli che Roma onorano. Corri per
tutti i mari fidente in Dio e nel suo nome torna
vittoriosa, e fiera dici alla Madre Italia: lieta
novella io porto, la nostra Patria è grande, essa è
dovunque rispettata e temuta. Oggi orgoglio, domani, o
nave vittoriosa, ti sarà anche di premio il nome eccelso
di Roma, di Roma l'eterna, di Roma l'augusta, di Roma la
forte, di Roma dominatrice del mondo.» Erano parole
anticipatrici dell'Inno a Roma, musicato dieci anni dopo
da Giacomo Puccini, e di tanti discorsi tenuti nel
Ventennio da chi, come Mussolini, nel 1909 era
socialista rivoluzionario e nemico dichiarato della
monarchia sabauda, si proclamava antimilitarista e tre
anni dopo sarebbe stato incarcerato, come l'allora
repubblicano Pietro Nenni, per aver cercato di impedire
la partenza di militari destinati a combattere i turchi
per la proclamata sovranità italiana sulla Libia.
Triangoli segreti: Barone, Pacelli, Gasparri...
La partecipazione del clero alla grande guerra radicò in
molti liberali la convinzione che fosse tempo di avviare
la “conciliazione” con la Santa Sede. Nel 1919 ci provò
invano Vittorio Emanuele Orlando, a margine del
congresso di Pace a Parigi. Poi il Paese visse altre
priorità. Proprio l'irruzione dei cattolici nella vita
politica, tramite il partito popolare italiano,
allontanò le due rive del Tevere.
Il 1925 fu l'anno che conosciamo. Iniziò il
“regime”. Venne aperto dal discorso di Mussolini alla
Camera il pomeriggio del 3 gennaio, un sabato. Il duce
assunse la responsabilità della “rivoluzione fascista”,
respinse l'accusa di connivenza con il rapimento e la
morte di Matteotti e sfidò chiunque a incriminarlo a
norma dello Statuto. L'opposizione era assente.
Popolari, socialisti, repubblicani, demosociali,
democratici, liberali, a parte la pattuglia capitanata
da Giolitti, rimaneva sull'“Aventino” come un gufo
impagliato. Fu il suo terzo suicidio politico. Il primo
era stato il “no” a un governo Giolitti, che nel 1922
sbarrasse la strada a Mussolini. La responsabilità
storica cade sul fondatore del Partito popolare
italiano, don Luigi Sturzo, che oppose il “veto” e da
Giolitti venne bollato “prete intrigante”. La seconda fu
la mancata opposizione in Aula quando il duce il 16-17
novembre 1922 chiese e ottenne la fiducia. I popolari
erano al governo e votarono Mussolini. Nel 1925 il
Partito popolare capitanato da Alcide De Gasperi,
ridotto dai 100 deputati del 1919 a soli 39 e diviso tra
filofascisti dichiarati, dubbiosi e altri, ormai inclini
ad abbandonare la zattera della “politica”, uscì di
scena e l'anno seguente disparve.
Tirate le somme, la Santa Sede, che non
aveva mai delegato la propria rappresentanza al Ppi che
si dichiarava di cattolici ma non cattolico ed enunciò
un programma senza “imprimatur”, attese che Mussolini
affrontasse la “questione romana”. Nel marzo 1926 Pio XI
fece intendere all'avvocato Francesco Pacelli il «non
lontano desiderio di addivenire ad un accordo con lo
Stato italiano». Analogo sentimento espose a Pietro
Gasparri, che mostrò di «avere fiducia» in Mussolini.
Pacelli ne informò monsignor Luigi Haver, che propiziò
un colloquio tra Luigi Federzoni e il cardinale De Lai,
nel quale nessuno dei due entrò nell'argomento. Lo
stesso Haver fece incontrare Pacelli con il consigliere
di Stato Domenico Barone, suo grande amico. Era il 6
agosto 1926.
Dopo tre colloqui con Mussolini, il 30
agosto Barone espose per scritto al duce «i capisaldi
proposti dalla Santa Sede per la sistemazione della
questione romana». Secondo Pio XI l'iniziativa doveva
partire dal governo italiano, tramite persona di sua
fiducia. Le trattative dovevano prescindere dalla legge
sulle guarentigie e su di esse doveva essere mantenuto
«il più assoluto segreto». Sulla scia dei predecessori,
il papa non aveva rinunciato alla richiesta di avere
«propri mezzi di navigazione marittima», oltre a una
stazione ferroviaria, una postazione radiotelegrafica e
un hangar per aeromobili.
“Re melius perpensa”, il 4 ottobre Mussolini confermò a
Barone «l’utilità di vedere finalmente eliminata ogni
ragione di dissidio tra l'Italia e la Santa Sede» e lo
incaricò di mettersi in contatto con rappresentanti
vaticani per conoscerne le condizioni. L'incarico non
ebbe «carattere ufficiale, né ufficioso». Fu
«strettamente confidenziale». Previo un cenno
provvisorio del 6 ottobre, il 24 il cardinale Gasparri
incaricò Pacelli (al quale Barone aveva mostrata la
lettera di Mussolini) di «un primo confidenziale scambio
di idee» e gli indicò i capisaldi del Vaticano: «piena
libertà e indipendenza non solamente reale ed effettiva,
ma anche visibile e manifesta, con territorio di sua
piena ed esclusiva proprietà sia di dominio che di
giurisdizione come conviene a vera sovranità ed
inviolabile ad ogni evenienza»; riconoscimento da parte
delle Potenze, sollecitate dall’Italia; concordato
regolante la legislazione ecclesiastica in Italia
approvato delle «autorità politiche costituzionali
d'Italia, cioè dal Re e dal Parlamento». Patti chiari.
Il 24 novembre Pacelli e Barone sottoscrissero un “primo
progetto di trattato”, elaborato sulla base di
interventi del papa e di Gasparri. Un “memorandum”
precisò: «La Santa Sede riconosce formalmente la
costituzione di Roma capitale del Regno d'Italia e
dichiara quindi definitivamente composta la “questione
romana” sorta nel 1870.» Il papa rinunciava alle
rivendicazioni temporali. Il 31 dicembre 1926 Mussolini,
«autorizzato da S.M. il Re», riconobbe a Barone
l'incarico ufficiale di trattare «con la più assoluta
segretezza e “ad referendum”».
Dopo quasi due anni di colloqui e scambi di
documenti, il 7 novembre 1928 Barone informò Mussolini
che Pio XI rinunziava a ogni ingrandimento territoriale
rispetto a quanto indicato dalla legge delle guarentigie
e rimaneva fermo nella richiesta che la composizione
della questione romana avvenisse «senza intervento né
preventivo né successivo di governi stranieri» ma quale
«accordo che spontaneamente e liberamente viene
stipulato fra l'Italia da un lato e la Santa Sede
dall’altro», basato «sul riconoscimento di una sovranità
(del resto tutt'affatto speciale) della Santa Sede sul
territorio del Vaticano, che misura meno di mezzo
chilometro quadrato, che l'Italia in realtà non ha mai
preteso di avere assoggettato al suo potere sovrano…».
… il Re, Mussolini e Gasparri
Due giorni dopo il duce autorizzò Barone a rendere noto
a Pacelli che andava a «provocare da Sua Maestà il Re,
già informato di queste azioni e aderente alle medesime,
un formale atto di incarico a me – con facoltà di
subdelegare – di svolgere le trattative ufficiali e di
addivenire alla firma del Trattato e del Concordato, che
hanno formato oggetto delle conversazioni svoltesi
finora, con l'intesa che da ambo le Parti si continuerà
ad osservare il segreto». Il 22 novembre Vittorio
Emanuele III autorizzò Mussolini a «iniziare le
trattative ufficiali e a mettersi per ciò in relazione
con il cardinale Gasparri», con l'intesa che «anche
queste trattative saranno segrete in quanto e sino a che
le due Alte Parti concordemente non riconosceranno
l'opportunità di renderle note». A sua volta il 25
novembre Pio XI autorizzò Gasparri a procedere. Malato
da tempo, Domenico Barone, al quale tanto deve l'Italia,
morì il 4 gennaio 1929.
Con il fiuto e la determinazione che gli
vengono riconosciuti da storici non prevenuti (lo
ricorda Antonio Carioti in “40 giorni nella vita di
Mussolini. Da Predappio a Piazzale Loreto”, ed.
Solferino, 2025), Mussolini prese in pugno le redini
delle trattative. Il 7 gennaio invitò a colloquio
Pacelli per l'indomani. Al primo incontro ne seguirono
altri sette in gennaio e due in febbraio, il 6 il 9, con
attente limature dei testi e, per la parte italiana,
sottoposti al vaglio di Vittorio Emanuele III, che a sua
volta minuziosamente intervenne anche su questioni
giurisdizionali. Era il caso, ipotetico, dell'autore di
un attentato politico che riuscisse, appena compiutolo,
«a saltare entro la cinta del Vaticano». Chi doveva
giudicarlo? Nel vaglio dei Patti intervenne anche il
ministro di Grazia e giustizia Alfredo Rocco, sempre col
vincolo della segretezza. Il 24 gennaio venne stabilito
che la Santa Sede «accorderà piena cassazione a tutti
coloro che a seguito delle leggi italiane eversive del
patrimonio ecclesiastico si trovino in possesso di beni
ecclesiastici». Fino ad allora erano sotto l'incubo
della maledizione: “chi mangia del papa ne muore”. Il 10
febbraio Mussolini comunicò al Re che la Santa Sede
aveva rinunciato a rivendicare un metro quadrato di
strada davanti al Palazzo del Santo Uffizio e a
includere l'intero fosco edificio nella Città del
Vaticano, «contentandosi della immunità». Allegò copia
di un articolo di Francesco Saverio Nitti appena
pubblicato in Francia e altri paesi, nel quale l'ex
presidente del Consiglio da tempo “esule” a Parigi
«escludeva categoricamente ogni possibilità di accordo
vicino o lontano fra Italia e Santa Sede». Alle 12
dell'indomani, 11 febbraio, sacro all'Apparizione di
Lourdes, il cardinale Gasparri, plenipotenziario di Pio
XI, e Mussolini, plenipotenziario del re d'Italia,
firmarono i Patti Lateranensi: trattato politico,
concordato e convenzione finanziaria. “Quod erat in
votis”…?
E poi? Italiani fascisti o cattolici?
L'evento suscitò immediato e vasto consenso nel Paese e
influì sull'esito delle elezioni della Camera dei
deputati il 24 marzo 1929, che registrarono lo
straripante successo del partito fascista, l’unico
ammesso in Italia. Molti giornali sottolinearono che la
“conciliazione” comportava la definitiva sconfitta della
Massoneria. Ma vi erano ancora massoni in Italia? Due
tra i suoi esponenti supremi erano reclusi. Il gran
maestro Domizio Torrigiani nel 1927 era stato condannato
a cinque anni di confino di polizia con un'unica
imputazione: “Massone”. Il generale Luigi Capello era
condannato a trent'anni di reclusione, tre dei quali in
regime di massima severità, quale complice
nell'attentato progettato da Tito Zaniboni per il 4
novembre 1925: senza prove convincenti, come deplorato,
tra altri, da Maria Rygier in “La Franc-maçonnerie
italienne devant la guerre et devant le fascisme”
(Parigi, 1930). Molti altri “fratelli” erano nelle alte
sfere del regime, a cominciare dal ministero della
Pubblica Istruzione/Educazione Nazionale. Lì, dopo
l'“iniziato” Dario Lupi, sottosegretario di Giovanni
Gentile, si erano susseguiti i massoni Giuseppe Belluzzo
e Balbino Giuliano, seguiti più tardi dal “fratello”
Giuseppe Bottai.
Il 25 marzo 1929 Ubaldo Triaca, 33∴, già
garante di amicizia del Grande Oriente d'Italia con la
Gran Loggia di Francia, revocato da Torrigiani per la
sua netta opposizione al governo Mussolini, da Parigi
diramò alle potenze massoniche una lettera di denuncia
del «ristabilimento del potere temporale del Papa»
grazie a Mussolini, mirante a guadagnarsi le simpatie e
il sostegno dei clericali in Italia e all'estero per
assicurarsi la durata della dittatura. Dai Patti, a suo
avviso, il pontefice aveva ottenuto il controllo della
cultura italiana. Di parere opposto era il filosofo
Giovanni Gentile, che rivendicò l’«autonomia
indefettibile dello Stato». Lo storico GioacchinoVolpe,
dal canto suo, osservò che il Concordato portava qualche
pericolo «nelle sue pieghe». Per far capire a tutti il
ruolo svolto, Vittorio Emanuele III conferì il Collare
della SS. Annunziata a tre Cardinali, Pietro Maffi,
Pietro Gasparri ed Eugenio Pacelli, futuro Pio XII, così
creati “cugini del Re”.
Il punto fondamentale fu il riconoscimento
dello Stato d'Italia da parte del Vaticano. La
Conciliazione non chiuse solo la questione romana, ma
anche quella italiana. I Patti non erano stati stipulati
tra il fascismo e i clericali, ma tra lo Stato e la
Santa Sede. Con il referendum del 2-3 giugno 1946 lo
Stato mutò forma, ma la Repubblica rimase tenuta a
osservare gli accordi stabiliti in età monarchica.
Inserì i Patti nell'art.7 della Costituzione.
L'11 febbraio è quindi un giorno “storico”,
meritevole di memoria, al pari del XX Settembre.
Sottovalutare o dimenticare l'uno a vantaggio dell'altro
non significa “più conciliazione” ma cancellazione della
complessità della Storia. Non aiuta a coglierne il peso
sul presente, problematico come il passato.
Aldo A. Mola
Didascalia: Mussolini e Gasparri firmano i “Patti
Lateranensi” (11 febbraio 1929).
ECCLESIASTICI
E MASSONI
PER UNIRE LA NUOVA ITALIA Editoriale
di Aldo A. Mola,
pubblicato su “Il
Giornale del Piemonte
e della Liguria” di
domenica 9 febbraio
2025 pagg. 1 e
7. Pietra grezza e
scalpello
Le cronache di Istituzioni dal passato illustre a volte
ne deformano l'immagine, ne ingigantiscono i difetti e
ne fanno scordare i meriti. È il caso della Libera
Muratoria, in Italia più chiacchierata che davvero
conosciuta, anche se non mancano suoi profili rigorosi,
come La massoneria italiana dalle origini al nuovo
millennio di Luca G. Manenti (ed. Carocci). La sua
immagine nell'opinione comune e anche in molti settori
di quella “accademica” ha fatto molti passi all’indietro
rispetto a quasi cinquant'anni addietro, quando, era il
1980-198, per stabilire se le logge abbiano davvero
svolto un ruolo costruttivo “per” e “nella” Nuova Italia
si tennero a Palazzo Carignano (Torino) e a Villa
Medici, sul garibaldino Gianicolo in Roma, sede
albeggiante del Grande Oriente d'Italia, le mostre sui
Massoni nella storia d'Italia. Il catalogo approntato
per la seconda mostra perlustrò le opere di
scienziati, letterati, scrittori, artisti, compositori,
uomini politici, militari… alla ricerca di un disegno
riconducibile a un'idea di Italia, connessa ai principi
costitutivi della massoneria, enunciati dalle
costituzioni di Anderson e Desaguliers e ripetuti nelle
costituzioni del Rito scozzese antico e accettato, il
più diffuso nel mondo.
L’importanza dell'opera attuata dalla prima
generazione dei massoni dopo l'Unità (1861) non va
cercata nel reclutamento di iniziati, nella
moltiplicazione di logge e nella gara per dar vita a un
corpo nazionale capace di fondere le diverse
organizzazioni preesistenti, né, infine, nella
preparazione e nello svolgimento di “assemblee
costituenti”, teatro di aspre lotte per la conquista del
potere centrale dell'Istituzione. Essa si espresse in
altro modo: attraverso il contributo effettivo che i
singoli “fratelli”, personaggi illustri o semplici
“operai”, dettero all'avvento della “Nuova Italia” sino
ad allora vagheggiata da una esigua minoranza di
patrioti.
Per venirne in chiaro giova vedere quale
cognizione dell’Italia avesse la maggior parte degli
abitanti del Regno e quali enormi progressi la coscienza
nazionale realizzò in brevissimo tempo, grazie a una
pattuglia di scrittori, anche senza direttive di un
“Governo dell’Ordine”, che esisteva solo nelle ambizioni
di chi aspirava a impadronirsene (fu il caso di Ludovico
Frapolli) e nelle visioni arcaiche dei clericali
integralisti, che lo dipingevano come “sinagoga di
Satana”.
Nel 1861 che cosa davvero gli italiani
sapevano dell’Italia? Alcuni ne parlavano moltissimo e
con fervore, ma di seconda mano, sulla base di
reminiscenze e racconti. Pochissimi ne avevano
cognizione diretta. Valeva anche per Camillo Cavour, che
conosceva Svizzera, Belgio, un po’di Inghilterra, Parigi
e dintorni ma niente della “Francia profonda” e non mise
mai piede a Venezia o a Ravenna, né mai si spinse a sud
di Firenze, ove andò solo una volta di fuggita, dopo la
sua annessione, vi litigò con Vittorio Emanuele II e se
ne tornò a Torino. Cavour vaticinò Roma capitale
d’Italia senz’averla mai visitata, a differenza di
Massimo d’Azeglio che l’aveva vissuta e rimase scettico
sulla sua potenzialità di guida morale dei popoli
d'Italia. Mazzini la vide con la fantasia del profeta
più che con gli occhi. Nel 1849 vi arrivò dopo la
proclamazione della Repubblica, proposta da Carlo
Luciano Bonaparte, principe di Canino, e di Giuseppe
Garibaldi. Ne rimase ammaliato e deluso Non volle
rivederla mentre vi transitava sotto scorta nel verso
Pisa ove morì il 10 marzo 1872. Gioberti vi andò, ad
audiendum verbum, dopo aver fantasticato sulle origini
pelasgiche degli “italiani”. Altrettanto vale per
centinaia di patrioti che s’immolarono per l’Italia
senza conoscerne la realtà effettiva. Le loro gesta sono
nobili, ma lasciarono in eredità l’obbligo di far
coincidere il nome con i fatti, lo spirito con la carne:
un passaggio né facile, né immediato. L'Italia era una
pietra grezza. Ma chi aveva martelletto e scalpello per
dirozzarla?
Alla ricerca degli antenati...
A percorrere l’Italia da un capo all’altro furono due
Uomini diversi e nondimeno simili: Garibaldi e Vittorio
Emanuele II. Il loro incontro a Patenora Catena, presso
Teano (ottobre 1860), sintetizza bene come, per
liberarla o conquistarla o almeno per farsene un’idea,
occorreva percorrere l'Italia a piedi, a cavallo, in
carrozza, attraversandola con guide non sempre
affidabili.
La stragrande maggioranza degli abitanti
del Paese conosceva appena i fatti della propria magra
esistenza, anche perché non sapeva né leggere né
scrivere e se anche era alfabeta aveva altro di cui
occuparsi. I due libri oggi citati quali capolavori
letterari del patriottismo, Pinocchio di Collodi e Cuore
di De Amicis, non sono del 1859-1861 ma degli Anni
Ottanta, cioè vent’anni dopo lo sbarco di Garibaldi a
Marsala e l’unificazione. Essi furono scritti per la
scuola elementare obbligatoria e gratuita, la legge
voluta dal massone Michele Coppino, che è del 1877: una
speranza, un programma, non ancora realtà. Il censimento
del 1881 fotografò l'analfabetismo perdurante in troppe
regioni, soprattutto del Mezzogiorno.
Sull’unificazione affrettata del 1861
gravarono secoli di arretratezza e sottosviluppo, di
guerre esterne e interne, e altri innumerevoli guai.
All’avvento del regno, l’Italia era un’“espressione
geografica”, come si dice sia stata definita dal
cancelliere dell’impero d’Austria, Clemens von
Metternich, un illuminista conservatore. Conosceva e
apprezzava l’Italia, la sua cultura, la sua storia.
Disse quanto ogni persona colta del tempo suo pensava
dopo aver veduto gl’italiani dilaniarsi nelle guerre
civili del 1798-1800 e poi chinarsi a Napoleone I e alla
Restaurazione. L’Italia non era e non sarebbe stata un
“Paese” sino a quando una sua parte rappresentativa non
ne avesse preso coscienza.
Purtroppo l’idea di Italia troppo a lungo
fu falsata da letterati e sedicenti poeti, che
adattarono ai tempi nuovi il formulario del
Cinque-Seicento. Veniva celebrata come giardino
d’Europa. Invece aveva, come ha, climi differenti, miti
in alcune regioni ma asperrimi in altre. Il Mezzogiorno
continuò a essere presentato con la formula di Goethe,
la terra “dove fioriscono i limoni”: una “cartolina” che
non dava da vivere. Quelle etichette fecero danni. Chi
la visitava scopriva una realtà del tutto diversa dalle
descrizioni di chi l’aveva raccontata solo passando
dall’uno all’altro palazzo di notabili o esplorandone
posti e postriboli e rimaneva sconcertato e deluso
dinnanzi ai fatti: il “sentimento” evocato da Giuseppe
Cesare Abba nelle Noterelle di uno dei Mille.
L’Italia aveva un’agricoltura arretrata e
mancava di risorse naturali. Aveva un territorio
infelice, bonificato con secoli di lavoro durissimo,
strappato all’inclemenza dei climi con opere ingegnose
di idraulica agraria, di adattamento dei fianchi impervi
di colli e monti per coltivarvi alberi da frutto, ulivi
e viti: una lotta faticosa insegnata dal poeta latino
che esortò a piantare alberi che gioveranno alla
generazione seguente. Malgrado secoli di sacrifici, nel
1861 gran parte del territorio rimaneva incolto e
inospite. Valeva per vaste plaghe del Piemonte,
acquitrinose, paludose, infette; per la “bassa padana” e
il delta del Po, per la dorsale appenninica, le paludi
pontine, tanta parte delle Puglie e della Sicilia, che
stavano meglio di Basilicata e Abruzzi. Giovanni
Giolitti, che nel giardino di casa, a Cavour, puliva di
persona i tronchi degli alberi col guantone di ferro,
saliva sulla Rocca per contemplare la bonifica
della plaga intrapresa dai monaci cistercensi ottocento
e più anni prima.
La prima seria ricognizione dell’Italia
venne avviata dall’Istituto Geografico Militare di
Firenze nel 1878. Esso studiò palmo a palmo il Paese e
lo riprodusse in carte vitali per la sua difesa, perché
il governo di Roma non aveva né alleati né amici. Tanta
cautela aveva una ragione. Solo nel 1882 Roma
sottoscrisse un patto difensivo con Vienna e Berlino.
Era difficile coniugare quel presente con la storia che
scolari e studenti leggevano nei sussidiari o sentivano
narrare in tante cerimonie. Come credersi alleati di chi
aveva incarcerato Pellico, impiccato don Enrico
Napoleone Tazzoli (previa dolorosa “sconsacrazione”),
combattuto la Lega Lombarda, arso vivo Arnaldo da
Brescia per far piacere a un papa, compiuto il sacco di
Roma del 1527 per costringere Pio VII a subire la
riforma protestante e via continuando? Al tempo stesso
era impossibile pretendere che i giovani italiani
smaniassero per la Francia che da Carlo Magno a
Napoleone l’aveva invasa e devastata per secoli. Il nome
di Napoleone III suonava sinistro per il sanguinoso
annientamento della Repubblica Romana nel 1849, della
spedizione garibaldina a Mentana (1867) e per la
protezione accordata a Francesco II di Borbone dopo la
sua fuga da Gaeta alla volta di Roma, che continuò a
considerarlo re.
La politica estera e, conseguentemente,
quella militare pesarono sull’immagine che l’Italia
poteva e doveva darsi di sé. Perciò divenne necessario
proporne almeno la descrizione geografica e il profilo
della sua storia e del suo patrimonio artistico. V’era
un motivo. Per molti decenni dopo l’avvento del Regno
tanta parte degl’italiani visse stanziale. Le mete erano
i santuari due passi da casa, visitati una o due volte
l’anno coniugando fede e colazioni campestri.
Statistiche e memorialistica dicono che gli abitanti
delle città passarono la vita nel quartiere ove erano
nati, ignorando gli stessi concittadini. A modo loro, le
gare tra le contrade erano un fattore di conoscenza
reciproca, ma valeva per alcune città (il caso più
famoso è Siena), non per la generalità dei regnicoli,
che vivevano in piccoli borghi ai margini della storia:
lontani dalle scorrerie ma anche dai “progressi”.
Giornalisti e divulgatori
Ruolo unificante svolsero giornali e riviste. I
quotidiani non potevano vivere dei lettori di poche vie.
Dovevano ampliare la distribuzione dalla tipografia alla
città, ai comuni viciniori, all’intero collegio
elettorale, a una provincia, a una regione. L’Ottocento
finì senza che si fossero affermati quotidiani davvero
nazionali. Vi erano giornali politici influenti (La
Gazzetta del Popolo e La Gazzetta piemontese, che poi
divenne la Stampa, a Torino, Il Secolo e il Corriere
della sera a Milano, il Roma a Napoli, l’Ora a Palermo,
il glorioso Corriere Mercantile a Genova e altri
quotidiani o fogli di provincia, come la Gazzetta di
Parma e poi quella di Mantova) ma nessuno di essi
raggiungeva l’intero territorio nazionale. Però
parlavano al cuore della nazione, al Parlamento, ai
vertici delle amministrazioni provinciali e dei comuni
di grandi dimensioni, alimentavano il dibattito.
Giornalisti e pubblicisti furono pionieri e protagonisti
dell’identità nazionale, che ebbe due piani di
costruzione: quello degli studiosi e quello di
ricercatori-divulgatori. Non furono conflittuali ma
complementari. Ognuno svolse il proprio ruolo, con pregi
e difetti, ma con una meta fissa: l'Italia.
Tra i molti esempi possibili tre sembrano
paradigmatici.
Il primo è Gustavo Strafforello (Porto
Maurizio, 1820-1903). Giornalista ed erudito dalla penna
brillante, lavorò per l’editore Pomba di Torino, in
prima linea nella pubblicazione di enciclopedie
popolari, che ebbero per modello opere straniere.
Strafforello tradusse molto dal tedesco e dall’inglese e
collaborò anche al Brockhaus’s Conversation-Lexikon. Per
un’Italia che aveva fretta di crescere inizialmente
rinunciò a scrivere opere proprie. Si prodigò invece per
far conoscere i classici del pensiero straniero
contemporaneo e accelerare l’europeizzazione degli
italiani. Nel 1865 tradusse Self-Help di H. Smiles con
il titolo subito famoso Chi si aiuta, il Ciel l’aiuta:
vero e proprio breviario della Terza Italia.
Strafforello non badò alla qualità letteraria
dell’opera, ma alla sua efficacia pratica. L’Italia
doveva rimboccarsi le maniche. Il pragmatismo di Smiles
fu terreno di confronto con gli scrittori cattolici
ispirati da don Giovanni Bosco, impegnati a loro volta a
formare per la vita. All’epoca nessuno pensò che
Strafforello complottasse contro l’integrità morale
degli italiani solo perché era anche massone, come
ricorda Filippo Bruno in “La Rivera dei framassoni”, di
prossima riedizione. Il progresso era lo statuto di
tutti gli europei, incluse le istituzioni culturali dei
pontefici, incrementate da Pio IX e dai suoi successori.
La Specola Vaticana diretta dal napoletano don Francesco
Denza ne fu modello di prestigio universale.
Quando fu abbastanza sicuro di sé,
Strafforello pubblicò una cascata di opere, impastate di
enunciazioni, esempi, aneddoti. Ebbero immediato e
durevole successo la Storia popolare del progresso
(1871), Gli eroi del lavoro (1872) sino a Le battaglie
per la vita (1902) che fu il suo congedo. La sua opera
promosse pragmatismo e positivismo senza pretese
filosofiche né rigidità ideologica. Echeggiava lo
spirito del tempo e concorreva a suscitarlo, in un
circolo virtuoso tra autore e lettori. Si cimentò anche
in opere di maggior polso come La sapienza nel mondo e
Il dizionario universale di geografia, storia e
biografia. All’Italia dedicò un’opera che fu insieme di
affetto e di orgoglio, La Patria. Pubblicata a dispense
dalla Utet di Torino, fece conoscere non solo la
geografia ma anche storia, eroi eponimi, attualità
economica, imprenditoriale, commerciale, il tutto
corredato da carte, piante topografiche, ritratti,
monumenti e vedute: un capolavoro. L’“Illustrazione
Italiana” era la televisione dell’epoca per abbienti e
professionisti. “La Patria”, divulgata a dispense dal
prezzo modesto, raggiunse molti altri. Nessuno dei due
volle il primato. Competevano a chi meglio faceva per un
obiettivo comune. Non duello, ma sinergia. Per l’Italia.
Altrettanto incisiva fu l’opera di Antonio
Stoppani (Lecco, 1824-Milano 1891), presbitero e
scienziato di fama mondiale. Fervido ammiratore di
Manzoni e di Gioberti, nel 1848, quando ancora era
seminarista, da chierico Stoppani aiutò i milanesi nelle
Cinque giornate contro gli occupanti. Dopo l’ordinazione
sacerdotale si dedicò a studi di paleontologia e
glaciologia. Nel 1857 dimostrò per primo l’unità delle
Alpi lombardo-svizzere. Fu tra i fondatori dell’Istituto
geologico del Regno e concorse alla redazione della
carta geologica dell’Italia, importante anche per la
vulcanologia e lo studio dei terremoti. Apprezzato da
Quintino Sella, fu il primo presidente del Club Alpino
Italiano a Milano. La sua opera principale fu e rimane
Il Bel Paese, pubblicato nel 1875 e subito di immensa
fortuna. Don Stoppani non entrò in dispute teologiche.
Parlò dell’Italia, delle sue bellezze naturali e ne
esaltò il Creatore. Per lui, come per altri
ecclesiastici lungimiranti, come Carlo Passaglia e Luigi
Tosti, l’unificazione era un fatto compiuto. Bisognava
guardare avanti: alla pace e alla fratellanza operosa.
Istruì ed educò senza alzare la voce. Scienza e fede non
erano affatto contrastanti, come non lo erano la Nuova
Italia e la libertà di religione. Ammiratore dell'abate
Antonio Rosmini, nel 1876 si candidò, senza fortuna,
alla Camera dei deputati. Alcune sue pubblicazioni
finirono nell'Indice delle opere proibite dalla Chiesa.
Già a suo tempo preoccupato dal ritrarsi dei ghiacciai e
dalla contaminazione delle acque (ne parlò anche con
Umberto I e la Regina Margherita) lasciò fare al tempo,
che è galantuomo.
Altrettanto efficace di quella di
Strafforello e di don Stoppani fu l’opera divulgativa di
Mauro Macchi (Milano, 1818- Roma, 1880). Discepolo di
Carlo Cattaneo e collaboratore del “Politecnico”,
anch’egli prese parte alle Cinque Giornate milanesi del
Quarantotto e concorse alla redazione dell’Archivio
triennale delle cose d’Italia di Cattaneo. Espulso dal
Canton Ticino, ove si era rifugiato, migrò nel regno di
Sardegna, voltò le spalle a Mazzini dopo il fallimento
della rovinosa cospirazione del febbraio 1853 e si
dedicò a organizzare le società operaie di mutuo
soccorso. Massone, Mauro Macchi collaborò alla
promozione del “Libero Pensiero” con don Giuseppe
Bonavino, che lasciò l’abito, prese nome di Ausonio
Franchi, si fece iniziare in loggia e assunse la guida
del Rito Simbolico Italiano. Poi tornò in religione.
Garibaldino, Macchi fu vicepresidente della Lega per la
pace e la libertà nel 1867 adunata a Ginevra, ove il
Generale predicò la pace universale, ma tra popoli
liberi dalla tirannide. Poche settimane dopo il
settantenne Garibaldi non esitò a salire a cavallo per
liberare Roma dal potere temporale di Pio IX.
L'opera più durevole di Macchi fu
l’Almanacco istorico d’Italia pubblicato dal 1868:
un'opera vastissima. La scrisse da solo, a lume di
candela, tra mille difficoltà. Era il suo modo di
credere nella Patria. I maggiori studiosi di statistica
lo vollero al proprio fianco: Leone Carpi, Angelo
Messedaglia, Cesare Correnti, tutti massoni o amici di
massoni o comunque fautori di quell’“idea di Italia” che
talvolta nelle logge era motivo di contesa ma venne
condivisa dai patrioti. Per lui storia e statistica non
erano erudizione, né arida informazione: costituivano le
basi per la ricognizione del passato e additavano la via
del futuro, lo Stellone d’Italia che ciascuno era ed è
libero di interpretare a proprio modo. Nel 1879 venne
nominato senatore: rango presagito anche per don
Stoppani. Fu tra i segnali della serena pacificazione
della Terza Italia, il Bel Paese ove i sapienti erano
uniti come nella “Scuola di Atene” di Raffaello Sanzio.
A fare l’Italia concorsero cospirazioni e
battaglie, ma altrettanto fecero studiosi che si
dedicarono al giornalismo e alla divulgazione ed ebbero
spiccata sensibilità per la letteratura e la lingua
popolare, incluse le lingue regionali. Fu il caso di
Macchi come di Costantino Nigra, solitamente ricordato
quale incaricato d’affari e ambasciatore a Parigi; di
Felice Govean, autore di romanzi storici e fondatore
della “Gazzetta del Popolo” di Torino; e di Luigi
Pietracqua, il cui nome non figura nella maggior parte
delle recenti storie della massoneria italiana. Eppure
ne fu alto dignitario ed ebbe la genialità di scrivere
romanzi popolari in piemontese proprio quando la
costruzione della Nuova Italia costrinse Vittorio
Emanuele II a trasferire la capitale da Torino a Firenze
e a Roma.
Tutti insieme, scrittori, divulgatori e
giornalisti, molti ecclesiastici e massoni, furono
anch'essi “padri della Patria”.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Don Antonio Stoppani, volontario durante
la Terza guerra per l'indipendenza (1866). Rievocato
lo scorso 2024, bicentenario della sua nascita, dalle
9.30 alle 12.30 di venerdì 14 febbraio 2025, al Museo
Naturale di Storia naturale di Milano (C:so Venezia,
55), don Antonio Stoppani viene approfondito
alla luce degli archivi in un incontro moderato da
Suor Benedetta Lisci, del benemerito Centro
Internazionale di studi rosminiani (Stresa). Molto
attese sono le relazioni di padre Ludovico Maria
Gadaleta (“Stoppani, Albertario e la questione
rosminiana”), al quale si devono volumi fondamentali
dell'Opera Omnia rosminiana, e dell'Arcivescovo di
Milano, Mons. Mario Delpini, su “Un prete scienziato,
perché la fede cerca e promuove la scienza”: un titolo
che è tutto un programma nell'anno del Giubileo
fondato sulla “speranza” della “pace in terra per gli
uomini di buona volontà”. FERROVIE, STRADE, TELEGRAFO
FECERO L'ITALIA Editoriale di
Aldo A. Mola, pubblicato su
“Il Giornale del Piemonte e
della Liguria” di domenica 2
febbraio 2025 pagg. 1 e 7.
L'unificazione
d'Italia Oggi molto si discute di grandi opere e dei mezzi per
realizzarle. È una sfida antica. Venne affrontata e
vinta alla nascita del Regno d'Italia, da una classe
dirigente di statura europea. Quella dirigenza sapeva
da dove veniva e dove voleva arrivare: fare lo Stato e
suo tramite gli italiani, un popolo di uomini liberi.
Dal 1860-1861 l’unità politica migliorò la vita degli
abitanti del Paese Italia. Riorganizzò e coordinò una
moltitudine di uffici e di servizi, prima pensati in
funzione dei singoli Stati, piccoli o grandi fossero.
Nel 1859 l’Italia era un mosaico di “lavori in corso”.
Alcuni collegavano uno all’altro Stato per forza
maggiore, altri avevano capo ma nessuna coda. Erano
pensati in una visione di corto respiro. Nel primo
quinquennio dopo la proclamazione del regno (1861) i
governi presieduti da Camillo Cavour, Bettino Ricasoli,
Urbano Rattazzi, Luigi Carlo Farini e Alfonso La Marmora
e il Parlamento produssero, con regi decreti e leggi,
un’enorme quantità di norme in tutti i campi.
L’esecutivo si valse di ministri di
riconosciuta competenza e dedizione, come Quintino
Sella, Filippo Cordova, già gran maestro del Grande
Oriente d'Italia, a contatto con Londra, e Marco
Minghetti. Insediati al governo ebbero per bussola
l’esempio degli antichi Romani: fare opere grandiose,
per unire gl’italiani e collegarli all’Europa quando il
“Mare Nostrum” era attraversato da flotte di molti Stati
non affacciati sul Mediterraneo, scorciatoia tra Mare
del Nord e Oceano Indiano tramite il Canale di Suez.
Quasi dieci anni dopo la nomina a ministro,
Stefano Jacini rievocò il punto di partenza e il cammino
rapidamente percorso. Era stato assegnato ai Lavori
pubblici per fare da «artefice principale dell’Unità
nazionale, destinato a soddisfare a breve scadenza a
tutti gli infiniti desideri che altre nazioni più ricche
e in tempi calmi, seppero realizzare nel corso di molti
anni. […] L’Italia, costituita con giovanile baldanza,
decretò una moltitudine di spese per lavori pubblici in
termini fissi di tempo, assai prossimi, che gli
emendamenti dei deputati più smaniosi di popolarità
riuscirono spesso anche a maggiormente abbreviare».
Nell’insieme le spese per opere pubbliche
tra il 1860 e il 1870 sommarono a un miliardo di lire
dell’epoca: una somma astronomica. Il 20 marzo 1865 la
prima legge nazionale per la loro realizzazione prese a
modello quella decretata il 20 novembre 1859 da
Rattazzi, che aveva governato con pieni poteri. Le
grandi opere furono finanziate per metà come spese
ordinarie e per metà come straordinarie. Alle
straordinarie si provvide con balzelli eccedenti le
imposte ordinarie. In secondo tempo le amministrazioni
pubbliche salirono coi ginocchi sanguinanti sui sentieri
pietrosi dei mutui con la Cassa Centrale Depositi e
Prestiti (ancora da inventare nel 1861) e dell’emissione
di titoli obbligazionari. Con 451 milioni di
stanziamenti le ferrovie fecero la parte del leone,
seguite da strade ordinarie (136), poste (172),
telegrafi (49), riattamento di porti (71), opere
idrauliche (42), civili (38) e bonifiche di terreni
paludosi (18 milioni).
All’immenso impegno dello Stato si aggiunse
quello di amministrazioni provinciali e comunali. Dalle
Alpi alla Sicilia l’Italia divenne un immenso cantiere
di opere progettate, avviate e in gran parte rapidamente
concluse. Il profitto stava nel beneficio che ne
nasceva. L’Italia di quegli anni fecondi e rapinosi non
ripassava la stessa opera. Ne inanellava una dopo
l’altra. Una ferrovia a fianco di una strada e di un
canale. Quando ogni opera di quel genere costava enorme
fatica fisica, la Giovane Italia costruì ponti, scavò
tunnel ed edificò palazzi pubblici, anteponendo
l'interesse generale all’ingordigia dei particolari. La
borghesia concorse all’unica rivoluzione d’Italia: a
vantaggio di classi che ancora non avevano forma perché
ancora non v’erano manifatture competitive a livello
europeo, né industria pesante, né concentrazione del
capitale. Non v’era alcun “proletariato in attesa di
rivoluzione”, perché esso non esisteva.
La rete ferroviaria
Il primo obiettivo della Nuova Italia fu costruire la
rete ferroviaria. Gli Stati preunitari si dotarono tardi
di strade ferrate e solo in un’ottica limitata:
Napoli-Portici (1839), Milano-Monza (1840),
Napoli-Capua, Pisa-Livorno (1844) e Padova-Venezia
(1846). Per ultima arrivò la Torino-Moncalieri (1848).
Camillo Cavour fu tra i primi a capire l’importanza
commerciale e militare delle ferrovie. Puntò su
Torino-Genova, Torino-Modane e Torino-Cuneo, che molti
volevano proseguisse subito sino a Nizza, ma dopo la sua
cessione alla Francia i lavori ristagnarono. La tratta,
geniale sotto il profilo ingegneristico, venne
completata solo nel 1928. Gravemente danneggiata sulla
fine della seconda guerra mondiale e riattata nel 1978 è
in attesa di ammodernamento.
Nel 1859 il regno di Sardegna (cioè
Piemonte, comprendente la Valle d'Aosta, Savoia, Liguria
e il Nizzardo) aveva 800 km di linee sui 1758
dell’intera Italia. Seguivano il Lombardo-Veneto con
circa 500 e la Toscana con 256. Gli altri Stati avevano
briciole: Pio IX e Ferdinando II di Borbone ne contavano
circa cento ciascuno. Quando Garibaldi sbarcò a Marsala,
in Sicilia non vi era alcun tronco ferroviario. Lo
stesso valeva per Puglie, Lucania e Abruzzi. Nel
1860-1861 nell’Italia centro-meridionale accorsero
progettisti e fiduciari di grandi investitori italiani e
stranieri. Nel maggio 1865, dopo anni di dure gare tra
diversi gruppi d’interesse, l’Italia fu spartita da
cinque compagnie ferroviarie. Lo Stato rinunciò a
ergersi a protagonista esclusivo della titanica impresa.
Concessioni e convenzioni con gl’interessi privati
fecero affluire dall’estero ingenti capitali, garantiti
dal governo. Nel 1862 il regno d’Italia stipulò con la
Francia l’apertura del tunnel del Cenisio. Dal 1863
alcune tratte vennero completate in Sicilia, Sardegna e
nell’Italia centrale. Napoli fu collegata con Roma,
ancora del papa. Alla fine del 1865 erano in esercizio
3.396 chilometri di strade ferrate; e altri 3.281 erano
in costruzione. L’ambizioso obiettivo di 8.000
chilometri di linee in esercizio immaginato all’indomani
dell’Unità rimaneva lontano, ma la strada era tracciata.
Il primo decennio dell’unificazione venne
festeggiato con un evento d’importanza europea:
l’apertura del tunnel del Cenisio, un traguardo
scientifico e tecnologico ammirato da tutta Europa. Fu
anche la dimostrazione della capacità del “lavoro
italiano”. Il traforo fu aperto grazie alla perforatrice
pneumatica. Un suo modello era stato inventato
dall’ingegnere milanese Giovanni Battista Piatti. Il suo
progetto però non fu preso in considerazione dalla
commissione brevetti del regno di Sardegna (1853).
Curiosamente, due commissari, Sebastiano Grandis e
Germano Sommeiller, subito dopo presentarono
un’ideazione propria, in collaborazione con Severino
Grattoni, pressoché identica a quella di Piatti, che
protestò ma fu ignorato. D’altronde era italiano, sì, ma
anche… straniero, perché il Ticino ancora divideva il
Piemonte dal Lombardo-Veneto. I lavori proseguirono
alacremente. Come hanno scritto Marco Albera e Giorgio
Cavallo, l’ultimo diaframma della galleria di 12.849
chilometri venne abbattuto il 26 settembre 1870, sei
giorni dopo la “breccia di Porta Pia”. Roma e Parigi
divennero più vicine proprio al crollo di Napoleone III,
che tanto aveva fatto per avvicinarle. I due tronchi del
traforo si congiunsero con soli trenta centimetri di
scarto rispetto al fuoco ottimale previsto: una
precisione per l’epoca portentosa.
In pochi anni quella linea fu utilizzata da
25.000.000 di viaggiatori, corrispondenti all’intera
popolazione del regno. Le province prive di tronchi
ferroviari si erano ridotte dalle 34 del 1861 a sole 9,
rimaste ai margini per la pressoché totale assenza di
produzioni e scambi indispensabili per incentivare
investimenti di base e alti costi di gestione. Malgrado
gli ostacoli opposti dai caratteri del territorio la
rete ferrata stava unificando l’Italia con ripercussioni
sul commercio interno e internazionale, rapidi benefici
e maggior sicurezza sia per l’ordine interno sia per la
difesa contro possibili aggressioni dall’estero.
Le strade
Alla nascita la Nuova Italia si trovò povera di strade
di grande comunicazione. Ogni Stato aveva principalmente
curato arterie preesistenti. In molte valli piemontesi
le vie si fermavano molto prima dei valichi per non
agevolare eventuali invasioni francesi. Perciò gli
abitanti erano costretti a guardare solo verso la
pianura. Il Regno di Napoli si valeva delle strade
consolari romane, riattate nel tempo, e di poche altre
arterie recenti. Le città costiere della Sicilia
comunicavano per mare più che per terra. Altrettanto
valeva per la Calabria, i cui prodotti venivano portati
a Napoli o altrove su imbarcazioni che navigavano sotto
costa.
Dopo l’unità le strade furono classificate
in nazionali, provinciali, comunali e vicinali. Nel 1863
si contavano 22.500 chilometri di strade nazionali e
provinciali, per un terzo nelle Due Sicilie (5.526 nel
regno di Napoli, 2.000 in Sicilia), contro i 3.500 di
Piemonte e Liguria, i 2.500 della Lombardia, i 3.300
della Toscana. Per unificare la rete stradale lo Stato
dovette razionalizzare. Le decisioni dei governi non
furono né capricciose né punitive. Dovevano salvare
l’unità faticosamente raggiunta. Per farlo bisognava
raggiungere il pareggio tra spese (tante) ed entrate
(poche). Deliberare e avviare una nuova opera pubblica
comportava il rinvio o la negazione di decine di altre,
tutte in attesa, tutte necessarie. L’arretratezza e il
sottosviluppo non vennero causate dall’unificazione.
Erano il portato di secoli, una realtà che alcuni
governi preunitari avevano considerato ineluttabile,
come terremoti ed epidemie.
Nel 1865 le strade nazionali di plaghe
raggiunte dalla costosissima rete ferroviaria vennero
trasferite alle province. Lo Stato assunse tuttavia
l’onere delle strade principali della Sicilia e della
Sardegna, in gravissime condizioni. Nel 1869 si accollò
le strade provinciali d’interesse generale classificate
di 1^ e 2^ categoria. Il governo fece insomma quanto era
in suo potere. E chiamò gli enti locali a vedere
l’Italia al di là dei confini municipali, in un’ottica
nazionale e in una visione europea della storia. Per
facilitare manutenzione e varianti migliorative delle
vie esistenti e averne di nuove lo Stato autorizzò
province e comuni a esigere una sovrimposta sui beni
fondiari, gli unici accertabili. La riorganizzazione
della rete stradale gravò sui proprietari terrieri, che
erano in massima parte piccoli e medi. Nel 1864 essi
furono gravati dal conguaglio provvisorio dell’imposta
fondiaria, gravosissima tassa “una tantum” per far
quadrare i conti di uno Stato che nel frattempo si trovò
a dover traslocare la capitale da Torino a Firenze.
Nell’aprile 1868 il governo presieduto dal
generale Luigi Federico Menabrea, ingegnere di talento,
deliberò di costruire le strade che le amministrazioni
locali non allestivano malgrado le disposizioni
favorevoli dello Stato, ma ne fece carico agli
inadempienti. Antepose l’interesse generale permanente
ai capricci di camarille locali, come nei secoli avevano
fatto i Savoia (e non essi soli) per passare dal
feudalesimo allo Stato moderno. Però in troppi casi gli
enti locali avevano dichiarato d’interesse nazionale le
strade locali contando di scaricarne l’onere sullo
Stato. Si registrò insomma una gara di egoismi e miopie.
L’Italia doveva scegliere tra unificazione effettiva e
orto di casa.
Poste...
Un altro fondamentale concorso all’unificazione venne
dalla riorganizzazione delle poste e del telegrafo. Da
tempo vigevano convenzioni tra gli Stati preunitari, ma
ciascuno di essi, sia per ragioni economiche sia di
sicurezza, ne deteneva il controllo, a scapito della
celerità e dell’efficienza. Dal 1860 il servizio postale
fu riservato allo Stato che lo orchestrò con una
direzione generale del ministero dei Lavori pubblici. Il
5 maggio 1862 fu emanata la prima legge organica,
modificata il 4 dicembre 1864. Essa fissò le tariffe: 15
(poi 20) centesimi per il trasporto e la consegna di
lettere di peso sino a dieci grammi affrancate in
partenza e 30 per quelle a carico del destinatario; un
solo centesimo per il trasporto di quotidiani e
periodici sino a 40 grammi, 2 centesimi per le stampe
sino a 40 grammi, crescenti di altri due per ogni altri
4° o frazioni di 4°.
L’opportunità di usare la tariffa più economica
incrementò la produzione della carta finissima e
resistente sulla quale vennero scritte milioni di
lettere con inchiostri dai colori ancora vividi a
distanza di un secolo e mezzo.
Particolarmente generosa fu la tariffa per
i quotidiani, indotti a usare piccolo formato, due o al
massimo quattro facciate e carta tanto leggera quanto
adatta a essere impressa con le tecniche tipografiche
dell’epoca. L’organizzazione nazionale del servizio
postale dette frutti positivi. Nel 1870 si contavano
quasi 3.000 uffici postali. I giornali e periodici
distribuiti dalla posta crebbero da 40 milioni di copie
annue a 68 milioni. Le lettere spedite nel regno
superarono i 100 milioni nel 1872. Quelle non affrancate
in partenza scesero a un decimo del totale mentre nel
1862 superavano il 50% . L’addebito al destinatario era
un segno di incertezza e spesso di povertà del mittente.
Gli uffici postali non si limitarono a raccogliere e a
distribuire la corrispondenza, i periodici, opere
enciclopediche a dispense, fondamentali per la
promozione dell’istruzione anche nei centri minori e in
borgate rurali, ma svolsero funzioni bancarie. Anzitutto
con i vaglia interni e internazionali, che si
affermarono come la forma più rapida e sicura di
trasmissione di danaro a distanza.
Dal 1870 Quintino Sella, ministro delle
Finanze, propose l’introduzione in Italia del risparmio
postale, che dava ottimi frutti in altri Paesi, a
cominciare dalla Gran Bretagna ove era stato ideato da
Sykes e promosso da Gladstone. Il progetto incontrò
ostacoli perché il risparmio postale avrebbe conteso il
terreno alle altre forme di risparmio all’epoca
prevalenti. Il ministro raggiunse lo scopo nel 1875. Gli
uffici postali vennero abilitati alla raccolta di danaro
su libretti postali nominativi. Nacque così la rete più
capillare e discreta di raccolta dei risparmi anche nei
luoghi più remoti del regno, ove per comprensibili
motivi di bilancio nessuna banca privata e neppure le
casse di risparmio o le banche popolari avrebbero aperto
sedi, filiali o sportelli per il divario tra costi e
benefici. I versamenti su libretti postali furono
remunerati con elevato tasso d’interesse a vantaggio dei
cittadini, incoraggiati ad incrementare i depositi. Il
risparmio postale segnò un profondo mutamento dei
costumi in plaghe che per secoli avevano tesaurizzato in
ripostigli reconditi le poche monete di casa. Grazie
alla solerzia degli impiegati esso raggiunse ceti
altrimenti destinati a rimanere ai margini
dell’organizzazione bancaria.
All’epoca si diffusero innumerevoli titoli
monetari artificiosi: i “buoni” e altre forme improprie
di moneta che aumentarono il circolante al di fuori del
controllo della vigilanza. Il risparmio postale infine,
e con esso gli uffici che lo organizzarono, ebbe ruolo
di spicco a sostegno della Cassa Centrale Depositi e
Prestiti che fu il maggior volano dei grandi
investimenti per la realizzazione di opere pubbliche
dopo l’Unità.
Il concetto di una cassa di deposito per
affrontare esigenze pubbliche straordinarie era antica.
Risaliva almeno al 1171 quando la Repubblica di Venezia
ricorse alla Zecca di San Marco che concentrava depositi
pubblici e risparmi privati. Nel regno sardo la Cassa di
depositi e di anticipazioni di fondi per i lavori
pubblici fu varata da Carlo Alberto nel 1840. Migliorata
e potenziata, fece da modello alla Cassa depositi e
prestiti organizzata in Casse compartimentali operanti
di concerto con le Direzioni generali del debito
pubblico di Firenze, Milano, Napoli, Palermo e Torino,
istituite nel 1863 e poi unificate nella Cassa Centrale
Depositi e Prestiti (11 agosto 1870), fortemente voluta
da Quintino Sella. Gli uffici postali, infine, ebbero il
monopolio della vendita dei francobolli, ascesi a oltre
cento milioni di pezzi un decennio dopo l’unificazione
nazionale.
… e Telegrafi
Dalle origini il telegrafo fu controllato dai governi.
Il primo impianto fu la linea Pisa-Livorno.
Successivamente si diffuse nel Lombardo-Veneto e nei
Ducati padani (1850-52), nello Stato pontificio e nelle
Due Sicilie (1852-57). Il regno sardo partì nel 1851e si
portò subito avanti. Nel 1854 venne calato il primo cavo
sottomarino per collegare La Spezia con la Corsica e la
Sardegna. La Nuova Italia contò 12.000 chilometri di
fili e 250 uffici, che rendevano tre quarti delle spese
d’esercizio: un servizio pubblico tra i più remunerativi
del regno. Dopo vari insuccessi dovuti alle correnti
marine, nel 1863 vennero definitivamente collegate alla
terraferma Sardegna e Sicilia. Le tariffe erano elevate.
Il telegramma più breve da Torino a Napoli costava 20
lire, quasi il salario mensile di un bracciante. La
drastica riduzione delle tariffe (da una a sei lire,
secondo lunghezza del testo e distanza) incoraggiò la
comunicazione telegrafica. Essa si diffuse non solo per
comunicazioni commerciali ma anche per eventi domestici.
Inviare e ricevere telegrammi divenne sinonimo di
benessere e di prestigio sociale e, al tempo stesso,
indusse a brevità e a riservatezza, anche perché prima
di essere consegnati i contenuti erano letti dagli
impiegati e costituivano oggetto di bisbigli.
Nel primo decennio il Regno dovette
affrontare prove durissime e spese ingenti per la
sicurezza delle frontiere, per le pesanti conseguenze
della terza guerra d'indipendenza, che fruttò Venezia
(1866), e dell’annessione di Roma (1870), per
fronteggiare ed estinguere il brigantaggio, per
bonificare le vaste aree arretrate, la combattere la
criminalità (dalla Sardegna alla Liguria e alla
Romagna). In quegli stessi anni l’Italia fu un grande
cantiere. Si registrarono molti casi di affarismo
spregiudicato. Nell’insieme, tuttavia, il fervore
patriottico prevalse. In un paio di lustri la Nuova
Italia mise a buon frutto un ventennio di operosità
scientifica e di quelle patrie battaglie che rimasero
punto di riferimento ideale della dirigenza politica e
attirarono all’Italia la simpatia di imprenditori e di
studiosi stranieri, stupiti che essa non fosse affatto
la “terra dei morti”, come lugubremente detta da
Alphonse De Lamartine.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Il mosaico di Stati staterelli in
Italia prima del 1860. La coincidenza tra confini
geografici e politici era stata ideata dal mitico
“Patto di Ausonia” che ispirò società segrete e moti
costituzionali costati la condanna a morte e al
carcere duro di tanti patrioti dal 1817 al 1870: tutti
convergenti nell'obiettivo di un'Italia libera nella
fratellanza dei popoli di tutti i continenti. Ne fu
suprema espressione Giuseppe Garibaldi, unico italiano
ricordato quale “Eroe dei due mondi” e “primo massone
d'Italia”.
LA “LISTA” PER LA MODERNA CACCIA ALLE STREGHE Editoriale
di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il
Giornale del Piemonte e della
Liguria” di domenica 26 gennaio
2025 pagg.
1 e 7.
La pesca a strascico
“C'è un giudice a Strasburgo” è il titolo del nuovo
libro di Stefano Bisi, per due mandati (2014-2024) gran
maestro del Grande Oriente d'Italia. Di che cosa parla?
Semplice e chiaro. Nel lontano 2017 Rosy Bindi,
presidente della Commissione parlamentare di indagine
sulle mafie e altre associazioni criminali si convinse
che almeno in alcune regioni d'Italia, come la Sicilia e
la Calabria, le logge massoniche fossero cassa di
compensazione fra massoni e organizzazioni
malavitose dai molteplici nomi (Cosa Nostra, Camorra,
‘Ndrangheta…). Altrettanto plurime erano e sono le
denominazioni distintive delle Comunità dei Liberi
Muratori. Per venirne in chiaro, decise Bindi, bisognava
confrontare le liste degli affiliati alle logge con i
nomi degli inquisiti per mafia. Questi ultimi, per la
verità, vanno distinti tra quanti risultano sicuramente
colpevoli di reato di associazione mafiosa (id est:
criminale) sulla base di indagini e di sentenze passate
in giudicato; quanti, invece, risultano colpevoli di
fiancheggiamento o “concorso esterno” con mafiosi; e,
infine, chi viene “indicato” come sospetto di contatto
continuativo o circoscritto e magari del tutto casuale e
inconsapevole con persona indagata per reati di mafia.
La consistenza del reato di “concorso
esterno” è stato ed è oggetto di molte riserve da parte
dei giureconsulti, per la vaghezza della sua sostanza.
Ancor più lo è l'addebito di collusione con mafiosi e
mafie. Può essere frutto di supposizione priva di
elementi probanti, di “vendette trasversali” tra
appartenenti a cosche rivali o talvolta (come spesso
accertato) di “pentiti” in cerca di accreditamenti e
corrivi, di propria scelta ovvero indotti da altri, a
“narrare” anche ciò che non sanno. Non di rado la loro
“testimonianza” è risultata infondata a seguito di
indagini accurate e di sentenze passate in giudicato.
In sintesi, quando iniziò a occuparsi di
collusione tra mafie e logge, la Commissione
parlamentare d'inchiesta non partiva da una certezza
suffragata da indizi di reato, validate da indagini e da
rinvii a giudizio e da sentenze nelle quali si era
concluso che il cittadino “X” aveva avuto rapporti con
mafiosi in quanto massone, cioè a nome della sua loggia
o della Comunità massonica di appartenenza, e che il
mafioso “Y” aveva instaurato rapporti criminosi con il
massone “X” non come persona singola ma quale primo
anello di una catena che, salendo “per li rami”, gli
avrebbe consentito di coinvolgere nelle sue condotte
criminose la sua e molte altre logge e infine i vertici
nazionali e persino internazionali delle logge e dei
riti di appartenenza dei singoli massoni.
La presidente Bindi, assecondata dai
commissari, decise dunque di recidere il nodo gordiano:
“avere le liste”. Tutte.
Estate 2016: quando i grandi maestri furono auditi...
Passo preliminare furono le audizioni dei grandi maestri
(o presidenti che dir si voglia) di quattro Comunità
massoniche italiane: il Grande Oriente d'Italia (GOI),
la più antica e numerosa, con sede in Roma, a Villa
Medici (edificata per il generale Giacomo Medici,
garibaldino, poi aiutante di campo di Vittorio Emanuele
II, uomo d'ordine); la Gran Loggia d'Italia degli
antichi e liberi muratori di Rito scozzese antico e
accettato, con sede in alcuni ambienti di Palazzo
Vitelleschi, prospiciente l'area sacra di Torre
Argentina; la Gran Loggia Regolare d'Italia (nata su
impulso della Gran Loggia Unita d'Inghilterra, da molti
ritenuta depositaria di legittimità e regolarità); la
Serenissima Gran Loggia scozzese. La Commissione mise
nel mirino quattro delle numerose (un centinaio o assai
più?) organizzazioni massoniche (associazioni, ordini,
fratellanze...) esistenti in Italia con le denominazioni
più varie e spesso ripetitive, ma bene o male tutte
riferite a Orienti, Grandi logge e Riti. Meglio sarebbe
se il Parlamento varasse una legge analoga a quella
esistente in Francia dal 1901, a tutela del nome delle
associazioni, con quanto ne discende a beneficio degli
associati, ai quali, “sic stantibus rebus”, può accadere
di essere dipinti come criminali perché un magistrato o
persino una legge giudica colpevole l'associazione di
cui fa parte. L'indagine, condotta dalla Commissione con
i poteri di corte giudiziaria, si restrinse ad alcune
“sigle” più sospette di altre perché nelle regioni più
“chiacchierate” risultavano maggiormente presenti loro
ramificazioni
Chiamati “ad audiendum verbum” dinnanzi
alla Commissione nella rovente estate del 2016 i “capi”
delle quattro Comunità massoniche, ognuno a modo proprio
come si evince dalle audizioni (registrate e messe in
rete da Radioradicale, che svolge benemerito servizio
pubblico), difese i propri affiliati e respinse con
sdegno l'addebito di avere mai propiziato rapporti
malavitosi tra logge, singoli iniziati e organizzazioni
criminali.
Richiesto di esibire le liste degli
affiliati delle regioni nel mirino della presidente
Bindi, Stefano Bisi, gran maestro del GOI, il 3 agosto
2016 rifiutò seccamente in nome del diritto alla
riservatezza (altra cosa dal “segreto”), radicato nella
Costituzione della Repubblica che garantisce il diritto
di partecipare ad associazioni che non cospirano contro
la sicurezza dello Stato. Come appunto la Massoneria, i
cui iniziati si proclamano fedeli alla Carta
costituzionale, tra le più avanzate nel mondo in difesa
dei diritti “non negoziabili”, come più volte spiegato
da Marcello Pera e da tanti costituzionalisti.
...e perquisiti (1 marzo 2017)
Sentendosi sfidata, la presidente Bindi decise il blitz.
Il 1° marzo 2017 mandò una missione speciale del Scico
(sezione particolare della Guardia di finanza) a
prelevare da Villa Medici tutto il “materiale” che
ritenesse indispensabile per documentare la sospetta
collusione tra GOI e organizzazioni mafiose.
L'ispezione, come ricorda il gran maestro Bisi in “C'è
un giudice a Strasburgo”, durò quattordici ore
ininterrotte, dal pomeriggio alla mattina seguente. Fu
arcigna e minuziosa. Tutte le persone presenti nella
Villa furono identificate, ogni vano fu verificato.
Vennero esplorati i recessi più improbabili, perché,
come recita il brocardo, il diavolo si nasconde nei
dettagli, e magari poteva essere celato nelle colonne J
e B poste nella Biblioteca intitolata al giurista Paolo
Ungari, nel giardino, ai piedi o tra le fronde dei pochi
alberi che lo ornano e che furono pertanto a loro volta
vagliati dalle radici alla chioma.
Terminata l'ispezione, completa di
asportazione della documentazione ritenuta utile
all'indagine, il Grande Oriente protestò per l'abuso
perpetrato a suo danno, nell'indifferenza dei tanti
“media” solitamente corrivi a schierarsi a fianco di chi
subisce iniquamente torti. Per capire il clima bastò
osservare che la notizia della perquisizione venne
diramata alle agenzie di stampa prima ancora che essa
avesse inizio. “Qualcuno” aveva fretta di additare
all'opinione pubblica “il Mostro” prima ancora di avere
qualche prova a suo carico o forse nel timore di non
uscisse un ragno dal buco al termine di un’indagine
basata sul capovolgimento dell'onere della prova: ti
accuso, ma non tocca a me provare che sei colpevole, sei
tu a dover dimostrare la tua innocenza. Diversamente sei
reo, anche se non confesso.
I dubbi sulla legittimità di quell'azione...
Sorda a ogni appello al confronto sul terreno dei fatti,
nella propria Relazione conclusiva la Commissione,
all'occaso della Legislatura, asserì che la massoneria è
“sostanzialmente segreta”: un’affermazione
linguisticamente incomprensibile e giuridicamente
irrilevante. Le cose sono o non sono. Orbene,
“massoneria” è un sostantivo comune di tante “cose”:
polisemico, inflazionato e quindi labile. Anche dal suo
avvento in veste “moderna” sull'inizio del Settecento,
la sua “sostanza” era e rimane indefinita. È esperienza
individuale all'interno della loggia, che a sua volta è
uno spazio illimitato. La volta del Tempio non è
“chiusa” come quello delle cattedrali e delle moschee: è
il cielo stellato. Lì la fratellanza va oltre statuti
associativi e regolamenti. Essa “è”. “E-mozione”. Ognuno
esce da sé e si con-lega alla “catena di unione”. Ne
scaturisce l'eggregore. Lì sono l'impercettibile e
l'ineffabile che gli scrivani dei tribunali inquisitori
spacciano per “segreto”, da reprimere, condannare ed
espellere dalla società fondata su massificazione e
uniformità. Lo precisa Alfio Manoli in un corposo libro
sul Rito scozzese antico e accettato, recentemente
pubblicato da Giuseppe Laterza.
Ma come far comprendere i rudimenti
dell'Arte Reale a chi aveva pregiudizi che giungevano da
chissà quali letture infantili? Non per caso, come
ricorda Bisi, la Commissaria non esitò a evocare quale
precedente, ma neppure abbastanza rigoroso, la legge
fascista che il 26 novembre 1925 mise le comunità
massoniche italiane (Grande Oriente e Serenissima Gran
Loggia) nella condizione di auto-sciogliersi per
scongiurare la persecuzione dei propri associati,
duramente colpiti nella fiorentina “Notte di San
Bartolomeo” del 3 novembre precedente, costata la vita a
tre massoni assassinati perché tali.
...e il ricorso alla Corte di Strasburgo
Chiesta invano la restituzione dei “reperti” asportati
durante la perquisizione e la distruzione delle liste,
come altra volta in passato, a fronte dell'introduzione
di “norme” discriminatorie ai danni dei massoni
italiani, il GOI guidato da Bisi ricorse alla Corte
europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo valendosi di
giuristi preparati e tenaci. Dopo anni, ha avuto
ragione: la Commissione d'inchiesta andò oltre il limite
delle esigenze d'indagine.
Nel suo nuovo libro, che fa seguito a
“Massofobia. L'Antimafia dell'Inquisizione” (ed.
Tipheret), Bisi ricorda altre rivendicazioni da anni
ribadite dal Grande Oriente d'Italia: in specie i 140
metri quadrati di Palazzo Giustiniani promessi più di
trent'anni addietro dal “lodo Giovanni Spadolini”:
pochi, ma forse utili per un “Museo Massonico Virtuale”,
capace di documentare la plurisecolare connessione tra
logge e storia generale d'Italia dall'Illuminismo al
Risorgimento, dall'unità alla Grande Guerra, dalla
Costituzione ai giorni nostri. Da una pur minima
“emittente”, con una finestra affacciata su Piazza della
Rotonda, di fronte al Pantheon, tomba di Raffaello
Sanzio e dei due primi Re d'Italia, sarebbe possibile
ricordare i tanti patrioti che nelle logge cospirarono
per l'unità nazionale e la fratellanza dei popoli
(basti, tra i molti, il nome di Giuseppe Garibaldi) e ne
consolidarono le basi sociali ed economiche, come negli
Anni Trenta-Quaranta del Novecento fecero Alberto
Beneduce, già oratore del GOI e da Mussolini voluto
presidente dell'Istituto per la Ricostruzione
Industriale e riformatore della Banca d'Italia, e
Domenico Maiocco, socialista, antifascista e massone,
promotore della Massoneria Unificata, riconosciuta dalla
Giurisdizione americana del Rito scozzese antico e
accettato quale volano dell'Italia finalmente libera da
nazionalismi, sovranismi e altri feticci del passato
remoto.
Persecuzioni ricorrenti, vane ma devastanti
In un'ottica storiografica di lungo periodo e di vasto
spettro, la deplorazione pronunciata dall'Alta Corte di
Strasburgo per i diritti dell'uomo nei confronti
dell’arbitraria confisca delle liste di massoni voluta
da Rosy Bindi investe anche le indagini che, come
prevedibile, nel corso del tempo non hanno affatto
provato la fantasiosa collusione mafia-massoneria ma
hanno danneggiato in misura grave e spesso irrimediabile
molte persone i cui nomi sono stati esposti al pubblico
ludibrio. Era accaduto con l'“affare P2” e poi con
l'inchiesta condotta dal procuratore Agostino Cordova.
In entrambi quei casi i “media” per anni gettarono in
pasto a un'opinione pubblica manipolata e prevenuta
elenchi interminabili di nomi di persone spacciate per
colpevoli di chissà quali nefandezze solo perché
massoni. Ci vollero quindici anni prima che una Corte
d'Assise dichiarasse in via definitiva che i “piduisti”
non solo non avevano mai progettato alcun golpe militare
ma non avevano neppure perseguito un progetto politico
di destabilizzazione delle istituzioni. Però, va notato,
per arrivare a quella sentenza passarono tre lustri. E
ciò malgrado, qualcuno affermò e altri ancora ripetono
che la P2 stava alla Massoneria come le Brigate Rosse al
Partito comunista italiano: un paragone del tutto
infondato. Basti ricordare che la famosa o famigerata
loggia “Propaganda massonica” non ha mai tenuto alcuna
assemblea, non ha mai deliberato alcun programma e che
il suo maestro venerabile mandava lettere e circolari
per posta ordinaria, come documentano decine di volumi
degli Atti della Commissione d'Inchiesta. Al generale
Carlo Alberto dalla Chiesa Gelli scriveva indirizzando
le lettere alla Caserma “Bergia” di Torino: in chiaro,
non in caratteri criptici. Qualunque portalettere o
furiere avrebbe potuto leggerle prima che arrivassero
nelle mani del destinatario. Non sembra lo stile di due
cospiratori...
2025...1925
La Corte europea di Strasburgo si è fatta sentire alla
vigilia di questo 2025 che, per chi ha buona memoria,
non è un anno qualunque, bensì il centenario della
“distruzione del Tempio”, cioè del forzato
autoscioglimento delle maggiori comunità massoniche
italiane: il GOI e la Gran Loggia. Ciascuna delle due,
aggiungiamo, aveva all'estero una rete di un centinaio
di logge, non solo nelle colonie dell'Italia ma anche in
Marocco, Tunisia, Egitto, Turchia e nelle Americhe. Ve
n'era una persino in Cina. Erano altrettante antenne di
un’italianità poliglotta che, a volte all'estero da
generazioni, era rimasta legata alla terra d'origine e
si affermava con i propri meriti, a confronto con quelli
delle altre genti europee approdate nei vari continenti
e lì in rapporto con civiltà, credenze, costumi locali.
Erano parte di un universo dialogante al di là delle
differenze di razza e di religione, come già era
l'Italia tra Otto e Novecento.
Per l’incipiente regime mussoliniano,
mirante a imporre il pensiero unico, in quel 1925 fu
necessario demolire le comunità massoniche per
rivendicare il monopolio dell'“idea di Italia”, nata da
tutt'altra cultura, il liberalismo risorgimentale: un'
Italia europea, già in cerca delle “civiltà sepolte”.
Per i grandi e piccoli gerarchi del regime era
importante impadronirsi delle “liste”, per tenere
d'occhio i massoni ed espellerli dalla vita pubblica, a
cominciare da quella culturale. In un mondo fondato sul
sospetto, sull'incubo del complotto e del ricatto era
fondamentale disporre degli elenchi dei massoni. In “C'è
un giudice a Strasburgo” Bisi ricorda come venne salvato
il collare della gran maestranza. Altrettanto
interessante sarà narrare come vennero sottratti alla
confisca i volumi della “Matricola” generale del Grande
Oriente d'Italia e i “Registri” degli iniziati alla
Serenissima Gran Loggia, documenti base per capire il
massonismo italiano. Esso non si riduce a tabelle
statistiche sulle condizioni professionali degli
affiliati o sulle loro classi d'età: è “categoria dello
spirito”.
Di quelle liste avevano bisogno sia il
massonofago Mussolini – che nel 1938 schernì Italo Balbo
quale “porco democratico che faceva l'oratore nella
loggia Savonarola di Ferrara” perché non condivideva le
leggi razziali – sia e soprattutto i mastini del regime.
Impugnando “la lista”, costoro avrebbero sparato a zero
contro gli affiliati, per esempio precludendo loro la
direzione di sezioni particolarmente sensibili
dell’“Enciclopedia italiana”. Proprio perché non si
avevano “pove”a loro carico vi poterono operare Angelo
Sraffa (Diritto pubblico), padre di Piero, che portò in
salvo i “Quaderni del carcere” di Antonio Gramsci; di
Enrico Fermi (Fisica), iniziato alla Gran Loggia; e
Raffaele Pettazzoni (Storia delle religioni). Altri
“fratelli”, come Arnaldo Momigliano, uno per tanti,
erano nella Redazione. Aggiungeremo l'elenco dei tanti
futuri antifascisti celeberrimi che collaborarono con
“voci” alla costruzione del maggior monumento culturale
italiano qual era e rimane l'“Enciclopedia Treccani”.
Tra i molti bastino i nomi di Arturo Carlo Jemolo e
Piero Calamandrei, già e poi vicini all'universo
massonico. Analogo discorso andrà fatto per
l'Enciclopedia pubblicata dalla Utet di Torino, antico
presidio massonico.
Dirigenza culturale e Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo
Il punto è che, come la “dirigenza” burocratica (vertici
dell'amministrazione dello Stato e degli “enti
autarchici territoriali, cioè province e comuni),
neppure quella “culturale” si improvvisa. Vale per le
discipline cosiddette scientifiche (matematica, fisica,
chimica, medicina, ingegneria...), come per le
economiche e per quelle cosiddette “umanistiche”. Il
filologo, il linguista, lo storico non nascono dai
“manipoli”, dallo squadrismo, dal fanatismo. Sono
l'opposto. Crescono dallo studio. Da apprendisti, i loro
cultori imparano in silenzio; da compagni d’arte,
dialogano; poi entrano nelle maestranze, che sono
cenacoli di pari grado, intenti a dirozzare le pietre e
a costruire la civiltà degli uomini liberi, fondata su
norme sempre più universali, condivise dagli Stati
attraverso dichiarazioni e convenzioni vincolanti.
Il discrimine sono la Dichiarazione
universale dei diritti dell'uomo del 10 dicembre 1948 e
tutte le “carte” che ne sono derivate. Esse sono il
solco tra un prima e un poi. Chiudere gli occhi dinnanzi
a chi li calpesti significa mettersi a fianco dei loro
nemici e compiere un balzo all'indietro, dalla civiltà
dei diritti ai regimi dei prepotenti. Bene, dunque, che
ci sia ancora un giudice a Strasburgo e che l'Europa
continui a credere in se stessa, “educata” qual è dai
tanti crimini che ha compiuto nei secoli su di sé se e
su popoli di altri continenti. Ha fatto il suo “esame di
coscienza”, ha confessato i propri errori, ha espiato.
Ora ha diritto di essere se stessa: non un fastello di
merci e un groviglio di tasse per guerriglie tra gnomi
ma un patrimonio di civiltà divenuta Storia.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA. Nella foto una terrificante
rappresentazione paleo-medievale del Demonio. Dal
volume “San Fiorenzo in Bastia Mondovì”, a cura
di Andreina Griseri e Geronimo Raineri, ora in
“Studi Monregalesi”, a. XXIX, 2024, n. 2, tavola fuori
testo. Nel passato anche qualche papa definì le logge
“sinagoghe di Satana”, come oggi ripetono regimi
oscurantisti e intolleranti che impongono la lettura
dei “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”, il
libraccio che sciorina i presunti complotti
demo-pluto-giudaico-massonici e fu “di moda” in Italia
dal 1920 al 1945. La vittoria del gran maestro Stefano Bisi dinanzi
alla Corte europea dei diritti dell'uomo, con sede a
Strasburgo, è merito suo, degli avvocati che lo hanno
assistito (Vincenzo Zeno-Zenkovic, Raffaele D'Ottavio
e Fabio Federico) e del Grande Oriente d'Italia; ma lo
è anche di tutti gli “uomini liberi e di buoni
costumi”, quale ne sia l'appartenenza, perché confuta
la prepotenza di Pubblici Poteri che per colpire oggi
i massoni, domani chissà chi altri, vanno al di là
della legge e diffondono una visione distorta della
realtà.
CAVALCARE
LA TIGRE
MA SARÀ MANSUETA? Editoriale
di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il
Giornale del Piemonte e della
Liguria” di domenica 19 gennaio
2025 pagg.
1 e 7.
Si volta il foglio, si vede la
guerra...
Domani, 20 gennaio 2025, si apre a Davos-Kloster il
ventesimo World Economic Forum, uno tra gli appuntamenti
più attesi per fare il punto sulla “salute” dell'umanità
brulicante sul pianeta e cercar di prevedere il futuro
per almeno un decennio: un periodo ragionevole oltre il
quale si passa da stime attendibili a meri
vagheggiamenti. Il documento di lavoro approntato
nell'autunno 2024 per i quattro giorni del Forum,
elaborato sulla scorta di 900 interviste a studiosi
delle crisi, è improntato a realismo. Esso prospetta che
i due lustri prossimi saranno dominati da conflitti
armati tra diversi Stati. Tra le decine di guerre “a
bassa intensità” già in corso, oggi, ai margini
dell'attenzione concentrata su quelle tra Federazione
russa e Ucraina e tra Israele e palestinesi, molte, come
vulcani dormienti, potrebbero esplodere a breve con
forza distruttiva incontrollabile.
Ma le guerre sono causa o effetto di crisi
oppure grani di un'unica corona di spine che avvolge il
mondo? Alla loro base si rincorrono tensioni sociali
crescenti all'interno dei singoli Stati e tra grandi
aree, acuite dalla percezione della fine delle risorse e
quindi dalle gare tra i governi per accaparrarsene a
vantaggio della stabilità interna e, al tempo stesso,
dalla loro pulsione verso spazi più sicuri e contro chi
bussa alla porta per avere la sua parte del benessere
oggi disponibile.
Nel 1941, durante la seconda guerra
mondiale, ormai ottant'anni addietro, alle antiche
libertà di pensiero, religione e dai bisogni il
presidente degli Stati Uniti d'America Franklin D.
Roosevelt aggiunse quella dalla “paura” (delle guerre,
delle malattie...). Gli uomini, si affermò, hanno
diritto alla serenità (persino alla “felicità” evocata
dalla Dichiarazione di Indipendenza del 4 luglio 1776) ,
a guardare con fiducia al futuro. Altrimenti essi
diffidano, si arroccano e si preparano a difendere con
le unghie e coi denti le proprie aiuole tramite lo Stato
e, se occorre, contro lo Stato. La mancanza di certezze,
insomma, fa regredire all’“homo homini lupus”.
Mentre le alleanze difensive sino a poco
tempo addietro costituivano i pilastri portanti della
sicurezza (era il caso della Nato), le previsioni danno
per scontato che i prossimi anni registreranno l'aumento
di tensioni e di probabili conflitti armati tra medie e
piccole “potenze”, in assenza di poteri regolamentari
sovranazionali, un tempo efficaci, oggi irrisi. Il 2024
ha certificato l'assoluta irrilevanza
dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, il cui
segretario generale Guterres ha predicato al vento
mentre il Consiglio di Sicurezza è stato paralizzato dai
veti incrociati di potenze direttamente o indirettamente
coinvolte nelle guerre o interessate alla loro
prosecuzione perché esse logorano i contendenti e
giovano agli Stati di seconda fila, fornitori di armi e
a loro modo protagonisti. Fanno storia. Micidiale.
L'anarchia internazionale oggi dominante
rende impossibile un'azione comune nella difesa
dell'“ambiente”, relegato nel dimenticatoio da grandi
potenze quali Cina e India e dagli stessi Stati Uniti
d'America e ormai troppo costosa anche nell'Europa che
si erse a sua paladina, salvo poi ripiegare su trincee
arretrate a cospetto dello squilibrio tra risorse e
costo della stabilità occupazionale, preoccupazione
ovunque dominante e tutt'uno con il sistema
pensionistico e assicurativo: ovvietà per molte persone
dell'“Occidente” ma chimere per tanta parte dei popoli
che mancano di acqua, farine e assistenza medica. Come
cavalcare la tigre? Sarà mansueta o si volterà contro il
domatore?
Le criticità che impediscono di guardare al
di là del 2035, cioè di un domani a portata di
programmazione d'urgenza, intaccano anche il potere
salvifico o almeno consolatorio della Parola. Mentre
viene invocato il ritorno alla cooperazione e alla
solidarietà internazionale, anzitutto per fronteggiare
nuove epidemie, la cui prossima nefasta esplosione è
data per scontata da tutti gli studiosi che se ne
occupano senza falsi allarmismi e senza ingenue
illusioni, nessuno riesce a garantire un futuro di pace
per i viventi e meno ancora per le “generazioni
venture”.
Speranza o Progetto?
Se, appunto, le Parole segnano i tempi, va constatato
che quella scelta da papa Francesco quale ispirazione
dell'Anno Giubilare è “Speranza”, molti passi indietro o
di lato rispetto a “Progetto”, che significa controllo
razionale del presente, previsione e e programmazione:
criteri neopelagiani. Chi ha qualche anno alle
spalle ricorda che verso la soglia degli Anni Sessanta
del Novecento l'ONU lanciò il piano decennale per lo
sviluppo, destinato a imprimere la svolta verso il
benessere anche per i popoli sino a quel momento
diseredati del Quarto mondo. Fallì, travolto dalla
sequenza di guerre connesse alla decolonizzazione.
Queste oggi sono rimosse dalla memoria e del tutto
dimenticate a vantaggio della leggenda secondo la quale
il cammino verso l'unione (per ora va scritto in
minuscolo, perché la sua sostanza latita) ha garantito
la pace agli abitanti dell'Europa. La realtà è molto
diversa. In effetti i popoli della parte occidentale del
Vecchio Continente non si sono più azzuffati in
carneficine come avevano fatto nella prima metà del
secolo scorso. Ma ciascuno di essi (a eccezione di
Germania, Italia e Spagna, Paesi usciti malconci da un
decennio di guerra e privati di colonie) si sono
logorati in lunghe guerre per perpetuare il dominio
sugli antichi imperi, dall'Africa all'Indocina e
all'Indonesia e lembi delle Americhe. Esse coinvolsero
Gran Bretagna, Francia, Paesi Bassi, Belgio e persino il
Portogallo, nominalmente ancora padrone di Angola e
Mozambico, dopo aver perso “enclaves” in India. Qui e là
rimasugli di quegli imperi, rivestiti con nuove
denominazioni, ancora sussistono. Tra gli esempi
memorabili vale il caso delle Falkland mezzo secolo fa
al centro della guerra guerreggiata tra Repubblica
Argentina e Gran Bretagna. Ma molti altri “pezzi di
sovranità” sono oggi disseminati negli spazi
extraeuropei, micce di possibili nuovi sanguinosi
conflitti.
La rivendicazione della Groenlandia, antico
dominio dalla minuscola Danimarca, da parte di Donald
Trump non è una sortita fuori le righe, ma la profezia
della carta politica del pianeta che verrà disegnata
entro qualche decennio. È la Storia nel suo continuo
divenire. I confini di gran parte dell'Africa e del
Vicino e Medio Oriente, a parte l'Algeria che la Francia
iniziò a sottomettere con metodi si orrenda brutalità
sin dal 1830, sono stati tracciati tra il 1880 e le paci
pattuite tra i vincitori e dettate ai vinti dopo la
prima guerra mondiale. Quei confini erano così
artificiali che nessuno si scandalizza se la ora Siria
sia deflagrata e il suo futuro rimanga assai oscuro.
Parimenti precari sono quelli dell'America
centro-meridionale, nata dalle “rivoluzioni” che dal
1812 traghettarono la Nueva España sotto l'egemonia
euro-statunitense.
Tecnologie fuori controllo
Se quanto avviene e avverrà negli anni venturi rimane
dunque incerto e fonte di fondate preoccupazioni,
altrettanto va detto del controllo militare
dell'informazione tramite i satelliti spaziali: un
“mondo” sul quale il Rapporto del World Economic Forum
non si pronuncia se non in modo indiretto, accennando
alle “tecnologie fuori controllo”, ovvero a poteri che
vanno al di là di quelli dei governi della quasi
totalità degli Stati. Questi si dichiarano o rivendicano
o si ripromettono di tornare pienamente sovrani o
illudono i loro cittadini di esserlo, ma lo sono sempre
meno o non lo sono affatto perché le decisioni supreme
su di essi sono in mano altrui, di “potenze” senza
territorio ma di gran lunga più forti di Stati
vastissimi e bisognosi di tutto, a cominciare dalle
“informazioni”. Un tempo vi erano “governi in esilio”
contrapposti a quelli in carica e votati dai loro
cittadini o sudditi (ve ne sono ancora e altri si
aggiungono, ma senza efficacia), ora vi sono “governi”
che non fanno parte di alcuna Istituzione, dall'ONU alle
sue varie emulazioni. Si fondano su potere finanziario,
tecnologia ed elusione da ogni vincolo formale e
sostanziale. Esistono.
Dunque le vere disuguaglianze, al di là di
quanto avverte allarmato il Rapporto del World Economic
Forum, non riguardano tanto le classi sociali
all'interno dei Paesi ma il dominio delle tecnologie a
livello globale. Su quel terreno si misurano le
gerarchie tra gli “Stati”, sia fisici (un territorio con
i suoi confini) sia di altra natura: i tecnocrati
economico-finanziari e quelli dell'informazione, poteri
fluidi, impalpabili e nondimeno decisivi, capaci di
segnare per tempi imprevedibili le sorti materiali dei
popoli, scatenando una sequela ininterrotta di guerre.
Alla fine della seconda guerra mondiale due corti
condannarono alla forca i vertici politici e militari
della Germania e del Giappone. In Germania erano
tutt'uno. In Giappone dipendevano dall'imperatore, che
ne uscì indenne. Nessuno chiamò in giudizio chi, anche
dall'“Occidente democratico”, aveva finanziato l'ascesa
del nazionalsocialismo di Hitler considerandolo un
bastione contro il bolscevismo di Stalin. Nei suoi
ultimi tempi ci meditò il politologo Giorgio Galli,
erroneamente inascoltato, quasi fosse visionario.
A scuola per capire che cosa?
A fronte della realtà effettiva odierna e delle sue
prospettive di medio periodo (su quello ulteriore non è
prudente pronunciarsi) suscita qualche sconcerto
l'annuncio della riforma dei programmi dell'istruzione
elementare e della scuola primaria inferiore (oggi in
buona salute e apprezzata anche dall'estero) lasciata
trasparire dal ministro della Pubblica istruzione e del
merito Giuseppe Valditara, docente di diritto pubblico
romano. Al momento non è possibile discuterne in modo
assertivo perché non si dispone del testo della
“riforma”, ma solo di un annuncio lanciato probabilmente
per “sondare il terreno” in vista di ulteriori
accorgimenti. La bozza contiene tuttavia alcuni spunti
da subito meritevoli di considerazioni, affinché non si
possa dire che una novazione di tale portata avviene
nell'indifferenza generale o quanto meno di chi ancora
si occupa della scuola. Una riforma dell'istruzione,
destinata ad andare a regime entro un anno, inciderà sul
percorso formativo di una generazione e i suoi riflessi
positivi o negativi saranno verificabili tra un
ventennio, quando, mentre i bambini di oggi saranno
quasi adulti, la maggior parte di quanti oggi sentono di
doverne discutere saranno passati all'Oriente Eterno.
Proprio perciò occorre capire oggi quale sia non la
francescana “speranza” ma il razionale “progetto”
soggiacente alla riforma proposta da un ministro di
accertata cultura storica e giuridica qual è Valditara.
In sintesi, le novità consisterebbero (il
condizionale è d'obbligo) anzitutto nell'introduzione
della “musica” (“canto, suono, civiltà musicale” pare
abbia dichiarato la sottosegretaria di Stato
all'Istruzione Paola Frassinetti; altri aggiungono
“strumenti e coro”). Nell'oltretomba se ne rallegra
Gabriele d'Annunzio che nella Carta del Carnaro assegnò
valore costituzionale alla musica e al teatro, non solo
“rappresentazioni” occasionali ma “vita” della città
dell'uomo. Però, poiché le ore di lezione nelle aule non
sempre impeccabili delle scuole odierne non sono
moltiplicabili all'infinito, si tratta di capire se i
nuovi insegnamento vadano a detrimento di altre
discipline e precisamente di quali.
Lo stesso vale per l'ora di studio del
latino (da taluni accolta con tripudio prima di saperne
di più) che verrebbe introdotta dalla seconda classe
della media primaria. In quanto “facoltativa” sarebbe
fuori orario curricolare? In questo caso, che cosa
farebbero in quell'ora gli allievi le cui famiglie non
optano per il suo insegnamento? O si faranno classi
differenziate: “latinisti” nelle une, riluttanti nelle
altre? E quale costrutto formativo può avere lo studio
del latino ristretto in un'ora la settimana? O vi si
dedica il tempo necessario o è solo un occhiolino,
strizzato “per vedere l'effetto che fa”. Se riforma vuol
essere, quell'ora settimanale non apre alcuna porta “al
vasto patrimonio di civiltà e tradizioni”, né consente
di “ritrovare il tema, importantissimo, dell'eredità”,
cui pare abbia alluso il ministro. Ci vuol altro per
apprendere e “somatizzare” il latino (non parliamo del
greco). A meno che quell'ora facoltativa serva ad
anticipare la scelta della prosecuzione degli studi
nella media superiore e costituisca pertanto più un
discrimine che un’opportunità.
Se si ritiene che apprendere i rudimenti
del latino sia salvifico, il suo insegnamento dev'essere
obbligatorio e con adeguato numero di ore settimanali.
Significherebbe però – le cose vanno dette come sono –
capovolgere ab imis la scuola primaria concepita con
l'introduzione della “media unica”, che ha presentato e
presenta manchevolezze come ogni cosa al mondo, ma ha
avuto il merito di scolarizzare sino al quattordicesimo
anno d’età milioni di bambini prima ai margini
dell'istruzione pubblica.
Dove para Valditara?
Il ministro ha fatto sapere di aver consultato studiosi
insigni delle diverse discipline per approntare
l'annunciata riforma e ha sciorinato molti nomi che non
menzioniamo. Era il minimo che potesse fare. È però
difficile dire se i consultati si riconoscano nelle sue
proposte. Prima o poi se ne saprà di più. Chi abbia
avuto a che fare con vicende analoghe sa come sia facile
essere ridotto a paravento di decisioni che prescindono
da qualsiasi suggerimento basato su scienza ed
esperienza. Quel che risulta niente affatto convincente
è il proposito, enunciato con forza dal ministro, di
separare lo studio della storia da quello della
geografia. Sono discipline diverse? Certo. Tanto la
“storia” quanto la “geografia” sono ciascuna un
complesso di specialità sicché il loro insegnamento e
apprendimento, tanto più se disgiunto, dipendono
dall'orario messo a disposizione. Nella scuola
elementare e nella media primaria (non stiamo parlando
dei cinque anni delle medie superiori, perché di questo
si tratta) la loro fusione in geo-storia non è affatto
infondata e, se insegnata in modo appropriato, non
risulta che abbia sortito effetti negativi. L'ignoranza
degli allievi non nasce dall’inadeguatezza dei programmi
ma è il prodotto di insegnamento di bassa qualità,
distrazione dei discenti e pretesa dei genitori di avere
figli con ottimi voti, poca fatica e nessuna seccatura
domestica.
Tra i propositi del ministro lascia invece
più che perplessi il primato pressoché esclusivo
assegnato nello studio della storia a popoli italici,
antica Grecia, Roma, cristianesimo, rinascimento,
unificazione nazionale e a un generico Occidente. Nessun
cenno all'Illuminismo, senza il quale non si comprendono
né il Risorgimento, né il Novecento liberale? Forse va
scordato per le sue venature razionali? Va osservato
inoltre che se la spruzzatina di latino può essere
considerata una belluria, la riduzione della storia a
dimensione “locale”, qual è quella dell’Italia,
costituisce un incomprensibile e inaccettabile passo
indietro rispetto alle esigenze di formazione
dell'italiano odierno e futuro: cittadino europeo,
proiettato a confrontarsi con la molteplicità di etnie,
lingue e di costumi di tutto il mondo, con i quali già è
e sempre più si troverà a fare i conti nei decenni
venturi, anche a casa propria.
Lo scolaro oggi ha bisogno di essere messo
in grado di capire un articolo o un telegiornale nel
quale non si parla solo dell'Italia e non si citano solo
le vette alpine o appenniniche ma si parla di Russia
(che nei nuovi insegnamenti non sarebbe più Europa),
Cina, India, Africa: insomma di tutto quello che era
chiarissimo ai patrioti italiani dell'Ottocento e per
sua fortuna lo era e lo rimane per la chiesa cattolica
apostolica romana come di altre istituzioni
internazionali quali la massoneria.
Indubbiamente gli allievi, secondo quanto
ventilato dal ministro, potranno e dovranno studiare
poeti del Novecento (cita tra altri il ferrarese
Riccardo Govoni e il perugino romanizzato Sandro Penna,
sublime cantore dell'eros omosessuale, ma lascia ai
margini Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale e Salvatore
Quasimodo: due Premi Nobel...). Però perché cancellare
il già oggi obliato Giosue Carducci di “Pianto antico” e
di “Davanti San Guido” e altri classici della
letteratura italiana? Con buona pace del ministro, gli
ultimi versi del “Tramonto della luna” dello schivato
Giacomo Leopardi sono comprensibili anche ai bimbi delle
elementari se ben guidati. E oggi sono drammaticamente
attuali: “Ma la vita mortal, poi che la bella
/Giovinezza sparì, non si colora/ d'altra luce giammai,
né d'altra aurora./ Vedova è insino al fine; ed alla
notte/ che l'altre etadi oscura,/ segno poser gli Dei la
sepoltura”.
Il ministro esorta infine a studiare la
Bibbia. Quale dei suoi multiformi libri? Il
Deuteronomio, i profeti, i lirici e i sapienziali? O
L'Ecclesiaste? Forse è quest'ultimo che deve essere
meditato da tutti, governo compreso: «Vanità delle
vanità, tutto è vanità. Ogni cosa ha il suo tempo sotto
il cielo. Tempo di demolire e tempo di edificare…» Ma
per costruire non bastano speranze. Occorre un Progetto
razionale, coerente con la realtà e consapevole che il
mondo odierno è un universo armato sino ai denti e in
corsa verso il precipizio. Gli scolari hanno diritto a
conoscerlo; e i genitori hanno il dovere di fare la loro
parte per aiutare la scuola a compiere la propria.
Piuttosto che “riformare” tanto per dare un segnale è
preferibile migliorare l’esistente. Lo insegna
l’Ecclesiaste (1, 10): “nihil sub sole novum”…
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Il mondo che venne per quello che
verrà: “Alza la prora e volgila allo spazio...”.
MUSSOLINI SCALTRO
MASSONOFAGO Editoriale
di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il
Giornale del Piemonte e della Liguria” di
domenica 12 gennaio 2025 pagg. 1 e
7.
Il grande
“Pizzino di Stato”
«Chi troppo in alto va cade sovente
precipitevolissimevolmente» osservò il commediografo
Andrea Casatti in il “Governo di Malmantile” (1734).
Ricalcava la visione gioiosa di Ludovico Ariosto che
spostò i suoi Eroi dalla Terra al Cielo affinché,
svolazzando negli spazi siderei, mandassero messaggi
efficaci ai terragni, sempre un po' duri di
comprendonio. Come oggi.
Nei primi tre anni del governo Mussolini
(ottobre1922-novembre 1925) in Italia si confrontarono
due “potenze”. Da un canto il duce del fascismo, dipinto
come “il Truce” per le pose minaci che spesso assumeva
nei discorsi pubblici. Dall’altro canto le comunità
massoniche: il Grande Oriente d'Italia, che risaliva al
1 gennaio 1862, dalle venature anticattoliche e
repubblicane, e la Serenissima Gran Loggia d'Italia,
incardinata nel 1910 dal Supremo consiglio del Rito
scozzese antico e accettato capitanato dal pastore
evangelico Saverio Fera. Apparentemente meno pugnace, la
seconda, grazie alla strategia del suo terzo
“conducator”, Raoul Palermi, si era insinuata in
posizioni eminenti all'interno del nascente regime per
controllarlo e orientarlo. Sommate, le due Comunità
contavano almeno 50.000 affiliati, molti dei quali ben
presenti nello Stato e nella società. All'epoca le porte
di molte Officine massoniche erano girevoli. Si entrava
e si usciva (o se ne veniva cacciati) nel volgere di
pochi mesi. Assunta la “carica” a fine ottobre 1922,
Mussolini sempre più constatava che il suo potere era
una “macchina imperfetta” (formula di Guido Melis),
popolata di pre- e di a-fascisti e non immune di
antifascisti. Bisognava espellerne i riottosi e i
riluttanti per fare dei pubblici dipendenti, con o senza
tessera del PNF, una schiera di automi pronti a credere,
obbedire e combattere, pronti a sfilare “avanti al Duce
e avanti al Re”. Perciò i massoni, uomini del dubbio,
andavano eliminati. Di quelle due “potenze” non poteva
rimarne che una. I massoni erano ovunque. Ma Mussolini,
come presidente del Consiglio, aveva tutto. Almeno
temporaneamente. Per vincere, però, non gli poteva
bastare il manganello. Doveva usare lo Stato. Le leggi.
Seppe farlo. Il primo a crollare
precipitevolissimevolmente fu proprio il Tempio di
Hiram, sinonimo di Massoneria.
Per chiudere la partita, nove giorni dopo
il discorso del 3 gennaio 1925, il 12 seguente, un
lunedì, Benito Mussolini, presidente del consiglio dei
Ministri e ministro degli Esteri, presentò alla Camera
il disegno di legge (Ddl) sulla «Regolarizzazione
dell'attività delle associazioni, enti ed istituti e
dell'appartenenza ai medesimi del personale dipendente
dallo Stato, dalle province, dai comuni e dalle
istituzioni pubbliche di beneficenza». Fu il più grande
“Pizzino di Stato” mai congegnato in Italia da un capo
di governo per eliminare chi faceva da nerbo e da
collante delle opposizioni più pericolose: non i
cattolici del partito popolare, succubi della Chiesa
nell'anno del Giubileo, né i comunisti, tenuti al
guinzaglio dall'Unione sovietica, che aveva aperto
un'ambasciata a Roma nell'anno dell'“affare Matteotti”
senza manco invitarli. Da colpire senza remissione erano
liberali di varia osservanza, democratici sociali,
repubblicani, socialisti e soprattutto loro, i “Figli
della Vedova”, liberi pensatori riottosi a qualunque
disciplina coatta.
Una legge che non dice ma fa: annienta la libertà
Qual era il bersaglio di quel Ddl? Per capirlo, ne vanno
lette le norme. Il primo articolo prevedeva: «Le
associazioni, enti ed istituti costituiti ed operanti
nel Regno e nelle Colonie sono obbligati a comunicare
all'autorità di pubblica sicurezza l'atto costitutivo,
lo statuto e i regolamenti interni, l'elenco nominativo
delle cariche sociali e dei soci, ed ogni altra notizia
intorno alla loro organizzazione ed attività tutte le
volte che ne vengon richiesti dalla autorità predetta
per ragioni di ordine o di sicurezza pubbli
ica.» Quanti avevano funzioni direttive o di
rappresentanza dovevano adempiere alla richiesta entro
due giorni dalla notifica, sotto pena di arresto non
inferiore a tre mesi e di un’ammenda da due a seimila
lire (lo stipendio annuo di un impiegato di concetto). I
responsabili di notizie false o incomplete sarebbero
stati puniti con la reclusione non inferiore a un anno,
oltre a una multa da cinque a trentamila lire e
all'interdizione dai pubblici uffici per cinque anni.
L'articolo 2 prescriveva: «I funzionari,
impiegati, ed agenti civili e militari di ogni ordine e
grado dello Stato, ed i funzionari, impiegati ed agenti
delle province e dei comuni, o di istituti sottoposti
per legge alla tutela dello Stato, delle province e dei
comuni, che appartengano anche in qualità di semplice
socio, ad associazioni, enti ed istituti costituti del
Regno o fuori ed operanti anche solo in parte in modo
clandestino od occulto o i cui soci sono vincolati dal
segreto, sono destituiti o rimossi dal grado o
dall'impiego o comunque licenziati.» Il Ddl stringeva il
cerchio, separando il grano (il grosso del pubblico
impiego) dal loglio (i massoni).
Tutti i predetti erano «tenuti a dichiarare
se appartennero o appartengano, anche in qualità di
semplici soci ad associazioni enti ed istituti di
qualunque specie costituiti od operanti nel Regno o
fuori, al ministro in caso di dipendenti dello Stato e
al prefetto della provincia in tutti gli altri casi,
qualora ne siano specificatamente richiesti». Quanti non
ottemperavano entro due giorni dalla notificazione
venivano sospesi dallo stipendio per almeno quindici
giorni e non più di tre mesi. In caso di notizie false o
incomplete «la pena è della sospensione dallo stipendio
non inferiore a sei mesi». Pochi anni dopo la Grande
Guerra colpire i lavoratori nelle tasche era l'arma più
efficace. Condannava non solo al ludibrio nell'opinione
pubblica ma alla fame: la vittima si ritrovava esule in
patria, senza alternativa professionale, reietto ai
margini della società, con la famiglia che, a mensa
scarna, domandava quali vantaggi procurassero i
grembiulini massonici.
Nel Ddl Mussolini non menzionò in alcun
modo la Massoneria. Eppure alla Camera come nei giornali
fu subito detto e scritto che il suo bersaglio precipuo
era appunto la Libera Muratoria, più precisamente il
Grande Oriente d'Italia. Ma lo era davvero o fungeva
solo da pretesto per mettere sotto controllo ogni e
qualunque associazione passata, presente e futura? In
discussione, insomma, era la fratellanza massonica o la
libertà dei cittadini?
Contrariamente a quanto molti immaginano,
Mussolini non intervenne alla Camera a sostegno della
proposta di legge. Essa fu “presentata” con il corredo
di una Relazione, e affidata immediatamente all'esame di
una commissione di quindici parlamentari, presieduta da
Giovanni Gentile e comprendente storici quali Gioacchino
Volpe e Francesco Ercole, futuro ministro
dell'Educazione nazionale.
Il 12 gennaio la Camera non era più
presieduta dal nazionalfascista Alfredo Rocco, giurista
di talento, come riconobbe in un saggio giovanile lo
storico e massone Paolino Ungari, dedicatario della
Biblioteca del Grande Oriente d'Italia. Il 6, tre giorni
dopo il discorso del 3 gennaio, Rocco era stato nominato
ministro di Grazia e Giustizia, nel rimpasto di governo
che riguardò anche i dicasteri della Pubblica Istruzione
(Alessandro Casati fu sostituito da Pietro Fedele alla
Pubblica Istruzione e Gino Sarrocchi da Giovanni
Giuriati ai Lavori pubblici). A presiedere l'Aula,
provvisoriamente priva di presidente, quel fatidico
lunedì fu Luigi Gasparotto, interventista,
“democratico”, tendenzialmente repubblicano, dai più
considerato molto vicino alla Massoneria, non privo di
amicizie in ambito fascista, e futuro ministro della
Difesa nel governo presieduto da Alcide De Gasperi. A
lui si deve l'adozione provvisoria del Canto Nazionale
come inno provvisorio della Repubblica (ottobre 1946).
L'Aula accolse il Ddl Mussolini con “vivi
applausi e commenti”. Nessuna obiezione. Dopo di che,
come tanti altri, esso iniziò la navigazione e la
calendarizzazione, sino a quando venne discusso in Aula
tra il 16 e il 19 maggio seguente.
Il Duce dixit...
Mussolini dunque accompagnò il Ddl con una Relazione,
che è farina del suo sacco. Per dire quel che pensava
della Massoneria non aveva bisogno di suggerimenti. Lo
aveva scritto, detto e persino urlato in tante
occasioni. Poiché il motto antico “ex ore tuo te judico”
è sempre valido, cent'anni dopo giova rileggerne qualche
passo.
Il presidente del Consiglio e duce del
fascismo esordì affermando che a tutti era nota «la
parte che, nel moto del risorgimento italiano, ebbero le
società e le sette segrete». Lo avevano affermato
politici, storici e patrioti insigni. Tra i molti,
Giosue Carducci aveva polemicamente confutato il motto
secondo il quale per fare l'Italia bisognava disfare le
sette. Iniziato massone in una loggia “selvaggia”, poi
regolarizzato maestro in un'Officina bolognese formata
esclusivamente di militari e docenti universitari,
demolita dal gran maestro Ludovico Frapolli (una delle
sua tante enormità), nel 1886 Carducci accolse l'invito
del gran maestro Adriano Lemmi di far parte della
“Propaganda massonica”, niente affatto occulta, e anzi
“vetrina” di una Massoneria che fra il 1876 e il 1911
dette all'Italia cinque presidenti del governo: Agostino
Depretis, Francesco Crispi, Giuseppe Zanardelli,
Alessandro Fortis e Luigi Luzzatti. Nel 1895 da
presidente del Consiglio, presente il Re, Crispi
“scoprì” il monumento di Garibaldi sul Gianicolo a Roma,
onusto di simboli massonici, e proclamò festa nazionale
il Venti Settembre di concerto con Umberto I che aveva
dichiarato la Città Eterna “conquista intangibile”.
Quell'Italia era stata e rimaneva “scomunicata” e perciò
compatta, chiusa a testuggine su se stessa come “legione
sacra”.
Mussolini, ex allievo del Convitto di
Forlimpopoli diretto da Valfredo Carducci, fratello
minore di Giosue, da antico ateo di complemento non
poteva buttare alle ortiche l’“Inno a Satana”, Mario
Rapisardi, Lorenzo Stecchetti (tutti “poeti” oggi
dimenticati ma all'epoca dominanti, alla pari di
Pascoli, massone a sua volta). Però si riteneva in
diritto di sentenziare che il giudizio su società e
sette segrete ormai “apparteneva alla storia”, come si
dice dei morti.
Sappiamo come tanti “storici” a noleggio
cambino pennino e colore dell'inchiostro secondo il
vento che tira. Ma nella breve Relazione sul Ddl
Mussolini sintetizzò senza tentennamenti i motivi della
condanna totale della Massoneria. Utili «in tempo di
servitù, come mezzo di lotta del popolo inerme contro lo
straniero e di Governi clienti dello straniero», «tali
società», anziché sparire dopo l'avvento delle libertà
statutarie, divennero ricettacolo di intriganti, di
malcontenti e di delusi.
«Ora – egli aggiunse – qualsiasi specie di
società occulta, anche se in ipotesi il suo fine sia
eticamente e giuridicamente lecito, è da ritenersi pel
fatto stesso della segretezza, incompatibile con la
sovranità dello Stato e la uguale libertà dei cittadini
di fronte alle leggi. […] Si pone, in altri termini,
fuori della legge e non può appellarsi ad essa per
esserne difeso. […] Le società che obbligano i propri
adepti al silenzio, anche a costo di mentire,
contribuiscono a corrompere e a falsare il carattere
degli italiani, per sua natura disposto a franchezza e
sincerità. La consuetudine della menzogna, della
dissimulazione e del mistero è una delle più deplorevoli
conseguenze delle sette segrete; e forma, purtroppo,
triste privilegio italiano quello di insistere, in
regime di libertà nazionale e politica, nel perpetuarne
gli effetti. […] Tutti i partiti ne sono più o meno
inquinati ed avvelenati. La lotta politica in Italia non
potrà svolgersi con piena sincerità e genuinità di
atteggiamenti e di rapporti sino a che sarà possibile
alle sette segrete di insinuarsi in ciascuno sotto
mentite spoglie, per asservirne a interessi o a finalità
inconfessabili il programma, per deviarne lo spirito,
per controllarne o carpine le deliberazioni; per
tradirli, infine tutti e ciascuno, fino a che insomma
ogni partito potrà temere o sospettare, e troppo spesso
non invano, di avere senza saperlo, il nemico nelle
proprie file.»
Mussolini si atteggiava dunque a difensore
dei partiti, proprio mentre progettava di annientarli,
come infatti avvenne nel corso del 1925-1926 con le
“leggi fascistissime” votate da un parlamento ormai
succubo. Lasciò trasparire di essere al corrente dei
tanti massoni che erano all'interno del Pnf, della
macchina governativa e negli impieghi locali. Il suo
fido sottosegretario alla presidenza, Giacomo Acerbo,
era massone della Gran Loggia, grado 7° della piramide
scozzese prima del 31 ottobre 1922: balzò al grado 30°
non appena giunto al potere. Mussolini non voleva
cacciarlo, ma costringerlo a recidere i legami con la
loggia. Ci riuscì? Il 25 luglio 1943 Acerbo fu tra i più
convinti fautori dell’ordine del giorno che mise il duce
in minoranza in seno al Gran Consiglio, ove tanti
gerarchi (compreso Giuseppe Bottai, della loggia “La
Forgia” di Roma, comunità della Gran Loggia d'Italia)
ricordavano di essere stati iniziati ai travagli
d'officina (e di masticazione): “semel abbas semper
abbas”?
Nella parte finale della Relazione il duce
del fascismo deplorò che «le associazioni operanti in
modo clandestino od occulto» si diffondessero tra i
pubblici impiegati e persino tra i magistrati e gli
ufficiali dell'esercito e della marina. Costituivano
pertanto una minaccia alla sicurezza dello Stato perché
avevano «bene spesso all'estero i centri di direzione e
di influenza». A chi si riferiva? Mussolini non ignorava
certo che la Gran Loggia Unita d'Inghilterra era
tutt'uno con la Corona della Gran Bretagna e che alla
presidenza degli Stati Uniti d'America da George
Washington in poi si erano susseguiti massoni, sino a
quello in carica mentre gli depositava il Ddl. Lo erano
stati anche molti presidenti della Repubblica francese e
tanti sovrani e principi dell'Europa settentrionale.
Da tempo “in bonis” con padre Pietro Tacchi
Venturi, l'ex socialmassimalista anticlericale, ora in
marcia verso la Conciliazione, concluse: «Nessuna
persecuzione, nessun divieto di alcun genere, nessuna
limitazione del diritto di associazione. Solo obbligo, a
tutte le associazioni, come avviene nei paesi più
civili, di agire palesemente.» Tempo pochi mesi, tutte
le associazioni vennero via via poste sotto controllo,
vietate o costrette ad aggiungere l'aggettivo “fascista”
alla loro denominazione originaria.
Alle radici della massonofobia
L'offensiva “ope legis” contro la Massoneria aveva in
Mussolini motivazioni antiche e altre contingenti. Le
prime risalivano alla lunga lotta per la conquista del
Partito socialista italiano. Nei suoi congressi la
“questione massonica” - ha ricordato Marco Novarino -
cominciò a essere posta dal 1904. Elusa e rinviata per
anni, essa esplose nel 1912 quando al congresso di
Reggio Emilia i riformisti, molti dei quali affiliati a
logge massoniche o sospettati di tresche
liberomuratorie, come Leonida Bissolati, furono espulsi.
Mussolini vinse la guerra nell'aprile 1914 quando a
larghissima maggioranza al congresso di Ancona fu
approvato l'ordine del giorno firmato da lui e da
Zibordi che decretò l'espulsione dei massoni dal
partito. Gli si contrappose Giacomo Matteotti
(recentemente celebrato quale “moderato”) che propose
invece l'incompatibilità tra loggia e partito, lasciando
a ciascuno libertà di optare per l'una o per l'altro.
Pochi si schierarono per la vera libertà o ritennero che
la questione andava accantonata.
All'epoca, nei primi lustri del Novecento,
la Massoneria, in specie il Grande Oriente, era
investita dall'offensiva dei nazionalisti, che la
denunciavano come ateistica, antimilitarista (sinonimo
di anti-patriottica) e asservita a interessi stranieri,
soprattuto della Francia. Il loro foglio, “L'Idea
Nazionale”, propose a un folto numero di notabili di
dire se essa fosse «compatibile con le condizioni della
vita pubblica moderna», se «il razionalismo
materialistico e l'ideologia umanitaria e
internazionalistica, a cui la Massoneria nelle sue
manifestazioni si ispira, corrispondessero alle più vive
tendenze del pensiero contemporaneo» e se credevano che
«l’azione palese e occulta della massoneria nella vita
italiana, e particolarmente negli istituti militari,
nella magistratura, nella scuola, nelle pubbliche
amministrazioni, si risolvesse in un beneficio o un
danno per il Paese».
L' Inchiesta risultò un plebiscito di “no”
contro la Massoneria, proprio mentre sindaco di Roma era
Ernesto Nathan, già gran maestro del Grande Oriente
d'Italia. Particolarmente sferzanti furono i vertici
delle forze armate, inclusi Luigi Cadorna e Carlo Porro
(futuri Comandante Supremo e vice nella Grande Guerra).
A loro si aggiunse Giovanni Gentile, secondo il quale
«la Massoneria non deve più essere giudicata, ma
combattuta»: una lotta snza quartiere, che non poteva
non essere condotta contro di essa, salvo poi «stringere
la mano ai massoni». Luigi Einaudi rispose di non aver
mai conosciuto nulla di più ridicolo e camorristico
della massoneria. Benedetto Croce dichiarò di non aver
nulla da aggiungere a quanto già aveva detto
dell'infantile umanesimo pacifistico dei massoni, che si
pascevano di una sub-cultura «da maestrucoli
elementari», ottima per commercianti e bottegai. Un
disastro per chi sognava di avere in pugno le “umane
sorti e progressive” dell'intera umanità e si vedeva
irridere da un Pontefice senza cattedra quale era il
“filosofo di Pescasseroli”, come Croce fu detto anche
dai preti che non gli perdonarono mai il suo distacco
dalla Chiesa.
Il 12 gennaio 1925 Mussolini mise
all'attivo decenni di polemiche antimassoniche
serpeggianti nel Paese, ma lo fece con circospezione e,
come detto, senza nemmeno nominare la libera muratoria.
Al “lavoro sporco” provvide la fervorosa Commissione che
si affrettò a scrivere come e perché i massoni andassero
cacciati dallo Stato dai pubblici uffici o costretti a
pubbliche abiure. Tra i quindici figurò il filosofo
Balbino Giuliano, nazional-fascista di spicco, antico
iniziato alla loggia della Valle del Chienti quando era
giovane docente all'Università di Camerino. Il segreto
nel quale erano conservati i registri degli iniziati
favoriva il doppio gioco. Mussolini, però, se non aveva
fretta di veder approvata la legge contro la Massoneria
voleva passare subito all’incasso dei suoi venturi
effetti. Perciò ripresero gli assalti alle logge, come
già nella seconda parte del 1924. Gli squadristi
saccheggiarono e asportarono (per distruggere o
conservare altrove) i verbali di loggia e gli elenchi
degli affiliati, fondamentali per ricatti e per
prolungare la guerriglia civile negli anni del regime.
Non ebbe torto Mussolini a definire “legge
fascistissima” quella presentata alla Camera il 12
gennaio 1925. Come si sia arrivati alla sua
approvazione, merita un discorso a parte. Qui basti
concludere che, vittorioso nella battaglia senza
prigionieri contro i massoni, 18 anni dopo anch'egli
cadde precipitevolissimevolmente. Una lezione per ogni
altro aspirante ai pieni poteri.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA : Una loggia di Firenze devastata dagli
squadristi (da Aldo A. Mola, “I massoni nella storia
d'Italia, Catalogo della Mostra, Palazzo Carignano,
Torino, 1980). 3 GENNAIO 1925
UN SUSSULTO DELLA GRANDE GUERRA Editoriale di
Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del
Piemonte e della Liguria” di domenica 5
gennaio 2025 pagg. 1 e 7. SCARICA
FORMATO .PDF Grande Guerra,
militarizzazione...
I cantastorie raccontano che con il discorso del 3
gennaio 1925 Benito Mussolini «soppresse la democrazia
per istituire la dittatura fascista in Italia». Lo ha
ripetuto Antonio Scurati in “la Repubblica”, in
occasione del centenario. Il suo primo volume della
serie “M” (cioè Mussolini “figlio del secolo”) ebbe il
pregio di dire la verità scomoda, ma non ne trasse la
somma: il duce del fascismo era l’effetto, non la causa,
della Grande Guerra sul corpo degli italiani.
La militarizzazione di cinque milioni e
mezzo di maschi, rinserrati per anni tra prima linea e
retrovie per la riorganizzazione dei reparti falcidiati
negli attacchi frontali, e quella, parallela, delle
donne addette alla produzione bellica nelle fabbriche
“ausiliarie”, a loro volta in stato di guerra, che
equiparava gli scioperi al tradimento della patria e li
puniva con pene severissime, avevano già introdotto nel
Paese un regime di fatto. La vita quotidiana, dalle
“zone di guerra” alle regioni popolate di manifatture e
industrie metalmeccaniche, cinghia di trasmissione tra
fronte interno e linee di combattimento, in pochi anni
avevano creato un'Italia diversa da quella vagheggiata
nel primo quindicennio del Novecento, contrassegnata da
moltitudini di scioperi economici, miglioramenti
retributivi, anche nelle campagne, e crescita civile,
suggellata dal conferimento del diritto di voto a tutti
i maschi che avessero prestato servizio militare, benché
analfabeti. Il fautore di quella riforma altamente
politico-patriottica, Giovanni Giolitti, aveva osservato
che chi aveva messo la vita a disposizione dello Stato
aveva acquisito diritti politici al pari degli
“intellettuali” che propugnavano la più grande Italia,
impegnata nella colonizzazione interna e nella conquista
di spazi Oltremare. Tra costoro, alla dichiarazione di
guerra dell'Italia contro l'impero turco-ottomano per il
dominio sulla Libia, il mite Giovanni Pascoli scrisse
che “la grande proletaria si era mossa” e ne cantò le
legioni. Altrettanto fece Giacomo Puccini che nel 1918
musicò l'Inno a Roma di Fausto Salvatori per la vittoria
sugli Imperi Centrali, con i famosi versi «Tu non vedrai
alcuna cosa al mondo maggior di Roma». Non era certo
fascismo e neppure nazionalismo, bensì la
giustificazione dell'unità nazionale e, al tempo stesso,
la celebrazione della “missione” della Nuova Italia che,
per avere il suo posto nel mondo, doveva essere essere
in continuità con l'Antica Roma. Del resto, negli stessi
anni, la Germania erigeva il monumento ad Arminio,
distruttore delle legioni di Augusto, e la Francia
s’identificava con la “beata” Giovanna d’Arco, fiera
nemica degli inglesi, pur apprestandosi a combattere a
fianco di costoro contro i tedeschi, spregiativamente
detti “boches”.
...e trauma psicologico di massa.
In pochi anni, tra il 1917 e le “paci” del 1919-1923,
non si rimescolarono solo i confini degli Stati, con la
caduta di quattro imperi (russo, germanico,
austro-ungarico e turco-ottomano) e con la nascita di un
mondo nuovo sul quale s'affacciarono gli affaristi degli
Stati Uniti d'America e del Giappone, che ebbe mano
libera nell'Estremo Oriente. Accadde di più: l'avvento
di una generazione che aveva appreso a convivere con la
morte: non quella degli “eroi” caduti in combattimento,
ma quella dei corpi abbandonati, difficili da recuperare
all'indomani della battaglia, rimasti spesso senza
croce, talvolta non identificabili perché nel vortice
del combattimento avevano perduto la “piastrina”.
Vennero poi tutti sublimati nel Milite Ignoto, la più
partecipata cerimonia della storia italiana, celebrata
dal re quale sommo sacerdote dell'Unità nazionale.
La trasformazione delle coscienze
(percepita da un prete che arrivava da studi di medicina
e psicologia, quale Agostino Gemelli) investì anche il
mondo femminile: quello delle fabbriche, ove la
promiscuità introdusse pratiche un tempo considerate
sconvenienti, e quello delle campagne, ove le donne
svolsero i compiti dei mariti, risucchiati per mesi e
anni dalla “città militare”, completa dei bordelli dai
quali uscivano svezzati a costumi un tempo “colpevoli”
ma ormai consueti, come convenivano il vescovo castrense
Angelo Bartolomasi e padre Giovanni Semeria, fotografato
con Gabriele d'Annunzio e alti ufficiali in colloqui nei
quali si plasmava l'uomo nuovo, dalla “moralità”
profondamente diversa rispetto all'anteguerra.
Il libro di Scurati, alla pubblicazione, fu
subissato di critiche severe da parte di storici che ne
evidenziarono sbagli, errori e incongruenze. L’autore si
difese opponendo che la sua non era opera di storia ma
romanzo. Sennonché il romanzo ha il dovere e il pregio
di interpretare lo “spirito del tempo”. Lui lo ridusse
al “caso Mussolini”, mentre il dramma della Grande
Guerra riguardò la miriade di italiani che avevano
combattuto in condizioni estreme. Era il caso degli
“arditi”, con le “fiamme nere” sul bavero, “avanguardia
di morte”, guerrieri democraticamente votati a dare
morte, perché quello è il compito, l'abito morale, del
milite. Con chi si schieravano le migliaia di cappellani
assegnati alle truppe? Con l'esercito combattente del
loro Paese, fatalmente in lotta contro quelli nemici, in
una guerra feroce, senza quartiere, proiettata nel tempo
sino al completo esaurimento delle risorse dello Stato,
verso una pace che coincideva con la disfatta della
propria civiltà, come appunto avvenne sulla fine del
1918 quando i vinti caddero per fame e ormai incalzava
l'epidemia di febbre spagnola, vincitrice suprema su
tutti.
Da lì arrivava la divaricazione fra la
dirigenza politica d'anteguerra, usa a ritmi ormai
arcaici, e il Paese che esigeva immediate e profonde
riforme. Non solo diritto di voto per tutti (donne
comprese), ma riconoscimento del contributo dato alla
Vittoria, da tradursi immediatamente in trattamento
economico e condizioni sociali “da vincitori”. “Terra ai
contadini” e compartecipazione alla proprietà delle
fabbriche o almeno della loro direzione e degli utili
furono rivendicazioni ricorrenti in tutta Europa. Quella
svolta epocale fu subito chiara agli scrittori nati in
trincea, come Giuseppe Ungaretti, o a quanti descrissero
la biblica “fornace ardente” dei combattimenti e i suoi
riflessi permanenti sulla psiche dei milioni di
sopravvissuti. Scurati, invece, stigmatizzò Mussolini,
uno dei tanti. Uno che tuttavia, piaccia o meno, dalla
primavera del 1919 si fece portavoce e interprete della
necessità di una svolta radicale.
Mussolini in campo: dal marzo 1919...
All'adunata di Piazza San Sepolcro a Milano (23 marzo
1919), dalla quale viene datato il fascismo,
parteciparono ebrei, massoni, ex ufficiali,
professionisti, “intellettuali”, i cui esponenti apicali
si presentarono alle elezioni del 16 novembre 1919. La
pattuglia capitanata da Benito Mussolini comprese nomi
da ricordare per capire: Filippo Tommaso Marinetti,
capofila del Futurismo, Enzo Ferrari, Cristoforo
Baseggio (massone), Guido Podrecca, anticlericale
d'assalto, Arturo Toscanini, “maestro di musica” già
famoso e futuro antifascista irriducibile, Agostino
Lanzillo, economista d'avanguardia, e Amleto Galimberti,
“operaio metallurgico”. La lista andò incontro a un
fiasco solenne ma ebbe la simpatia di Guglielmo Marconi.
A un secolo dal Discorso del 3 gennaio 1925 è
necessario, finalmente, passare dalle narrazioni ai
fatti e ai documenti. Contrariamente a quanto è stato e
viene ripetuto (anche da Antonio Carioti nel “Corriere
della Sera”), con esso Mussolini non ammise affatto la
responsabilità del rapimento e della morte di Giacomo
Matteotti (peraltro in circostanze mai del tutto
chiarite, neppure nel profluvio di libri usciti nel suo
centenario). A riguardo Mussolini fu molto netto. Aprì
l'intervento richiamando il suo primo discorso da
presidente del Consiglio, il 16 novembre 1922, quando
alla Camera aveva avuto la fiducia non solo di fascisti
e nazionalisti ma anche di demosociali, liberali e dei
popolari, tutti presenti al governo con loro esponenti,
incluso il giolittiano Rossi di Montelera. Di seguito
domandò “formalmente” se nella Camera o fuori di essa
qualcuno voleva valersi dell'articolo 47 dello Statuto,
in forza del quale «la Camera dei deputati ha il diritto
di accusare ministri del re e di tradurli dinanzi
all'Alta corte di giustizia», come era accaduto in
passato. Respinse l'addebito di aver fondato una Ceka,
cioè una polizia segreta per compiere delitti politici,
come quella, aggiunse, che nella Russia sovietica «aveva
giustiziato senza processo dalle 150.000 alle 160.000
persone». Per lui la violenza («che non può essere
espulsa dalla storia», come affermò anche Benedetto
Croce nelle sue opere) «per essere risolutiva deve
essere chirurgica, intelligente e cavalleresca». Ora le
gesta «di questa sedicente Ceka [lì ne ammise
implicitamente l'esistenza, senza confessarne la
paternità, NdA] sono state sempre inintelligenti,
incomposte e stupide». Si riferiva alle «aggressioni
minori» ai danni di Alfredo Misuri e Cesare Forni,
picchiati selvaggiamente perché fascisti “dissidenti”.
Rievocò poi l'inaugurazione della legislatura e il suo
discorso del 7 giugno 1924, nel quale disse che le
opposizioni avrebbero potuto «sorpassare il fascismo
come esperienza storica» e ottenne un «successo
clamoroso», come riconosciuto dalle opposizioni stesse.
Senza nominare Matteotti, Mussolini domandò poi,
riferendosi all’«atmosfera idilliaca» creatasi nella
Camera a seguito del suo intervento: «Come potevo
pensare, senza essere colpito da morbosa follia, di far
commettere non dico un delitto ma nemmeno il più tenue,
il più ridicolo sfregio a quell'avversario che io
stimavo perché aveva una certa “crânerie”, un certo
coraggio, che rassomigliavano al mio coraggio e alla mia
ostinatezza nel sostenere le tesi?»
Mussolini, dunque, non solo non ammise
affatto, ma respinse nettamente l'imputazione di essere
il mandante del rapimento e della morte del segretario
del Partito socialista unitario. Molto oltre confutò
invece l'affermazione che il fascismo fosse «un’orda di
barbari accampati nella Nazione ed un movimento di
banditi e di predoni» (o una banda di delinquenti, come
ha scritto il giornalista Aldo Cazzullo in un libro del
2022, centenario della mai avvenuta “marcia su Roma”).
«Ma poi, o signori, – proseguì Mussolini andando al
punto – quali farfalle andiamo a cercare sotto l'arco di
Tito? Ebbene, io dichiaro qui al cospetto di questa
assemblea ed al cospetto di tutto il popolo italiano che
assumo, io solo, la responsabilità politica, morale,
storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o
meno storpiate bastano a impiccare un uomo, fuori il
palo e fuori la corda…»
La lunga marcia verso il regime
Nel volgere di un anno, fra il 3 gennaio
1925 e il 31 gennaio 1926 l'assetto formale dello Stato
mutò, con ritmo accelerato, nella direzione vaticinata
dalle consultazioni elettorali del novembre 1919, maggio
1921 e aprile 1924. A quel processo parteciparono
attivamente i protagonisti della “rivoluzione” accorpati
nel Gran Consiglio, popolato di giovani e giovanissimi:
lo squadrista Italo Balbo, massone, poco più che
ventenne, il politico Dino Grandi, Giovanni Giuriati,
nazionalista, Aldo Finzi, il borghese fidatissimo di
Mussolini, poi suppliziato alle Ardeatine, Giuseppe
Bastianini, massone come Giacomo Acerbo, Roberto
Farinacci, “ras” di Cremona, Francesco Giunta, Achille
Starace, Giovanni Marinelli, Alessandro Dudan, Edmondo
Rossoni, segretario dei sindacati fascisti, Cesare
Rossi, capo ufficio stampa del ministero dell'Interno,
retto da Mussolini in persona ed Ernesto Civelli
(iniziato alla Gran Loggia), intendente generale della
Marcia con il “fratello” Gaetano Postiglione . Era la
“cupola” del “movimento” ancora lontanissimo dall'essere
partito di massa, ma già proiettato a disegnare lo Stato
fascista, soprattutto con l'ingresso di Alfredo Rocco
(“invitato” nell'aprile 1925), che poi vi entrò a vele
spiegate per dare forma al regime, tra introduzione
della pena di morte per i reati contro lo Stato,
istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello
Stato, riforma elettorale e costituzionalizzazione del
Gran Consiglio.
I partiti d'opposizione, o quanto ne
rimaneva, dall'indomani dell’“affare Matteotti” scelsero
di astenersi dall'Aula, di arroccarsi su un immaginario
“Aventino” (considerato dagli studiosi non prevenuti,
come Sandro Rogari, il suicidio della democrazia
parlamentare), così celebrando la conclusione del
decennio di dimostrata impotenza a cospetto dei
mutamenti politici in atto. Partiti e sindacati “di
sinistra” erano risultati assenti dalla scena nei
momenti cruciali di quel periodo: nel maggio 1915,
quando si trattava di fermare la corsa verso
l'intervento nella Grande Guerra; nell'ottobre 1922, a
fronte dell’“insurrezione” delle squadre fasciste,
ancora minoritarie nel Paese, contro l'Esercito e i
poteri istituzionali, che quei partiti non vollero né
seppero difendere, avendoli essi stessi sempre
osteggiati e auspicandone il crollo traumatico quale
parte del loro stesso piano di guerra; nell'estate 1924,
infine, allorché l'opposizione si ridusse ad alimentare
la “questione morale”, liquidata sarcasticamente da
Mussolini nel discorso del 3 gennaio.
Il punto di arrivo di quel processo furono
le cd. “leggi fascistissime”. Tra queste spicca la
«regolarizzazione dell'attività delle associazioni e
dell'appartenenza alle medesime del personale dipendente
dallo Stato» (legge 26 novembre 1925, n. 2029), precorsa
di pochi giorni dall’autoscioglimento delle logge del
Grande Oriente d'Italia e della Serenissima Gran Loggia
d'Italia, ovvero dal crollo verticale dell'unica
organizzazione elitaria della borghesia riformistica,
con un piede nell'Ordine e uno nella rivoluzione
permanente, con tendenza repubblicana.
Furono inoltre ridefinite le «attribuzioni
e prerogative del capo del governo» (legge 24 dicembre
1925, n. 2263): non più presidente del Consiglio,
“primus inter pares”, come era stato da Camillo Cavour a
Giolitti, ma primo ministro capo del governo con facoltà
di riproporre al Parlamento le leggi bocciate da una
Camera e di farle votare. Nelle cerimonie ufficiali il
capo del governo ebbe la precedenza sui Cavalieri
dell'Ordine Supremo della SS. Annunziata, “cugini del
Re” (fra questi figurava Mussolini stesso, cui Vittorio
Emanuele III conferì il “collare” dopo l'annessione di
Fiume all'Italia, in applicazione della regola non
scritta secondo cui l’onorificenza spettava agli
statisti che procuravano l'ingrandimento del territorio
nazionale).
A coronare il processo di riforma fu infine
la legge 31 gennaio 1926, n. 100 sulla facoltà del
potere esecutivo di emanare norme giuridiche, previa
deliberazione del Consiglio dei ministri e udito il
parere del Consiglio di Stato: vera e propria
sostituzione del Parlamento, relegato in posizione
secondaria e sussidiaria nella formazione delle leggi.
Quelle norme, coordinate in un progetto
coerente, furono liberticide ma al tempo stesso
ottennero il consenso dell'elettorato, certificato nelle
elezioni del 29 marzo 1929. Esse vennero varate nel
corso dell'Anno Santo 1925, tuttora da studiare nei suoi
molteplici aspetti e ripercussioni. Il minimo che se ne
può dire in questa sede è che il Giubileo di papa Pio X
coincise con la liquidazione del poco che rimaneva del
Partito popolare italiano, del quale la Santa Sede non
aveva mai sentito bisogno, con il severo monito al clero
di astenersi da questioni politiche e con la facoltà
conferita ai vescovi di assolvere i massoni dalla
scomunica loro comminata dal Codice di diritto canonico
del 1917.
Il Re isolato
E il Re? Prese atto della volontà popolare espressa
dalla Camera elettiva e dal Senato popolato di
a-fascisti e, ancora, da antifascisti dichiarati.
Sovrano scrupolosamente costituzionale, Vittorio
Emanuele III non poteva non sanzionare e promulgare
leggi approvate dalle Camere che, egli confidò a chi gli
chiedeva di “scendere in campo” contro il governo, erano
i suoi occhi e i suoi orecchi. Per farlo gli occorreva
un voto parlamentare di sfiducia verso l'esecutivo o
almeno un suo robusto pronunciamento in Aula. Ma ormai
l'opposizione era svanita, in parte di sua stessa
iniziativa, in parte perché dichiarata decaduta per
assenza ingiustificata.
Quale fosse allora il clima del Paese venne
poi scritto nella voce “Italia” dell'Enciclopedia
Italiana diretta da Giovanni Gentile, pubblicata nel
1933, scritta da Alberto Maria Ghisalberti, all'epoca
incaricato di storia contemporanea all'Università “La
Sapienza” di Roma futuro presidente dell'Istituto
per la storia del Risorgimento italiano. Dopo il 1922,
essa recita, “l'ardua fatica, sulla quale il Duce aveva
invocato l'aiuto di Dio, s’iniziava. Ordine, lavoro e
disciplina venivano dati alla nazione turbata,
s’«inquadrava» e si rafforzava lo stato, si dotava la
rivoluzione di uno strumento armato, la milizia, si
ricostituivano le forze militari, si affrontava in pieno
l'assillante problema del riassestamento economico e
finanziario. Sin dal primo tempo venivano migliorati i
servizi pubblici, specie il ferroviario, attuata una
politica marinara di vasto respiro, gettate le basi di
un radicale riordinamento scolastico, iniziato il
risanamento della moneta, bandita (autunno 1925) la
battaglia del grano, che ha permesso l’affrancamento dai
mercati stranieri, cominciate e condotte a termine
centinaia di iniziative in tutti i campi, per le quali
ci sarebbero voluti decenni sotto i passati regimi […].
Tramontata per sempre la concezione demoliberale, lo
stato si è ordinato su basi corporative. […] E quando la
violenza di alcuni dissennati in un cupo episodio di
passione partigiana soppresse un deputato di opposizione
[Giacomo Matteotti, NdA], i rappresentanti di questa ne
vollero far responsabile il fascismo e i suoi capi con
una campagna di denigrazione senza esempio e senza
limiti. Ma la “secessione dell’Aventino” fu stroncata
dal memorabile discorso del Duce del 3 gennaio 1925 e,
superata l’artificiosa questione morale, il fascismo
riprese il suo cammino vittorioso. E il popolo fu con
lui, come attestarono le elezioni plebiscitarie del 1929
e il grandioso e pur controllato accrescersi di iscritti
al partito e alle sue organizzazioni.» Quest'ultimo
avvenne col favore, ma Ghisalberti non lo scrisse, del
giuramento obbligatorio di fedeltà al duce oltre che al
Re e con l'obbligo della tessera del PNF per adire i
concorsi e gli uffici pubblici. Era la “tessera del
pane”, bene accetta dalle moltitudini alle quali poco
importavano la “dottrina” e la “mistica” fascista,
purché si stesse meglio e non si corressero rischi di
nuove guerre sui confini d'Italia. Quando una ne venne,
catastrofica, il regime crollò: su decisione non degli
“antifascisti” ma di Vittorio Emanuele III, che il 25
luglio 1943 revocò Mussolini e lo sostituì con Pietro
Badoglio.
Aldo A Mola
DIDASCALIA: Ritratto a olio di Benito Mussolini,
dipinto da Franck O. Salisbury (1927). Il duce, col
distintivo del PNF, tiene in mano una carpetta
intitolata “Governo”.
IL SILENZIO ELOQUENTE
DEL PRESIDENTE MATTARELLA Editoriale di
Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del
Piemonte e della Liguria” di domenica 29
dicembre 2024, pagg. 1
e 7. La
“domanda di serenità” raccomandata dal Re ai
“politici”.
Nel discorso di fine anno, anticipato “una tantun”a
Natale, agli spagnoli, variegato universo di genti e di
lingue, Re Filippo VI di Borbone ha detto che in una
società aperta e interconnessa qual è l'attuale
migrazioni e attenzione per l'ambiente devono essere al
centro della “politica”, chiamata a rispondere alla
“domanda di serenità” che sale dai cittadini. Come altri
popoli d'Europa, gli spagnoli sono angustiati dal
“discorde rumore di fondo” dei tanti che, per imporsi e
prevalere, urlano e gesticolano, seminando inquietudine,
pessimismo e sfiducia nel futuro, proprio mentre, grazie
ai progressi della scienza in ogni campo, l'uomo può
migliorare rapidamente “lo stato sociale e democratico
di diritto” i cui lineamenti sono scolpiti nella
Costituzione.
Le parole di Filippo VI sono un invito
garbato ad abbassare i toni e a riscoprire il
dovere/piacere del dialogo e della comprensione
reciproca. Gli adulti, gli anziani, i vecchi debbono
dare il buon esempio, anziché lamentare che i “giovani”
siano “ni ni”: né studiano, né lavorano. Chi li ha
dis-educati? “Dodici apostoli” sul Colle più alto
Identico monito è proposto dal giurista e storico Tito
Lucrezio Rizzo in “Mattarella. L'eloquenza della
società” (Herald Editore, Roma, novembre 2024), da
leggere nell'attesa del sempre più seguito discorso
presidenziale di fine anno. Il titolo del volume
riecheggia quello del profilo del Presidente tracciato
da Rizzo a conclusione del robusto volume “Il Capo dello
Stato dalla monarchia alla Repubblica, 1848-2022
(Herald, 2023). Dopo un saggio sul periodo regio,
l'autore passò in rassegna i “dodici apostoli” che si
sono alternati al Quirinale dal 1946 a oggi. A capo
dello Stato si sono susseguiti tre napoletani veraci:
Enrico De Nicola, presidente provvisorio dal 1946 al
1948; Giovanni Leone, giurista di chiara fama e statista
tanto integro quanto perseguitato sino alle dimissioni
anticipate, e Giorgio Napolitano. Primo presidente
rieletto alla suprema carica dello Stato, questi aprì il
secondo mandato con un discorso sferzante. I
parlamentari lo subissarono di applausi e, nei
fatti, beffardamente lo ignorarono. Altri sei
presidenti sono originari dell'antico regno di Sardegna:
i piemontesi Luigi Einaudi, monarchico e liberale, il
socialdemocratico Giuseppe Saragat, e Oscar Luigi
Scalfaro (novarese di famiglia originaria della
Calabria); i sardi Antonio Segni e Francesco Cossiga; e,
infine, il ligure Sandro Pertini (1978-1985), di cui
Tito L. Rizzo ebbe l'onore di essere “ghost writer”. La
Toscana dette alla Repubblica due presidenti: Giovanni
Gronchi, nativo di Pontedera, già sottosegretario di
Stato per il partito popolare italiano all'alba del
governo Mussolini (1922) e poi deputato della Democrazia
cristiana sin dalla Costituente; e il livornese Carlo
Azeglio Ciampi, che agli italiani ripropose il Tricolore
e il Canto Nazionale. Sembrava che il vivaio dei Capi
dello Stato fosse circoscritto a un territorio
esclusivo, quasi predestinato. Niente Lombardo-Veneto,
né Emilia, Marche, Abruzzo, Puglia… Se ne aveva tacita
conferma anche dalle candidature apparentemente
solidissime, ma poi sfumate. Mentre nel 1948 De Gasperi
era convinto di far eleggere il lucchese Carlo Sforza ma
dovette abbandonarlo per convergere su Einaudi,
l'abruzzese Franco Marini, quasi sicuro ai blocchi di
partenza quale presidente del Senato non fu eletto. Come
accadde al reggiano Romano Prodi, bruciato “in nuce” da
cento voti dei suoi stessi potenziali sostenitori.
Grazie all'abile regia di un toscano,
Matteo Renzi, che lo fece scendere in campo al quarto
scrutinio, con l'elezione al Colle più alto (665 voti:
quasi due terzi dell'assemblea) Mattarella spezzò
l'incantesimo negativo e segnò l'ingresso di un
siciliano al Quirinale. Era il 31 gennaio 2015, quasi
dieci anni addietro. Appena eletto visitò le Fosse
Ardeatine, il cimitero monumentale ove sono raccolte le
335 vittime della rappresaglia della Germania di Hitler
in risposta all'attentato messo a segno a Roma il 23
marzo 1944 da un Gruppo di azione partigiana del Partito
comunista italiano contro un reparto tedesco.
Mattarella appellò l'Europa e il mondo a
unirsi “per sconfiggere chiunque voglia trascinarci in
una nuova era di terrore”. Era il presentimento del
tempo che stiamo vivendo: guerre di sterminio condotte
con armi sempre più micidiali, a dimostrazione di quanto
l'ingegno possa industriarsi per fare il male anziché il
bene. “La Luce è venuta nel mondo ma gli uomini hanno
amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere
erano malvagie” si legge nel Vangelo di Giovanni (3,
19). Se ne vedono gli effetti. La forza suasoria della parla sommessa
Come infondere ravvedimento e riportare sulla retta via?
Con la parola: eloquente nella sobrietà, come osserva
Rizzo. È la cifra dei “Discorsi del Presidente”,
pronunziati con occhio sereno e un sorriso misurato,
spesso venato da un trasalimento che sa di mestizia e di
speranza nella redenzione: sentimenti propri del
cattolicesimo sociale nel cui solco plurisecolare
Mattarella si è formato.
Evocando Luigi Einaudi nel 150° della sua
nascita, lo scorso ottobre qualcuno ha osservato che
dalla prima giovinezza lo statista ed economista
piemontese “non studiò da presidente della Repubblica.
Semplicemente studiò”. Lo si può ripetere di Mattarella.
Nato il 23 luglio 1941 a Palermo da Bernardo
(1905-1971), autorevole esponente del partito popolare,
poi della democrazia cristiana e cinque volte ministro
della Repubblica, e da Maria Buccellato (1907-2001).
Fratello di Piersanti, presidente della Regione
Siciliana, assassinato da Cosa Nostra nel 1980, di
Antonino e Caterina (morta l'anno della sua elezione al
Colle), Sergio Mattarella crebbe a Roma. Allievo dei
Fratelli maristi delle Scuole e iscritto all'Azione
cattolica, si laureò a 23 anni in giurisprudenza con una
tesi sulla funzione dell'indirizzo politico. Avvocato
specializzato in diritto amministrativo, alla
professione forense accompagnò la docenza universitaria,
da assistente ad associato, sino al 1983, quando fu
eletto deputato e lasciò la cattedra e, con nobile
gesto, lo stipendio connesso.
A sollecitarne l'impegno nella vita
politica fu il lungimirante segretario della Democrazia
cristiana Ciriaco De Mita. Gli elettori della
circoscrizione Sicilia occidentale lo premiarono con
quasi 200.000 preferenze. Era tempo di rinnovamento: per
il quarantaduenne democristiano esordiente alla Camera
dei depuati, la politica è impegno morale, sull'esempio
di Aldo Moro.
L'elezione al Colle di un giurista “al di sopra delle
fazioni”
Nel 2015 le dimissioni di Napolitano,
eletto quale esponente della Sinistra, aprirono la via a
un candidato di area progressista ma meno “militante” di
lui, osannato da cronachisti e biografi come “Re
Giorgio”: una nomea che, a ragion veduta, non gli giovò.
Mattarella aveva lasciato la tessera della Democrazia
cristiana sin dall'elezione al Consiglio di presidenza
della giustizia amministrativa, seguita da quella a
giudice della Corte costituzionale: una decisione
assunta per evidenziare l'assoluta indipendenza
nell'esercizio di cariche che escludono condizionamenti
partitici. Aveva dunque i requisiti per essere da subito
il presidente di tutti gli italiani.
Nel 2013, in vista della successione a
Napolitano, il suo nome era già stato proposto con
quelli del democristiano Franco Marini e del socialista
Giuliano Amato da Luigi Bersani, segretario del Partito
democratico, a Silvio Berlusconi e a Mario Monti (Scelta
Civica) per una candidatura unitaria al Quirinale. Fu
scelto Marini, che però non decollò. Dopo molti
estenuanti scrutini a vuoto, la crisi istituzionale fu
scongiurata con la rielezione di Napolitano. Alle sue
dimissioni, il 29 gennaio 2015, su indicazione di Matteo
Renzi il Partito democratico propose quale candidato
unico Sergio Mattarella e decise di votarlo dal quarto
scrutinio, quando fu eletto. Ebbe il sostegno di
Sinistra Ecologia Libertà, Scelta Civica e Area
Popolare.
Nel corso del suo primo mandato la
presidenza del Consiglio passò da Renzi a Paolo
Gentiloni (dicembre 2016), che si dimise dopo le
elezioni anticipate del 4 marzo 2018, dall'esito
incerto. Dopo lunghe consultazioni e il conferimento di
un mandato esplorativo alla presidente del Senato, Maria
Elisabetta Alberti Casellati, che ebbe esito negativo,
Mattarella prese atto della convergenza del Movimento 5
Stelle e della Lega per la formazione di un governo
presieduto dall'avvocato Giuseppe Conte, ma non accolse
la proposta di Paolo Savona a ministro dell'Economia e
delle finanze. Da posizioni diverse il “pentastellato”
Luigi Di Maio e Giorgia Meloni, per Fratelli d'Italia,
ventilarono il proposito di accusare Mattarella di
“attentato alla Costituzione” in base all'articolo 90
della Carta. Una enormità spropositata. Fu un vero e
proprio assalto al primo magistrato d'Italia. Era già
accaduto quando con un gruppo di parlamentari
“comunisti” accusò Francesco Cossiga di alto tradimento
della Carta.
Il Presidente incaricò l'economista Carlo
Cottarelli che accettò con riserva ma il 31 maggio
rinunciò, informato che stava nascendo un sofferto
accordo su un “contratto” tra due forze presenti in
Parlamento. Si aprì la via al governo presieduto da
Conte, con Savona ministro agli Affari Europei. Il
“contratto” conteneva clausole anticostituzionali, come
l'esclusione dall'esecutivo di appartenenti alla
Massoneria, una associazione non riconosciuta in Italia,
ma neppure vietata. Anche i matrimoni sono “contratti”,
ma non sempre reggono. Altrettanto accadde a quello tra
pentastellati e leghisti, anche per l'intemperanza di
Matteo Salvini che ventilò la pretesa di “pieni poteri”.
La maggioranza deflagrò nell'agosto 2019. Il 5 settembre
nacque il governo Conte II, con il sostegno dei 5
Stelle, del Partito democratico e di LeU. Anche quella
coalizione ebbe breve durata. Con le dimissioni
dei ministri di Italia Viva, guidata da Matteo Renzi, si
aprì la lunga crisi conclusa con l'incarico a Mario
Draghi, già presidente della Banca Centrale Europea. Il
suo governo, insediato il 31 febbraio 2021, ottenne il
voto favorevole di tutti i partiti, a eccezione di
Fratelli d'Italia e di Sinistra italiana. Il nuovo
esecutivo sembrava dovesse/potesse durare a tempo
indeterminato per il prestigio del suo presidente e
perché il Paese, alle strette dopo la pandemia, aveva
bisogno di raccoglimento per risalire la china. Non fu
così. Lo fa intendere il volume di Tito Rizzo. Tito L. Rizzo alla ricerca del “segreto” di
Mattarella
Maturità classica al “Giulio Cesare” della nativa Roma,
“Alfiere del Lavoro”, laureato ventiduenne in
Giurisprudenza alla “Sapienza”, quarant'anni al
Quirinale, ove fu Consigliere capo servizio per la
sicurezza, cinque volte Premio della cultura della
presidenza del Consiglio, autore di dodici monografie e
540 pubblicazioni, Tito Lucrezio Rizzo premette al nuovo
libro parole che meritano di essere riportate pari pari.
Il Capo dello Stato, egli scrive, è un “potere neutro”,
«il che non significa potere inerte bensì al di sopra
delle parti, in una funzione di imparziale arbitraggio,
resa ancor più preziosa in una fase storico-politica
come l'attuale, dove non vi sono più in campo delle
squadre con dei colori ben identificabili, bensì delle
aggregazioni fluide e dove non è infrequente che i
giocatori cambino maglia durante la partita, passando in
campo avversario. Ma ci sono ancora le “maglie”, cioè
dei partiti solidamente strutturati con dei programmi
oggettivamente identificabili su precise identità
politiche (liberali, popolari, socialisti)?»
No, risponde Rizzo: oggi prevale «la capacità
affabulatoria dei “Pifferai di Hamerlin” di turno, degli
imbonitori da circo equestre, a coagulare dei consensi
drogati da slogan con alto impatto emotivo, senza il
necessario “humus” della cultura, presupposto
indispensabile ad ogni consapevole discernimento
critico, assente il quale non si afferma la democrazia,
ma la sua tragica deformazione della demagogia».
«In questo nebuloso scenario per la
navigazione a vista della nave “Italia”, con il rischio
che andasse a sfracellarsi sugli scogli
dell'antipolitica, uscendo dalla rotta europea,
l'equilibrio dimostrato da Mattarella durante il suo
primo mandato, temprato da pregresse immani tragedie
familiari, ha rappresentato il miglior biglietto da
visita del nostro Paese in ambito internazionale,
supportato al tramonto della sua prima investitura, da
un altro grande italiano – anche in ambito
internazionale – come il presidente del Consiglio Mario
Draghi.»
Rizzo rileva inoltre che il magistero del
Presidente si è fatto più incalzante nel “semestre
bianco”, quello “notoriamente crepuscolare”. Non
sorprende dunque che nel gennaio 2022, com’era già
accaduto nove anni prima con Napolitano, i “grandi
elettori” del Quirinale, dopo giorni di confusione,
dovettero chiedere a Mattarella di accollarsi il secondo
mandato, nonostante egli avesse già predisposto nei
dettagli il suo “nunc dimitte”. Ebbe 832 voti su 1011:
una percentuale che premiava il suo prestigio e sapeva
di atto di contrizione del Parlamento.
L'armonia, però, non durò a lungo. Il 14
luglio 2022 il Movimento 5 Stelle si assentò su un voto
di fiducia. Già dimissionario, richiesto da Mattarella
di ripresentarsi alle Camere per un chiarimento
ulteriore, posta la questione di fiducia su un mozione a
proprio sostegno, il governo Draghi venne affondato per
l'assenza dal voto di Forza Italia, Lega e 5 Stelle. Al
Presidente non rimase che sciogliere anticipatamente le
Camere e indire le elezioni del settembre 2022. Alle
urne, disertate dal 40% degli elettori, Fratelli
d'Italia risultò il partito più votato (ma, a conti
fatti e al di là dell'enfasi, ottenne il favore di un
modesto 16% degli elettori: un po' poco per “fare la
storia” a propria immagine e somiglianza). Il 21 ottobre
Mattarella incaricò Giorgia Meloni di formare il
governo, tuttora in carica: coalizione di Fratelli
d'Italia, Lega, Forza Italia e “Moderati”. L'Arbitro, crucciato dall'astensionismo
Proprio gli ondeggiamenti delle cangianti maggioranze
hanno fatto di Mattarella il perno della vita pubblica
dell'Italia al suo interno e di fronte alle Cancellerie
di tutti gli Stati. A cospetto della sempre più vasta e
preoccupante astensione dei cittadini dal voto, sia
amministrativo sia politico, il Presidente, grazie al
suo ruolo di garante della legalità costituzionale, si è
imposto quale caposaldo dello Stato nella comunità
internazionale. È quanto emerge dall’antologia di Sergio
Mattarella curata da Tito Lucrezio Rizzo, suddivisa in
cinque capitoli: dalla cattedra universitaria al
Quirinale; la giustizia come sostanza prima che come
forma; la centralità del ruolo della donna; lo scenario
internazionale; l'universo giovanile e la cultura.
Fermo nel rispetto dei limiti e delle
competenze, Mattarella non ha mancato di ricordare: «Io
ho le mie opinioni, ma ho il dovere di accantonarle,
perché se le scelte sono fatte da Organi cui queste
competono secondo la Costituzione, devo rispettarle e le
rispetterò sempre, naturalmente.» Nondimeno egli ha
fatto quanto in suo potere per ribadire l'amicizia
speciale dell'Italia con la Repubblica francese e con
ogni altro Stato dell'Unione Europea, come dei membri
della Nato e delle Organizzazioni internazionali in
favore delle quali la Repubblica ha acconsentito alle
limitazioni della propria sovranità “necessarie a un
ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le
nazioni”, come recita l'articolo 11 della Costituzione.
Superfluo quindi evidenziare la distanza
tra la visione dello Stato e della società nella quale
Mattarella si è formato e di cui è fautore dai fantasmi
di populismo, nazionalismo fanatico, sovranismo qui e là
affioranti. Altrettanto vale per i “diritti inviolabili
dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni
sociali ove si svolge la sua personalità” (art. 2 della
Carta), da lui fermamente richiamati e propugnati, e per
i “doveri inderogabili di solidarietà politica,
economica e sociale” nell'ambito della Repubblica “una e
indivisibile”, contro ogni tentazione di prevaricazione
egoistica di una parte del suo territorio a danno di
altre.
Stato di recente formazione (ha da poco
festeggiato il 160° della proclamazione del Regno, nel
1861), travagliato nella prima metà del Novecento da un
trentennio di guerre, dall’occupazione straniera e da
una lunga contrapposizione ideologica, per motivi
geostorici peculiari l'Italia odierna è un cantiere
aperto, che richiede armonia tra tutte le sue componenti
e la “serenità” che le è mancata per l'esasperazione del
protagonismo di molti suoi “politici” e “narratori”. Il
problema tuttora irrisolto non è la riforma delle
Istituzioni e, meno ancora, del rapporto equilibrato tra
Capo dello Stato, parlamento, governo nazionale e
amministrazioni regionali e locali – chiaro nella
Costituzione, molto confuso e scoraggiante nella realtà
quotidiana – bensì è il varo di una legge elettorale
capace di rianimare la sempre più fievole partecipazione
dei cittadini alla vita pubblica. Tanti si domandano
perché recarsi alle urne se non possono scegliere
liberamente il proprio rappresentate e debbono votare
candidati “preconfezionati” e spesso poco appetitosi?
Senza una legge elettorale adeguata ai tempi la
divaricazione fra cittadini e Stato, in tutte le sue
articolazioni, è destinata a crescere, sino alla crisi
finale.
Perciò i Discorsi del Presidente resteranno
memorabili: non solo in sé e per sé, ma anche per
misurare, nel tempo, se e quanto quella di Mattarella
sia rimasta “vox clamantis in deserto”. Quando si
dovesse constatare che chi doveva tenerne conto non lo
fece (accadde già con il secondo mandato di Napolitano),
si potrà stabilire a chi addebitare il saldo negativo
della Repubblica. Non certo ai suoi Presidenti, ma a una
“classe dirigente” che tale è solo per etichetta, non
per la sostanza.
Aldo A. Mola
Mattarella deputato e ministro.
Ripercorrere la vita politica di Sergio Mattarella
dall'ingresso alla Camera quale deputato (1983) e al
governo come ministro per i rapporti con il Parlamento
(governi Goria e De Mita, 1987-1989), della Pubblica
istruzione (governo Andreotti VI, 1989-1990) e della
Difesa (governi D'Alema e Amato, 1999-2001) travalica le
dimensioni di un articolo, per quanto ampio. Va almeno
ricordato che, già vicepresidente del Consiglio e
autorevole componente della Commissione parlamentare per
le riforme costituzionali presieduta da Massimo D'Alema,
nel 2008 Mattarella non si ricandidò alla Camera. Aveva
dato. Eletto componente della Corte Costituzionale
(2011-2015), non prevedeva certo l'elezione a Capo dello
Stato, né, tanto meno, il conferimento del secondo
mandato presidenziale.
FOTOGRAFIA: Il professore e avvocato Tito Lucrezio
Rizzo, autore di “Mattarella. L'eloquenza della
sobrietà” (Herald Editore). Studioso di vasti
orizzonti, con la dott.ssa Marzia Taruffi e altri, fa
parte del Comitato nazionale per la celebrazione del
IV centenario della nascita dell'astronomo Gian
Domenico Cassini (2025).
PINEROLO, UNA CITTÀ BIFRONTE Editoriale di
Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del
Piemonte e della Liguria” di domenica 22
dicembre 2024 pagg. 1 e
7. SCARICA
FORMATO .PDF Pinerolo ha mille
anni. Ci tiene e li dimostra. Unisce passato
remotissimo, attualità e ambizioni, memore di dominio
sabaudo e francese, come documenta l'opera collettanea
curata da Ilario Manfredini “Pinerolo, mille anni di
storia” (ed. Marcovalerio). E' sempre stata la base per
il dominio sul Vecchio Piemonte. Tomaso II di Savoia la
elevò a “capitale” al di qua delle Alpi. Ma sulla
cittadina, poche migliaia di abitanti raccolti in un
passaggio strategico, misero costantemente occhi e mani
anche i “francesi”. Al trotto e al galoppo da lì si
arrivava rapidamente a Torino. All'epoca militarmente
irrilevante, l'antica “Augusta Taurinorum” era la via
fluviale verso est: uno spazio agognato da chi,
Oltralpe, aveva difficoltà a scendere verso la Cornice.
Una prima dominazione francese durò dal
1536 al 1574, quando il duca Emanuele Filiberto di
Savoia la ottenne da Enrico III di Francia. Sembrò fatta
per sempre, anche perché in quegli anni crollò il
marchesato di Saluzzo, altra preda della Francia. Carlo
Emanuele I (1580-1630) condusse lunghe e dispendiose
guerre per impadronirsi di Saluzzo e difendere Pinerolo
dal duca Francesco di Lesdiguières.
Nel 1601 il trattato di Lione riconobbe
Saluzzo ai Savoia, ma la partita su Pinerolo rimase
aperta. Nel 1631 il cardinale Richelieu guidò in persona
la spedizione francese sulla città, “porta aperta in
Italia”. Storia e carte alla mano non aveva torto. Le
battaglie fondamentali nelle guerre tra la Francia dei
Valois e dei Borbone contro gli Asburgo d'Austria e di
Spagna per l'egemonia sull'Europa ebbero per teatro la
pianura padana, ricca di messe e di armenti, di mercati
e di artigianato d'avanguardia. Sottomessala, Parigi
fece di Pinerolo non solo una piazzaforte ma anche una
prigione di rigore. Luigi XIV vi fece rinchiudere il
sovrintendente alle finanze, Nicolas Fouquet, reo di
aver abusato dei suoi privilegi e ostentato le ricchezze
che si era procacciato per sé anziché per lo Stato, e la
tanto celebre quanto misteriosa “Maschera di ferro”,
spunto per dicerie (era il gemello del Re Sole?),
romanzi e film. Quando dovettero lasciarla, i francesi
minarono e fecero esplodere il castello e la fortezza.
Proprio con Luigi XIV il Piemonte
occidentale tornò teatro di guerra. Vittorio Amedeo II,
duca di Savoia, ebbe la peggio nella battaglia di
Staffarda. Il conflitto riprese con la guerra alla
successione sul trono di Spagna (1701-1713). L'armata
francese invase il ducato e vi condusse la “guerra
totale”: assedio di cittadine e di borghi, imposizione
di enormi “taglie”, versate per scongiurare assalto
finale e devastazione, anche di luoghi sacri, e
distruzione di ponti, strade, piloni. Non bastasse, gli
alberi da frutta e i vigneti furono mozzati al ceppo,
così da impedirne crescita e fioritura. È stato
calcolato che in quella guerra il “Piemonte” perse un
terzo dei suoi beni. Il conteggio (poi studiato da Prato
e da Einaudi) fu effettuato meticolosamente su ordine
del duca in vista del trattato di pace. L'ammontare dei
danni era pegno per il “risarcimento” che gli fruttò il
titolo di Re di Sicilia, pochi anni dopo mutato in
quello di Re di Sardegna. Fu premessa remota delle
guerre per l'indipendenza e l'unità d'Italia? Rimasero
in gran parte chiusi nel silenzio dettato dalla vergogna
gli abusi di cui furono vittime le donne e, assai
spesso, anche uomini da parte di un nemico che
sodomizzava pubblicamente i vinti per umiliazione
perpetua.
In un volume di prossima pubblicazione,
“Nel nome del Re Sole. Cenni storici su crimini, danni
ed angherie del nemico nel Piemonte in guerra e
nell'Alta Italia, 1703-1709”, ne scrive Alessandro
Mella, che documenta come anche gli “imperiali”, inviati
da Vienna in soccorso di Vittorio Amedeo II per cacciare
i francesi assedianti Torino, non mancarono di vessare
la popolazione. Ma i peggiori furono comunque i “cugini”
d'Oltralpe. Tra i molti spiccano i casi di Orbassano e
di Pinerolo. Dopo aver soggiogato Susa, nel 1704 i
francesi assalirono, saccheggiarono e incendiarono
Orbassano. L'anno seguente la cittadina fu nuovamente
assediata e sottoposta a tributo per non subire identica
sorte. Nel 1706 venne investita per la terza volta dai
gallici in rotta da Torino verso la Francia. Dettero
alle fiamme 143 delle sue 183 case: una rovina alla
quale fu difficile rimediare, dopo i saccheggi subìti
nel 1690 e 1693. Non migliore fu la sorte di Pinerolo,
raggiunta dai francesi il 10 marzo 1705. Vi rimasero tre
mesi estorcendo tutto il possibile. Subì incendi, furti
di bestiame, ruberie di mobili, vettovaglie, lingerie e
violenze di vario genere. Per una popolazione in larga
parte ordinariamente in ristrettezze fu un'esperienza
atroce.
Quasi un secolo dopo la plaga tornò teatro
di guerra. Prima irruppero i francesi della Repubblica
nata nel 1792 sulle rovine della monarchia capetingia,
poi gli austro-russi, giunti sino a Pinerolo, poi
nuovamente i francesi guidati attraverso le Alpi da
Napoleone, vittorioso a Marengo (giugno 1800). Come
aveva profetizzato il cardinale Richelieu, Pinerolo
divenne porta aperta dell'Italia. Fu annessa alla
Repubblica, poi all'Impero. Nel 1806 la lingua ufficiale
divenne il francese. La sua storia sembrò decisa per
sempre come quella del Piemonte e dell'Italia. Invece
neppure dieci anni dopo Napoleone e il suo sistema
furono travolti. Nel 1821, come ha scritto Dario Seglie,
presidente del CeSMAP e animatore della rivista
“L'Ipotenusa”, Pinerolo fu il punto di partenza di
Santorre di Santarosa e Guglielmo Moffa di Lisio che
chiesero il riconoscimento del “diritto dei popoli” alle
libertà. Il fallimento di quel moto non cancellò le
speranze d'Italia. Ripresero il loro corso nei decenni
seguenti e videro rifiorire anche la città: manifatture,
industrie meccaniche, fondazione della società di mutuo
soccorso, prima in Pimonte, e iniziative culturali, tra
le quali spicca la biblioteca civica “Alliaudi”, la cui
storia è documentata dal suo attuale direttore,
Gianpiero Casagrande.
Nel Novecento Pinerolo ha dato alla storia
d'Italia due figure politiche di rilievo nazionale:
Luigi Facta, sindaco, deputato, ministro, presidente del
Consiglio nel fatale ottobre 1922, e Ferruccio Parri,
comandante delle formazioni “Giustizia e Libertà”
promosse dal Partito d'azione, presidente del Consiglio
dei ministri dal giugno al dicembre 1945 e punto di
riferimento dei partigiani non stalinisti. Ma merita di
essere ricordata anche Lidia Poët (Traverse di Perrero,
1855-Diano Marina, 1949), valdese, prima donna a
iscriversi nell'Ordine degli avvocati di Torino nel
1883.
A pochi passi dalle “valli valdesi”
Pinerolo ha all'attivo anche una vivace presenza di
logge massoniche. A una tra le più rilevanti
(originariamente intitolata a Giordano Bruno, poi “Mario
Savorgnan di Osoppo”) furono affiliati studiosi di
chiara fama, quali Ferdinando Gabotto, primo storico
della città, Carlo Patrucco e Giuseppe Colombo. Ma tra
Sette e Ottocento la città ebbe uno tra i massoni
eminenti in Europa, Sebastiano Giraud, scienziato, la
cui biografia merita un libro.
Ottant'anni dopo l'ultima guerra anche nel
Vecchio Piemonte ci si domanda se la pace attuale sia
durevole, se non perpetua, o sia solo una tregua tra un
conflitto e l'altro. Perciò rivisitare la storia non è
vano. Insegna che tutto dipende dalle decisioni degli
uomini. Da ciascuno.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Il cavallo “Cromwell” di Emanuele
Cacherano di Bricherasio (Museo storico dell'Arma di
Cavalleria, Pinerolo). Il cavallo fu montato da
Federigo Caprilli, del quale ha scritto il colonnello
Carlo Cadorna in “Equitazione naturale moderna”
(Grottaferrata, Bcsmedia). La fotografia è tratta da
Aa.Vv, “Pinerolo, mille anni di storia”, a cura di
Ilario Manfredini, ed. Marcovalerio (Marco Civra),
2024, voll. 2). E' un' opera editorialmente
impeccabile, realizzata in due soli anni, con
eccellente corredo iconografico.
SAVOIA E BORBONE, DINASTIE EUROPEE
di Aldo A. Mola
Chissà perché il 15 dicembre nella rubrica “Lo dico al
Corriere” Aldo Cazzullo si è sentito in dovere di
affermare che “Re Felipe a Napoli ricorda che i Borboni
erano stranieri”. Stranieri per chi? Il re di Spagna non
lo ha detto affatto. È un'opinione di Cazzullo. Nato a
Madrid il 30 gennaio 1968, don Felipe nacque da Juan
Carlos di Borbone (Roma, 5 gennaio 1938) e da Sofia di
Grecia, che appartiene a una Famiglia dai rami diffusi
in tutta Europa e legata a doppio filo alla Casa
Savoia-Aosta.
Accolto in Parlamento a Camere riunite,
onore speciale, Filippo VI ha parlato fluentemente in
italiano, una tra le lingue di suo uso comune.
A Napoli, come a Roma, non si è affatto sentito
straniero, ma, qual è, europeo. Certo è gravato dal
rango di Capo di uno Stato, la Spagna, la cui coesione è
propiziata dalla monarchia e, come già suo padre,
coltiva speciali legami con i Paesi dell'America
“latina”, radicati in mezzo millennio di storia, quando
essi, a differenza di quanto solitamente si crede, non
erano “colonie” ma parte dello Stato spagnolo. Del pari
il Paese iberico moltiplica i rapporti con gli
ispanofoni degli Stati Uniti d'America, in continua
espansione, e con genti che lo spagnolo come “lingua
franca”, pur a fianco dell'inglese.
Dopo aver messo in riga lo “straniero” don
Felipe, in una successiva risposta a un lettore,
Cazzullo ha asserito che “i Savoia sono a tutti gli
effetti una dinastia italiana da quando Emanuele
Filiberto spostò la capitale (del ducato di Savoia, NdA)
da questa parte delle Alpi, da Chambéry a Torino. Era il
1563...”. Un realtà erano e rimasero europei. “Testa di
ferro”, come quel duca era detto, vincitore nel 1557 sui
francesi di Enrico II a San Quintino, con la pace di
Cateau Cambrésis (1559) aveva ottenuto la restituzione
delle terre già sabaude e le stava riordinando a marce
forzate. Il Ducato era uno Stato transalpino e anfibio,
un piede sulle Alpi, l'altro immerso nel mare tra Nizza
e Ventimiglia, ma territorialmente ancora esiguo.
Figlio di Carlo III il Buono e di Beatrice
di Portogallo, Emanuele Filiberto sposò Margherita di
Francia. Suo figlio, Carlo Emanuele I, si unì a Caterina
di Spagna (Asburgo). I successori alternarono matrimoni
con principesse francesi, tedesche (Polissena Cristina
d'Assia-Rheinfels) e spagnole (Borbone). Gli ultimi tre
re discendenti diretti di Testa di ferro (Carlo Emanuele
IV, Vittorio Emanuele I e Carlo Felice) sposarono
rispettivamente una francese, un'Asburgo d'Austria e una
Borbone di Napoli.
A inizio Ottocento si verificarono due
eventi di forte portata simbolica. Sconfitto da
Napoleone I, Francesco II d'Asburgo rinunciò al titolo
di sacro romano imperatore e retrocesse a Francesco I
d'Austria. Divorziato da Giuseppina de la Pagérie,
Napoleone ne sposò la figlia, Maria Luisa d'Asburgo.
Doveva essere il matrimonio del secolo: garantire la
pace perpetua tra l'impero austriaco e la Francia,
mentre gli altri Stati europei di terra ferma erano
satelliti di Napoleone, “imperatore dei francesi”.
Vincitori su Bonaparte, nel settembre 1815
i sovrani d'Austria (Francesco I, cattolico), Russia
(Alessandro I, ortodosso) e Prussia (Federico Guglielmo,
luterano), con successiva adesione della Francia del
restaurato Luigi XVIII di Borbone (cattolico),
sottoscrissero a Parigi la Santa Alleanza. «In nome
della Santissima e indivisibile Trinità» i tre monarchi
proclamarono di «restare uniti coi legami di una vera e
indissolubile fratellanza». «Considerandosi come
compatrioti», si impegnarono ad aiutarsi vicendevolmente
«in qualunque occasione ed in qualunque luogo», come
padri di famiglia dei propri sudditi. Anche se di lingue
diverse, nessuno era “straniero” all'altro: erano una
“comunità”.
Le pulsioni nazionali sprigionate dalla
Rivoluzione francese (altra cosa dalla guerra per
l'indipendenza delle colonie della Nuova Inghilterra
contro la Gran Bretagna, dalla quale nacquero nel
1783 gli Stati Uniti d'America) erano considerate fonte
di divisioni artificiose e di confitti pretestuosi. Per
frenarle, nel 1815 gli Alleati deliberarono di
ritrovarsi annualmente in congressi, anche a vantaggio
degli Stati che, come il regno di Sardegna, via via
aderirono e ne accettarono le decisioni. Quell'intesa fu
meno retorica di quanto si crede, perché, pur tra varie
scosse, garantì un secolo di pace, sino alla catastrofe
del 1914. Ciascuno nella propria ottica, un Borbone, un
Asburgo, un Savoia condividevano la responsabilità di un
governo “cristiano” sovranazionale che aveva il pregio
non secondario e più illuministico che reazionario di
aver consegnato al passato remoto le guerre di
religione. Non per caso alla Santa Alleanza non aderì il
papa, per il quale chi non era cattolico era “eretico” e
in “peccato mortale”, al pari di liberali, socialisti e
dei massoni, a suo giudizio ispiratori di sette
sataniche.
Primo re di Sardegna della Casa di
Savoia-Carignano, Carlo Alberto (1798-1849), figlio di
Carlo Emanuele e di Maria Cristina Albertina di
Sassonia-Curlandia, già conte dell'impero napoleonico,
francofono, all'ascesa al trono non pensava affatto a un
“progetto italiano”. Sposata Maria Teresa di
Asburgo-Lorena (Toscana) ne ebbe il futuro Vittorio
Emanuele II, che prese in moglie Maria Adelaide
d'Asburgo (Austria), e Ferdinando, duca di Genova, che
sposò Elisabetta di Sassonia e ne ebbe Margherita, poi
consorte di Umberto I, suo cugino primo, e Tommaso
Alberto, maritato con Isabella di Baviera.
Nel 1838 Carlo Alberto maturò la svolta:
depose formalmente il rango di Vicario dell'ormai
inesistente sacro romano imperatore e conferì alla Regia
deputazione di storia patria il compito di esplorare e
proporre la missione italica della Casa di Savoia: un
compito al quale si dedicarono Cesare Balbo e uno stuolo
di studiosi. Le guerre condotte da Carlo Alberto e da
Vittorio Emanuele II contro il dominio diretto e la
preponderanza degli Asburgo in Italia furono o vennero
narrate come inter-parentali (dati i vincoli
matrimoniali fra Savoia, Asburgo e Borbone delle Due
Sicilie) ma non inter-italiche. La storiografia
evidenziò che gli eserciti dei sovrani degli Stati
pre-unitari erano mercenari o coatti, a differenza di
quello sabaudo, ispirato da una missione morale e civile
e in lotta per la liberazione dal secolare “servaggio”.
Però anche da re d'Italia i Savoia continuarono a
svolgere il ruolo richiesto ai sovrani: concorrere di
persona a procacciare la pace europea. Lo si colse nel
1871, quando, mentre l'Europa era sconvolta dalla guerra
franco-prussiana (o franco-tedesca) e dalla “Commune” di
Parigi, il venticinquenne Amedeo di Savoia, duca di
Aosta, secondogenito di Vittorio Emanuele II, maritato
con Maria Vittoria Dal Pozzo della Cisterna, assunse la
corona di Spagna, offertagli dalle “Cortes” di Madrid su
impulso del generale Prim e d'intesa con Carlo Michele
Buscalioni, già gran maestro del Grande Oriente
Italiano. Dopo la sua abdicazione e un breve esperimento
di repubblica, sul trono di Spagna tornò un Borbone,
Alfonso XII, gradito ai liberali e contestato dai
“carlisti”, capifila dei clerico-reazionari d'Europa,
alla stregua del conte Enrico di Chambord, vaticinato re
di Francia in alternativa alla Terza Repubblica.
A conclusione si può riconoscere che
Filippo VI di Borbone, al pari degli attuali principi
della Casa di Savoia, è espressione della storia
europea: più precisamente del ruolo svolto in Europa
dalle molte Case che nei secoli ne hanno scandito la
storia. Chi un tempo riteneva che i re fossero la causa
prima di guerre e che le repubbliche avrebbero garantito
pace, libertà e progresso, oggi deve constatare che, là
ove sono, i sovrani non risultano affatto più esecrabili
di tiranni di formazione repubblicana. Per i molti
motivi accennati sentivano di avere una missione comune,
più di quanto oggi mostrino di avere politici
provvisoriamente al potere e, talvolta, disposti a tutto
pur di rimanervi. Come mostra il caso di Sarkozy,
inseguito da una voce che si leva dal deserto.
Aldo A. Mola
L'EPOPEA DI
GIARABUB
NELL'OPERA DI ZERRILLO E CAPPONE
Editoriale di
Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del
Piemonte e della Liguria” di domenica 15
dicembre 2024, pagg. 1
e 6. 1941: primavera di tristezza
«Dopo quattro mesi di assedio è caduta Giarabub.»È la
lapidaria annotazione affidata al “Diario” dal generale
Paolo Puntoni, primo aiutante di campo di Vittorio
Emanuele III, al termine del colloquio quotidiano con il
Re. Era il 21 marzo 1941, triste equinozio di primavera.
La guerra non andava affatto bene per le armi italiane.
Al rientro dall'Albania, Mussolini era furente. «Il
nostro attacco alla Grecia – prese atto il duce – è
sostanzialmente fallito, specialmente se si tiene conto
delle speranze che in esso erano state riposte. In
Africa orientale la situazione precipita. È in corso
l'abbandono completo della Somalia.» Neppure un paio di
mesi dopo, il 5 maggio, l'imperatore Hailé Selassié fu
riportato dagli inglesi ad Addis Abeba. Il 24 aprile il
principe Amedeo di Savoia, III duca d'Aosta, si
asserragliò sull'Amba Alagi. Dopo un mese di eroica
resistenza si arrese ai britannici con l'onore delle
armi. Il “Duca di ferro” morì prigioniero in un ospedale
di Nairobi il 3 marzo 1942. Volle essere sepolto tra i
suoi soldati. Nel volgere di pochi mesi l'intera Africa
Orientale Italiana andò completamente perduta.
La guerra nell'Africa settentrionale
Il 28 giugno 1940 Italo Balbo, governatore della Libia,
fu abbattuto da mai chiarito “fuoco amico” nel cielo di
Tobruk. Mussolini lo sostituì con Rodolfo Graziani, che
non vi aveva lasciato buon ricordo nella fase conclusiva
della riconquista, e gli ordinò di muovere contro gli
inglesi in Egitto. Winston Churchill consigliò ad
Archibald Wavell di non accettare battaglia e di
acquartierarsi a Marsa Matruh in attesa di tempi più
favorevoli. Questi vennero sulla fine dell'anno. Il 7-8
dicembre 1940 inglesi e “imperiali” (precisamente
australiani) mossero all'offensiva in Cirenaica.
Avanzarono a valanga. La sera del 10 il comando del
battaglione “Coldstream” informò che era «impossibile
contare i prigionieri a causa del loro elevato numero»,
ma che c'erano «circa cinque acri di ufficiali e
duecento acri di truppa». Wavell era ormai così sicuro
della vittoria che dirottò via mare un'intera divisione
verso l'Eritrea per l'assalto finale agli italiani. Come
poi annotò Churchill, sia Graziani sia Mussolini e la
sua cerchia si mostrarono del tutto impari ad affrontare
gli eventi. L'11 dicembre il duce dovette costatare che
in Libia in soli due giorni erano state polverizzate due
divisioni. A commento dei telegrammi catastrofici di
Graziani, che lamentava di essere stato messo nelle
condizioni di fare «la guerra della pulce contro
l’elefante» e annunciava di volersi arroccare
addirittura a Tripoli, Mussolini confidò a Ciano: «Ecco
un altro uomo con il quale non posso arrabbiarmi perché
lo disprezzo.»
Il 1941, sin dall’inizio, fu costellato di
“notizie buie”. L'attacco inglese in Marmarica
“squarciò” le difese italiane. Il duce si rassegnò ad
abbandonare la Cirenaica. Il 12 gennaio il generale
Italo Garibaldi sostituì Graziani, ruvidamente
richiamato in patria. Lo stesso giorno, su direttiva di
Adolf Hitler, a Tripoli giunse Erwin Rommel, per
allestire il comando dell'Afrika Korps. Secondo lo
storico Jens Petersen «l’establishment militare
[germanico, NdA] diffidava di Rommel ed in parte lo
odiava». Invece Churchill ne elogiò le qualità e le
ribadì in “La seconda guerra mondiale”: «Un avversario
assai audace e abile e, se posso dirlo al di sopra delle
stragi della guerra, un grande generale». Meritava
rispetto anche perché, «pur essendo un leale soldato
tedesco, finì con l'odiare Hitler e tutta la sua opera e
partecipò alla cospirazione del 1944 per salvare la
Germania tentando di togliere di mezzo il fanatico
tiranno. Per questo sacrificò la vita».
A fine gennaio del 1941 Vittorio Emanuele
III confidò a Puntoni: «Nei momenti difficili tutti sono
capaci di criticare e di soffiare sul fuoco; pochi o
nessuno sono quelli che osano prendere decisioni nette e
assumersi gravi responsabilità.» Gli ricordò che nel
1922 si era rassegnato a chiamare al governo “questa
gente”, cioè Mussolini e i nazional-fascisti, perché
«tutti gli altri, chi in un modo, chi in un altro» lo
avevano abbandonato. Per 48 ore egli in persona aveva
dovuto «dare ordini direttamente al questore e al
comandante del corpo d’armata [di Roma, il pluridecorato
Emanuele Pugliese, NdA] perché gli italiani non si
ammazzassero fra loro». Ora, a suo giudizio, Mussolini
non era più in grado «di raddrizzare la situazione»
perché «ormai soffocato e avviluppato dai tentacoli del
partito». Il re vedeva lontano.
Meno di un mese dopo giunse a Roma la
notizia della resa di Giarabub, annotata da Puntoni nel
“Diario” e magistralmente evocata dal generale Antonio
Zerrillo e del capitano Massimo Cappone nel volume
“Dalle Langhe a Giarabub: un medico, un cappellano,
soldati nel deserto africano durante la seconda guerra
mondiale” (2024). Benché noti, richiamiamo
sinteticamente i quattro mesi di lotta spasmodica. Dalla
storia antica e gloriosa, Giarabub era dominio italiano
dal 1926, con la rettifica del confine tra l'Egitto e la
Cirenaica. Nella sua moschea riposava la salma del
fondatore dei Senussi, una “setta” rigorista dell'islam
con la quale si era confrontato Giovanni Giolitti, che
nel 1920 ne aveva invitato a Roma gli esponenti per
avviare la pacificazione della Cirenaica all'indomani
della Grande Guerra. L'oasi era nota per la prestigiosa
scuola coranica.
Nel giugno 1940 era sede di una guarnigione
fortificata. L'oasi di Giarabub, un bacino di 25
chilometri di lunghezza e 6 di larghezza, sparso di
acquitrini e paludi, incassato da 6 a 15 metri sotto il
livello del mare, non manca di laghetti, ma salati, né
di fontanili, ma di acqua salmastra. A parte il vasto e
lussureggiante palmeto, irrorato da un ruscello
spontaneo e con l'acqua estratta da pozzi, aveva orti
che producevano il necessario per le poche centinaia di
abitanti della “zavia”, ma del tutto insufficienti per
gli oltre duemila militari del presidio. Allestito al di
fuori della città, questo contava circa 1350 nazionali e
750 soldati libici agli ordini del maggiore Salvatore
Castagna, un valoroso ufficiale, decorato durante la
Grande Guerra, ma dalla carriera rallentata perché
celibe. La “piazza” disponeva di un discreto parco di
cannoni di diversi modelli e di 56 mitragliatrici da
campo. Aveva anche una considerevole scorta di
munizioni. Però, privo di risorse autonome, per
l'alimentazione il presidio doveva essere rifornito dai
centri affacciati sulla costa, ai quali era collegato da
una faticosa pista di 226 chilometri attraverso il
deserto infuocato e abbacinante.
L'assedio di Giarabub...
Lontana dal fronte di guerra, con l'avanzata degli
“imperiali” lungo la costa della Cirenaica Giarabub non
fu investita dall'offensiva, ma rimase isolata. Benché
irrilevante sotto il profilo strategico, il suo presidio
costituiva una presenza insopportabile per i britannici,
decisi a liberare il loro fianco sinistro da una
insidia, anche se lontana. Per eliminarla, come bene
documentano Zerrillo e Cappone, il comando britannico
lanciò un reggimento di cavalleria motorizzata della 6^
divisione australiana, forte di carri leggeri e di
artiglieria. Impossibile via terra per la ritirata degli
italiani dalla Cirenaica, il rifornimento del presidio
continuò per via aerea sino a quando il 9 gennaio 1941
gli inglesi misero fuori uso a cannonate la pista di
atterraggio, estrema possibilità di soccorrere la
guarnigione, asserragliata in una “piazza” dal perimetro
di circa quattro chilometri, protetta da reticolato e, a
tratti, da campi minati, da una corona di posti di
vigilanza e di sbarramento, da fossi anticarro, trincee
e postazioni per puntate all'esterno e rifugio di
emergenza per le pattuglie inviate in esplorazione. Il
maggiore Castagna aveva approntato tutto il necessario
per la difesa, ma non poteva provvedere
all'alimentazione. L'8 febbraio Graziani lo autorizzò a
regolarsi di propria iniziativa. Appena promosso a
tenente colonnello, Castagna prese tutte le
responsabilità sulle sue spalle.
Il 25 febbraio egli comunicò: «Ho una sola
giornata di viveri. È doloroso dopo tanti sacrifici
doversi arrendere per fame.» Gli inglesi invitarono alla
resa: «Difensori di Giarabub: i vostri capi
probabilmente non vi hanno detto che abbiamo occupato
l'intera Cirenaica, catturando 115.000 prigionieri ed
ingenti quantità di materiali. Le nostre truppe marciano
ora su Tripoli. Ogni vostro sforzo è quindi inutile ed
anche la via di ritirata è preclusa. Arrendetevi: noi vi
tratteremo bene.» Il comandante sapeva che i “fatti”
erano proprio quelli, ma ritenne che non bisognava
cedere “neppure un metro”: non per fatua cocciutaggine e
sprezzo del pericolo, ma per senso del dovere, condiviso
da tutti gli uomini del presidio, compresa una
sessantina di libici che decisero di rimanervi. Sapevano
di far parte di una “grande guerra”. Le sorti del
conflitto dipendevano dalla abnegazione di ogni singolo
uomo.
Il 16 e 17 marzo gli “imperiali”
costrinsero gli assediati a retrocedere dai posti di
sbarramento. Nessuno si illuse quando il 17 l'ultimo
aviolancio di gallette e scatolette fu accompagnato da
un messaggio di Erwin Rommel: «Saluto i valorosi
difensori di Giarabub ed esprimo la mia ammirazione.
Continuate a fare il vostro dovere. Fra pochissime
settimane saremo da voi.» Il comandante dell'Afrika
Korps prometteva di raggiungerli «per via terrestre». Il
piano scattò ad aprile ed inizialmente lungo la costa
ebbe successo straordinario. A quel punto, però, la
guarnigione di Giarabub era stata travolta.
… e la sua caduta
Gli assediati sentirono arrivare la fine. Da quasi due
mesi erano allo stremo. Eppure tennero i nervi saldi. Il
19 respinsero un reparto nemico, ma il 20 gli imperiali
attaccarono a ventaglio tutti i capisaldi. Grazie alla
netta superiorità dell'artiglieria, con gittata
superiore all'italiana, scompaginarono le estreme
difese. La battaglia culminò con scontri ravvicinati e
“corpo a corpo”. Anche il comandante Castagna venne
ferito mentre combatteva alla testa di un nucleo di
libici. Sulla sera la lotta terminò. I sopravvissuti,
catturati uno a uno, ebbero l'onore delle armi. Finirono
prigionieri in Sud Africa, India, Australia.
Il bilancio delle perdite indica il loro
valore: contro i 400 italiani morti o feriti, tra i
quali sette ufficiali, gli australiani lamentarono 17
morti e 77 feriti: una disparità notevole, perché,
secondo la dottrina, solitamente gli assalitori
subiscono perdite maggiori rispetto agli assaliti, se
questi, però, sono dotati di armi migliori e si battono
da posizioni dominanti. Fu l'opposto di quanto avvenne a
Giarabub nei giorni decisivi. La fine non fu dettata
dalla mancanza di valore o di fortuna ma dalla disparità
dei mezzi. Quelli degli “imperiali” erano oggettivamente
superiori. Dall'avvento delle artiglierie di lunga
gittata, della motorizzazione, dei carri armati,
dell'aviazione e della comunicazione radio anziché su
filo o con messaggi scritti, obbligatoriamente
consegnati a mano (come ancora in uso nel 1914-1918), la
guerra divenne una lotta fra sistemi di produzione e
organizzazione logistica: malgrado la retorica, quelli
italiani erano inconfrontabili con quelli dell’impero
britannico. La mancanza di un piano strategico generale
e la dispersione delle armate su troppi fronti secondari
fecero il resto. Come hanno osservato tutti gli storici
obiettivi e lo ripete Oreste Bovio nella “Storia
dell'Esercito italiano” (US-SME), la resistenza delle
Forze Armate a tre anni di guerra (giugno 1940-settembre
1943) ha del miracoloso.
La caduta di Giarabub entrò subito nella
leggenda. A dare voce alla sua epopea furono Ferrante De
Torres, Simeoni e Ruccione, già autori di “Camerata
Richard” e, nel 1942, un film di vasto successo con la
partecipazione di attori celebri e il giovane Alberto
Sordi.
Ma perché proprio Giarabub? Nella seconda
Guerra Mondiale i militari italiani dettero prove di
valore in misura inversamente proporzionale alle risorse
belliche messe a loro disposizione. Il Comando Supremo e
gli stati maggiori delle tre armi ne erano consapevoli.
Specialmente quello dell'Esercito. Il 1° giugno 1940 il
Capo di stato maggiore generale, Maresciallo Pietro
Badoglio, scrisse a Mussolini che bisognava guadagnare
ancora tutto il mese prima di intervenire «senza fare la
figura dei corvi». L'offensiva era impossibile, perché
l'esercito difettava gravemente di munizioni da fuoco e
da bocca. Infatti alla dichiarazione di guerra la
direttiva del Comando Supremo fu: “osservazione” e
risposta al fuoco solo se assaliti (Mario Montanari,
“L'Esercito italiano alla vigilia della 2^ Guerra
mondiale”, Roma, Ufficio storico dello SME, 1982).
I difensori di Giarabub avevano mostrato
che “l'antico valor” negli “italici cor” non era “ancor
morto”. Molte battaglie affrontate da militari italiani
nella seconda guerra mondiale entrarono nella memoria
per l'alto numero dei caduti e per i canti che ne
nacquero. “Il ponte di Perati” (che riecheggia un nenia
della Grande Guerra) ricorda il sacrificio degli alpini
della “Julia” nella campagna di Grecia. Il suo abbrivo è
lugubre: “Sul ponte di Perati bandiera nera…”. La
ritirata di Russia non ha ispirato canzoni di pari
intensità. Eppure tra le prove di valore assoluto delle
armi italiane nella seconda guerra mondiale due vennero
date proprio su quel fronte, così remoto dalla
Madrepatria. Il 24 agosto 1942 a Isbuchenskij 700
cavalieri del “Savoia Cavalleria”, del “Lancieri di
Novara” e delle “Voloire” sfondarono la sacca nella
quale stavano per essere chiusi dall'Armata Rossa.
Parimenti eroica fu l'impresa compiuta il 26 gennaio
1943 a Nikolaevka dagli Alpini, che l'hanno assunta a
giorno memoriale. Le due “cariche” di Isbuchenskij e di
Nikolaevka entrarono tra gli episodi gloriosi
dell'esercito nella seconda guerra mondiale, ma rimasero
una realtà diversa dai lunghi mesi della resistenza
opposta al nemico da “quelli di Giarabub”.
Perciò questa meritava la rievocazione
proposta da Antonio Zerrillo e Massimo Cappone, sulla
traccia dell'opera di Salvatore Castagna che nel 1967
pubblicò “La difesa di Giarabub”, imprescindibile per
quanti sono tornati a scriverne, sino a “Giarabub. 1941.
Un'oasi, una battaglia, una leggenda” di Pierluigi Romeo
di Colloredo Mels (2021).
Il Generale Zerrillo, il capitano Cappone e il
giudizio di Churchill
Già autore di importanti saggi e promotore delle
rievocazioni del medico Ferruccio Della Valle ad Alba e
di don Giovanni Blengio a Levice, per anni il generale
Antonio Zerrillo, in collaborazione con il capitano
Massimo Cappone, ha cercato ogni possibile traccia degli
“uomini di Giarabub”. Per individuarli ha mobilitato gli
uffici anagrafe dei comuni più remoti e, lo ripete egli
stesso, le stazioni dei carabinieri, fonte
indispensabile per ottenere informazioni altrimenti
inarrivabili. Ecco, dunque, il suo metodo: ricerca dei
documenti, rintraccio dei “testimoni” o dei loro eredi e
visita, diretta o indiretta, dei luoghi teatro delle
vicende narrate. I frutti del lungo lavoro sono
consegnati al lettore con stile narrativo accattivante,
fluido, arricchito da icasticità delle immagini e
precisione dei termini tecnici quando si addentra
nell'esame di reparti e di armi. L'indagine sugli
“australiani” che presero parte all'assedio di Giarabub
è un “caso di scuola”, meritevole di essere proposto
quale modello di indagine archivistica e rispetto delle
fonti. Uno straordinario apparato iconografico in
bianco/nero e a colori e l'indice dei nomi arricchiscono
il volume.
Zerrillo non nasconde che, mentre compiva
la ricerca, sentiva martellanti in memoria questo o quel
verso della Sagra di Giarabub. Forse il più assillante è
il finale: «sono morto per la mia terra, / ma la fine
dell'Inghilterra incomincia da Giarabub.» Lo ebbe chiaro
Winston Churchill. Il crollo dell'impero coloniale
italiano, egli osservò, fece la differenza tra il prima
e il dopo nella storia d'Italia dalla sua unità in poi.
In particolare, se la guerra nell'Africa settentrionale
avesse avuto altro corso e l'asse italo-germanico si
fosse impadronito delle colonie africane di francesi e
inglesi, le ripercussioni sarebbero state di dimensioni
planetarie e di durata imprevedibile. Il mondo non
sarebbe quale attualmente è. Lo percepirono gli autori
della Sagra di Giarabub, come il regista e gli
interpreti del film (1942), al pari dei primi
giornalisti che intervistarono i reduci dall'assedio. Fu
il caso di Gian Dal Po, pseudonimo di Gianni Brera, la
cui facondia apprezzai mentre spartivamo pane e pesci
appena scottati su pietra arroventata in una trattoria
della sua terra. Tra i molti il generale Zerrillo ha
avuto il merito di “scovare” quel suo primo “libretto”,
scritto con lo stile del tempo.
La “lezione” di Giarabub,
Il tenente colonnello Castagna, i suoi ufficiali, i suoi
uomini sentirono di dover servire fino in fondo la
Patria: «…non si cede nemmeno un metro.» Perché la
Patria si difende e si salva con tanti gesti quotidiani
che, sommati, si risolvono nella salvezza o nella
catastrofe. La sua difesa è “sacro dovere” del
cittadino, come detta l'art. 52 della Costituzione.
Arroccati senza speranza gli “uomini di Giarabub” si
sentirono e furono parte della Grande Storia. Il loro fu
un caso unico, sotto il profilo militare e psicologico.
Merita memoria e meditazione.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Il volume “Dalle Langhe a Giarabub” del
capitano Massimo Cappone e del generale Antonio
Zerrillo (in fotografia) è stato presentato giovedì 12
dicembre al Teatro “Moretta” di Alba, attiguo al
Santuario dei Padri Giuseppini, presente un pubblico
folto e partecipe. L'opera è patrocinata dai Comuni di
Alba, ove nacque l'ufficiale medico Ferruccio della
Valle, Levice, patria del cappellano don Giovanni
Blengio, Caltagirone, che dette i natali al comandante
Salvatore Castagna, il “Leone di Giarabub” poi asceso
a generale, di Morcone e di San Zenone a Po. La
realizzazione del sontuoso volume, promosso dall'
Associazione Nazionale della Sanità Militare italiana
e introdotto dal suo segretario, generale Vincenzo
Barretta, è stata approvata e finanziata dal Ministero
della Difesa. ALDO G. RICCI
NON “STORIELLE”, STORIA
Editoriale di
Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del
Piemonte e della Liguria” di domenica 8
dicembre 2024, pagg. 1
e 6.
Alla
scoperta del referendum del 2-3 giugno 1946
La “Giornata particolare” appena dedicata al 2 giugno
1946 da Aldo Cazzullo su “LA7” è un'occasione mancata
per far conoscere al grande pubblico come davvero andò
il referendum istituzionale. Sin dal sottotitolo:
“Monarchia contro Repubblica”, anziché “Monarchia o
repubblica”. Il referendum e l'elezione dell'Assemblea
costituente furono gestiti da un governo formato
esclusivamente da fervidi repubblicani, a eccezione di
Leone Cattani che la notte fra il 12 e il 13 giugno votò
contro il conferimento delle funzioni di capo dello
Stato ad Alcide De Gasperi. Quel “gesto rivoluzionario”
(come lo definì Umberto II nel Proclama agli italiani
diramato partendo da Roma alla volta del Portogallo), o
“colpo di Stato”, pose il re di fronte al dilemma:
cedere alla prevaricazione del governo o rischiare di
precipitare l’Italia in una nuova guerra civile.
Nell’esecutivo i poteri strategici erano nelle mani dei
socialisti Giuseppe Romita, ministro per l'Interno, e
Pietro Nenni, vicepresidente (che minacciò “Repubblica o
caos”), e del comunista Palmiro Togliatti, ministro di
Grazia e Giustizia, il quale ripetutamente impose la sua
linea trincerandosi anche dietro affermazioni non vere.
Per esempio, a chi chiese il controllo delle schede
referendarie votate rispose che esse erano già state
distrutte.
Mentre per la repubblica si schierarono
quasi tutti i quotidiani “di opinione” e, s'intende, i
programmi radiofonici, i monarchici non riuscirono a dar
vita a un giornale nazionale. Pesò anche il desiderio
del principe Umberto, dal 5 giugno 1944 Luogotenente del
regno (anziché “del Re”), di rimanere “al di sopra della
mischia”. In tal modo egli finì quindi per subire le
imposizioni del governo, espressione del Comitato
centrale di liberazione nazionale, vincolato alle
direttive anglo-americane. Emanò il Decreto
luogotenenziale 25 giugno 1944, n. 151, che, rimettendo
la scelta della forma dello Stato alla decisione dei
cittadini, di fatto sospese lo Statuto albertino e
instaurò un regime di “costituzione provvisoria”: cesura
sulla quale non si conosce il giudizio di Vittorio
Emanuele III, che aveva, sì, trasferito al figlio tutti
i poteri nessuno escluso, ma non la Corona.
Nell'impossibilità di rettificare in questa
sede le inesattezze della narrazione esposta da
Cazzullo, ne vanno corrette almeno alcune affermazioni
sulle quali la storiografia ha fatto luce da tempo. Il
governo Mussolini, insediatosi il 31 ottobre 1922
senz'alcun bisogno della leggendaria “marcia su Roma”,
comprese esponenti di tutti i partiti costituzionali.
Alla Camera fu il capogruppo De Gasperi a motivare il
voto favorevole del Partito popolare italiano. Ad
approvare a larghissima maggioranza quel governo furono
deputati liberamente eletti il maggio 1921: un caso
unico di “suicidio politico”, come, fra altri, ha
insegnato per decenni lo storico socialista Giovanni
Sabbatucci, morto ottantenne pochi giorni addietro.
Scrupolosamente costituzionale, come gli
viene riconosciuto da studiosi non faziosi, il re
assecondò i pareri di tutti i gruppi parlamentari, delle
forze costituzionali e anche dell'altra riva del Tevere,
con la quale Mussolini era in rapporti diretti. Negli
anni del regime autoritario (non totalitario), il re
sanzionò, emanò e promulgò leggi approvate dal
Parlamento, anche quando (come quelle razziste del 1938)
non le approvava affatto. Non aveva facoltà di rinviarle
alle Camere, come invece previsto dalla Carta
repubblicana. La sua condizione non fu troppo diversa da
quella del Presidente della Repubblica Sergio
Mattarella, che recentemente ha dichiarato di aver
firmato anche leggi da lui non condivise. “Così si può
colà dove si puote”: il Parlamento, eletto dai
cittadini, sempre pronti a scaricare su altri le proprie
responsabilità.
Mentre ha omesso di ricordare che fu
Vittorio Emanuele III, nella pienezza dei suoi poteri, a
sostituire Mussolini con Pietro Badoglio, e a
smantellare il Partito fascista e tutti i suoi organi e
istituti (25 luglio 1943: decisione presa a prescindere
al voto del Gran Consiglio), Cazzullo ha reiterato
l'accusa di “fuga da Roma” del re (9 settembre 1943),
già usata da Mussolini e dai repubblichini. Il fuggiasco
procede occultamente sotto finte spoglie. L'auto del
sovrano, in divisa militare, uscì dalla Capitale con lo
stendardo reale bene in vista. Né è stato sottolineato
che l'accettazione della resa (3 settembre) salvò la
continuità dello Stato e la sua quasi totale integrità
territoriale.
Quando, dopo lunghe digressioni, giunto al
punto il narratore ha ricordato quanti andarono alle
urne ma non ha detto una parola sui tre milioni di
aventi diritto al voto che ne furono impediti, o per
motivi politici, o perché ancora prigionieri di guerra
(centinaia di migliaia) o perché non ebbero la tessera
elettorale o, infine, perché residenti nella XII
Circoscrizione elettorale (Friuli-Venezia Giulia, Fiume,
Zara...), esclusa dalla consultazione, come la provincia
di Bolzano, con la promessa di potersi pronunciare
quando fosse cessata la loro condizione di terre
disputate: impegno mai mantenuto dal governo. Su 28
milioni di elettori, i votanti furono circa 25 milioni.
La monarchia ottenne 10.700.000 suffragi; la repubblica
12.700.000: poco più della metà dei voti validi, molti
meno della metà degli elettori e con un margine di
vantaggio sul numero dei votanti così ristretto da
legittimare la richiesta di verifica dei verbali dei
seggi, inviati dagli Uffici elettorali circoscrizionali
a quello Centrale.
Il 10 giugno, a cospetto di dati ancora
provvisori, il presidente della Corte Suprema di
Cassazione, Giuseppe Pagano, chiese che fossero
rendicontati non solo i voti validi ma anche le schede
bianche, nulle, contestate e non attribuite (circa
1.500.000), fino a quel momento ignorate. Prima ancora
che la verifica avesse corso (13-16 giugno), il
Consiglio dei ministri compì il “gesto rivoluzionario”
di cui sopra si è detto. Ormai partito il Re dal suolo
patrio, la verifica si risolse in un'operazione
burocratica, suggellata dal colpo di Stato contro la
lingua italiana messo a segno da 12 dei 18 componenti
della Corte Suprema secondo i quali per “votanti” non si
intende quanti vota ma solo i voti validi: decisione non
condivisa né da Pagano né dal Procuratore generale della
Corte, Massimo Pilotti, e rimasta unica nella storia
elettorale d'Italia perché del tutto infondata.
“Votante” è chi va al seggio, ritira la scheda, la vota
e la depone nell'urna. Alle 18 del 18 giugno, letti gli
esiti comunicati dall'Ufficio Elettorale Centrale,
Pagano non “proclamò” affatto la Repubblica (prevalsa
per effetto della legge elettorale), né accolse l'invito
rivoltogli da De Gasperi di accompagnarlo al Viminale.
Nessuno fece notare (e Cazzullo ha perso l'occasione di
dirlo) che dopo il 10 giugno e anche dopo la partenza di
Umberto II dall'Italia tutti gli atti con valore legale
continuarono a essere intestati “in nome del Re” sino al
19 giugno, quando la “Gazzetta Ufficiale” pubblicò il
verbale dell'adunanza del 18.
Si dirà che queste sono cose arcinote e
documentate. Ma allora perché non dirle invece di
narrare storielle irrilevanti? Perché, mentre Umberto
viene definito “uomo ordinario”, di Vittorio Emanuele
III si ripete che fu complice del regime? Alle urne gli
italiani andarono nel 1919, 1921, 1924, il 24 marzo
1929, subito dopo la Conciliazione Stato-Chiesa dell'11
febbraio, e ancora nel 1934. Seguirono gli “anni del
consenso” (Renzo De Felice). Il re poteva/doveva
scendere in piazza da solo contro piazze stracolme di
persone che inneggiavano al governo Mussolini
(vezzeggiato anche da Stati “democratici”) e
continuarono a credergli sino alla catastrofe del 1943?
Aldo G. Ricci, archivista...
Per conoscere, capire e parlare degli anni 1943-1948,
cioè dal governo Badoglio alla vittoria della Democrazia
cristiana guidata da De Gasperi, è d'obbligo la lettura,
matita alla mano, dell'edizione critica dei “Verbali del
Consiglio dei ministri” di quegli anni, curati da Aldo
Giovanni Ricci: dieci volumi in quindici tomi, con
introduzioni e uno sterminio di note.
A 24 anni Ricci entrò per concorso
all'Archivio Centrale dello Stato. Occhiuto direttore
della Sala di studio frequentata da generazioni di
studiosi e poi della Biblioteca, vice sovrintendente
sino al 2002 e sovrintendente dal 2004 al 2009, Ricci
non rimase succubo dei chilometri di scaffali e dalla
mole immensa di faldoni, croce e delizia degli storici
che per scrivere non si limitano a sfogliare qualche
libro altrui ma risalgono alle fonti. Nella congerie di
carte allo studioso accade di imbattersi nella conferma
di quanto riteneva o di documenti che costringono a
sostare e talvolta a correggersi perché “sapientis est
mutare consilium”.
Ricci ne ha conosciuti e aiutati tanti. Li
ha assecondati nella ricerca e nel confronto. Era, del
resto, la sua personale esperienza. Laureato con Lucio
Colletti e poi suo assistente volontario, fece i conti
con il marxismo, con tutte le “eresie” del socialismo e
con Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi (Ginevra,
1773-1842). Poi studiò i massimi protagonisti del
Risorgimento italiano, da Cavour (ne pubblicò per primo
i verbali dei governi nella collana “Libro Aperto”) a
Garibaldi, biografato in “Obbedisco. Garibaldi eroe per
scelta e per destino” (Palombi, 2007) e a Mazzini, una
cui raccolta di ricordi e pensieri pubblicò nel 2011,
150° della proclamazione del regno d'Italia.
All'attività scientifica, inclusa la collaborazione con
l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani, Ricci
unì la pubblicazione in quotidiani e periodici di
articoli che sono veri propri saggi, conferenze,
interventi in una miriade di convegni e le lezioni dalla
cattedra di storia dei partiti nell'Università Guglielmo
Marconi di Roma e nel master “Esperti in politica”
presso la Lumsa di Roma.
… storico del centrismo degasperiano...
Ricci ha concentrato le sue riflessioni sull'intervento
dell'Italia nella Grande Guerra e le ripercussioni sul
dopoguerra, tra avvento dei partiti di massa e
polverizzazione dei democostituzionali, e sulle
lacerazioni del socialismo in fazioni più intente a
contendersi lo spazio della sinistra che a proporsi
quale forza di governo. Ripropose con introduzione
critica “Rifare l'Italia” di Filippo Turati (Roma,
Talete, 2008). Del pari approfondì la crisi del secondo
dopoguerra in quattro saggi concatenati: “Aspettando la
Repubblica” (Roma, Donzelli, 1996), “Il compromesso
costituente” (Foggia, Bastogi, 2000), “La rinascita dei
partiti in Italia, 1943-1948” (con Pino Bongiorno, Roma,
2009) e “La breve età degasperiana, 1948-1954” (ed.
Rubbettino, 2010). Tirando le somme di anni di studi su
guerra e immediato dopoguerra Ricci tracciò il bilancio
dell’egemonia esercitata dallo statista trentino anche
alla luce della crisi della cosiddetta Prima repubblica
e del confronto con la vanità parolaia di inizio
Duemila. I governi De Gasperi vararono Cassa del
Mezzogiorno, adesione al piano Marshall, firma del Patto
Atlantico (malgrado l'opposizione accanita delle estreme
e, va aggiunto, i dubbi di tanti democristiani e del
clero, diffidente verso il mondo anglo-americano,
protestante assai più che cattolico), piano per il
lavoro e impulso alle grandi opere che prepararono il
“miracolo economico”.
De Gasperi, infine, con Luigi Einaudi, fu
in Italia tra i veri fautori della scelta europeistica,
imboccata all'indomani della guerra e del Trattato di
pace del febbraio 1947. L'istituzione della Ceca e
dell'Euratom suscitarono gli entusiasmi poi gelati dalla
decisione della Francia di bocciare senza appello la
Comunità europea di difesa. Si dice che al suo annuncio
De Gasperi abbia pianto desolatamente. La via verso la
Federazione si era bruscamente interrotta, proprio
mentre la guerra della Francia per conservare l'impero
coloniale nella lontana Indocina andava contro la
sconfitta. Il ripiegamento verso la futura Europa delle
nazioni (e dei nazionalismi: Charles De Gaulle) mise in
ombra gli Statisti, come appunto De Gasperi, e riportò
in auge i partiti, ancorati a rigidità ideologiche,
fonte di lunghi ritardi sulla via del disgelo, avviato,
promesso, poco promosso e di là da venire, malgrado la
breve stagione di Kennedy, Kruscev e Giovanni XXIII.
… e divulgatore
Nel 1996 Ricci dedicò ai figli Ilaria e Giovanni una
raccolta di 26 articoli sotto il titolo “Storie della
storia d'Italia”, pubblicata dalla Fiap (Federazione
italiana associazioni partigiane, presieduta da Aldo
Aniasi e con segretario il vulcanico Lamberto Mercuri).
Nella prefazione il socialista Gaetano Arfé affrontò il
nodo di cui abbiamo parlato la scorsa settimana a
proposito dell'opera di Franco Bandini e Luciano
Garibaldi. In Italia molti “divulgatori della storia”
non facevano affatto “ricerca” ma, al più, frugavano in
archivi alla ricerca di un “documento esclusivo” per
fare un po' di rumore. Ben diverso, precisò Arfé, era il
metodo dell'allora vice-soprintendente dell'Archivio
Centrale dello Stato, che sapeva inquadrare ogni
episodio nella cornice della “lunga durata”: i problemi
costitutivi dello Stato, l'assetto dei poteri, gli
ideali che coniugavano le dirigenze consapevoli di fine
Novecento alle non ancora del tutto esaurite culture
politiche del Sette-Ottocento e alla conoscenza della
storia senza barriere cronologiche né tematiche.
Un lustro dopo, Ricci pubblicò il saggio
che ne documenta l'ampiezza degli orizzonti: “La
Repubblica”, dedicato a suo padre, Dante. Uscì nella
collana “L'Identità italiana” diretta da Ernesto Galli
della Loggia per “il Mulino”, che già contava libri di
Anna Foa, Piero Dorfles, Luciano Cafagna, Franco
Cardini, Alessandro Campi, Nico Perrone... In sei
capitoli, dai Comuni medievali alla vittoria della
Repubblica nella “giornata particolare” del 2 giugno
1946, che “rappresentò la tormentata” (e, diciamo pure,
risicata) “conclusione di un cammino” a segmenti
discontinui, Ricci collocò il proprio saggio nella
fioritura di studi sulla crisi del sistema-Paese, sul
problema dell'Italia-Nazione, sulla morte della patria
(tema all'epoca molto discusso) e sull'esistenza o meno
di un patriottismo della Repubblica o, come alcuni
scrivevano, di una “religione civile”. Erano anche gli
anni nei quali il presidente Carlo Azeglio Ciampi
ripropose agli italiani il canto nazionale, il
tricolore, l'orgoglio della propria storia, ma senza
alcuna indulgenza verso nazionalismo, isolazionismo,
populismo, sibbene da europeo nato in Italia, come fu
ricordato da chi, come Mario Draghi, ne condivise
l'impresa di modernizzare l'Italia nel rilancio
dell'europeismo.
Con quelle premesse di divulgatore
scientificamente attrezzato Aldo G. Ricci condivise il
progetto del mensile “Storia in Rete” (SiR) diretto da
Fabio Andriola e affiancato da un comitato comprendente
lui, Nico Perrone e Giuseppe Parlato e sorretto,
dall'esterno, da Luciano Garibaldi.
In quell'ambito si ritagliò la rubrica mensile
“Libri&Recensioni”.
Filosofia della storia
Vent'anni dopo, forse anche per l'amarezza
dell'improvvisa sospensione dell'approdo di SiR in
edicola, Ricci ha sentito l'urgenza di raccogliere 32
saggi (articoli, relazioni svolte in convegni...) dal
titolo eloquente: “Elogio della Storia. L'Italia nella
guerra civile europea 1914-1953”, pubblicato nella
collana Passato-presente della Editrice Oaks, con
partecipe prefazione di Ernesto Galli della Loggia. Come
ha rilevato Stefano Folli, l'attualità del volume sta
anche nella drammaticità dei tempi incalzanti. Mentre si
moltiplicano i fronti di guerre sempre più devastanti e
sanguinose, l'illusione della “fine della storia” e di
una pace perpetua universale, libera da assilli
ideologici e da rovelli morali, liquidati come moralismi
dei tempi andati, si rivela per quello che era ed è:
illusione di sottrarsi alla Storia, che torna a
martellare prepotente sulla vita quotidiana e costringe
anche Stati dalla vocazione neutralistica a schierarsi,
ad armarsi e, anzi, a distribuire ai cittadini le
istruzioni per la sopravvivenza in caso di guerre con
armi “non convenzionali”.
Fra le decine di saggi, ripartiti in
quattro sezioni tematiche (la Grande Guerra, quando, con
Caporetto, l'Italia si scoprì Nazione; fascismo,
antifascismo, resistenza; la Repubblica sociale
italiana, riscattata da certo oblio storiografico perché
dopo appena ottant'anni dall'unità l'Italia si scoprì
“una Nazione con due Stati”, ognuno dei quali fonte
giuridica; il dopoguerra) ne citiamo uno solo per
suggerire al lettore la misura della tensione anche
emotiva dello storico a cospetto di momenti salienti
della breve storia dei popoli d'Italia accomunati nel
regno e poi nella Repubblica italiana: “Il significato
simbolico della tumulazione del Milite Ignoto”. È la
relazione pronunciata da Ricci il 9 ottobre 2021 nel
convegno svolto a Vicoforte (Cuneo), due passi dalla
Basilica ove, su impulso della principessa Maria
Gabriella di Savoia e il concorso del Presidente Sergio
Mattarella, nel dicembre 2017 furono traslate le salme
di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena. Il re,
scrive Ricci con parole condivise, all'Altare della
Patria si presentò «come una sorta di sommo sacerdote di
un rito laico collettivo». Fu il “re soldato” che
celebrò «il funerale di un commilitone, diventando
simbolo e tramite della volontà e del cordoglio
dell'intera Nazione». Perciò «il soldato senza nome,
morto per la Patria al di fuori di schieramenti di
parte, potrebbe rappresentare davvero ancora oggi il
defunto che tutti possono onorare con una memoria almeno
per una volta effettivamente condivisa. Un auspicio il
mio, forse un sogno… ma sognare non costa nulla». Però,
aggiungiamo, nella confusione dei “mala tempora”
incombenti, il “sogno” consente di reperire il filo
della filosofia della Storia animata da “pietas” e
distinguerla da ogni “storiella”, intrisa di malanimo. È
quanto Ricci suggerisce di fare.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Aldo Giovanni Ricci (Novara, 1943).
Sulla scia dei “Verbali dei governi 1943-1848”, ha
pubblicato le introduzioni ai “Verbali del Consiglio
dei ministri della Repubblica sociale italiana.
Settembre 1943-Aprile 1945” (Roma, 2002, voll. 2) e ai
“Verbali del Consiglio dei ministri. Maggio
1948-Luglio 1953” (Roma, 2005-2007, voll. 3), entrambi
a cura di Francesca Romana Scardaccione: opere di
riferimento per qualsiasi studio su quegli anni. Ricci
ha anche concorso alla realizzazione di “Giovanni
Giolitti al Governo, in Parlamento, nel Carteggio”
(voll. 3, tomi 5, ed. Bastogi, 2007-2009): opera
preceduta dall’individuazione sistematica di carte
giolittiane presenti negli Archivi di Stato italiani.
Quei volumi e “Giolitti, lo Statista della Nuova
Italia” (ed. Mondadori, 2003,2012 e RusconiLibri,
2019) sono a disposizione del cattedratico, di un paio
di sindaci di “luoghi giolittiani” (formula che
introducemmo nel 1978 per il Convegno internazionale
patrocinato da Sandro Pertini) e di altri che
domandano “Ma quanti di noi sanno veramente chi fu
Giovanni Giolitti?” e si propongono di riesumarlo in
vista del centenario della morte (2028). È già fatto,
da tempo. Però “repetita juvant”…
GARIBALDI,
BANDINI...
UOMINI ALLA RICERCA DELLA STORIA
Editoriale di
Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del
Piemonte e della Liguria” di domenica 1
dicembre 2024, pagg. 1
e 6. Luciano Garibaldi...
La morte di Luciano Garibaldi (26-IX-1936/23-XI-2024) fa
riflettere sul rapporto tra ricerca e divulgazione della
storia. Chi stabilisce la “veridicità”? La risposta pare
semplice e immediata. Se chi scrive propone il risultato
della ricerca e suffraga le sue affermazioni “documenti
alla mano” ha motivo di essere credibile. Non significa
che abbia enunciato la “verità definitiva”. Altri ha
fatto o potrà fare meglio di lui. Però, quanto meno,
anch'egli ha diritto di ascolto, anche se non ha titoli
accademici, né ascrizioni a questa o quella “scuola
storiografica”, non vanta tessere di partito, avalli
editoriali o, come soleva dirsi, “santi in Paradiso”,
inclusi ministri e sottosegretari in un'età di decadenza
nella quale domina il principio che ogni nomina è
“politica”. Allievo da ragazzo dei padri scolopi, poi
dei gesuiti (due poli della pedagogia cattolica),
Garibaldi non raggiunse neppure la laurea. Non so (non
me ne accennò mai) se quando decise di interrompere gli
studi universitari e optare per il giornalismo avesse
già letto la pagina famosa in cui Luigi Einaudi propose
l'abolizione del valore dei “diplomi” quale titolo di
precedenza nei concorsi. Imboccò la strada che sentiva
propria: la ricerca e la divulgazione dei suoi
risultati. Un sentiero seminato di pietre aguzze, perché
per percorrerla non occorre né basta una “patente”.
Richiede un “mestiere” della cui correttezza si risponde
a se stessi (una volta si diceva “alla propria
coscienza”). Luciano Garibaldi sapeva che l'“ordine dei
giornalisti” era nato dall'Albo dei giornalisti
professionisti voluto nel 1925 dal regime, quando
Mussolini decise di imbrigliare definitivamente la
libertà di stampa. Il duce non poté, perché è
impossibile, soffocare quella di pensare. Ma sapeva bene
che il libero pensiero appaga la persona libera ma non
mina il potere, se non può essere scritto e diffuso sino
a divenire opinione condivisa, tale da capovolgere i
luoghi comuni imposti dall'alto.
Garibaldi fu e rimarrà tra gli esempi
rilevanti dello stretto rapporto tra piacere/dovere
della ricerca storica e distillazione e comunicazione
dei suoi esiti, ovunque possibile. Tramite i “media” in
democrazia, con fogli clandestini o graffiti sui muri in
quelli di autoritarismo e totalitarismo. I suoi libri,
come le “inchieste” pubblicate nei periodici e gli
interventi in dibattiti, rimasero però sempre circondati
da una riserva, magari non esplicita, ma sottintesa. In
fondo, egli non aveva “titoli”, se non la sua parola.
Com'è, come non è, le riviste che per
decenni furono palestre di giovani talenti e
avvicinarono decine di migliaia di lettori alla
curiosità per la storia, senza barriere cronologiche o
tematiche, prima o poi piegarono le vele e affondarono.
Difficile credere che siano state vittime solo della
sorte cinica e bara dettata da difficoltà di bilancio.
Se così fosse, tutti i periodici, a cominciare dai
giornali, sarebbero estinti da tempo. In realtà, la
cinghia di trasmissione tra ricerca, editoria e
periodici dichiaratamente “di storia” si è spezzata a
danno di questi ultimi. Proprio la morte di Luciano
Garibaldi, che a lungo fu un campione della colleganza
tra indagine e comunicazione tramite i “media”
suggerisce di non chiudere il caso e di ricordare quanto
la conoscenza della storia deve a persone che ne hanno
scritto, e molto, per il precipuo piacere/dovere della
ricerca, al di fuori degli schemi, senza attendere alcun
“nihil obstat”, rischiando, anzi, l'espulsione dal
campo.
...e Franco Bandini , vent'anni dopo.
Fu il caso di Franco Bandini (16-XI-1921/12-XI-2004), un
altro scrittore che accompagnò gusto per l'indagine e
divulgazione dei suoi risultati e merita di essere
ricordato vent'anni dopo la sua morte. Il libro al quale
intendeva legare la sua fama di storico, “Il cono
d'ombra. Chi armò la mano agli assassini dei fratelli
Rosselli”, uscì per le Edizioni SugarCo di Milano nel
febbraio 1990. Il 31 marzo fu presentato al teatro
“Garibaldi” di Poggibonsi, poco lontano da Colle Val
d'Elsa, dal Casalone, ove, settantenne, viveva tra
libri, fascicoli e una miriade di “schede”: miniera per
i suoi studi e per gli amici che salivano a sentirne il
verbo.
La novità del libro stava nel metodo della
ricerca. Secondo l'autore «è ovviamente inutile cercare
e sperar di trovare documenti di prova
(dell'infiltrazione dei “servizi” dell'Unione sovietica
nel controspionaggio italiano in età fascista) anche
perché i pochissimi che ebbero conoscenza o sospetto di
essi giudicarono più opportuno tener la bocca chiusa,
allora e poi, per le sorprendenti ragioni che si
vedranno. Ma in questa torbida vicenda i fatti, narrati
con serenità, costituiscono prove schiaccianti, arrivano
addirittura a fornirci una globale e inedita spiegazione
di avvenimenti e “momenti” apparentemente slegati da
essi, che fino ad oggi han costituito altrettanti
misteri nella storia dell'agonia del fascismo e dei suoi
massimi personaggi».
Bandini non si propose di scrivere “chi”
uccise Carlo e Nello Rosselli il 9 giugno 1937 a
Bagnoles-de-l'Orne. Sulla colpevolezza “materiale” della
“selvaggia mattanza” perpetrata dai “cagoulards” non
avanzò dubbi. Osservò tuttavia che gli autori del
delitto, solitamente spacciati per “fascisti”,
curiosamente assassinarono solo avversari del partito
comunista sovietico e dei suoi più fedeli “affiliati”,
quali all'epoca erano i comunisti italiani capitanati da
Palmiro Togliatti. Come appunto recita il sottotitolo,
Bandini mirò invece a rispondere alla domanda
fondamentale: “chi armò la mano” dei sicari.
Dodici anni dopo la pubblicazione
dell'opera e le delusion che gliene derivarono, in una
lettera inedita a un amico Bandini conveniva che il
libro era «macchinoso e pesante, una specie di “arma
impropria”». Tuttavia ne era contento, perché «tutto si
potrà dire meno che – così – non sia stata raggiunta la
verità». L'opera si mosse su tre livelli concatenati,
presenti in ogni pagina: quello propriamente
storiografico, il politico e l'etico.
Secondo la narrazione tradizionale il
duplice assassinio era stato commissionato da Galeazzo
Ciano e messo a segno da suoi fiduciari (Filippo Anfuso,
Santo Emanuele, Roberto Navale...: tutti infine
scagionati in sede giudiziaria) tramite i “cagoulards”:
era, in sintesi, la prova della criminalità intrinseca
del “regime”. Però quel “racconto” non chiarì il
“movente” dell'assassinio: perché il “fascismo” aveva
motivo di uccidere i Rosselli a inizio giugno del 1937?
Bandini ribadisce la non rilevanza “politica” di Nello,
studioso innovatore del Risorgimento, molto apprezzato
dallo storico nazionalista Gioacchino Volpe, che nel
1931 aveva scritto a “Sua Eccellenza Mussolini” per
favorirne un lungo soggiorno di studio in Gran Bretagna,
ottenendone una replica favorevole ma irridente. Quanto
a Carlo Rosselli avanzò due quesiti concatenati: per
controllarne gli spostamenti i “servizi” italiani
dovevano superare enormi difficoltà. Meritava correre il
rischio di essere scoperti solo se la sua brutale
eliminazione era dettata da un alto “profilo politico”,
tale da costituire una minaccia mortale per il regime
(in quei mesi al colmo del “consenso”) o addirittura per
lo Stato.
La fragilità “politica” di Carlo Rosselli
Con vasta e meticolosa ricerca Bandini accertò quanto
prima di lui nessuno aveva documentato. Temporaneamente
privato della carta d’identità, Carlo Rosselli rinnovava
annualmente il permesso di soggiorno, consegnatogli
l'ultima volta il 15 maggio 1937, due mesi prima della
scadenza del passaporto, che “aggiornava”
tempestivamente. Su di lui l'Ambasciata italiana a
Parigi trasmetteva ogni notizia “in chiaro” al Ministero
degli Esteri, che pertanto era perfettamente informato
sui progetti di viaggio di Carlo e della moglie, Marion
Cave, sino all'ultima istanza di rinnovo, quando
Rosselli ne chiese l'estensione per una dozzina di
Paesi, tra i quali Olanda, Danimarca, Norvegia e Svezia
e altri Stati “nordici”, e i due dichiararono di non
avere intenzione di recarsi in Italia e «di non potere
ancora stabilire quale sarà la meta del loro prossimo
viaggio».
Reduce dalla non fortunata partecipazione
alla guerra di Spagna, ove si era battuto a difesa della
Repubblica di Madrid contro i “quattro generali”
sorretti da Germania e Italia, Rosselli aveva maturato
il rifiuto di collaborazione ulteriore con il partito
comunista di Togliatti, Luigi Longo, Vittorio Vidali e
del loro “mandante” Stalin. Li aveva visti all’opera
nell’eliminazione degli anarchici. La scelta comportava
l'archiviazione dell’arcaica “Concentrazione
antifascista”, pullulante di informatori dell'Ovra e
svigorita dal rientro in Italia di tanti antifascisti in
esilio (lo ricordò Alberto Giannini nella terza edizione
riveduta e aggiornata di “Le memorie di un fesso. Parla
Gennarino “fuoruscito” con l'amaro in bocca”, Roma,
1948, ristampata da Arnaldo Forni) e, ancor più,
qualsiasi avvicinamento ai comunisti. L'amara esperienza
della guerra di Spagna costringeva a riflettere sui
limiti politici e operativi della “terza via”, incluso
il programma originario di “Giustizia e Libertà”,
sintetizzato nella formula mazziniana “Insurrezione e
Rivoluzione”. A identica conclusione giunse (con maggior
fortuna personale) il repubblicano e massone Randolfo
Pacciardi che, scampato di misura all’eliminazione
fisica da parte dei “rossi”, dalla Spagna, ove ebbe un
prestigioso comando a sostegno della Repubblica,
raggiunse gli Stati Uniti d'America, forte di
un’appartenenza massonica, incompatibile con il PCUS e i
suoi addentellati, per i quali l'iniziazione ai misteri
del Grande Architetto dell'Universo è indizio di
asservimento alla borghesia.
Secondo Bandini lo schema esplicativo
“tradizionale” del “delitto Rosselli” non ricalcava
dunque i rapporti tra i partiti e movimenti antifascisti
del 1937-1938 ma quelli del 1943-1946, fatti propri
dalla “storiografia” postbellica, ispirata all'unità
della lotta contro il regime mussoliniano e i suoi
“complici”, inclusi la monarchia e l'esercito.
Un libro scomodo, a volte staffilante ma veridico
Per comprendere l'accoglienza riservatagli va ricordato
che, quando “Il cono d’ombra” vide le stampe, Giampaolo
Pansa stava scrivendo “Il gladio e l'alloro. L'esercito
di Salò” (Mondadori, 1991), lontano anni luce dal suo
successivo approdo a “Il sangue dei vinti”, mentre
Claudio Pavone lavorava a “Una guerra civile. Saggio
storico sulla moralità della Resistenza” (Bollati
Boringhieri, 1991), accolto con curioso entusiasmo da
quanti a “destra” (come Giano Accam) ritennero che
preludesse a una sorta di “riconoscimento reciproco” e
di pacificazione tra quanti si erano combattuti da
opposti versanti.
Nella “revisione del mito” di Rosselli,
Bandini indulse a espressioni pesantemente svalutative e
talvolta grevi, specie sul suo ruolo di “rivoluzionario”
e sul suo “declino politico”. Lo liquidò come
“giornalista disoccupato”, corrivo a immaginare disegni
tanto “grandi” quanto irrealizzabili e persino “insani”
(formule da lui talvolta stralciate da “informazioni”
circolate nelle file dell'antifascismo, in specie tra i
comunisti). Bandini sintetizzò il “carattere
rosselliano” nel «fare per il fare, il pericolosissimo
vizio mentale di prendere decisioni, prima e
indipendentemente da una seria valutazione di quadro
reale». A suo giudizio Rosselli era e rimase un
velleitario, condannato all'emarginazione. Non bastasse,
in un passo centrale dell'opera ne stigmatizzò «il
dilettantismo un po' chiacchierone […] una dabbenaggine
che non ha alcun riscontro nella vita pubblica e privata
di nessun altro personaggio della Storia recente […] fu
davvero un vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro,
sballottato da un mare adirato e da potentissimi venti,
spiranti da direzioni che non gli riuscì di capire.
Confuse gli amici con i nemici, le ideologie con la
realtà, le Nazioni con le Rivoluzioni, e rimase solo e
nudo di fronte alle cambiali in incasso».
“Ex ore tuo, te judico”...: l'esclusione di Bandini
dal campo
Proprio questa frase fu impugnata dallo storico Arturo
Colombo per stroncare “Il cono d’ombra” nel “Corriere
della Sera” (domenica 22 aprile 1990). La breve
durissima recensione deplorò l'«atteggiamento
giustiziere, usato con pesantezza di stile e di
contenuto», quasi l'autore «fosse l'unico capace di
offrirci chissà quali rivelazioni». Sintetizzata la
«tesi, ripetuta con monotonia ossessiva» (il delitto non
fu opera dei fascisti ma di emissari di Stalin), secondo
Colombo «il libro – pur costruito con la tecnica del
giallo – porta solo delle congetture». «Scritto con
l'irruenza, la grossolanità, e persino certa volgarità
di termini del giornalista-cronista in cerca di effetti
e di effettacci» a suo giudizio esso era «inconsistente
sul piano storiografico e neppure utilizzabile per una
operazione pseudo-anticomunista». Come e dove poteva
replicare l'autore? Vennero calate le saracinesche
contro di lui e contro chiunque invitasse a leggere e a
discutere non solo la sua nuova opera ma anche le
precedenti, sempre di ampio successo.
In “La Nazione” di Firenze il 9 giugno 1990
(anniversario del delitto) Francesco Ghidetti ricordò
che l'addebito dell'assassinio ai “rossi” era già stato
sostenuto da Luigi Villari, figlio del celebre Pasquale,
e che nel luglio 1951 esso aveva generato un'aspra
disputa tra Volpe e Gaetano Salvemini. In “Antifascismo
sott'accusa? La parola agli storici” Ghidetti citò la
valutazione pacata di Zeffiro Ciuffoletti, storico
accademico, sull'opera di Bandini. Anche se non
produceva “prove definitive”, essa riusciva a
«descrivere il contesto dei grandi intrighi
internazionali di quegli anni terribili, il che,
peraltro, non è poco». Pur senza condividere le
conclusioni di Bandini, Ciuffoletti ammonì: «forse è
vero che troppo spesso gli storici si sono adattati a
interpretazioni troppo semplicistiche, ma di sicuro
effetto politico». Dal canto suo, invece, Nicola
Tranfaglia obiettò che i comunisti non avevano alcun
motivo di assassinare Rosselli mentre «i rapporti tra
Pci e Giustizia e Libertà erano ottimi». Secondo lui il
libro di Bandini era «un'operazione politica
chiarissima: svalutare l'antifascismo e dire che il
regime non uccideva»: affermazione, quest'ultima, del
tutto assente in “Il cono d’ombra”, che non verte sul
“fascismo” ma su quello specifico delitto. Capovolgendo
la realtà conclamata dei “fatti”, Tranfaglia dichiarò a
Silvia Sereni che negli ultimi mesi di vita Rosselli era
diventato «molto critico delle posizioni anarchiche» e
si era «reso conto della necessità di un'organizzazione
come quella dei comunisti», posizione che lo rendeva
«ancor più di prima un nemico pericoloso del regime
fascista». Asserì inoltre che in un documento da lui
trovato decenni prima all'Archivio Centrale dello Stato
la “polizia fascista” elencava i nomi dei combattenti
della guerra di Spagna uccisi o fatti uccidere dai
fascisti: «Tra quei nomi – affermò – compare quello di
Carlo Rosselli».
Si spinse infine a deplorare che il libro
di Bandini fosse stato pubblicato da Sugar.Co, «editore
di solide tradizioni democratiche»: una “censura” che
andava molto oltre la storiografia e lasciava trasparire
una “sorveglianza” sulla libertà di stampa, senza la
quale quella di pensiero è quasi zero. Invero, proprio
perché tale, la Sugar.Co aveva e avrebbe dato alle
stampe una quantità significativa di opere che avevano e
avrebbero messo in discussione la leggendaria
“unanimità” dell'antifascismo.
In una lettera rimasta inedita, il 1° marzo
1999 Tranfaglia ribadì a Bandini l'intenzione di
pubblicare l'elenco degli esuli “uccisi dai fascisti”:
una sorprendente autoaccusa, questa, che neppure i più
fessi tra gli assassini avrebbero mai fatto, tanto più
se interni ai “servizi” e quindi consapevoli dell'uso di
simili “dichiarazioni” non solo da parte di futuri
“storici” ma degli avversari e, caso mai, dei
magistrati, se, come e quando. Comunque Tranfaglia non
mandò mai a Bandini quel per lui famoso documento.
Tecnica dell'“infiltrato”
A differenza delle molte opere precedenti di Bandini,
sempre accolte con ampio favore (“Tecnica della
sconfitta”, “Gli italiani in Africa”, “Vita e morte
segreta di Mussolini”...), quella del 1990 finì… in un
cono d'ombra. Contrariamente a quanto molti ritennero,
essa non intese dare risposte categoriche ma aprire il
dibattito: andare oltre i silenzi di Mussolini, Ciano,
Edda, dei “dirimpettai di Mussolini” e degli storici,
«per i quali il tema dei rapporti trini ma non perfetti
tra le dittature mussoliniana, nazista e comunista è
materia di indagine soltanto nei riguardi delle prime
due: quasi che sulla carta geografica della morale
politica contemporanea si leggesse ancora scritto, dal
1917 in poi, nell'area vergine della Soviezia quel “hic
sunt leones” che per gli avi romani chiudeva ogni
curiosità di ricerca».
In “Il cono d’ombra” Bandini lasciò cadere
tanti sassolini per tracciare la strada di future
ricerche proprie e altrui, anche con la speranza che si
aprissero archivi e a qualcuno tornasse la memoria.
Però, contrariamente a quanto si attendeva, quelle e
altre suggestioni non sono state coltivate affatto. Lo
si rilevò già nel convegno di Firenze dedicato alla sua
opera a fine novembre 2006, con interventi di Gianni
Bonini, Aldo G. Ricci, Marcello Veneziani, Luciano
Garibaldi, Leonardo Tozzi, Enrico Cernuschi, Fabio
Andriola e altri, concordi nel ricordare che egli era
rimasto vittima della “damnatio memoriae” da parte della
“sinistra”, ma era stato emarginato anche da larga parte
del centro-destra. Con “Il delitto Rosselli. 9 giugno
1937. Anatomia di un omicidio politico” di Mimmo
Franzinelli (Mondadori, 2007) l'anno seguente tornò in
auge la versione pre-bandiniana, anche se emendata
dall'insostenibile idillio tra “G.L.” e comunisti.
Franzinelli, anzi, stigmatizzò l'“appropriazione”
strumentale della figura di Carlo Rosselli da parte del
Pci.
Il paradosso è che il libro di Bandini uscì
proprio mentre la caduta del muro di Berlino, la
riunificazione della Germania e la dissoluzione del
regime sovietico si ripercuotevano sul quadro politico
interno e avrebbero dovuto spalancare porte e finestre a
voci nuove, a una rilettura generale della storia.
Invece, non rimase in alcun modo scalfita l'egemonia
della “sinistra” basata sull’“unanimità
dell'antifascismo”, garante della superiorità del
“comunismo” e dei suoi eredi politico-culturali.
Motivo in più per tornare a leggere le
opere di Luciano Garibaldi, di un autore anticonformista
come Bandini e di loro rari emuli.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: La copertina di “Il cono d'ombra. Chi armò
la mano degli assassini dei fratelli Rosselli” (1990,
mai ristampato) che costò a Bandini l'ostracismo
politico, forte del pregiudizio accademico nei confronti
dei “giornalisti-cronisti” che si ergano a storici.
Abusivi... A Bandini il mensile “Storia in Rete” diretto
da Fabio Andriola dedicò un numero speciale, con ampia
raccolta di suoi scritti.