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In questa sezione segnaliamo editoriali, articoli, note, recensioni e saggi brevi di interesse.




I COLLEGI UNINOMINALI
FORGIARONO LA CLASSE DIRIGENTE UNITARIA

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 23febbraio 2025 pagg. 1 e 7.

VII Legislatura 1860Tra le questioni aperte in Parlamento vi è il varo, indispensabile, della legge elettorale. Merita ricordare quella in vigore nel regno di Sardegna dal 1848 e poi in quello d'Italia dal 1861 al 1919. Essa era incentrata sui collegi uninominali. Plasmò una dirigenza politica competente, capace di pensare “in europeo”. Nei collegi uninominali, l'elettore, sceglie liberamente. Può essere ingannato una volta, ma raramente di più.

La prima Camera di deputati “nazionale” fu eletta il 27 gennaio 1861con la legge in vigore nel regno di Sardegna sperimentata nelle elezioni del 27 aprile 1848, 22 gennaio 1849, 15 luglio 1849, 9 dicembre 1849, 8 dicembre 1853 e 15 novembre 1857. I suoi artefici furono statisti di prim'ordine: Cesare Balbo, Camillo Cavour, Ercole Ricotti, Riccardo Sineo, Gustavo Ponza di San Martino, Giacinto Gallina e Domenico De Ferrari. Lo Statuto affermava che i deputati erano liberi da vincoli verso gli elettori e quindi da “partiti” o “legami”, inclusi quelli confessionali. Occorreva una dirigenza lungimirante, capace di pensare ai problemi non solo del momento ma di lungo periodo. Il sistema elettorale, fondato sul collegio uninominale maggioritario con eventuale ballottaggio, era il più adatto a eleggere i deputati. Il regno venne suddiviso in 222 collegi, ridotti a 204 nel 1849. Il modello furono la legge rodata in Francia dalla Restaurazione del 1814 e ulteriormente migliorata dopo il 1830 e quella del Belgio. In entrambi i casi aveva dato buoni risultati. Al primo turno risultava eletto chi otteneva un numero di voti corrispondente ad almeno un terzo degli aventi diritto e più di metà dei voti espressi, detratti i voti nulli. Se nessun candidato otteneva l’elezione al primo turno, i due più votati andavano al ballottaggio e risultava eletto chi riportava il maggior numero di preferenze. Il sistema dunque era semplice, sia per chi affluiva ai seggi, sia per lo scrutinio delle schede, al netto di errori e brogli, possibili ovunque.
   Il primo scopo della legge era la formazione di un ceto di notabili, composto da aristocratici, borghesi, funzionari pubblici, possidenti ed ecclesiastici, tutt’insieme interessati alla difesa dello Stato e al progresso economico e sociale. Il suo secondo obiettivo era la stabilità del governo. Il primo anno di vita della Camera subalpina coincise con le due fasi della prima guerra d’indipendenza (1848): un esordio difficile. Spesso i dibattiti riguardarono questioni secondarie e si risolsero in duelli oratorii, lontani dalla drammatica realtà di un Paese che nella guerra stava rischiando la sopravvivenza. I verbali mostrano che tante volte il dibattito si concentrò su aspetti procedurali o “fatti personali” che davano luogo a diverbi su cavilli.
   I lavori si svolgevano in “sessioni”, “sedute” e “tornate” (antimeridiana, pomeridiana e talvolta serale), secondo gli usi del tempo. I lavori venivano sospesi verso le 12 circa e riprendevano alle 14 e, se necessario, alle 20. Le sedute erano aperte e chiuse dal presidente o da un vicepresidente. I presidenti del senato e i suoi vice erano di nomina regia. Quelli della Camera invece erano eletti dall’assemblea, come venne stabilito nella prima adunanza. Nella prima votazione non venne prevista un’urna. Per raccogliere le schede fu usato uno dei capienti cappelli a cilindro che i deputati solevano calcare. Successivamente furono apprestate due urne nelle quali i deputati introducevano la mano e lasciavano cadere palla bianca per votare a favore, palla nera per votare contro, come nelle logge massoniche per l'accettazione dei “bussanti”. Il controllo dei voti espressi, eseguito in pubblico, era quindi rapido e di rado dette motivo di contestazioni. In alcuni casi i deputati dichiararono di essersi sbagliati e negli Atti ne venne dato conto.
   L’assemblea elettiva, come anche il Senato, si dotò di un regolamento, aggiornato sulla base dell’esperienza. Esso improntò i lavori a rigore e a responsabilità. I deputati vestivano accuratamente di nero. Negli interventi si rivolgevano al presidente; quando interpellavano un collega lo facevano in terza persona (“Ella”, più raramente “Lei”; “Eglino” o “essi”; il “voi” era considerato irriguardoso) e di rado citandone il cognome. La formula preferita era “il preopinante”, per indicare chi aveva svolto l’intervento precedente, o la carica (ministro, presidente, deputato...). Il riferimento al cognome era sempre e tassativamente preceduto da “onorevole”. In tal modo i lavori parlamentari vennero improntati ad alto senso del decoro, ispirati dall’orgoglio di far parte della ristretta cerchia di chi era chiamato a decidere le sorti dello Stato. Quando la discussione accennava ad animarsi, il presidente di turno scampanellava, richiamava i deputati, esortava, ammoniva. Se non riusciva a ottenere l’immediata cessazione delle intemperanze verbali si copriva il capo con il cappello, che aveva sempre a portata di mano. Da quell’istante la seduta era sospesa per la durata indicata dal presidente.
   Una svolta fu impressa con lo scioglimento della Terza legislatura della Camera subalpina e la convocazione dei comizi elettorali del 9 dicembre 1849. Il re lanciò il proclama, redatto dal presidente del Consiglio dei ministri, Massimo d’Azeglio, che esortò gli aventi diritto a eleggere deputati disposti ad approvare il trattato di pace con l’impero d'Austria: una pagina triste, ma da voltare alla svelta. Di per sé la legge elettorale non era in grado di assicurare la stabilità di governo, che però venne via via propiziata dagli interventi del re e da iniziative del primo ministro o di uomini politici come Camillo Cavour e Urbano Rattazzi che dettero vita al centro-sinistro, cioè a una coalizione fondata sull’accordo su ciò che unisce o può unire, lasciando ai margini ciò che divide o può dividere. Una regola sempre attuale.
   La stessa “forma” della Camera subalpina favorì la convergenza tra le parti. Mentre in Gran Bretagna la Camera dei Comuni contrappone due tribune quasi a demarcare la suddivisione dei deputati in due parti nettamente separate e destinate a combattersi, la “piemontese”, come poi quella del Regno d’Italia e quella attualmente in uso a Palazzo Montecitorio è ad anfiteatro. I gruppi si toccano, si intersecano, si mescolano. Anche in aula gli scambi sono continui. La tendenza a trovare convergenze risponde a una legge fisica, favorita dalla forma. Lo schema inglese a Torino fu adottato invece per il Senato, le cui tribune furono allestite a Palazzo Madama nella maniera più semplice: due file di gradoni, che non creavano divisioni né contrapposizioni, perché tutti i “patres” erano di nomina regia e vitalizia. Quindi non avevano motivo di far riecheggiare i loro dibattiti fuori dell’aula per procacciarsi il consenso e propiziare la rielezione. Come poi suggerì Giovanni Giolitti al neodeputato che gli chiedeva come dovesse svolgere i propri interventi, il parlamentare doveva alzarsi, dire quel che doveva e sedere.
   La legge elettorale del 20 novembre 1859 fu varata dal governo La Marmora-Rattazzi, dieci giorno dopo la pace di Zurigo che riconobbe indirettamente la sovranità di Vittorio Emanuele II sulla Lombardia. Come già la legge del 1848, quella del 1859 conferì il diritto di voto ai maschi maggiori di 25 anni, alfabeti e contribuenti diretti per 40 lire piemontesi annue in Piemonte, regione più benestante del regno, e 20 nelle altre. A prescindere dal censo avevano diritto di voto nove categorie di cittadini dalle capacità riconosciute (docenti universitari, membri di accademie, ufficiali dal grado di capitano, impiegati civili con pensione di almeno 600 lire annue), nonché laureati, notai, causidici e gli iscritti negli elenchi di commercianti, industriali, artigiani. Era eleggibile qualunque maschio maggiore di trent’anni. Erano esclusi i condannati, i falliti e gli interdetti, nonché i magistrati inamovibili, i diplomatici in missione, i prefetti, gli impiegati delle amministrazioni pubbliche e gli ecclesiastici aventi “cura d’anime”. Non si trattava di una pregiudiziale anticlericale, ma di una ovvia separazione del magistero pastorale da possibili strumentalizzazioni attraverso le prediche e soprattutto l’amministrazione dei sacramenti, in specie la confessione. Nel 1865 e ancor più nel 1889 il codice penale stabilì misure severe nei confronti dei religiosi che abusassero della propria funzione per valutare negativamente l’opera del governo e dei suoi funzionari. Ma sin dal 1859-1860 le prediche degli ecclesiastici divennero motivo di continui conflitti tra la pubblica autorità, sostenuta dall’ordine giudiziario, e il clero, tanto da far dubitare che nel regno la Chiesa potesse svolgere la propria funzione con piena libertà.
   La legge limitava a un quarto del totale i seggi della Camera assegnabili a pubblici impiegati, inclusi magistrati e ufficiali. Questi ultimi erano eleggibili solo in collegi nei quali non avevano comando. Così si arginavano leggi a favore di speciali categorie.
   Paradossalmente, mentre saper leggere e scrivere era requisito necessario per essere elettore (ma la legge non prevedeva in quali modi dovesse essere accertata tale capacità), non lo era per essere eletto. Ogni cittadino era eleggibile anche se non si candidava. Nel 1848 fu il caso, tra altri, di Vincenzo Gioberti, che fu eletto trionfalmente in molti collegi senza averlo chiesto. Analoga sorte ebbe Giuseppe Garibaldi, eletto nel collegio di Cicagna. A individuare il collegio nel quale puntare al seggio non era il futuro deputato ma la cerchia dei suoi amici e, non di rado, il governo, nella persona del presidente del Consiglio, che solitamente era anche ministro dell’Interno e mobilitava allo scopo la macchina dei dipendenti pubblici, in gran parte di nomina governativa. L’elezione alla Camera non comportava alcuna retribuzione o indennità. Poiché la partecipazione alle sedute era obbligatoria pena la decadenza dal mandato dopo assenze non giustificate da indisposizione certificata o da missioni di Stato comportanti il congedo, i deputati, convocati a domicilio, dovevano soggiornare nella capitale a proprio carico, lontani dalle professioni ordinarie, oltre che dalla famiglia. In molti casi l'elezione generò dissidi coniugali. Ma all'epoca, per chi ne aveva coscienza, lo Stato veniva prima di tutto.
   La legge del 20 novembre 1859 elevò i seggi da 204 a 260: 102 per la Lombardia e 158 per il regno sardo, i cui confini vennero ridisegnati. Essa però non ebbe applicazione pratica, perché nel frattempo il regno sabaudo venne ingrandito con l’Emilia (Parma e Piacenza, Modena e Reggio, Bologna) e la Romagna (comprendenti 70 collegi) e con la Toscana (57 collegi). I deputati da eleggere salirono a 387. Tornato alla presidenza del governo, Cavour ottenne lo scioglimento della Camera. Nelle elezioni successive, tenutesi il 30 marzo 1860, gli elettori crebbero a 258.257. Alle urne andarono in 138.127. La nuova Camera non era solo subalpina, ma neppure “italiana”. Essa comprese un’ampia maggioranza di deputati favorevoli al governo (Cavour, La Marmora, Ricasoli, Minghetti, Farini,...) e da almeno 65 rappresentanti della sinistra democratica: garibaldini, ex mazziniani, qualche federalista.
   Il 2 aprile 1860 Vittorio Emanuele II aprì i lavori annunciando che «salvi il voto dei popoli e la approvazione del parlamento, salve, in risguardo della Svizzera, le guarentigie del diritto internazionale, [il governo] aveva stipulato un trattato sulla riunione della Savoia e del circondario di Nizza alla Francia» e respinse il ricatto dell’uso delle armi spirituali che la Chiesa usava per scopi temporali. Colpito da scomunica, promise: «troverò la forza per mantenere intera la libertà civile e la mia autorità, della quale debbo ragione a Dio solo ed ai miei popoli.» L’Italia, concluse il re, non era più quella dei Romani, cioè un grande impero, né quella del medio evo, ma andava orgogliosa dell’assetto raggiunto: «non deve essere più il campo aperto alle ambizioni straniere; ma deve essere bensì l’Italia degli Italiani.»
   In meno di un anno, tra l’aprile 1859 e il marzo 1860, i confini del regno erano divenuti molto più ampi di quelli previsti dagli accordi di Plombières tra Napoleone III e Cavour. Il Parlamento era chiamato a fondere legislazioni e tradizioni diverse e ad accelerare l’unificazione effettiva. Il 27 dicembre 1860 la Camera fu sciolta. Il 3 gennaio 1861 venne fissata l’elezione della prima Camera effettivamente “nazionale”. Dei 443 collegi elettorali 175 erano nell’Italia settentrionale, 65 nella Centrale e 144 nella meridionale. Piemonte, Liguria e Sardegna passarono da 204 a 83 deputati (56 per il Piemonte, 16 della Liguria, 11 della Sardegna). Parecchi deputati del Parlamento subalpino erano però esuli politici eletti nel 1861 nelle loro province originarie. Nelle “Antiche province” del regno sabaudo l’ampliamento dei confini dei collegi operò lo sfoltimento del ceto politico e l’avvento di una nuova professionalità dei deputati, anche perché la maggior parte delle opere pubbliche avviate nel decennio precedente ma non ancora concluse rischiava di rimanere incompiuta o drasticamente ridimensionata perché lo Stato si trovò a fronteggiare nuove immense priorità in tutti i campi.
   Su 22.182.377 abitanti, gli elettori per i 443 deputati furono 418.696, pari all’ 1,9% del totale. Per coglierne la vera dimensione tale percentuale va rapportata alla popolazione maschile avente diritto di voto. Le donne non erano elettrici in alcun Paese: non v’è dunque motivo di stupore né di scandalo se non lo fossero in Italia, ove sino a poco prima non lo erano stati neppure i maschi. All’epoca gli italiani maggiori di 25 anni, e quindi in età di esercitare il voto, erano poco più di cinque milioni. Quindi, a differenza di quanto solitamente si dice, la percentuale effettiva degli elettori era l’8% dei cittadini maschi ultraventicinquenni: una quota esigua, ma non molto inferiore a quella di tanti altri paesi europei.
   La proporzione degli aventi diritto al voto registrò significative differenze tra le diverse aree geografiche: essa sommò all’1,9% nell’Italia settentrionale, nella meridionale l'1,6% e in quella  centrale 1,4% e ben il 3,4% in Sardegna, la cui percentuale di aventi diritto al voto risultò dunque quasi doppia rispetto alla nazionale. In Ancona gli elettori furono appena lo 0,9% contro il 3,5 % di Cagliari. Nelle votazioni della VIII Legislatura, ultima del regno di Sardegna e prima di quello regno d'Italia, i votanti  furono 239.583, cioè oltre il 57% degli aventi diritto. Nell’Italia meridionale votò più del 67% (in Sicilia l’affluenza superò l’80%), mentre nell’Italia centrale, più condizionata dal rifiuto della Chiesa di riconoscere la Nuova Italia, alle urne andò appena il 43% degli iscritti alle liste elettorali. I deputati ministeriali furono circa 300, quelli di opposizione (democratici e clericali) un centinaio; gli altri, una trentina, si dichiaravano indipendenti, sebbene in realtà inclini a votare per il governo in cambio di vantaggi per il loro collegio. La Sinistra si affermò soprattutto nel Mezzogiorno, che stava vivendo gli inizi del “grande brigantaggio”.
   L’VIII legislatura fu inaugurata il 18 febbraio 1861. Essa seguì di pochi giorni la resa di Gaeta e il trasferimento di Francesco II e Maria Sofia di Borbone a Terracina e da lì a Roma. Una guarnigione borbonica resisteva ancora a Civitella del Tronto. Nel discorso della corona, Vittorio Emanuele II affermò: «Ci sono propizi gli equi e liberali principi che vanno prevalendo nei Consigli d’Europa. L’Italia diventerà per essa una guarentigia di ordine e di pace, e ritornerà efficace strumento della civiltà universale […] Devoto all’Italia non ho mai esitato a porre a cimento la vita e la corona.» Il re rese omaggio all’Esercito, all’Armata navale e alla «valente gioventù, condotta da un Capitano [Garibaldi, NdA] che riempì del suo nome le più lontane contrade». Però Napoleone III aveva ritirato l’ambasciatore da Torino e Pio IX non riconosceva il “fatto compiuto”. L’Italia rimaneva «libera ed unita “quasi tutta…”».
   Toccava al Parlamento mostrare la solidità del nuovo Stato. Specialmente alla Camera elettiva, che annoverò personalità di spicco: militari, magistrati, medici, avvocati, ingegneri, banchieri, industriali, imprenditori agricoli, giornalisti famosi, scrittori e storici. Tra i deputati vi furono anche parecchi ecclesiastici: Vincenzo Buonomo (eletto nel collegio di Mola di Gaeta-Formia), Leopoldo Dorucci (Popoli), Antonio Greco (Catanzaro), Pietro Interdonato-Ruffo (Francavilla), Ottavio Lanza dei Principi di Trabia-Bitera (Serradifalco), Antonio La Terza (Castrovillari), Antonio Miele, arciprete e canonico (Lacedonia), Pietro Palomba (Napoli IX), Carlo Passaglia, abate (Montecchio), Giuseppe Robecchi (Garlasco-Vigevano) e Flaminio Valenti (Monopoli). Malgrado l’annessione dell’Umbria e delle Marche e la scomunica lanciata da Pio IX nei confronti degli “usurpatori”, i cattolici non si esprimevano solo attraverso i clericali, come don Giacomo Margotti e i fautori del Papa-Re. Questi erano soprattutto stranieri: irlandesi, belgi, francesi… arrivavano da terre nelle quali la lotta tra clericali e anticlericali aveva toni esasperati e nei quali era degenerata in guerra civile. In Spagna era ancora in corso la lotta tra lealisti e carlisti. In Francia erano vivi i ricordi delle stragi di sacerdoti e dei cattolici in Vandea. Il Belgio era sempre diviso tra cattolici e calvinisti, un conflitto che passava attraverso la lingua (francofoni contro fiamminghi), costumi e ricordi. Nel Cinque-Seicento l’Italia aveva avuto roghi di eretici (Giordano Bruno a Campo dei Fiori in Roma) ma non aveva vissuto le guerre di religione che avevano invece sconvolto l’Europa centro-settentrionale e l’Inghilterra. Non v’era motivo di scatenarne una proprio nel secolo della scienza, della ragionevolezza, della tolleranza, del confronto tra culture europee ed extraeuropee, dopo la scoperta e la valorizzazione delle filosofie e delle religioni. L’elezione di una decina di sacerdoti nella prima Camera dei deputati del regno indicò che la Nuova Italia era la patria di tutti. Lo intuirono e lo propugnarono due figure di rilievo, il gesuita Carlo Passaglia, già teologo di fiducia di Pio IX, e il garibaldino Vito d’Ondes Reggio. Dunque, l’unità morale e politica del Paese non era affatto pregiudicata.
   Quell'esempio ha molto da insegnare anche oggi. L’Italia, infatti, ha urgenza di una “buona” legge elettorale che contribuisca a riportare alle urne, almeno, la maggioranza assoluta degli elettori, pena il rischio di sostanziale delegittimazione delle Istituzioni, altrimenti rappresentative di una minoranza.
Aldo A. Mola


QUANDO LA SANTA SEDE
“RICONOBBE” L'ITALIA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 16 febbraio 2025 pagg. 1 e 7.

Quando l'Italia “mangiò del Papa”

Mussolini e Gasparri firmano i “Patti
                  Lateranensi” (11 febbraio 1929).Nei “media” è scivolato come acqua su levigatissime pietre l'anniversario dei Patti Lateranensi sottoscritti l'11 febbraio 1929 da Benito Mussolini, capo del governo, per il Regno d'Italia, e dal cardinale Pietro Gasparri, segretario di Stato della Santa Sede. Eppure quel giorno è davvero “particolare” nella storia non solo d'Italia ma del mondo intero perché segnò il riconoscimento formale dello Stato della Città del Vaticano. Il ruolo universale del Papa, vicario di Cristo e capo della chiesa cattolica apostolica romana, non era stato messo in discussione dalla spogliazione dello Stato pontificio da parte del regno di Sardegna nel 1859-1860, che annesse l'Emilia-Romagna, l'Umbria e le Marche, forte del plebisciti dell’11-12 marzo e del 4-5 novembre 1860 con cui gli elettori chiesero di far parte della monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele II. Papa Pio IX, nato a Senigallia, divenne più italiano di quanto già era.
   Dieci anni dopo, il XX settembre 1870, quel processo si concluse con l'ingresso in Roma del IV corpo d'esercito comandato dal cattolicissimo Raffaele Cadorna. La “debellatio” del potere temporale del papa non comportò l'occupazione militare dei Sacri Palazzi compresi nella “città leonina”. Il segretario di Stato di Pio IX, cardinale Pietro Antonelli (che, va ricordato, non era sacerdote) chiese per scritto a Cadorna di entrarvi, ma solo in via eccezionale, per tutelare l'ordine pubblico turbato da tumulti anticlericali che minacciavano di degenerare in violazione di luoghi sacri e atti inconsulti contro ecclesiastici. Per ragioni di sicurezza il governo nominò Camillo Manfroni commissario di polizia di Borgo, il quartiere prospiciente il Vaticano: posizione propizia per vegliare e al tempo stesso per tenere contatti riservati con la Santa Sede, come da lui narrato nel Diario, “Sulla soglia del Vaticano”.
   Privo della tutela esercitata da Napoleone III, antico carbonaro, sconfitto dai prussiani il 2 settembre 1870 a Sedan e cancellato dalla Francia, ove fu proclamata la Repubblica (la terza, dopo quelle del 1848-1851 e del 1792-1804), malgrado tutto Pio IX non rimase affatto isolato. Gli ambasciatori degli Stati amici restarono al suo fianco. Per comprensibile animosità contro il regno d'Italia che gli aveva sottratto il Lombardo-Veneto e rivendicava il confine al Brennero e al Quarnaro, l'impero d'Austria-Ungheria, il regno di Baviera e persino Londra si attendevano dall'Italia misure che garantissero la sicurezza del pontefice, nel quale si riconoscevano i tanti cattolici dei loro Stati. Valeva anche per molti Paesi delle Americhe, inclusi gli Stati Uniti. Perciò il governo italiano varò le leggi “delle guarentigie” che – ricorda Tito Lucrezio Rizzo in “La Chiesa in prima linea, dal Colle più alto al fango delle trincee” (Roma, Aracne, dicembre 2024) – riconobbero al papa prerogative di sovrano. Benché arroccato nei Sacri Palazzi, ove si considerò “prigioniero”, Pio IX ebbe piena libertà non solo di esercitare il magistero di capo della Chiesa (poco prima dell'irruzione del XX Settembre il Concilio Vaticano aveva riconosciuto l'infallibilità dei suoi pronunciamenti “ex cathedra”, determinando la secessione dei “vecchi cattolici”, prevalentemente tedeschi) ma anche di svolgere un ruolo politico vero e proprio: accreditare ambasciatori e nominare suoi nunzi e legati, comunicare in cifra e conservare privilegi formali di capo di Stato. La legge delle guarentigie (13 maggio 1871), fortemente voluta da Vittorio Emanuele II e dai suoi ministri, specialmente Giovanni Lanza ed Emilio Visconti-Venosta, stanziò anche una somma ingente a ristoro dei beni sottratti alla Santa Sede.

“Conciliazione” e “laicizzazione” silenziose
Sino alla grande guerra del 1914-1918 si moltiplicarono pulsioni sia conciliatoristiche sia di rigorosa separazione dello Stato dalla Chiesa. La “conciliazione silenziosa” (fortunata formula di Giovanni Spadolini, storico e politico da ricordare nel centenario della nascita) andò di pari passo con la “laicizzazione silenziosa”. La prima non si tradusse nel riconoscimento dell'Italia come “fatto compiuto”. Il re e i suoi governi rimasero colpiti da interdetto. Sulla scorta di insigni storici e giuristi, nel già citato saggio Tito L. Rizzo documenta i travagli sorgenti in momenti cruciali, quali la morte del cinquantottenne Padre della Patria e la sua sepoltura non al centro del Pantheon, come richiesto, ma nella cappella centrale, sul lato destro del tempio, e l'abilità del Cappellano maggiore della Real Casa Valerio Anzino nel superare via via gli ostacoli per l'amministrazione del viatico (ne ha scritto anche Aldo G. Ricci). La “comprensione” comportò anche l'assoluzione “post mortem” di Umberto I, assassinato da Gaetano Bresci a Monza il 29 luglio 1900.
   La “laicizzazione silenziosa” a sua volta si arrestò davanti a due muri invalicabili: l'introduzione del divorzio e l'abolizione dell'insegnamento della religione cattolica nella scuola elementare. Entrambi divennero temi incandescenti nel primo decennio del Novecento. Sicuro di avere partita vinta, il presidente del Consiglio Giuseppe Zanardelli, antico massone, spinse Vittorio Emanuele III a preannunciare in un discorso della Corona una riforma del diritto civile, ma dovette fare retromarcia dinnanzi a tre milioni di firme antidivorziste raccolte in pochi mesi dai parroci di tutta Italia. Propugnata dal socialista temperato Leonida Bissolati, la cui affiliazione massonica non è documentata, il 17 febbraio 1908 l'abolizione del catechismo nell'insegnamento ottenne alla Camera appena 65 voti favorevoli su 508 (il 12%). Con molti massoni deputati, contro la riforma si schierò Giovanni Giolitti, benché da presidente del Consiglio avesse ammonito che Stato e Chiesa sono due parallele destinate a non incontrarsi mai e che in questioni religiose lo Stato è del tutto “incompetente”. Quel voto spaccò il Grande Oriente d'Italia, proprio mentre Pio X scomunicava i modernisti. Iniziava la dis-unità d'Italia. Per Giolitti, ultimo uomo del Risorgimento, l'accesso dei cattolici alle urne per l'elezione dei deputati, in deroga “al non licet” e al “non expedit” disposti dalla Sacra Penitenzieria, non doveva tradursi in ingerenze del clero in questioni politiche. Al tempo stesso lo Stato non doveva interferire nelle coscienze delle famiglie.
   Segno dei mutamenti in corso furono la solenne consegna della bandiera e la benedizione della corazzata “Roma”, celebrate a Civitavecchia il 3 ottobre 1909, presenti il Re e l'israelita Ernesto Nathan, sindaco della Capitale e già gran maestro del Grande Oriente d'Italia. Il segretario di Stato vaticano Rafael Merry del Val (sul quale si veda la biografia scrittane da Roberto de Mattei, ed. Sugarco, 2024) sconsigliò al vescovo di presenziare. Intervenne invece e orò il Cappellano maggiore della Real Casa, Giuseppe Beccaria, che, ricorda Rizzo citando da “Il Popolo Romano”, tenne un discorso da far invidia al Vate: «Il sacro, il candido, il sempre vittorioso tricolor d'Italia, benedetto da Dio sta sull'antenna. Chi contro di esso? La bianca croce, labaro novello della novella Italia, vaticina ancor essa “In hoc signo vinces”.» Rivolto direttamente alla nave, il monsignore aggiunse: «A te più vasto si dischiude il campo delle nuove conquiste. Te acclameranno i popoli che Roma onorano. Corri per tutti i mari fidente in Dio e nel suo nome torna vittoriosa, e fiera dici alla Madre Italia: lieta novella io porto, la nostra Patria è grande, essa è dovunque rispettata e temuta. Oggi orgoglio, domani, o nave vittoriosa, ti sarà anche di premio il nome eccelso di Roma, di Roma l'eterna, di Roma l'augusta, di Roma la forte, di Roma dominatrice del mondo.» Erano parole anticipatrici dell'Inno a Roma, musicato dieci anni dopo da Giacomo Puccini, e di tanti discorsi tenuti nel Ventennio da chi, come Mussolini, nel 1909 era socialista rivoluzionario e nemico dichiarato della monarchia sabauda, si proclamava antimilitarista e tre anni dopo sarebbe stato incarcerato, come l'allora repubblicano Pietro Nenni, per aver cercato di impedire la partenza di militari destinati a combattere i turchi per la proclamata sovranità italiana sulla Libia.

Triangoli segreti: Barone, Pacelli, Gasparri...
La partecipazione del clero alla grande guerra radicò in molti liberali la convinzione che fosse tempo di avviare la “conciliazione” con la Santa Sede. Nel 1919 ci provò invano Vittorio Emanuele Orlando, a margine del congresso di Pace a Parigi. Poi il Paese visse altre priorità. Proprio l'irruzione dei cattolici nella vita politica, tramite il partito popolare italiano, allontanò le due rive del Tevere.
   Il 1925 fu l'anno che conosciamo. Iniziò il “regime”. Venne aperto dal discorso di Mussolini alla Camera il pomeriggio del 3 gennaio, un sabato. Il duce assunse la responsabilità della “rivoluzione fascista”, respinse l'accusa di connivenza con il rapimento e la morte di Matteotti e sfidò chiunque a incriminarlo a norma dello Statuto. L'opposizione era assente. Popolari, socialisti, repubblicani, demosociali, democratici, liberali, a parte la pattuglia capitanata da Giolitti, rimaneva sull'“Aventino” come un gufo impagliato. Fu il suo terzo suicidio politico. Il primo era stato il “no” a un governo Giolitti, che nel 1922 sbarrasse la strada a Mussolini. La responsabilità storica cade sul fondatore del Partito popolare italiano, don Luigi Sturzo, che oppose il “veto” e da Giolitti venne bollato “prete intrigante”. La seconda fu la mancata opposizione in Aula quando il duce il 16-17 novembre 1922 chiese e ottenne la fiducia. I popolari erano al governo e votarono Mussolini. Nel 1925 il Partito popolare capitanato da Alcide De Gasperi, ridotto dai 100 deputati del 1919 a soli 39 e diviso tra filofascisti dichiarati, dubbiosi e altri, ormai inclini ad abbandonare la zattera della “politica”, uscì di scena e l'anno seguente disparve.
   Tirate le somme, la Santa Sede, che non aveva mai delegato la propria rappresentanza al Ppi che si dichiarava di cattolici ma non cattolico ed enunciò un programma senza “imprimatur”, attese che Mussolini affrontasse la “questione romana”. Nel marzo 1926 Pio XI fece intendere all'avvocato Francesco Pacelli il «non lontano desiderio di addivenire ad un accordo con lo Stato italiano». Analogo sentimento espose a Pietro Gasparri, che mostrò di «avere fiducia» in Mussolini. Pacelli ne informò monsignor Luigi Haver, che propiziò un colloquio tra Luigi Federzoni e il cardinale De Lai, nel quale nessuno dei due entrò nell'argomento. Lo stesso Haver fece incontrare Pacelli con il consigliere di Stato Domenico Barone, suo grande amico. Era il 6 agosto 1926.
   Dopo tre colloqui con Mussolini, il 30 agosto Barone espose per scritto al duce «i capisaldi proposti dalla Santa Sede per la sistemazione della questione romana». Secondo Pio XI l'iniziativa doveva partire dal governo italiano, tramite persona di sua fiducia. Le trattative dovevano prescindere dalla legge sulle guarentigie e su di esse doveva essere mantenuto «il più assoluto segreto». Sulla scia dei predecessori, il papa non aveva rinunciato alla richiesta di avere «propri mezzi di navigazione marittima», oltre a una stazione ferroviaria, una postazione radiotelegrafica e un hangar per aeromobili.
“Re melius perpensa”, il 4 ottobre Mussolini confermò a Barone «l’utilità di vedere finalmente eliminata ogni ragione di dissidio tra l'Italia e la Santa Sede» e lo incaricò di mettersi in contatto con rappresentanti vaticani per conoscerne le condizioni. L'incarico non ebbe «carattere ufficiale, né ufficioso». Fu «strettamente confidenziale». Previo un cenno provvisorio del 6 ottobre, il 24 il cardinale Gasparri incaricò Pacelli (al quale Barone aveva mostrata la lettera di Mussolini) di «un primo confidenziale scambio di idee» e gli indicò i capisaldi del Vaticano: «piena libertà e indipendenza non solamente reale ed effettiva, ma anche visibile e manifesta, con territorio di sua piena ed esclusiva proprietà sia di dominio che di giurisdizione come conviene a vera sovranità ed inviolabile ad ogni evenienza»; riconoscimento da parte delle Potenze, sollecitate dall’Italia; concordato regolante la legislazione ecclesiastica in Italia approvato delle «autorità politiche costituzionali d'Italia, cioè dal Re e dal Parlamento». Patti chiari. Il 24 novembre Pacelli e Barone sottoscrissero un “primo progetto di trattato”, elaborato sulla base di interventi del papa e di Gasparri. Un “memorandum” precisò: «La Santa Sede riconosce formalmente la costituzione di Roma capitale del Regno d'Italia e dichiara quindi definitivamente composta la “questione romana” sorta nel 1870.» Il papa rinunciava alle rivendicazioni temporali. Il 31 dicembre 1926 Mussolini, «autorizzato da S.M. il Re», riconobbe a Barone l'incarico ufficiale di trattare «con la più assoluta segretezza e “ad referendum”».
   Dopo quasi due anni di colloqui e scambi di documenti, il 7 novembre 1928 Barone informò Mussolini che Pio XI rinunziava a ogni ingrandimento territoriale rispetto a quanto indicato dalla legge delle guarentigie e rimaneva fermo nella richiesta che la composizione della questione romana avvenisse «senza intervento né preventivo né successivo di governi stranieri» ma quale «accordo che spontaneamente e liberamente viene stipulato fra l'Italia da un lato e la Santa Sede dall’altro», basato «sul riconoscimento di una sovranità (del resto tutt'affatto speciale) della Santa Sede sul territorio del Vaticano, che misura meno di mezzo chilometro quadrato, che l'Italia in realtà non ha mai preteso di avere assoggettato al suo potere sovrano…».

… il Re, Mussolini e Gasparri
Due giorni dopo il duce autorizzò Barone a rendere noto a Pacelli che andava a «provocare da Sua Maestà il Re, già informato di queste azioni e aderente alle medesime, un formale atto di incarico a me – con facoltà di subdelegare – di svolgere le trattative ufficiali e di addivenire alla firma del Trattato e del Concordato, che hanno formato oggetto delle conversazioni svoltesi finora, con l'intesa che da ambo le Parti si continuerà ad osservare il segreto». Il 22 novembre Vittorio Emanuele III autorizzò Mussolini a «iniziare le trattative ufficiali e a mettersi per ciò in relazione con il cardinale Gasparri», con l'intesa che «anche queste trattative saranno segrete in quanto e sino a che le due Alte Parti concordemente non riconosceranno l'opportunità di renderle note». A sua volta il 25 novembre Pio XI autorizzò Gasparri a procedere. Malato da tempo, Domenico Barone, al quale tanto deve l'Italia, morì il 4 gennaio 1929.
   Con il fiuto e la determinazione che gli vengono riconosciuti da storici non prevenuti (lo ricorda Antonio Carioti in “40 giorni nella vita di Mussolini. Da Predappio a Piazzale Loreto”, ed. Solferino, 2025), Mussolini prese in pugno le redini delle trattative. Il 7 gennaio invitò a colloquio Pacelli per l'indomani. Al primo incontro ne seguirono altri sette in gennaio e due in febbraio, il 6 il 9, con attente limature dei testi e, per la parte italiana, sottoposti al vaglio di Vittorio Emanuele III, che a sua volta minuziosamente intervenne anche su questioni giurisdizionali. Era il caso, ipotetico, dell'autore di un attentato politico che riuscisse, appena compiutolo, «a saltare entro la cinta del Vaticano». Chi doveva giudicarlo? Nel vaglio dei Patti intervenne anche il ministro di Grazia e giustizia Alfredo Rocco, sempre col vincolo della segretezza. Il 24 gennaio venne stabilito che la Santa Sede «accorderà piena cassazione a tutti coloro che a seguito delle leggi italiane eversive del patrimonio ecclesiastico si trovino in possesso di beni ecclesiastici». Fino ad allora erano sotto l'incubo della maledizione: “chi mangia del papa ne muore”. Il 10 febbraio Mussolini comunicò al Re che la Santa Sede aveva rinunciato a rivendicare un metro quadrato di strada davanti al Palazzo del Santo Uffizio e a includere l'intero fosco edificio nella Città del Vaticano, «contentandosi della immunità». Allegò copia di un articolo di Francesco Saverio Nitti appena pubblicato in Francia e altri paesi, nel quale l'ex presidente del Consiglio da tempo “esule” a Parigi «escludeva categoricamente ogni possibilità di accordo vicino o lontano fra Italia e Santa Sede». Alle 12 dell'indomani, 11 febbraio, sacro all'Apparizione di Lourdes, il cardinale Gasparri, plenipotenziario di Pio XI, e Mussolini, plenipotenziario del re d'Italia, firmarono i Patti Lateranensi: trattato politico, concordato e convenzione finanziaria. “Quod erat in votis”…?

E poi? Italiani fascisti o cattolici?
L'evento suscitò immediato e vasto consenso nel Paese e influì sull'esito delle elezioni della Camera dei deputati il 24 marzo 1929, che registrarono lo straripante successo del partito fascista, l’unico ammesso in Italia. Molti giornali sottolinearono che la “conciliazione” comportava la definitiva sconfitta della Massoneria. Ma vi erano ancora massoni in Italia? Due tra i suoi esponenti supremi erano reclusi. Il gran maestro Domizio Torrigiani nel 1927 era stato condannato a cinque anni di confino di polizia con un'unica imputazione: “Massone”. Il generale Luigi Capello era condannato a trent'anni di reclusione, tre dei quali in regime di massima severità, quale complice nell'attentato progettato da Tito Zaniboni per il 4 novembre 1925: senza prove convincenti, come deplorato, tra altri, da Maria Rygier in “La Franc-maçonnerie italienne devant la guerre et devant le fascisme” (Parigi, 1930). Molti altri “fratelli” erano nelle alte sfere del regime, a cominciare dal ministero della Pubblica Istruzione/Educazione Nazionale. Lì, dopo l'“iniziato” Dario Lupi, sottosegretario di Giovanni Gentile, si erano susseguiti i massoni Giuseppe Belluzzo e Balbino Giuliano, seguiti più tardi dal “fratello” Giuseppe Bottai.
   Il 25 marzo 1929 Ubaldo Triaca, 33∴, già garante di amicizia del Grande Oriente d'Italia con la Gran Loggia di Francia, revocato da Torrigiani per la sua netta opposizione al governo Mussolini, da Parigi diramò alle potenze massoniche una lettera di denuncia del «ristabilimento del potere temporale del Papa» grazie a Mussolini, mirante a guadagnarsi le simpatie e il sostegno dei clericali in Italia e all'estero per assicurarsi la durata della dittatura. Dai Patti, a suo avviso, il pontefice aveva ottenuto il controllo della cultura italiana. Di parere opposto era il filosofo Giovanni Gentile, che rivendicò l’«autonomia indefettibile dello Stato». Lo storico GioacchinoVolpe, dal canto suo, osservò che il Concordato portava qualche pericolo «nelle sue pieghe». Per far capire a tutti il ruolo svolto, Vittorio Emanuele III conferì il Collare della SS. Annunziata a tre Cardinali, Pietro Maffi, Pietro Gasparri ed Eugenio Pacelli, futuro Pio XII, così creati “cugini del Re”.
   Il punto fondamentale fu il riconoscimento dello Stato d'Italia da parte del Vaticano. La Conciliazione non chiuse solo la questione romana, ma anche quella italiana. I Patti non erano stati stipulati tra il fascismo e i clericali, ma tra lo Stato e la Santa Sede. Con il referendum del 2-3 giugno 1946 lo Stato mutò forma, ma la Repubblica rimase tenuta a osservare gli accordi stabiliti in età monarchica. Inserì i Patti nell'art.7 della Costituzione.
   L'11 febbraio è quindi un giorno “storico”, meritevole di memoria, al pari del XX Settembre. Sottovalutare o dimenticare l'uno a vantaggio dell'altro non significa “più conciliazione” ma cancellazione della complessità della Storia. Non aiuta a coglierne il peso sul presente, problematico come il passato.
Aldo A. Mola

Didascalia: Mussolini e Gasparri firmano i “Patti Lateranensi” (11 febbraio 1929).


ECCLESIASTICI E MASSONI
PER UNIRE LA NUOVA ITALIA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 9 febbraio 2025 pagg. 1 e 7.
Don Antonio Stoppani, volontario durante la
                    Terza guerra per l'indipendenza (1866). Rievocato lo
                    scorso 2024, bicentenario della sua nascita, dalle
                    9.30 alle 12.30 di venerdì 14 febbraio 2025, al
                    Museo Naturale di Storia naturale di Milano (C:so
                    Venezia, 55), don Antonio Stoppani viene
                    approfondito alla luce degli archivi in un incontro
                    moderato da Suor Benedetta Lisci, del benemerito
                    Centro Internazionale di studi rosminiani (Stresa).
                    Molto attese sono le relazioni di padre Ludovico
                    Maria Gadaleta (“Stoppani, Albertario e la questione
                    rosminiana”), al quale si devono volumi fondamentali
                    dell'Opera Omnia rosminiana, e dell'Arcivescovo di
                    Milano, Mons. Mario Delpini, su “Un prete
                    scienziato, perché la fede cerca e promuove la
                    scienza”: un titolo che è tutto un programma
                    nell'anno del Giubileo fondato sulla “speranza”
                    della “pace in terra per gli uomini di buona
                    volontà”.Pietra grezza e scalpello
Le cronache di Istituzioni dal passato illustre a volte ne deformano l'immagine, ne ingigantiscono i difetti e ne fanno scordare i meriti. È il caso della Libera Muratoria, in Italia più chiacchierata che davvero conosciuta, anche se non mancano suoi profili rigorosi, come La massoneria italiana dalle origini al nuovo millennio di Luca G. Manenti (ed. Carocci). La sua immagine nell'opinione comune e anche in molti settori di quella “accademica” ha fatto molti passi all’indietro rispetto a quasi cinquant'anni addietro, quando, era il 1980-198, per stabilire se le logge abbiano davvero svolto un ruolo costruttivo “per” e “nella” Nuova Italia si tennero a Palazzo Carignano (Torino) e a Villa Medici, sul garibaldino Gianicolo in Roma, sede albeggiante del Grande Oriente d'Italia, le mostre sui Massoni nella storia d'Italia. Il catalogo approntato per la seconda  mostra perlustrò le opere di scienziati, letterati, scrittori, artisti, compositori, uomini politici, militari… alla ricerca di un disegno riconducibile a un'idea di Italia, connessa ai principi costitutivi della massoneria, enunciati dalle costituzioni di Anderson e Desaguliers e ripetuti nelle costituzioni del Rito scozzese antico e accettato, il più diffuso nel mondo.
   L’importanza dell'opera attuata dalla prima generazione dei massoni dopo l'Unità (1861) non va cercata nel reclutamento di iniziati, nella moltiplicazione di logge e nella gara per dar vita a un corpo nazionale capace di fondere le diverse organizzazioni preesistenti, né, infine, nella preparazione e nello svolgimento di “assemblee costituenti”, teatro di aspre lotte per la conquista del potere centrale dell'Istituzione. Essa si espresse in altro modo: attraverso il contributo effettivo che i singoli “fratelli”, personaggi illustri o semplici “operai”, dettero all'avvento della “Nuova Italia” sino ad allora vagheggiata da una esigua minoranza di patrioti.
   Per venirne in chiaro giova vedere quale cognizione dell’Italia avesse la maggior parte degli abitanti del Regno e quali enormi progressi la coscienza nazionale realizzò in brevissimo tempo, grazie a una pattuglia di scrittori, anche senza direttive di un “Governo dell’Ordine”, che esisteva solo nelle ambizioni di chi aspirava a impadronirsene (fu il caso di Ludovico Frapolli) e nelle visioni arcaiche dei clericali integralisti, che lo dipingevano come “sinagoga di Satana”.
   Nel 1861 che cosa davvero gli italiani sapevano dell’Italia? Alcuni ne parlavano moltissimo e con fervore, ma di seconda mano, sulla base di reminiscenze e racconti. Pochissimi ne avevano cognizione diretta. Valeva anche per Camillo Cavour, che conosceva Svizzera, Belgio, un po’di Inghilterra, Parigi e dintorni ma niente della “Francia profonda” e non mise mai piede a Venezia o a Ravenna, né mai si spinse a sud di Firenze, ove andò solo una volta di fuggita, dopo la sua annessione, vi litigò con Vittorio Emanuele II e se ne tornò a Torino. Cavour vaticinò Roma capitale d’Italia senz’averla mai visitata, a differenza di Massimo d’Azeglio che l’aveva vissuta e rimase scettico sulla sua potenzialità di guida morale dei popoli d'Italia. Mazzini la vide con la fantasia del profeta più che con gli occhi. Nel 1849 vi arrivò dopo la proclamazione della Repubblica, proposta da Carlo Luciano Bonaparte, principe di Canino, e di Giuseppe Garibaldi. Ne rimase ammaliato e deluso Non volle rivederla mentre vi transitava sotto scorta nel verso Pisa ove morì il 10 marzo 1872. Gioberti vi andò, ad audiendum verbum, dopo aver fantasticato sulle origini pelasgiche degli “italiani”. Altrettanto vale per centinaia di patrioti che s’immolarono per l’Italia senza conoscerne la realtà effettiva. Le loro gesta sono nobili, ma lasciarono in eredità l’obbligo di far coincidere il nome con i fatti, lo spirito con la carne: un passaggio né facile, né immediato. L'Italia era una pietra grezza. Ma chi aveva martelletto e scalpello per dirozzarla?

Alla ricerca degli antenati...
A percorrere l’Italia da un capo all’altro furono due Uomini diversi e nondimeno simili: Garibaldi e Vittorio Emanuele II. Il loro incontro a Patenora Catena, presso Teano  (ottobre 1860), sintetizza bene come, per liberarla o conquistarla o almeno per farsene un’idea, occorreva percorrere l'Italia a piedi, a cavallo, in carrozza, attraversandola con guide non sempre affidabili.
   La stragrande maggioranza degli abitanti del Paese conosceva appena i fatti della propria magra esistenza, anche perché non sapeva né leggere né scrivere e se anche era alfabeta aveva altro di cui occuparsi. I due libri oggi citati quali capolavori letterari del patriottismo, Pinocchio di Collodi e Cuore di De Amicis, non sono del 1859-1861 ma degli Anni Ottanta, cioè vent’anni dopo lo sbarco di Garibaldi a Marsala e l’unificazione. Essi furono scritti per la scuola elementare obbligatoria e gratuita, la legge voluta dal massone Michele Coppino, che è del 1877: una speranza, un programma, non ancora realtà. Il censimento del 1881 fotografò l'analfabetismo perdurante in troppe regioni, soprattutto del Mezzogiorno.
   Sull’unificazione affrettata del 1861 gravarono secoli di arretratezza e sottosviluppo, di guerre esterne e interne, e altri innumerevoli guai. All’avvento del regno, l’Italia era un’“espressione geografica”, come si dice sia stata definita dal cancelliere dell’impero d’Austria, Clemens von Metternich, un illuminista conservatore. Conosceva e apprezzava l’Italia, la sua cultura, la sua storia. Disse quanto ogni persona colta del tempo suo pensava dopo aver veduto gl’italiani dilaniarsi nelle guerre civili del 1798-1800 e poi chinarsi a Napoleone I e alla Restaurazione. L’Italia non era e non sarebbe stata un “Paese” sino a quando una sua parte rappresentativa non ne avesse preso coscienza.
   Purtroppo l’idea di Italia troppo a lungo fu falsata da letterati e sedicenti poeti, che adattarono ai tempi nuovi il formulario del Cinque-Seicento. Veniva celebrata come giardino d’Europa. Invece aveva, come ha, climi differenti, miti in alcune regioni ma asperrimi in altre. Il Mezzogiorno continuò a essere presentato con la formula di Goethe, la terra “dove fioriscono i limoni”: una “cartolina” che non dava da vivere. Quelle etichette fecero danni. Chi la visitava scopriva una realtà del tutto diversa dalle descrizioni di chi l’aveva raccontata solo passando dall’uno all’altro palazzo di notabili o esplorandone posti e postriboli e rimaneva sconcertato e deluso dinnanzi ai fatti: il “sentimento” evocato da Giuseppe Cesare Abba nelle Noterelle di uno dei Mille.
   L’Italia aveva un’agricoltura arretrata e mancava di risorse naturali. Aveva un territorio infelice, bonificato con secoli di lavoro durissimo, strappato all’inclemenza dei climi con opere ingegnose di idraulica agraria, di adattamento dei fianchi impervi di colli e monti per coltivarvi alberi da frutto, ulivi e viti: una lotta faticosa insegnata dal poeta latino che esortò a piantare alberi che gioveranno alla generazione seguente. Malgrado secoli di sacrifici, nel 1861 gran parte del territorio rimaneva incolto e inospite. Valeva per vaste plaghe del Piemonte, acquitrinose, paludose, infette; per la “bassa padana” e il delta del Po, per la dorsale appenninica, le paludi pontine, tanta parte delle Puglie e della Sicilia, che stavano meglio di Basilicata e Abruzzi. Giovanni Giolitti, che nel giardino di casa, a Cavour, puliva di persona i tronchi degli alberi col guantone di ferro, saliva sulla Rocca  per contemplare la bonifica della plaga intrapresa dai monaci cistercensi ottocento e più anni prima.  
   La prima seria ricognizione dell’Italia venne avviata dall’Istituto Geografico Militare di Firenze nel 1878. Esso studiò palmo a palmo il Paese e lo riprodusse in carte vitali per la sua difesa, perché il governo di Roma non aveva né alleati né amici. Tanta cautela aveva una ragione. Solo nel 1882 Roma sottoscrisse un patto difensivo con Vienna e Berlino. Era difficile coniugare quel presente con la storia che scolari e studenti leggevano nei sussidiari o sentivano narrare in tante cerimonie. Come credersi alleati di chi aveva incarcerato Pellico, impiccato don Enrico Napoleone Tazzoli (previa dolorosa “sconsacrazione”), combattuto la Lega Lombarda, arso vivo Arnaldo da Brescia per far piacere a un papa, compiuto il sacco di Roma del 1527 per costringere Pio VII a subire la riforma protestante e via continuando? Al tempo stesso era impossibile pretendere che i giovani italiani smaniassero per la Francia che da Carlo Magno a Napoleone l’aveva invasa e devastata per secoli. Il nome di Napoleone III suonava sinistro per il sanguinoso annientamento della Repubblica Romana nel 1849, della spedizione garibaldina a Mentana (1867) e per la protezione accordata a Francesco II di Borbone dopo la sua fuga da Gaeta alla volta di Roma, che continuò a considerarlo re.
   La politica estera e, conseguentemente, quella militare pesarono sull’immagine che l’Italia poteva e doveva darsi di sé. Perciò divenne necessario proporne almeno la descrizione geografica e il profilo della sua storia e del suo patrimonio artistico. V’era un motivo. Per molti decenni dopo l’avvento del Regno tanta parte degl’italiani visse stanziale. Le mete erano i santuari due passi da casa, visitati una o due volte l’anno coniugando fede e colazioni campestri. Statistiche e memorialistica dicono che gli abitanti delle città passarono la vita nel quartiere ove erano nati, ignorando gli stessi concittadini. A modo loro, le gare tra le contrade erano un fattore di conoscenza reciproca, ma valeva per alcune città (il caso più famoso è Siena), non per la generalità dei regnicoli, che vivevano in piccoli borghi ai margini della storia: lontani dalle scorrerie ma anche dai “progressi”.

Giornalisti e divulgatori
Ruolo unificante svolsero giornali e riviste. I quotidiani non potevano vivere dei lettori di poche vie. Dovevano ampliare la distribuzione dalla tipografia alla città, ai comuni viciniori, all’intero collegio elettorale, a una provincia, a una regione. L’Ottocento finì senza che si fossero affermati quotidiani davvero nazionali. Vi erano giornali politici influenti (La Gazzetta del Popolo e La Gazzetta piemontese, che poi divenne la Stampa, a Torino, Il Secolo e il Corriere della sera a Milano, il Roma a Napoli, l’Ora a Palermo, il glorioso Corriere Mercantile a Genova e altri quotidiani o fogli di provincia, come la Gazzetta di Parma e poi quella di Mantova) ma nessuno di essi raggiungeva l’intero territorio nazionale. Però parlavano al cuore della nazione, al Parlamento, ai vertici delle amministrazioni provinciali e dei comuni di grandi dimensioni, alimentavano il dibattito. Giornalisti e pubblicisti furono pionieri e protagonisti dell’identità nazionale, che ebbe due piani di costruzione: quello degli studiosi e quello di ricercatori-divulgatori. Non furono conflittuali ma complementari. Ognuno svolse il proprio ruolo, con pregi e difetti, ma con una meta fissa: l'Italia.
   Tra i molti esempi possibili tre sembrano paradigmatici.
   Il primo è Gustavo Strafforello (Porto Maurizio, 1820-1903). Giornalista ed erudito dalla penna brillante, lavorò per l’editore Pomba di Torino, in prima linea nella pubblicazione di enciclopedie popolari, che ebbero per modello opere straniere. Strafforello tradusse molto dal tedesco e dall’inglese e collaborò anche al Brockhaus’s Conversation-Lexikon. Per un’Italia che aveva fretta di crescere inizialmente rinunciò a scrivere opere proprie. Si prodigò invece per far conoscere i classici del pensiero straniero contemporaneo e accelerare l’europeizzazione degli italiani. Nel 1865 tradusse Self-Help di H. Smiles con il titolo subito famoso Chi si aiuta, il Ciel l’aiuta: vero e proprio breviario della Terza Italia. Strafforello non badò alla qualità letteraria dell’opera, ma alla sua efficacia pratica. L’Italia doveva rimboccarsi le maniche. Il pragmatismo di Smiles fu terreno di confronto con gli scrittori cattolici ispirati da don Giovanni Bosco, impegnati a loro volta a formare per la vita. All’epoca nessuno pensò che Strafforello complottasse contro l’integrità morale degli italiani solo perché era anche massone, come ricorda Filippo Bruno in “La Rivera dei framassoni”, di prossima riedizione. Il progresso era lo statuto di tutti gli europei, incluse le istituzioni culturali dei pontefici, incrementate da Pio IX e dai suoi successori. La Specola Vaticana diretta dal napoletano don Francesco Denza ne fu modello di prestigio universale.
   Quando fu abbastanza sicuro di sé, Strafforello pubblicò una cascata di opere, impastate di enunciazioni, esempi, aneddoti. Ebbero immediato e durevole successo la Storia popolare del progresso (1871), Gli eroi del lavoro (1872) sino a Le battaglie per la vita (1902) che fu il suo congedo. La sua opera promosse pragmatismo e positivismo senza pretese filosofiche né rigidità ideologica. Echeggiava lo spirito del tempo e concorreva a suscitarlo, in un circolo virtuoso tra autore e lettori. Si cimentò anche in opere di maggior polso come La sapienza nel mondo e Il dizionario universale di geografia, storia e biografia. All’Italia dedicò un’opera che fu insieme di affetto e di orgoglio, La Patria. Pubblicata a dispense dalla Utet di Torino, fece conoscere non solo la geografia ma anche storia, eroi eponimi, attualità economica, imprenditoriale, commerciale, il tutto corredato da carte, piante topografiche, ritratti, monumenti e vedute: un capolavoro. L’“Illustrazione Italiana” era la televisione dell’epoca per abbienti e professionisti. “La Patria”, divulgata a dispense dal prezzo modesto, raggiunse molti altri. Nessuno dei due volle il primato. Competevano a chi meglio faceva per un obiettivo comune. Non duello, ma sinergia. Per l’Italia.
   Altrettanto incisiva fu l’opera di Antonio Stoppani (Lecco, 1824-Milano 1891), presbitero e scienziato di fama mondiale. Fervido ammiratore di Manzoni e di Gioberti, nel 1848, quando ancora era seminarista, da chierico Stoppani aiutò i milanesi nelle Cinque giornate contro gli occupanti. Dopo l’ordinazione sacerdotale si dedicò a studi di paleontologia e glaciologia. Nel 1857 dimostrò per primo l’unità delle Alpi lombardo-svizzere. Fu tra i fondatori dell’Istituto geologico del Regno e concorse alla redazione della carta geologica dell’Italia, importante anche per la vulcanologia e lo studio dei terremoti. Apprezzato da Quintino Sella, fu il primo presidente del Club Alpino Italiano a Milano. La sua opera principale fu e rimane Il Bel Paese, pubblicato nel 1875 e subito di immensa fortuna. Don Stoppani non entrò in dispute teologiche. Parlò dell’Italia, delle sue bellezze naturali e ne esaltò il Creatore. Per lui, come per altri ecclesiastici lungimiranti, come Carlo Passaglia e Luigi Tosti, l’unificazione era un fatto compiuto. Bisognava guardare avanti: alla pace e alla fratellanza operosa. Istruì ed educò senza alzare la voce. Scienza e fede non erano affatto contrastanti, come non lo erano la Nuova Italia e la libertà di religione. Ammiratore dell'abate Antonio Rosmini, nel 1876 si candidò, senza fortuna, alla Camera dei deputati. Alcune sue pubblicazioni finirono nell'Indice delle opere proibite dalla Chiesa. Già a suo tempo preoccupato dal ritrarsi dei ghiacciai e dalla contaminazione delle acque (ne parlò anche con Umberto I e la Regina Margherita) lasciò fare al tempo, che è galantuomo.
   Altrettanto efficace di quella di Strafforello e di don Stoppani fu l’opera divulgativa di Mauro Macchi (Milano, 1818- Roma, 1880). Discepolo di Carlo Cattaneo e collaboratore del “Politecnico”, anch’egli prese parte alle Cinque Giornate milanesi del Quarantotto e concorse alla redazione dell’Archivio triennale delle cose d’Italia di Cattaneo. Espulso dal Canton Ticino, ove si era rifugiato, migrò nel regno di Sardegna, voltò le spalle a Mazzini dopo il fallimento della rovinosa cospirazione del febbraio 1853 e si dedicò a organizzare le società operaie di mutuo soccorso. Massone, Mauro Macchi collaborò alla promozione del “Libero Pensiero” con don Giuseppe Bonavino, che lasciò l’abito, prese nome di Ausonio Franchi, si fece iniziare in loggia e assunse la guida del Rito Simbolico Italiano. Poi tornò in religione. Garibaldino, Macchi fu vicepresidente della Lega per la pace e la libertà nel 1867 adunata a Ginevra, ove il Generale predicò la pace universale, ma tra popoli liberi dalla tirannide. Poche settimane dopo il settantenne Garibaldi non esitò a salire a cavallo per liberare Roma dal potere temporale di Pio IX.
   L'opera più durevole di Macchi fu l’Almanacco istorico d’Italia pubblicato dal 1868: un'opera vastissima. La scrisse da solo, a lume di candela, tra mille difficoltà. Era il suo modo di credere nella Patria. I maggiori studiosi di statistica lo vollero al proprio fianco: Leone Carpi, Angelo Messedaglia, Cesare Correnti, tutti massoni o amici di massoni o comunque fautori di quell’“idea di Italia” che talvolta nelle logge era motivo di contesa ma venne condivisa dai patrioti. Per lui storia e statistica non erano erudizione, né arida informazione: costituivano le basi per la ricognizione del passato e additavano la via del futuro, lo Stellone d’Italia che ciascuno era ed è libero di interpretare a proprio modo. Nel 1879 venne nominato senatore: rango presagito anche per don Stoppani. Fu tra i segnali della serena pacificazione della Terza Italia, il Bel Paese ove i sapienti erano uniti come nella “Scuola di Atene” di Raffaello Sanzio.
   A fare l’Italia concorsero cospirazioni e battaglie, ma altrettanto fecero studiosi che si dedicarono al giornalismo e alla divulgazione ed ebbero spiccata sensibilità per la letteratura e la lingua popolare, incluse le lingue regionali. Fu il caso di Macchi come di Costantino Nigra, solitamente ricordato quale incaricato d’affari e ambasciatore a Parigi; di Felice Govean, autore di romanzi storici e fondatore della “Gazzetta del Popolo” di Torino; e di Luigi Pietracqua, il cui nome non figura nella maggior parte delle recenti storie della massoneria italiana. Eppure ne fu alto dignitario ed ebbe la genialità di scrivere romanzi popolari in piemontese proprio quando la costruzione della Nuova Italia costrinse Vittorio Emanuele II a trasferire la capitale da Torino a Firenze e a Roma.
   Tutti insieme, scrittori, divulgatori e giornalisti, molti ecclesiastici e massoni, furono anch'essi “padri della Patria”.
Aldo A. Mola


DIDASCALIA: Don Antonio Stoppani, volontario durante la Terza guerra per l'indipendenza (1866). Rievocato lo scorso 2024, bicentenario della sua nascita, dalle 9.30 alle 12.30 di venerdì 14 febbraio 2025, al Museo Naturale di Storia naturale di Milano (C:so Venezia, 55), don Antonio  Stoppani viene approfondito alla luce degli archivi in un incontro moderato da Suor Benedetta Lisci, del benemerito Centro Internazionale di studi rosminiani (Stresa). Molto attese sono le relazioni di padre Ludovico Maria Gadaleta (“Stoppani, Albertario e la questione rosminiana”), al quale si devono volumi fondamentali dell'Opera Omnia rosminiana, e dell'Arcivescovo di Milano, Mons. Mario Delpini, su “Un prete scienziato, perché la fede cerca e promuove la scienza”: un titolo che è tutto un programma nell'anno del Giubileo fondato sulla “speranza” della “pace in terra per gli uomini di buona volontà”.
 

FERROVIE, STRADE, TELEGRAFO
FECERO L'ITALIA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 2 febbraio 2025 pagg. 1 e 7.

Il mosaico di Stati staterelli in Italia prima
                    del 1860. La coincidenza tra confini geografici e
                    politici era stata ideata dal mitico “Patto di
                    Ausonia” che ispirò società segrete e moti
                    costituzionali costati la condanna a morte e al
                    carcere duro di tanti patrioti dal 1817 al 1870:
                    tutti convergenti nell'obiettivo di un'Italia libera
                    nella fratellanza dei popoli di tutti i continenti.
                    Ne fu suprema espressione Giuseppe Garibaldi, unico
                    italiano ricordato quale “Eroe dei due mondi” e
                    “primo massone d'Italia”.L'unificazione d'Italia
Oggi molto si discute di grandi opere e dei mezzi per realizzarle. È una sfida antica. Venne affrontata e vinta alla nascita del Regno d'Italia, da una classe dirigente di statura europea. Quella dirigenza sapeva da dove veniva e dove voleva arrivare: fare lo Stato e suo tramite gli italiani, un popolo di uomini liberi.

Dal 1860-1861 l’unità politica migliorò la vita degli abitanti del Paese Italia. Riorganizzò e coordinò una moltitudine di uffici e di servizi, prima pensati in funzione dei singoli Stati, piccoli o grandi fossero. Nel 1859 l’Italia era un mosaico di “lavori in corso”. Alcuni collegavano uno all’altro Stato per forza maggiore, altri avevano capo ma nessuna coda. Erano pensati in una visione di corto respiro. Nel primo quinquennio dopo la proclamazione del regno (1861) i governi presieduti da Camillo Cavour, Bettino Ricasoli, Urbano Rattazzi, Luigi Carlo Farini e Alfonso La Marmora e il Parlamento produssero, con regi decreti e leggi, un’enorme quantità di norme in tutti i campi.
   L’esecutivo si valse di ministri di riconosciuta competenza e dedizione, come Quintino Sella, Filippo Cordova, già gran maestro del Grande Oriente d'Italia, a contatto con Londra, e Marco Minghetti. Insediati al governo ebbero per bussola l’esempio degli antichi Romani: fare opere grandiose, per unire gl’italiani e collegarli all’Europa quando il “Mare Nostrum” era attraversato da flotte di molti Stati non affacciati sul Mediterraneo, scorciatoia tra Mare del Nord e Oceano Indiano tramite il Canale di Suez.
   Quasi dieci anni dopo la nomina a ministro, Stefano Jacini rievocò il punto di partenza e il cammino rapidamente percorso. Era stato assegnato ai Lavori pubblici per fare da «artefice principale dell’Unità nazionale, destinato a soddisfare a breve scadenza a tutti gli infiniti desideri che altre nazioni più ricche e in tempi calmi, seppero realizzare nel corso di molti anni. […] L’Italia, costituita con giovanile baldanza, decretò una moltitudine di spese per lavori pubblici in termini fissi di tempo, assai prossimi, che gli emendamenti dei deputati più smaniosi di popolarità riuscirono spesso anche a maggiormente abbreviare».
   Nell’insieme le spese per opere pubbliche tra il 1860 e il 1870 sommarono a un miliardo di lire dell’epoca: una somma astronomica. Il 20 marzo 1865 la prima legge nazionale per la loro realizzazione prese a modello quella decretata il 20 novembre 1859 da Rattazzi, che aveva governato con pieni poteri. Le grandi opere furono finanziate per metà come spese ordinarie e per metà come straordinarie. Alle straordinarie si provvide con balzelli eccedenti le imposte ordinarie. In secondo tempo le amministrazioni pubbliche salirono coi ginocchi sanguinanti sui sentieri pietrosi dei mutui con la Cassa Centrale Depositi e Prestiti (ancora da inventare nel 1861) e dell’emissione di titoli obbligazionari. Con 451 milioni di stanziamenti le ferrovie fecero la parte del leone, seguite da strade ordinarie (136), poste (172), telegrafi (49), riattamento di porti (71), opere idrauliche (42), civili (38) e bonifiche di terreni paludosi (18 milioni).
   All’immenso impegno dello Stato si aggiunse quello di amministrazioni provinciali e comunali. Dalle Alpi alla Sicilia l’Italia divenne un immenso cantiere di opere progettate, avviate e in gran parte rapidamente concluse. Il profitto stava nel beneficio che ne nasceva. L’Italia di quegli anni fecondi e rapinosi non ripassava la stessa opera. Ne inanellava una dopo l’altra. Una ferrovia a fianco di una strada e di un canale. Quando ogni opera di quel genere costava enorme fatica fisica, la Giovane Italia costruì ponti, scavò tunnel ed edificò palazzi pubblici, anteponendo l'interesse generale all’ingordigia dei particolari. La borghesia concorse all’unica rivoluzione d’Italia: a vantaggio di classi che ancora non avevano forma perché ancora non v’erano manifatture competitive a livello europeo, né industria pesante, né concentrazione del capitale. Non v’era alcun “proletariato in attesa di rivoluzione”, perché esso non esisteva.

La rete ferroviaria
Il primo obiettivo della Nuova Italia fu costruire la rete ferroviaria. Gli Stati preunitari si dotarono tardi di strade ferrate e solo in un’ottica limitata: Napoli-Portici (1839), Milano-Monza (1840), Napoli-Capua, Pisa-Livorno (1844) e Padova-Venezia (1846). Per ultima arrivò la Torino-Moncalieri (1848). Camillo Cavour fu tra i primi a capire l’importanza commerciale e militare delle ferrovie. Puntò su Torino-Genova, Torino-Modane e Torino-Cuneo, che molti volevano proseguisse subito sino a Nizza, ma dopo la sua cessione alla Francia i lavori ristagnarono. La tratta, geniale sotto il profilo ingegneristico, venne completata solo nel 1928. Gravemente danneggiata sulla fine della seconda guerra mondiale e riattata nel 1978 è in attesa di ammodernamento.
   Nel 1859 il regno di Sardegna (cioè Piemonte, comprendente la Valle d'Aosta, Savoia, Liguria e il Nizzardo) aveva 800 km di linee sui 1758 dell’intera Italia. Seguivano il Lombardo-Veneto con circa 500 e la Toscana con 256. Gli altri Stati avevano briciole: Pio IX e Ferdinando II di Borbone ne contavano circa cento ciascuno. Quando Garibaldi sbarcò a Marsala, in Sicilia non vi era alcun tronco ferroviario. Lo stesso valeva per Puglie, Lucania e Abruzzi. Nel 1860-1861 nell’Italia centro-meridionale accorsero progettisti e fiduciari di grandi investitori italiani e stranieri. Nel maggio 1865, dopo anni di dure gare tra diversi gruppi d’interesse, l’Italia fu spartita da cinque compagnie ferroviarie. Lo Stato rinunciò a ergersi a protagonista esclusivo della titanica impresa. Concessioni e convenzioni con gl’interessi privati fecero affluire dall’estero ingenti capitali, garantiti dal governo. Nel 1862 il regno d’Italia stipulò con la Francia l’apertura del tunnel del Cenisio. Dal 1863 alcune tratte vennero completate in Sicilia, Sardegna e nell’Italia centrale. Napoli fu collegata con Roma, ancora del papa. Alla fine del 1865 erano in esercizio 3.396 chilometri di strade ferrate; e altri 3.281 erano in costruzione. L’ambizioso obiettivo di 8.000 chilometri di linee in esercizio immaginato all’indomani dell’Unità rimaneva lontano, ma la strada era tracciata.
   Il primo decennio dell’unificazione venne festeggiato con un evento d’importanza europea: l’apertura del tunnel del Cenisio, un traguardo scientifico e tecnologico ammirato da tutta Europa. Fu anche la dimostrazione della capacità del “lavoro italiano”. Il traforo fu aperto grazie alla perforatrice pneumatica. Un suo modello era stato inventato dall’ingegnere milanese Giovanni Battista Piatti. Il suo progetto però non fu preso in considerazione dalla commissione brevetti del regno di Sardegna (1853). Curiosamente, due commissari, Sebastiano Grandis e Germano Sommeiller, subito dopo presentarono un’ideazione propria, in collaborazione con Severino Grattoni, pressoché identica a quella di Piatti, che protestò ma fu ignorato. D’altronde era italiano, sì, ma anche… straniero, perché il Ticino ancora divideva il Piemonte dal Lombardo-Veneto. I lavori proseguirono alacremente. Come hanno scritto Marco Albera e Giorgio Cavallo, l’ultimo diaframma della galleria di 12.849 chilometri venne abbattuto il 26 settembre 1870, sei giorni dopo la “breccia di Porta Pia”. Roma e Parigi divennero più vicine proprio al crollo di Napoleone III, che tanto aveva fatto per avvicinarle. I due tronchi del traforo si congiunsero con soli trenta centimetri di scarto rispetto al fuoco ottimale previsto: una precisione per l’epoca portentosa.
   In pochi anni quella linea fu utilizzata da 25.000.000 di viaggiatori, corrispondenti all’intera popolazione del regno. Le province prive di tronchi ferroviari si erano ridotte dalle 34 del 1861 a sole 9, rimaste ai margini per la pressoché totale assenza di produzioni e scambi indispensabili per incentivare investimenti di base e alti costi di gestione. Malgrado gli ostacoli opposti dai caratteri del territorio la rete ferrata stava unificando l’Italia con ripercussioni sul commercio interno e internazionale, rapidi benefici e maggior sicurezza sia per l’ordine interno sia per la difesa contro possibili aggressioni dall’estero.

Le strade
Alla nascita la Nuova Italia si trovò povera di strade di grande comunicazione. Ogni Stato aveva principalmente curato arterie preesistenti. In molte valli piemontesi le vie si fermavano molto prima dei valichi per non agevolare eventuali invasioni francesi. Perciò gli abitanti erano costretti a guardare solo verso la pianura. Il Regno di Napoli si valeva delle strade consolari romane, riattate nel tempo, e di poche altre arterie recenti. Le città costiere della Sicilia comunicavano per mare più che per terra. Altrettanto valeva per la Calabria, i cui prodotti venivano portati a Napoli o altrove su imbarcazioni che navigavano sotto costa.
   Dopo l’unità le strade furono classificate in nazionali, provinciali, comunali e vicinali. Nel 1863 si contavano 22.500 chilometri di strade nazionali e provinciali, per un terzo nelle Due Sicilie (5.526 nel regno di Napoli, 2.000 in Sicilia), contro i 3.500 di Piemonte e Liguria, i 2.500 della Lombardia, i 3.300 della Toscana. Per unificare la rete stradale lo Stato dovette razionalizzare. Le decisioni dei governi non furono né capricciose né punitive. Dovevano salvare l’unità faticosamente raggiunta. Per farlo bisognava raggiungere il pareggio tra spese (tante) ed entrate (poche). Deliberare e avviare una nuova opera pubblica comportava il rinvio o la negazione di decine di altre, tutte in attesa, tutte necessarie. L’arretratezza e il sottosviluppo non vennero causate dall’unificazione. Erano il portato di secoli, una realtà che alcuni governi preunitari avevano considerato ineluttabile, come terremoti ed epidemie.
   Nel 1865 le strade nazionali di plaghe raggiunte dalla costosissima rete ferroviaria vennero trasferite alle province. Lo Stato assunse tuttavia l’onere delle strade principali della Sicilia e della Sardegna, in gravissime condizioni. Nel 1869 si accollò le strade provinciali d’interesse generale classificate di 1^ e 2^ categoria. Il governo fece insomma quanto era in suo potere. E chiamò gli enti locali a vedere l’Italia al di là dei confini municipali, in un’ottica nazionale e in una visione europea della storia. Per facilitare manutenzione e varianti migliorative delle vie esistenti e averne di nuove lo Stato autorizzò province e comuni a esigere una sovrimposta sui beni fondiari, gli unici accertabili. La riorganizzazione della rete stradale gravò sui proprietari terrieri, che erano in massima parte piccoli e medi. Nel 1864 essi furono gravati dal conguaglio provvisorio dell’imposta fondiaria, gravosissima tassa “una tantum” per far quadrare i conti di uno Stato che nel frattempo si trovò a dover traslocare la capitale da Torino a Firenze.
   Nell’aprile 1868 il governo presieduto dal generale Luigi Federico Menabrea, ingegnere di talento, deliberò di costruire le strade che le amministrazioni locali non allestivano malgrado le disposizioni favorevoli dello Stato, ma ne fece carico agli inadempienti. Antepose l’interesse generale permanente ai capricci di camarille locali, come nei secoli avevano fatto i Savoia (e non essi soli) per passare dal feudalesimo allo Stato moderno. Però in troppi casi gli enti locali avevano dichiarato d’interesse nazionale le strade locali contando di scaricarne l’onere sullo Stato. Si registrò insomma una gara di egoismi e miopie. L’Italia doveva scegliere tra unificazione effettiva e orto di casa.

Poste...
Un altro fondamentale concorso all’unificazione venne dalla riorganizzazione delle poste e del telegrafo. Da tempo vigevano convenzioni tra gli Stati preunitari, ma ciascuno di essi, sia per ragioni economiche sia di sicurezza, ne deteneva il controllo, a scapito della celerità e dell’efficienza. Dal 1860 il servizio postale fu riservato allo Stato che lo orchestrò con una direzione generale del ministero dei Lavori pubblici. Il 5 maggio 1862 fu emanata la prima legge organica, modificata il 4 dicembre 1864. Essa fissò le tariffe: 15 (poi 20) centesimi per il trasporto e la consegna di lettere di peso sino a dieci grammi affrancate in partenza e 30 per quelle a carico del destinatario; un solo centesimo per il trasporto di quotidiani e periodici sino a 40 grammi, 2 centesimi per le stampe sino a 40 grammi, crescenti di altri due per ogni altri 4° o frazioni di 4°.
L’opportunità di usare la tariffa più economica incrementò la produzione della carta finissima e resistente sulla quale vennero scritte milioni di lettere con inchiostri dai colori ancora vividi a distanza di un secolo e mezzo.
   Particolarmente generosa fu la tariffa per i quotidiani, indotti a usare piccolo formato, due o al massimo quattro facciate e carta tanto leggera quanto adatta a essere impressa con le tecniche tipografiche dell’epoca. L’organizzazione nazionale del servizio postale dette frutti positivi. Nel 1870 si contavano quasi 3.000 uffici postali. I giornali e periodici distribuiti dalla posta crebbero da 40 milioni di copie annue a 68 milioni. Le lettere spedite nel regno superarono i 100 milioni nel 1872. Quelle non affrancate in partenza scesero a un decimo del totale mentre nel 1862 superavano il 50% . L’addebito al destinatario era un segno di incertezza e spesso di povertà del mittente.
Gli uffici postali non si limitarono a raccogliere e a distribuire la corrispondenza, i periodici, opere enciclopediche a dispense, fondamentali per la promozione dell’istruzione anche nei centri minori e in borgate rurali, ma svolsero funzioni bancarie. Anzitutto con i vaglia interni e internazionali, che si affermarono come la forma più rapida e sicura di trasmissione di danaro a distanza.
   Dal 1870 Quintino Sella, ministro delle Finanze, propose l’introduzione in Italia del risparmio postale, che dava ottimi frutti in altri Paesi, a cominciare dalla Gran Bretagna ove era stato ideato da Sykes e promosso da Gladstone. Il progetto incontrò ostacoli perché il risparmio postale avrebbe conteso il terreno alle altre forme di risparmio all’epoca prevalenti. Il ministro raggiunse lo scopo nel 1875. Gli uffici postali vennero abilitati alla raccolta di danaro su libretti postali nominativi. Nacque così la rete più capillare e discreta di raccolta dei risparmi anche nei luoghi più remoti del regno, ove per comprensibili motivi di bilancio nessuna banca privata e neppure le casse di risparmio o le banche popolari avrebbero aperto sedi, filiali o sportelli per il divario tra costi e benefici. I versamenti su libretti postali furono remunerati con elevato tasso d’interesse a vantaggio dei cittadini, incoraggiati ad incrementare i depositi. Il risparmio postale segnò un profondo mutamento dei costumi in plaghe che per secoli avevano tesaurizzato in ripostigli reconditi le poche monete di casa. Grazie alla solerzia degli impiegati esso raggiunse ceti altrimenti destinati a rimanere ai margini dell’organizzazione bancaria.
   All’epoca si diffusero innumerevoli titoli monetari artificiosi: i “buoni” e altre forme improprie di moneta che aumentarono il circolante al di fuori del controllo della vigilanza. Il risparmio postale infine, e con esso gli uffici che lo organizzarono, ebbe ruolo di spicco a sostegno della Cassa Centrale Depositi e Prestiti che fu il maggior volano dei grandi investimenti per la realizzazione di opere pubbliche dopo l’Unità.
   Il concetto di una cassa di deposito per affrontare esigenze pubbliche straordinarie era antica. Risaliva almeno al 1171 quando la Repubblica di Venezia ricorse alla Zecca di San Marco che concentrava depositi pubblici e risparmi privati. Nel regno sardo la Cassa di depositi e di anticipazioni di fondi per i lavori pubblici fu varata da Carlo Alberto nel 1840. Migliorata e potenziata, fece da modello alla Cassa depositi e prestiti organizzata in Casse compartimentali operanti di concerto con le Direzioni generali del debito pubblico di Firenze, Milano, Napoli, Palermo e Torino, istituite nel 1863 e poi unificate nella Cassa Centrale Depositi e Prestiti (11 agosto 1870), fortemente voluta da Quintino Sella. Gli uffici postali, infine, ebbero il monopolio della vendita dei francobolli, ascesi a oltre cento milioni di pezzi un decennio dopo l’unificazione nazionale.

… e Telegrafi
Dalle origini il telegrafo fu controllato dai governi. Il primo impianto fu la linea Pisa-Livorno. Successivamente si diffuse nel Lombardo-Veneto e nei Ducati padani (1850-52), nello Stato pontificio e nelle Due Sicilie (1852-57). Il regno sardo partì nel 1851e si portò subito avanti. Nel 1854 venne calato il primo cavo sottomarino per collegare La Spezia con la Corsica e la Sardegna. La Nuova Italia contò 12.000 chilometri di fili e 250 uffici, che rendevano tre quarti delle spese d’esercizio: un servizio pubblico tra i più remunerativi del regno. Dopo vari insuccessi dovuti alle correnti marine, nel 1863 vennero definitivamente collegate alla terraferma Sardegna e Sicilia. Le tariffe erano elevate. Il telegramma più breve da Torino a Napoli costava 20 lire, quasi il salario mensile di un bracciante. La drastica riduzione delle tariffe (da una a sei lire, secondo lunghezza del testo e distanza) incoraggiò la comunicazione telegrafica. Essa si diffuse non solo per comunicazioni commerciali ma anche per eventi domestici. Inviare e ricevere telegrammi divenne sinonimo di benessere e di prestigio sociale e, al tempo stesso, indusse a brevità e a riservatezza, anche perché prima di essere consegnati i contenuti erano letti dagli impiegati e costituivano oggetto di bisbigli.
   Nel primo decennio il Regno dovette affrontare prove durissime e spese ingenti per la sicurezza delle frontiere, per le pesanti conseguenze della terza guerra d'indipendenza, che fruttò Venezia (1866), e dell’annessione di Roma (1870), per fronteggiare ed estinguere il brigantaggio, per bonificare le vaste aree arretrate, la combattere la criminalità (dalla Sardegna alla Liguria e alla Romagna). In quegli stessi anni l’Italia fu un grande cantiere. Si registrarono molti casi di affarismo spregiudicato. Nell’insieme, tuttavia, il fervore patriottico prevalse. In un paio di lustri la Nuova Italia mise a buon frutto un ventennio di operosità scientifica e di quelle patrie battaglie che rimasero punto di riferimento ideale della dirigenza politica e attirarono all’Italia la simpatia di imprenditori e di studiosi stranieri, stupiti che essa non fosse affatto la “terra dei morti”, come lugubremente detta da Alphonse De Lamartine.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Il mosaico di Stati  staterelli in Italia prima del 1860. La coincidenza tra confini geografici e politici era stata ideata dal mitico “Patto di Ausonia” che ispirò società segrete e moti costituzionali costati la condanna a morte e al carcere duro di tanti patrioti dal 1817 al 1870: tutti convergenti nell'obiettivo di un'Italia libera nella fratellanza dei popoli di tutti i continenti. Ne fu suprema espressione Giuseppe Garibaldi, unico italiano ricordato quale “Eroe dei due mondi” e “primo massone d'Italia”.


LA “LISTA”
PER LA MODERNA CACCIA ALLE STREGHE

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 26 gennaio 2025 pagg. 1 e 7.

Nella foto una terrificante rappresentazione
                    paleo-medievale del Demonio. Dal volume “San
                    Fiorenzo in Bastia Mondovì”, a cura di Andreina
                    Griseri e Geronimo Raineri, ora in “Studi
                    Monregalesi”, a. XXIX, 2024, n. 2, tavola fuori
                    testo. Nel passato anche qualche papa definì le
                    logge “sinagoghe di Satana”, come oggi ripetono
                    regimi oscurantisti e intolleranti che impongono la
                    lettura dei “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”,
                    il libraccio che sciorina i presunti complotti
                    demo-pluto-giudaico-massonici e fu “di moda” in
                    Italia dal 1920 al 1945. La vittoria del gran
                    maestro Stefano Bisi dinanzi alla Corte europea dei
                    diritti dell'uomo, con sede a Strasburgo, è merito
                    suo, degli avvocati che lo hanno assistito (Vincenzo
                    Zeno-Zenkovic, Raffaele D'Ottavio e Fabio Federico)
                    e del Grande Oriente d'Italia; ma lo è anche di
                    tutti gli “uomini liberi e di buoni costumi”, quale
                    ne sia l'appartenenza, perché confuta la prepotenza
                    di Pubblici Poteri che per colpire oggi i massoni,
                    domani chissà chi altri, vanno al di là della legge
                    e diffondono una visione distorta della realtà.La pesca a strascico
“C'è un giudice a Strasburgo” è il titolo del nuovo libro di Stefano Bisi, per due mandati (2014-2024) gran maestro del Grande Oriente d'Italia. Di che cosa parla? Semplice e chiaro. Nel lontano 2017 Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare di indagine sulle mafie e altre associazioni criminali si convinse che almeno in alcune regioni d'Italia, come la Sicilia e la Calabria, le logge massoniche fossero cassa di compensazione fra massoni e  organizzazioni malavitose dai molteplici nomi (Cosa Nostra, Camorra, ‘Ndrangheta…). Altrettanto plurime erano e sono le denominazioni distintive delle Comunità dei Liberi Muratori. Per venirne in chiaro, decise Bindi, bisognava confrontare le liste degli affiliati alle logge con i nomi degli inquisiti per mafia. Questi ultimi, per la verità, vanno distinti tra quanti risultano sicuramente colpevoli di reato di associazione mafiosa (id est: criminale) sulla base di indagini e di sentenze passate in giudicato; quanti, invece, risultano colpevoli di fiancheggiamento o “concorso esterno” con mafiosi; e, infine, chi viene “indicato” come sospetto di contatto continuativo o circoscritto e magari del tutto casuale e inconsapevole con persona indagata per reati di mafia.
   La consistenza del reato di “concorso esterno” è stato ed è oggetto di molte riserve da parte dei giureconsulti, per la vaghezza della sua sostanza. Ancor più lo è l'addebito di collusione con mafiosi e mafie. Può essere frutto di supposizione priva di elementi probanti, di “vendette trasversali” tra appartenenti a cosche rivali o talvolta (come spesso accertato) di “pentiti” in cerca di accreditamenti e corrivi, di propria scelta ovvero indotti da altri, a “narrare” anche ciò che non sanno. Non di rado la loro “testimonianza” è risultata infondata a seguito di indagini accurate e di sentenze passate in giudicato.
   In sintesi, quando iniziò a occuparsi di collusione tra mafie e logge, la Commissione parlamentare d'inchiesta non partiva da una certezza suffragata da indizi di reato, validate da indagini e da rinvii a giudizio e da sentenze nelle quali si era concluso che il cittadino “X” aveva avuto rapporti con mafiosi in quanto massone, cioè a nome della sua loggia o della Comunità massonica di appartenenza, e che il mafioso “Y” aveva instaurato rapporti criminosi con il massone “X” non come persona singola ma quale primo anello di una catena che, salendo “per li rami”, gli avrebbe consentito di coinvolgere nelle sue condotte criminose la sua e molte altre logge e infine i vertici nazionali e persino internazionali delle logge e dei riti di appartenenza dei singoli massoni.
   La presidente Bindi, assecondata dai commissari, decise dunque di recidere il nodo gordiano: “avere le liste”. Tutte.
   
Estate 2016: quando i grandi maestri furono auditi...
Passo preliminare furono le audizioni dei grandi maestri (o presidenti che dir si voglia) di quattro Comunità massoniche italiane: il Grande Oriente d'Italia (GOI), la più antica e numerosa, con sede in Roma, a Villa Medici (edificata per il generale Giacomo Medici, garibaldino, poi aiutante di campo di Vittorio Emanuele II, uomo d'ordine); la Gran Loggia d'Italia degli antichi e liberi muratori di Rito scozzese antico e accettato, con sede in alcuni ambienti di Palazzo Vitelleschi, prospiciente l'area sacra di Torre Argentina; la Gran Loggia Regolare d'Italia (nata su impulso della Gran Loggia Unita d'Inghilterra, da molti ritenuta depositaria di legittimità e regolarità); la Serenissima Gran Loggia scozzese. La Commissione mise nel mirino quattro delle numerose (un centinaio o assai più?) organizzazioni massoniche (associazioni, ordini, fratellanze...) esistenti in Italia con le denominazioni più varie e spesso ripetitive, ma bene o male tutte riferite a Orienti, Grandi logge e Riti. Meglio sarebbe se il Parlamento varasse una legge analoga a quella esistente in Francia dal 1901, a tutela del nome delle associazioni, con quanto ne discende a beneficio degli associati, ai quali, “sic stantibus rebus”, può accadere di essere dipinti come criminali perché un magistrato o persino una legge giudica colpevole l'associazione di cui fa parte. L'indagine, condotta dalla Commissione con i poteri di corte giudiziaria, si restrinse ad alcune “sigle” più sospette di altre perché nelle regioni più “chiacchierate” risultavano maggiormente presenti loro ramificazioni
   Chiamati “ad audiendum verbum” dinnanzi alla Commissione nella rovente estate del 2016 i “capi” delle quattro Comunità massoniche, ognuno a modo proprio come si evince dalle audizioni (registrate e messe in rete da Radioradicale, che svolge benemerito servizio pubblico), difese i propri affiliati e respinse con sdegno l'addebito di avere mai propiziato rapporti malavitosi tra logge, singoli iniziati e organizzazioni criminali.
   Richiesto di esibire le liste degli affiliati delle regioni nel mirino della presidente Bindi, Stefano Bisi, gran maestro del GOI, il 3 agosto 2016 rifiutò seccamente in nome del diritto alla riservatezza (altra cosa dal “segreto”), radicato nella Costituzione della Repubblica che garantisce il diritto di partecipare ad associazioni che non cospirano contro la sicurezza dello Stato. Come appunto la Massoneria, i cui iniziati si proclamano fedeli alla Carta costituzionale, tra le più avanzate nel mondo in difesa dei diritti “non negoziabili”, come più volte spiegato da Marcello Pera e da tanti costituzionalisti.

...e perquisiti (1 marzo 2017)
Sentendosi sfidata, la presidente Bindi decise il blitz. Il 1° marzo 2017 mandò una missione speciale del Scico (sezione particolare della Guardia di finanza) a prelevare da Villa Medici tutto il “materiale” che ritenesse indispensabile per documentare la sospetta collusione tra GOI e organizzazioni mafiose. L'ispezione, come ricorda il gran maestro Bisi in “C'è un giudice a Strasburgo”, durò quattordici ore ininterrotte, dal pomeriggio alla mattina seguente. Fu arcigna e minuziosa. Tutte le persone presenti nella Villa furono identificate, ogni vano fu verificato. Vennero esplorati i recessi più improbabili, perché, come recita il brocardo, il diavolo si nasconde nei dettagli, e magari poteva essere celato nelle colonne J e B poste nella Biblioteca intitolata al giurista Paolo Ungari, nel giardino, ai piedi o tra le fronde dei pochi alberi che lo ornano e che furono pertanto a loro volta vagliati dalle radici alla chioma.
   Terminata l'ispezione, completa di asportazione della documentazione ritenuta utile all'indagine, il Grande Oriente protestò per l'abuso perpetrato a suo danno, nell'indifferenza dei tanti “media” solitamente corrivi a schierarsi a fianco di chi subisce iniquamente torti. Per capire il clima bastò osservare che la notizia della perquisizione venne diramata alle agenzie di stampa prima ancora che essa avesse inizio. “Qualcuno” aveva fretta di additare all'opinione pubblica “il Mostro” prima ancora di avere qualche prova a suo carico o forse nel timore di non uscisse un ragno dal buco al termine di un’indagine basata sul capovolgimento dell'onere della prova: ti accuso, ma non tocca a me provare che sei colpevole, sei tu a dover dimostrare la tua innocenza. Diversamente sei reo, anche se non confesso.

I dubbi sulla legittimità di quell'azione...
Sorda a ogni appello al confronto sul terreno dei fatti, nella propria Relazione conclusiva la Commissione, all'occaso della Legislatura, asserì che la massoneria è “sostanzialmente segreta”: un’affermazione linguisticamente incomprensibile e giuridicamente irrilevante. Le cose sono o non sono. Orbene, “massoneria” è un sostantivo comune di tante “cose”: polisemico, inflazionato e quindi labile. Anche dal suo avvento in veste “moderna” sull'inizio del Settecento, la sua “sostanza” era e rimane indefinita. È esperienza individuale all'interno della loggia, che a sua volta è uno spazio illimitato. La volta del Tempio non è “chiusa” come quello delle cattedrali e delle moschee: è il cielo stellato. Lì la fratellanza va oltre statuti associativi e regolamenti. Essa “è”. “E-mozione”. Ognuno esce da sé e si con-lega alla “catena di unione”. Ne scaturisce l'eggregore. Lì sono l'impercettibile e l'ineffabile che gli scrivani dei tribunali inquisitori spacciano per “segreto”, da reprimere, condannare ed espellere dalla società fondata su massificazione e uniformità. Lo precisa Alfio Manoli in un corposo libro sul Rito scozzese  antico e accettato, recentemente pubblicato da Giuseppe Laterza.
   Ma come far comprendere i rudimenti dell'Arte Reale a chi aveva pregiudizi che giungevano da chissà quali letture infantili? Non per caso, come ricorda Bisi, la Commissaria non esitò a evocare quale precedente, ma neppure abbastanza rigoroso, la legge fascista che il 26 novembre 1925 mise le comunità massoniche italiane (Grande Oriente e Serenissima Gran Loggia) nella condizione di auto-sciogliersi per scongiurare la persecuzione dei propri associati, duramente colpiti nella fiorentina “Notte di San Bartolomeo” del 3 novembre precedente, costata la vita a tre massoni assassinati perché tali.

...e il ricorso alla Corte di Strasburgo
Chiesta invano la restituzione dei “reperti” asportati durante la perquisizione e la distruzione delle liste, come altra volta in passato, a fronte dell'introduzione di “norme” discriminatorie ai danni dei massoni italiani, il GOI guidato da Bisi ricorse alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo valendosi di giuristi preparati e tenaci. Dopo anni, ha avuto ragione: la Commissione d'inchiesta andò oltre il limite delle esigenze d'indagine.
   Nel suo nuovo libro, che fa seguito a “Massofobia. L'Antimafia dell'Inquisizione” (ed. Tipheret), Bisi ricorda altre rivendicazioni da anni ribadite dal Grande Oriente d'Italia: in specie i 140 metri quadrati di Palazzo Giustiniani promessi più di trent'anni addietro dal “lodo Giovanni Spadolini”: pochi, ma forse utili per un “Museo Massonico Virtuale”, capace di documentare la plurisecolare connessione tra logge e storia generale d'Italia dall'Illuminismo al Risorgimento, dall'unità alla Grande Guerra, dalla Costituzione ai giorni nostri. Da una pur minima “emittente”, con una finestra affacciata su Piazza della Rotonda, di fronte al Pantheon, tomba di Raffaello Sanzio e dei due primi Re d'Italia, sarebbe possibile ricordare i tanti patrioti che nelle logge cospirarono per l'unità nazionale e la fratellanza dei popoli (basti, tra i molti, il nome di Giuseppe Garibaldi) e ne consolidarono le basi sociali ed economiche, come negli Anni Trenta-Quaranta del Novecento fecero Alberto Beneduce, già oratore del GOI e da Mussolini voluto presidente dell'Istituto per la Ricostruzione Industriale e riformatore della Banca d'Italia, e Domenico Maiocco, socialista, antifascista e massone, promotore della Massoneria Unificata, riconosciuta dalla Giurisdizione americana del Rito scozzese antico e accettato quale volano dell'Italia finalmente libera da nazionalismi, sovranismi e altri feticci del passato remoto.

Persecuzioni ricorrenti, vane ma devastanti
In un'ottica storiografica di lungo periodo e di vasto spettro, la deplorazione pronunciata dall'Alta Corte di Strasburgo per i diritti dell'uomo nei confronti dell’arbitraria confisca delle liste di massoni voluta da Rosy Bindi investe anche le indagini che, come prevedibile, nel corso del tempo non hanno affatto provato la fantasiosa collusione mafia-massoneria ma hanno danneggiato in misura grave e spesso irrimediabile molte persone i cui nomi sono stati esposti al pubblico ludibrio. Era accaduto con l'“affare P2” e poi con l'inchiesta condotta dal procuratore Agostino Cordova. In entrambi quei casi i “media” per anni gettarono in pasto a un'opinione pubblica manipolata e prevenuta elenchi interminabili di nomi di persone spacciate per colpevoli di chissà quali nefandezze solo perché massoni. Ci vollero quindici anni prima che una Corte d'Assise dichiarasse in via definitiva che i “piduisti” non solo non avevano mai progettato alcun golpe militare ma non avevano neppure perseguito un progetto politico di destabilizzazione delle istituzioni. Però, va notato, per arrivare a quella sentenza passarono tre lustri. E ciò malgrado, qualcuno affermò e altri ancora ripetono che la P2 stava alla Massoneria come le Brigate Rosse al Partito comunista italiano: un paragone del tutto infondato. Basti ricordare che la famosa o famigerata loggia “Propaganda massonica” non ha mai tenuto alcuna assemblea, non ha mai deliberato alcun programma e che il suo maestro venerabile mandava lettere e circolari per posta ordinaria, come documentano decine di volumi degli Atti della Commissione d'Inchiesta. Al generale Carlo Alberto dalla Chiesa Gelli scriveva indirizzando le lettere alla Caserma “Bergia” di Torino: in chiaro, non in caratteri criptici. Qualunque portalettere o furiere avrebbe potuto leggerle prima che arrivassero nelle mani del destinatario. Non sembra lo stile di due cospiratori...

2025...1925
La Corte europea di Strasburgo si è fatta sentire alla vigilia di questo 2025 che, per chi ha buona memoria, non è un anno qualunque, bensì il centenario della “distruzione del Tempio”, cioè del forzato autoscioglimento delle maggiori comunità massoniche italiane: il GOI e la Gran Loggia. Ciascuna delle due, aggiungiamo, aveva all'estero una rete di un centinaio di logge, non solo nelle colonie dell'Italia ma anche in Marocco, Tunisia, Egitto, Turchia e nelle Americhe. Ve n'era una persino in Cina. Erano altrettante antenne di un’italianità poliglotta che, a volte all'estero da generazioni, era rimasta legata alla terra d'origine e si affermava con i propri meriti, a confronto con quelli delle altre genti europee approdate nei vari continenti e lì in rapporto con civiltà, credenze, costumi locali. Erano parte di un universo dialogante al di là delle differenze di razza e di religione, come già era l'Italia tra Otto e Novecento.
   Per l’incipiente regime mussoliniano, mirante a imporre il pensiero unico, in quel 1925 fu necessario demolire le comunità massoniche per rivendicare il monopolio dell'“idea di Italia”, nata da tutt'altra cultura, il liberalismo risorgimentale: un' Italia europea, già in cerca delle “civiltà sepolte”. Per i grandi e piccoli gerarchi del regime era importante impadronirsi delle “liste”, per tenere d'occhio i massoni ed espellerli dalla vita pubblica, a cominciare da quella culturale. In un mondo fondato sul sospetto, sull'incubo del complotto e del ricatto era fondamentale disporre degli elenchi dei massoni. In “C'è un giudice a Strasburgo” Bisi ricorda come venne salvato il collare della gran maestranza. Altrettanto interessante sarà narrare come vennero sottratti alla confisca i volumi della “Matricola” generale del Grande Oriente d'Italia e i “Registri” degli iniziati alla Serenissima Gran Loggia, documenti base per capire il massonismo italiano. Esso non si riduce a tabelle statistiche sulle condizioni professionali degli affiliati o sulle loro classi d'età: è “categoria dello spirito”.
   Di quelle liste avevano bisogno sia il massonofago Mussolini – che nel 1938 schernì Italo Balbo quale “porco democratico che faceva l'oratore nella loggia Savonarola di Ferrara” perché non condivideva le leggi razziali – sia e soprattutto i mastini del regime. Impugnando “la lista”, costoro avrebbero sparato a zero contro gli affiliati, per esempio precludendo loro la direzione di sezioni particolarmente sensibili dell’“Enciclopedia italiana”. Proprio perché non si avevano “pove”a loro carico vi poterono operare Angelo Sraffa (Diritto pubblico), padre di Piero, che portò in salvo i “Quaderni del carcere” di Antonio Gramsci; di Enrico Fermi (Fisica), iniziato alla Gran Loggia; e Raffaele Pettazzoni (Storia delle religioni). Altri “fratelli”, come Arnaldo Momigliano, uno per tanti, erano nella Redazione. Aggiungeremo l'elenco dei tanti futuri antifascisti celeberrimi che collaborarono con “voci” alla costruzione del maggior monumento culturale italiano qual era e rimane l'“Enciclopedia Treccani”. Tra i molti bastino i nomi di Arturo Carlo Jemolo e Piero Calamandrei, già e poi vicini all'universo massonico. Analogo discorso andrà fatto per l'Enciclopedia pubblicata dalla Utet di Torino, antico presidio massonico.

Dirigenza culturale e Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo
Il punto è che, come la “dirigenza” burocratica (vertici dell'amministrazione dello Stato e degli “enti autarchici territoriali, cioè province e comuni), neppure quella “culturale” si improvvisa. Vale per le discipline cosiddette scientifiche (matematica, fisica, chimica, medicina, ingegneria...), come per le economiche e per quelle cosiddette “umanistiche”. Il filologo, il linguista, lo storico non nascono dai “manipoli”, dallo squadrismo, dal fanatismo. Sono l'opposto. Crescono dallo studio. Da apprendisti, i loro cultori imparano in silenzio; da compagni d’arte, dialogano; poi entrano nelle maestranze, che sono cenacoli di pari grado, intenti a dirozzare le pietre e a costruire la civiltà degli uomini liberi, fondata su norme sempre più universali, condivise dagli Stati attraverso dichiarazioni e convenzioni vincolanti.
   Il discrimine sono la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 10 dicembre 1948 e tutte le “carte” che ne sono derivate. Esse sono il solco tra un prima e un poi. Chiudere gli occhi dinnanzi a chi li calpesti significa mettersi a fianco dei loro nemici e compiere un balzo all'indietro, dalla civiltà dei diritti ai regimi dei prepotenti. Bene, dunque, che ci sia ancora un giudice a Strasburgo e che l'Europa continui a credere in se stessa, “educata” qual è dai tanti crimini che ha compiuto nei secoli su di sé se e su popoli di altri continenti. Ha fatto il suo “esame di coscienza”, ha confessato i propri errori, ha espiato. Ora ha diritto di essere se stessa: non un fastello di merci e un groviglio di tasse per guerriglie tra gnomi ma un patrimonio di civiltà divenuta Storia.
Aldo A. Mola


DIDASCALIA. Nella foto una terrificante rappresentazione paleo-medievale del Demonio. Dal volume  “San Fiorenzo in Bastia Mondovì”, a cura di Andreina Griseri e Geronimo Raineri, ora in  “Studi Monregalesi”, a. XXIX, 2024, n. 2, tavola fuori testo. Nel passato anche qualche papa definì le logge “sinagoghe di Satana”, come oggi ripetono regimi oscurantisti e intolleranti che impongono la lettura dei “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”, il libraccio che sciorina i presunti complotti demo-pluto-giudaico-massonici e fu “di moda” in Italia dal 1920 al 1945.
La vittoria del gran maestro Stefano Bisi dinanzi alla Corte europea dei diritti dell'uomo, con sede a Strasburgo, è merito suo, degli avvocati che lo hanno assistito (Vincenzo Zeno-Zenkovic, Raffaele D'Ottavio e Fabio Federico) e del Grande Oriente d'Italia; ma lo è anche  di tutti gli “uomini liberi e di buoni costumi”, quale ne sia l'appartenenza, perché confuta la prepotenza di Pubblici Poteri che per colpire oggi i massoni, domani chissà chi altri, vanno al di là della legge e diffondono una visione distorta della realtà.




CAVALCARE LA TIGRE
MA SARÀ MANSUETA?

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 19 gennaio 2025 pagg. 1 e 7.

Il mondo che venne per quello che verrà: “Alza
                    la prora e volgila allo spazio...”.Si volta il foglio, si vede la guerra...
Domani, 20 gennaio 2025, si apre a Davos-Kloster il ventesimo World Economic Forum, uno tra gli appuntamenti più attesi per fare il punto sulla “salute” dell'umanità brulicante sul pianeta e cercar di prevedere il futuro per almeno un decennio: un periodo ragionevole oltre il quale si passa da stime attendibili a meri vagheggiamenti. Il documento di lavoro approntato nell'autunno 2024 per i quattro giorni del Forum, elaborato sulla scorta di 900 interviste a studiosi delle crisi, è improntato a realismo. Esso prospetta che i due lustri prossimi saranno dominati da conflitti armati tra diversi Stati. Tra le decine di guerre “a bassa intensità” già in corso, oggi, ai margini dell'attenzione concentrata su quelle tra Federazione russa e Ucraina e tra Israele e palestinesi, molte, come vulcani dormienti, potrebbero esplodere a breve con forza distruttiva incontrollabile.
   Ma le guerre sono causa o effetto di crisi oppure grani di un'unica corona di spine che avvolge il mondo? Alla loro base si rincorrono tensioni sociali crescenti all'interno dei singoli Stati e tra grandi aree, acuite dalla percezione della fine delle risorse e quindi dalle gare tra i governi per accaparrarsene a vantaggio della stabilità interna e, al tempo stesso, dalla loro pulsione verso spazi più sicuri e contro chi bussa alla porta per avere la sua parte del benessere oggi disponibile.
   Nel 1941, durante la seconda guerra mondiale, ormai ottant'anni addietro, alle antiche libertà di pensiero, religione e dai bisogni il presidente degli Stati Uniti d'America Franklin D. Roosevelt aggiunse quella dalla “paura” (delle guerre, delle malattie...). Gli uomini, si affermò, hanno diritto alla serenità (persino alla “felicità” evocata dalla Dichiarazione di Indipendenza del 4 luglio 1776) , a guardare con fiducia al futuro. Altrimenti essi diffidano, si arroccano e si preparano a difendere con le unghie e coi denti le proprie aiuole tramite lo Stato e, se occorre, contro lo Stato. La mancanza di certezze, insomma, fa regredire all’“homo homini lupus”.
   Mentre le alleanze difensive sino a poco tempo addietro costituivano i pilastri portanti della sicurezza (era il caso della Nato), le previsioni danno per scontato che i prossimi anni registreranno l'aumento di tensioni e di probabili conflitti armati tra medie e piccole “potenze”, in assenza di poteri regolamentari sovranazionali, un tempo efficaci, oggi irrisi. Il 2024 ha certificato l'assoluta irrilevanza dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, il cui segretario generale Guterres ha predicato al vento mentre il Consiglio di Sicurezza è stato paralizzato dai veti incrociati di potenze direttamente o indirettamente coinvolte nelle guerre o interessate alla loro prosecuzione perché esse logorano i contendenti e giovano agli Stati di seconda fila, fornitori di armi e a loro modo protagonisti. Fanno storia. Micidiale.
   L'anarchia internazionale oggi dominante rende impossibile un'azione comune nella difesa dell'“ambiente”, relegato nel dimenticatoio da grandi potenze quali Cina e India e dagli stessi Stati Uniti d'America e ormai troppo costosa anche nell'Europa che si erse a sua paladina, salvo poi ripiegare su trincee arretrate a cospetto dello squilibrio tra risorse e costo della stabilità occupazionale, preoccupazione ovunque dominante e tutt'uno con il sistema pensionistico e assicurativo: ovvietà per molte persone dell'“Occidente” ma chimere per tanta parte dei popoli che mancano di acqua, farine e assistenza medica. Come cavalcare la tigre? Sarà mansueta o si volterà contro il domatore?
   Le criticità che impediscono di guardare al di là del 2035, cioè di un domani a portata di programmazione d'urgenza, intaccano anche il potere salvifico o almeno consolatorio della Parola. Mentre viene invocato il ritorno alla cooperazione e alla solidarietà internazionale, anzitutto per fronteggiare nuove epidemie, la cui prossima nefasta esplosione è data per scontata da tutti gli studiosi che se ne occupano senza falsi allarmismi e senza ingenue illusioni, nessuno riesce a garantire un futuro di pace per i viventi e meno ancora per le “generazioni venture”.

Speranza o Progetto?
Se, appunto, le Parole segnano i tempi, va constatato che quella scelta da papa Francesco quale ispirazione dell'Anno Giubilare è “Speranza”, molti passi indietro o di lato rispetto a “Progetto”, che significa controllo razionale del presente, previsione e e programmazione: criteri  neopelagiani. Chi ha qualche anno alle spalle ricorda che verso la soglia degli Anni Sessanta del Novecento l'ONU lanciò il piano decennale per lo sviluppo, destinato a imprimere la svolta verso il benessere anche per i popoli sino a quel momento diseredati del Quarto mondo. Fallì, travolto dalla sequenza di guerre connesse alla decolonizzazione. Queste oggi sono rimosse dalla memoria e del tutto dimenticate a vantaggio della leggenda secondo la quale il cammino verso l'unione (per ora va scritto in minuscolo, perché la sua sostanza latita) ha garantito la pace agli abitanti dell'Europa. La realtà è molto diversa. In effetti i popoli della parte occidentale del Vecchio Continente non si sono più azzuffati in carneficine come avevano fatto nella prima metà del secolo scorso. Ma ciascuno di essi (a eccezione di Germania, Italia e Spagna, Paesi usciti malconci da un decennio di guerra e privati di colonie) si sono logorati in lunghe guerre per perpetuare il dominio sugli antichi imperi, dall'Africa all'Indocina e all'Indonesia e lembi delle Americhe. Esse coinvolsero Gran Bretagna, Francia, Paesi Bassi, Belgio e persino il Portogallo, nominalmente ancora padrone di Angola e Mozambico, dopo aver perso “enclaves” in India. Qui e là rimasugli di quegli imperi, rivestiti con nuove denominazioni, ancora sussistono. Tra gli esempi memorabili vale il caso delle Falkland mezzo secolo fa al centro della guerra guerreggiata tra Repubblica Argentina e Gran Bretagna. Ma molti altri “pezzi di sovranità” sono oggi disseminati negli spazi extraeuropei, micce di possibili nuovi sanguinosi conflitti.
   La rivendicazione della Groenlandia, antico dominio dalla minuscola Danimarca, da parte di Donald Trump non è una sortita fuori le righe, ma la profezia della carta politica del pianeta che verrà disegnata entro qualche decennio. È la Storia nel suo continuo divenire. I confini di gran parte dell'Africa e del Vicino e Medio Oriente, a parte l'Algeria che la Francia iniziò a sottomettere con metodi si orrenda brutalità sin dal 1830, sono stati tracciati tra il 1880 e le paci pattuite tra i vincitori e dettate ai vinti dopo la prima guerra mondiale. Quei confini erano così artificiali che nessuno si scandalizza se la ora Siria sia deflagrata e il suo futuro rimanga assai oscuro. Parimenti precari sono quelli dell'America centro-meridionale, nata dalle “rivoluzioni” che dal 1812 traghettarono la Nueva España sotto l'egemonia euro-statunitense.

Tecnologie fuori controllo
Se quanto avviene e avverrà negli anni venturi rimane dunque incerto e fonte di fondate preoccupazioni, altrettanto va detto del controllo militare dell'informazione tramite i satelliti spaziali: un “mondo” sul quale il Rapporto del World Economic Forum non si pronuncia se non in modo indiretto, accennando alle “tecnologie fuori controllo”, ovvero a poteri che vanno al di là di quelli dei governi della quasi totalità degli Stati. Questi si dichiarano o rivendicano o si ripromettono di tornare pienamente sovrani o illudono i loro cittadini di esserlo, ma lo sono sempre meno o non lo sono affatto perché le decisioni supreme su di essi sono in mano altrui, di “potenze” senza territorio ma di gran lunga più forti di Stati vastissimi e bisognosi di tutto, a cominciare dalle “informazioni”. Un tempo vi erano “governi in esilio” contrapposti a quelli in carica e votati dai loro cittadini o sudditi (ve ne sono ancora e altri si aggiungono, ma senza efficacia), ora vi sono “governi” che non fanno parte di alcuna Istituzione, dall'ONU alle sue varie emulazioni. Si fondano su potere finanziario, tecnologia ed elusione da ogni vincolo formale e sostanziale. Esistono.
   Dunque le vere disuguaglianze, al di là di quanto avverte allarmato il Rapporto del World Economic Forum, non riguardano tanto le classi sociali all'interno dei Paesi ma il dominio delle tecnologie a livello globale. Su quel terreno si misurano le gerarchie tra gli “Stati”, sia fisici (un territorio con i suoi confini) sia di altra natura: i tecnocrati economico-finanziari e quelli dell'informazione, poteri fluidi, impalpabili e nondimeno decisivi, capaci di segnare per tempi imprevedibili le sorti materiali dei popoli, scatenando una sequela ininterrotta di guerre. Alla fine della seconda guerra mondiale due corti condannarono alla forca i vertici politici e militari della Germania e del Giappone. In Germania erano tutt'uno. In Giappone dipendevano dall'imperatore, che ne uscì indenne. Nessuno chiamò in giudizio chi, anche dall'“Occidente democratico”, aveva finanziato l'ascesa del nazionalsocialismo di Hitler considerandolo un bastione contro il bolscevismo di Stalin. Nei suoi ultimi tempi ci meditò il politologo Giorgio Galli, erroneamente inascoltato, quasi fosse visionario.

A scuola per capire che cosa?
A fronte della realtà effettiva odierna e delle sue prospettive di medio periodo (su quello ulteriore non è prudente pronunciarsi) suscita qualche sconcerto l'annuncio della riforma dei programmi dell'istruzione elementare e della scuola primaria inferiore (oggi in buona salute e apprezzata anche dall'estero) lasciata trasparire dal ministro della Pubblica istruzione e del merito Giuseppe Valditara, docente di diritto pubblico romano. Al momento non è possibile discuterne in modo assertivo perché non si dispone del testo della “riforma”, ma solo di un annuncio lanciato probabilmente per “sondare il terreno” in vista di ulteriori accorgimenti. La bozza contiene tuttavia alcuni spunti da subito meritevoli di considerazioni, affinché non si possa dire che una novazione di tale portata avviene nell'indifferenza generale o quanto meno di chi ancora si occupa della scuola. Una riforma dell'istruzione, destinata ad andare a regime entro un anno, inciderà sul percorso formativo di una generazione e i suoi riflessi positivi o negativi saranno verificabili tra un ventennio, quando, mentre i bambini di oggi saranno quasi adulti, la maggior parte di quanti oggi sentono di doverne discutere saranno passati all'Oriente Eterno. Proprio perciò occorre capire oggi quale sia non la francescana “speranza” ma il razionale “progetto” soggiacente alla riforma proposta da un ministro di accertata cultura storica e giuridica qual è Valditara.
   In sintesi, le novità consisterebbero (il condizionale è d'obbligo) anzitutto nell'introduzione della “musica” (“canto, suono, civiltà musicale” pare abbia dichiarato la sottosegretaria di Stato all'Istruzione Paola Frassinetti; altri aggiungono “strumenti e coro”). Nell'oltretomba se ne rallegra Gabriele d'Annunzio che nella Carta del Carnaro assegnò valore costituzionale alla musica e al teatro, non solo “rappresentazioni” occasionali ma “vita” della città dell'uomo. Però, poiché le ore di lezione nelle aule non sempre impeccabili delle scuole odierne non sono moltiplicabili all'infinito, si tratta di capire se i nuovi insegnamento vadano a detrimento di altre discipline e precisamente di quali.
   Lo stesso vale per l'ora di studio del latino (da taluni accolta con tripudio prima di saperne di più) che verrebbe introdotta dalla seconda classe della media primaria. In quanto “facoltativa” sarebbe fuori orario curricolare? In questo caso, che cosa farebbero in quell'ora gli allievi le cui famiglie non optano per il suo insegnamento? O si faranno classi differenziate: “latinisti” nelle une, riluttanti nelle altre? E quale costrutto formativo può avere lo studio del latino ristretto in un'ora la settimana? O vi si dedica il tempo necessario o è solo un occhiolino, strizzato “per vedere l'effetto che fa”. Se riforma vuol essere, quell'ora settimanale non apre alcuna porta “al vasto patrimonio di civiltà e tradizioni”, né consente di “ritrovare il tema, importantissimo, dell'eredità”, cui pare abbia alluso il ministro. Ci vuol altro per apprendere e “somatizzare” il latino (non parliamo del greco). A meno che quell'ora facoltativa serva ad anticipare la scelta della prosecuzione degli studi nella media superiore e costituisca pertanto più un discrimine che un’opportunità.
   Se si ritiene che apprendere i rudimenti del latino sia salvifico, il suo insegnamento dev'essere obbligatorio e con adeguato numero di ore settimanali. Significherebbe però – le cose vanno dette come sono – capovolgere ab imis la scuola primaria concepita con l'introduzione della “media unica”, che ha presentato e presenta manchevolezze come ogni cosa al mondo, ma ha avuto il merito di scolarizzare sino al quattordicesimo anno d’età milioni di bambini prima ai margini dell'istruzione pubblica.

Dove para Valditara?
Il ministro ha fatto sapere di aver consultato studiosi insigni delle diverse discipline per approntare l'annunciata riforma e ha sciorinato molti nomi che non menzioniamo. Era il minimo che potesse fare. È però difficile dire se i consultati si riconoscano nelle sue proposte. Prima o poi se ne saprà di più. Chi abbia avuto a che fare con vicende analoghe sa come sia facile essere ridotto a paravento di decisioni che prescindono da qualsiasi suggerimento basato su scienza ed esperienza. Quel che risulta niente affatto convincente è il proposito, enunciato con forza dal ministro, di separare lo studio della storia da quello della geografia. Sono discipline diverse? Certo. Tanto la “storia” quanto la “geografia” sono ciascuna un complesso di specialità sicché il loro insegnamento e apprendimento, tanto più se disgiunto, dipendono dall'orario messo a disposizione. Nella scuola elementare e nella media primaria (non stiamo parlando dei cinque anni delle medie superiori, perché di questo si tratta) la loro fusione in geo-storia non è affatto infondata e, se insegnata in modo appropriato, non risulta che abbia sortito effetti negativi. L'ignoranza degli allievi non nasce dall’inadeguatezza dei programmi ma è il prodotto di insegnamento di bassa qualità, distrazione dei discenti e pretesa dei genitori di avere figli con ottimi voti, poca fatica e nessuna seccatura domestica.
   Tra i propositi del ministro lascia invece più che perplessi il primato pressoché esclusivo assegnato nello studio della storia a popoli italici, antica Grecia, Roma, cristianesimo, rinascimento, unificazione nazionale e a un generico Occidente. Nessun cenno all'Illuminismo, senza il quale non si comprendono né il Risorgimento, né il Novecento liberale? Forse va scordato per le sue venature razionali? Va osservato inoltre che se la spruzzatina di latino può essere considerata una belluria, la riduzione della storia a dimensione “locale”, qual è quella dell’Italia, costituisce un incomprensibile e inaccettabile passo indietro rispetto alle esigenze di formazione dell'italiano odierno e futuro: cittadino europeo, proiettato a confrontarsi con la molteplicità di etnie, lingue e di costumi di tutto il mondo, con i quali già è e sempre più si troverà a fare i conti nei decenni venturi, anche a casa propria.
   Lo scolaro oggi ha bisogno di essere messo in grado di capire un articolo o un telegiornale nel quale non si parla solo dell'Italia e non si citano solo le vette alpine o appenniniche ma si parla di Russia (che nei nuovi insegnamenti non sarebbe più Europa), Cina, India, Africa: insomma di tutto quello che era chiarissimo ai patrioti italiani dell'Ottocento e per sua fortuna lo era e lo rimane per la chiesa cattolica apostolica romana come di altre istituzioni internazionali quali la massoneria.
   Indubbiamente gli allievi, secondo quanto ventilato dal ministro, potranno e dovranno studiare poeti del Novecento (cita tra altri il ferrarese Riccardo Govoni e il perugino romanizzato Sandro Penna, sublime cantore dell'eros omosessuale, ma lascia ai margini Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale e Salvatore Quasimodo: due Premi Nobel...). Però perché cancellare il già oggi obliato Giosue Carducci di “Pianto antico” e di “Davanti San Guido” e altri classici della letteratura italiana? Con buona pace del ministro, gli ultimi versi del “Tramonto della luna” dello schivato Giacomo Leopardi sono comprensibili anche ai bimbi delle elementari se ben guidati. E oggi sono drammaticamente attuali: “Ma la vita mortal, poi che la bella /Giovinezza sparì, non si colora/ d'altra luce giammai, né d'altra aurora./ Vedova è insino al fine; ed alla notte/ che l'altre etadi oscura,/ segno poser gli Dei la sepoltura”.
   Il ministro esorta infine a studiare la Bibbia. Quale dei suoi multiformi libri? Il Deuteronomio, i profeti, i lirici e i sapienziali? O L'Ecclesiaste? Forse è quest'ultimo che deve essere meditato da tutti, governo compreso: «Vanità delle vanità, tutto è vanità. Ogni cosa ha il suo tempo sotto il cielo. Tempo di demolire e tempo di edificare…» Ma per costruire non bastano speranze. Occorre un Progetto razionale, coerente con la realtà e consapevole che il mondo odierno è un universo armato sino ai denti e in corsa verso il precipizio. Gli scolari hanno diritto a conoscerlo; e i genitori hanno il dovere di fare la loro parte per aiutare la scuola a compiere la propria. Piuttosto che “riformare” tanto per dare un segnale è preferibile migliorare l’esistente. Lo insegna l’Ecclesiaste (1, 10): “nihil sub sole novum”…
Aldo A. Mola

DIDASCALIA:  Il mondo che venne per quello che verrà: “Alza la prora e volgila allo spazio...”.


MUSSOLINI SCALTRO MASSONOFAGO
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 12 gennaio 2025 pagg. 1 e 7.

Una loggia di Firenze devastata dagli
                    squadristi (da Aldo A. Mola, “I massoni nella storia
                    d'Italia, Catalogo della Mostra, Palazzo Carignano,
                    Torino, 1980).Il grande “Pizzino di Stato”
«Chi troppo in alto va cade sovente precipitevolissimevolmente» osservò il commediografo Andrea Casatti in il “Governo di Malmantile” (1734). Ricalcava la visione gioiosa di Ludovico Ariosto che spostò i suoi Eroi dalla Terra al Cielo affinché, svolazzando negli spazi siderei, mandassero messaggi efficaci ai terragni, sempre un po' duri di comprendonio. Come oggi.
   Nei primi tre anni del governo Mussolini (ottobre1922-novembre 1925) in Italia si confrontarono due “potenze”. Da un canto il duce del fascismo, dipinto come “il Truce” per le pose minaci che spesso assumeva nei discorsi pubblici. Dall’altro canto le comunità massoniche: il Grande Oriente d'Italia, che risaliva al 1 gennaio 1862, dalle venature anticattoliche e repubblicane, e la Serenissima Gran Loggia d'Italia, incardinata nel 1910 dal Supremo consiglio del Rito scozzese antico e accettato capitanato dal pastore evangelico Saverio Fera. Apparentemente meno pugnace, la seconda, grazie alla strategia del suo terzo “conducator”, Raoul Palermi, si era insinuata in posizioni eminenti all'interno del nascente regime per controllarlo e orientarlo. Sommate, le due Comunità contavano almeno 50.000 affiliati, molti dei quali ben presenti nello Stato e nella società. All'epoca le porte di molte Officine massoniche erano girevoli. Si entrava e si usciva (o se ne veniva cacciati) nel volgere di pochi mesi. Assunta la “carica” a fine ottobre 1922, Mussolini sempre più constatava che il suo potere era una “macchina imperfetta” (formula di Guido Melis), popolata di pre- e di a-fascisti e non immune di antifascisti. Bisognava espellerne i riottosi e i riluttanti per fare dei pubblici dipendenti, con o senza tessera del PNF, una schiera di automi pronti a credere, obbedire e combattere, pronti a sfilare “avanti al Duce e avanti al Re”. Perciò i massoni, uomini del dubbio, andavano eliminati. Di quelle due “potenze” non poteva rimarne che una. I massoni erano ovunque. Ma Mussolini, come presidente del Consiglio, aveva tutto. Almeno temporaneamente. Per vincere, però, non gli poteva bastare il manganello. Doveva usare lo Stato. Le leggi. Seppe farlo. Il primo a crollare precipitevolissimevolmente fu proprio il Tempio di Hiram, sinonimo di Massoneria.
   Per chiudere la partita, nove giorni dopo il discorso del 3 gennaio 1925, il 12 seguente, un lunedì, Benito Mussolini, presidente del consiglio dei Ministri e ministro degli Esteri, presentò alla Camera il disegno di legge (Ddl) sulla «Regolarizzazione dell'attività delle associazioni, enti ed istituti e dell'appartenenza ai medesimi del personale dipendente dallo Stato, dalle province, dai comuni e dalle istituzioni pubbliche di beneficenza». Fu il più grande “Pizzino di Stato” mai congegnato in Italia da un capo di governo per eliminare chi faceva da nerbo e da collante delle opposizioni più pericolose: non i cattolici del partito popolare, succubi della Chiesa nell'anno del Giubileo, né i comunisti, tenuti al guinzaglio dall'Unione sovietica, che aveva aperto un'ambasciata a Roma nell'anno dell'“affare Matteotti” senza manco invitarli. Da colpire senza remissione erano liberali di varia osservanza, democratici sociali, repubblicani, socialisti e soprattutto loro, i “Figli della Vedova”, liberi pensatori riottosi a qualunque disciplina coatta.

Una legge che non dice ma fa: annienta la libertà
Qual era il bersaglio di quel Ddl? Per capirlo, ne vanno lette le norme. Il primo articolo prevedeva: «Le associazioni, enti ed istituti costituiti ed operanti nel Regno e nelle Colonie sono obbligati a comunicare all'autorità di pubblica sicurezza l'atto costitutivo, lo statuto e i regolamenti interni, l'elenco nominativo delle cariche sociali e dei soci, ed ogni altra notizia intorno alla loro organizzazione ed attività tutte le volte che ne vengon richiesti dalla autorità predetta per ragioni di ordine o di sicurezza pubbli
ica.» Quanti avevano funzioni direttive o di rappresentanza dovevano adempiere alla richiesta entro due giorni dalla notifica, sotto pena di arresto non inferiore a tre mesi e di un’ammenda da due a seimila lire (lo stipendio annuo di un impiegato di concetto). I responsabili di notizie false o incomplete sarebbero stati puniti con la reclusione non inferiore a un anno, oltre a una multa da cinque a trentamila lire e all'interdizione dai pubblici uffici per cinque anni.
   L'articolo 2 prescriveva: «I funzionari, impiegati, ed agenti civili e militari di ogni ordine e grado dello Stato, ed i funzionari, impiegati ed agenti delle province e dei comuni, o di istituti sottoposti per legge alla tutela dello Stato, delle province e dei comuni, che appartengano anche in qualità di semplice socio, ad associazioni, enti ed istituti costituti del Regno o fuori ed operanti anche solo in parte in modo clandestino od occulto o i cui soci sono vincolati dal segreto, sono destituiti o rimossi dal grado o dall'impiego o comunque licenziati.» Il Ddl stringeva il cerchio, separando il grano (il grosso del pubblico impiego) dal loglio (i massoni).
   Tutti i predetti erano «tenuti a dichiarare se appartennero o appartengano, anche in qualità di semplici soci ad associazioni enti ed istituti di qualunque specie costituiti od operanti nel Regno o fuori, al ministro in caso di dipendenti dello Stato e al prefetto della provincia in tutti gli altri casi, qualora ne siano specificatamente richiesti». Quanti non ottemperavano entro due giorni dalla notificazione venivano sospesi dallo stipendio per almeno quindici giorni e non più di tre mesi. In caso di notizie false o incomplete «la pena è della sospensione dallo stipendio non inferiore a sei mesi». Pochi anni dopo la Grande Guerra colpire i lavoratori nelle tasche era l'arma più efficace. Condannava non solo al ludibrio nell'opinione pubblica ma alla fame: la vittima si ritrovava esule in patria, senza alternativa professionale, reietto ai margini della società, con la famiglia che, a mensa scarna, domandava quali vantaggi procurassero i grembiulini massonici.
   Nel Ddl Mussolini non menzionò in alcun modo la Massoneria. Eppure alla Camera come nei giornali fu subito detto e scritto che il suo bersaglio precipuo era appunto la Libera Muratoria, più precisamente il Grande Oriente d'Italia. Ma lo era davvero o fungeva solo da pretesto per mettere sotto controllo ogni e qualunque associazione passata, presente e futura? In discussione, insomma, era la fratellanza massonica o la libertà dei cittadini?
   Contrariamente a quanto molti immaginano, Mussolini non intervenne alla Camera a sostegno della proposta di legge. Essa fu “presentata” con il corredo di una Relazione, e affidata immediatamente all'esame di una commissione di quindici parlamentari, presieduta da Giovanni Gentile e comprendente storici quali Gioacchino Volpe e Francesco Ercole, futuro ministro dell'Educazione nazionale.
   Il 12 gennaio la Camera non era più presieduta dal nazionalfascista Alfredo Rocco, giurista di talento, come riconobbe in un saggio giovanile lo storico e massone Paolino Ungari, dedicatario della Biblioteca del Grande Oriente d'Italia. Il 6, tre giorni dopo il discorso del 3 gennaio, Rocco era stato nominato ministro di Grazia e Giustizia, nel rimpasto di governo che riguardò anche i dicasteri della Pubblica Istruzione (Alessandro Casati fu sostituito da Pietro Fedele alla Pubblica Istruzione e Gino Sarrocchi da Giovanni Giuriati ai Lavori pubblici). A presiedere l'Aula, provvisoriamente priva di presidente, quel fatidico lunedì fu Luigi Gasparotto, interventista, “democratico”, tendenzialmente repubblicano, dai più considerato molto vicino alla Massoneria, non privo di amicizie in ambito fascista, e futuro ministro della Difesa nel governo presieduto da Alcide De Gasperi. A lui si deve l'adozione provvisoria del Canto Nazionale come inno provvisorio della Repubblica (ottobre 1946).
   L'Aula accolse il Ddl Mussolini con “vivi applausi e commenti”. Nessuna obiezione. Dopo di che, come tanti altri, esso iniziò la navigazione e la calendarizzazione, sino a quando venne discusso in Aula tra il 16 e il 19 maggio seguente.

Il Duce dixit...
Mussolini dunque accompagnò il Ddl con una Relazione, che è farina del suo sacco. Per dire quel che pensava della Massoneria non aveva bisogno di suggerimenti. Lo aveva scritto, detto e persino urlato in tante occasioni. Poiché il motto antico “ex ore tuo te judico” è sempre valido, cent'anni dopo giova rileggerne qualche passo.
   Il presidente del Consiglio e duce del fascismo esordì affermando che a tutti era nota «la parte che, nel moto del risorgimento italiano, ebbero le società e le sette segrete». Lo avevano affermato politici, storici e patrioti insigni. Tra i molti, Giosue Carducci aveva polemicamente confutato il motto secondo il quale per fare l'Italia bisognava disfare le sette. Iniziato massone in una loggia “selvaggia”, poi regolarizzato maestro in un'Officina bolognese formata esclusivamente di militari e docenti universitari, demolita dal gran maestro Ludovico Frapolli (una delle sua tante enormità), nel 1886 Carducci accolse l'invito del gran maestro Adriano Lemmi di far parte della “Propaganda massonica”, niente affatto occulta, e anzi “vetrina” di una Massoneria che fra il 1876 e il 1911 dette all'Italia cinque presidenti del governo: Agostino Depretis, Francesco Crispi, Giuseppe Zanardelli, Alessandro Fortis e Luigi Luzzatti. Nel 1895 da presidente del Consiglio, presente il Re, Crispi “scoprì” il monumento di Garibaldi sul Gianicolo a Roma, onusto di simboli massonici, e proclamò festa nazionale il Venti Settembre di concerto con Umberto I che aveva dichiarato la Città Eterna “conquista intangibile”. Quell'Italia era stata e rimaneva “scomunicata” e perciò compatta, chiusa a testuggine su se stessa come “legione sacra”.
   Mussolini, ex allievo del Convitto di Forlimpopoli diretto da Valfredo Carducci, fratello minore di Giosue, da antico ateo di complemento non poteva buttare alle ortiche l’“Inno a Satana”, Mario Rapisardi, Lorenzo Stecchetti (tutti “poeti” oggi dimenticati ma all'epoca dominanti, alla pari di Pascoli, massone a sua volta). Però si riteneva in diritto di sentenziare che il giudizio su società e sette segrete ormai “apparteneva alla storia”, come si dice dei morti.
   Sappiamo come tanti “storici” a noleggio cambino pennino e colore dell'inchiostro secondo il vento che tira. Ma nella breve Relazione sul Ddl Mussolini sintetizzò senza tentennamenti i motivi della condanna totale della Massoneria. Utili «in tempo di servitù, come mezzo di lotta del popolo inerme contro lo straniero e di Governi clienti dello straniero», «tali società», anziché sparire dopo l'avvento delle libertà statutarie, divennero ricettacolo di intriganti, di malcontenti e di delusi.
   «Ora – egli aggiunse – qualsiasi specie di società occulta, anche se in ipotesi il suo fine sia eticamente e giuridicamente lecito, è da ritenersi pel fatto stesso della segretezza, incompatibile con la sovranità dello Stato e la uguale libertà dei cittadini di fronte alle leggi. […] Si pone, in altri termini, fuori della legge e non può appellarsi ad essa per esserne difeso. […] Le società che obbligano i propri adepti al silenzio, anche a costo di mentire, contribuiscono a corrompere e a falsare il carattere degli italiani, per sua natura disposto a franchezza e sincerità. La consuetudine della menzogna, della dissimulazione e del mistero è una delle più deplorevoli conseguenze delle sette segrete; e forma, purtroppo, triste privilegio italiano quello di insistere, in regime di libertà nazionale e politica, nel perpetuarne gli effetti. […] Tutti i partiti ne sono più o meno inquinati ed avvelenati. La lotta politica in Italia non potrà svolgersi con piena sincerità e genuinità di atteggiamenti e di rapporti sino a che sarà possibile alle sette segrete di insinuarsi in ciascuno sotto mentite spoglie, per asservirne a interessi o a finalità inconfessabili il programma, per deviarne lo spirito, per controllarne o carpine le deliberazioni; per tradirli, infine tutti e ciascuno, fino a che insomma ogni partito potrà temere o sospettare, e troppo spesso non invano, di avere senza saperlo, il nemico nelle proprie file.»
   Mussolini si atteggiava dunque a difensore dei partiti, proprio mentre progettava di annientarli, come infatti avvenne nel corso del 1925-1926 con le “leggi fascistissime” votate da un parlamento ormai succubo. Lasciò trasparire di essere al corrente dei tanti massoni che erano all'interno del Pnf, della macchina governativa e negli impieghi locali. Il suo fido sottosegretario alla presidenza, Giacomo Acerbo, era massone della Gran Loggia, grado 7° della piramide scozzese prima del 31 ottobre 1922: balzò al grado 30° non appena giunto al potere. Mussolini non voleva cacciarlo, ma costringerlo a recidere i legami con la loggia. Ci riuscì? Il 25 luglio 1943 Acerbo fu tra i più convinti fautori dell’ordine del giorno che mise il duce in minoranza in seno al Gran Consiglio, ove tanti gerarchi (compreso Giuseppe Bottai, della loggia “La Forgia” di Roma, comunità della Gran Loggia d'Italia) ricordavano di essere stati iniziati ai travagli d'officina (e di masticazione): “semel abbas semper abbas”?
   Nella parte finale della Relazione il duce del fascismo deplorò che «le associazioni operanti in modo clandestino od occulto» si diffondessero tra i pubblici impiegati e persino tra i magistrati e gli ufficiali dell'esercito e della marina. Costituivano pertanto una minaccia alla sicurezza dello Stato perché avevano «bene spesso all'estero i centri di direzione e di influenza». A chi si riferiva? Mussolini non ignorava certo che la Gran Loggia Unita d'Inghilterra era tutt'uno con la Corona della Gran Bretagna e che alla presidenza degli Stati Uniti d'America da George Washington in poi si erano susseguiti massoni, sino a quello in carica mentre gli depositava il Ddl. Lo erano stati anche molti presidenti della Repubblica francese e tanti sovrani e principi dell'Europa settentrionale.
   Da tempo “in bonis” con padre Pietro Tacchi Venturi, l'ex socialmassimalista anticlericale, ora in marcia verso la Conciliazione, concluse: «Nessuna persecuzione, nessun divieto di alcun genere, nessuna limitazione del diritto di associazione. Solo obbligo, a tutte le associazioni, come avviene nei paesi più civili, di agire palesemente.» Tempo pochi mesi, tutte le associazioni vennero via via poste sotto controllo, vietate o costrette ad aggiungere l'aggettivo “fascista” alla loro denominazione originaria.

Alle radici della massonofobia
L'offensiva “ope legis” contro la Massoneria aveva in Mussolini motivazioni antiche e altre contingenti. Le prime risalivano alla lunga lotta per la conquista del Partito socialista italiano. Nei suoi congressi la “questione massonica” - ha ricordato Marco Novarino - cominciò a essere posta dal 1904. Elusa e rinviata per anni, essa esplose nel 1912 quando al congresso di Reggio Emilia i riformisti, molti dei quali affiliati a logge massoniche o sospettati di tresche liberomuratorie, come Leonida Bissolati, furono espulsi. Mussolini vinse la guerra nell'aprile 1914 quando a larghissima maggioranza al congresso di Ancona fu approvato l'ordine del giorno firmato da lui e da Zibordi che decretò l'espulsione dei massoni dal partito. Gli si contrappose Giacomo Matteotti (recentemente celebrato quale “moderato”) che propose invece l'incompatibilità tra loggia e partito, lasciando a ciascuno libertà di optare per l'una o per l'altro. Pochi si schierarono per la vera libertà o ritennero che la questione andava accantonata.
   All'epoca, nei primi lustri del Novecento, la Massoneria, in specie il Grande Oriente, era investita dall'offensiva dei nazionalisti, che la denunciavano come ateistica, antimilitarista (sinonimo di anti-patriottica) e asservita a interessi stranieri, soprattuto della Francia. Il loro foglio, “L'Idea Nazionale”, propose a un folto numero di notabili di dire se essa fosse «compatibile con le condizioni della vita pubblica moderna», se «il razionalismo materialistico e l'ideologia umanitaria e internazionalistica, a cui la Massoneria nelle sue manifestazioni si ispira, corrispondessero alle più vive tendenze del pensiero contemporaneo» e se credevano che «l’azione palese e occulta della massoneria nella vita italiana, e particolarmente negli istituti militari, nella magistratura, nella scuola, nelle pubbliche amministrazioni, si risolvesse in un beneficio o un danno per il Paese».
   L' Inchiesta risultò un plebiscito di “no” contro la Massoneria, proprio mentre sindaco di Roma era Ernesto Nathan, già gran maestro del Grande Oriente d'Italia. Particolarmente sferzanti furono i vertici delle forze armate, inclusi Luigi Cadorna e Carlo Porro (futuri Comandante Supremo e vice nella Grande Guerra). A loro si aggiunse Giovanni Gentile, secondo il quale «la Massoneria non deve più essere giudicata, ma combattuta»: una lotta snza quartiere, che non poteva non essere condotta contro di essa, salvo poi «stringere la mano ai massoni». Luigi Einaudi rispose di non aver mai conosciuto nulla di più ridicolo e camorristico della massoneria. Benedetto Croce dichiarò di non aver nulla da aggiungere a quanto già aveva detto dell'infantile umanesimo pacifistico dei massoni, che si pascevano di una sub-cultura «da maestrucoli elementari», ottima per commercianti e bottegai. Un disastro per chi sognava di avere in pugno le “umane sorti e progressive” dell'intera umanità e si vedeva irridere da un Pontefice senza cattedra quale era il “filosofo di Pescasseroli”, come Croce fu detto anche dai preti che non gli perdonarono mai il suo distacco dalla Chiesa.
   Il 12 gennaio 1925 Mussolini mise all'attivo decenni di polemiche antimassoniche serpeggianti nel Paese, ma lo fece con circospezione e, come detto, senza nemmeno nominare la libera muratoria. Al “lavoro sporco” provvide la fervorosa Commissione che si affrettò a scrivere come e perché i massoni andassero cacciati dallo Stato dai pubblici uffici o costretti a pubbliche abiure. Tra i quindici figurò il filosofo Balbino Giuliano, nazional-fascista di spicco, antico iniziato alla loggia della Valle del Chienti quando era giovane docente all'Università di Camerino. Il segreto nel quale erano conservati i registri degli iniziati favoriva il doppio gioco. Mussolini, però, se non aveva fretta di veder approvata la legge contro la Massoneria voleva passare subito all’incasso dei suoi venturi effetti. Perciò ripresero gli assalti alle logge, come già nella seconda parte del 1924. Gli squadristi saccheggiarono e asportarono (per distruggere o conservare altrove) i verbali di loggia e gli elenchi degli affiliati, fondamentali per ricatti e per prolungare la guerriglia civile negli anni del regime.
   Non ebbe torto Mussolini a definire “legge fascistissima” quella presentata alla Camera il 12 gennaio 1925. Come si sia arrivati alla sua approvazione, merita un discorso a parte. Qui basti concludere che, vittorioso nella battaglia senza prigionieri contro i massoni, 18 anni dopo anch'egli cadde precipitevolissimevolmente. Una lezione per ogni altro aspirante ai pieni poteri. 
Aldo A. Mola

DIDASCALIA : Una loggia di Firenze devastata dagli squadristi (da Aldo A. Mola, “I massoni nella storia d'Italia, Catalogo della Mostra, Palazzo Carignano, Torino, 1980).


3 GENNAIO 1925
UN SUSSULTO DELLA GRANDE GUERRA
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 5 gennaio 2025 pagg. 1 e 7.
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Ritratto a olio di Benito Mussolini, dipinto da
                    Franck O. Salisbury (1927). Il duce, col distintivo
                    del PNF, tiene in mano una carpetta intitolata
                    “Governo”.Grande Guerra, militarizzazione...
I cantastorie raccontano che con il discorso del 3 gennaio 1925 Benito Mussolini «soppresse la democrazia per istituire la dittatura fascista in Italia». Lo ha ripetuto Antonio Scurati in “la Repubblica”, in occasione del centenario. Il suo primo volume della serie “M” (cioè Mussolini “figlio del secolo”) ebbe il pregio di dire la verità scomoda, ma non ne trasse la somma: il duce del fascismo era l’effetto, non la causa, della Grande Guerra sul corpo degli italiani.
   La militarizzazione di cinque milioni e mezzo di maschi, rinserrati per anni tra prima linea e retrovie per la riorganizzazione dei reparti falcidiati negli attacchi frontali, e quella, parallela, delle donne addette alla produzione bellica nelle fabbriche “ausiliarie”, a loro volta in stato di guerra, che equiparava gli scioperi al tradimento della patria e li puniva con pene severissime, avevano già introdotto nel Paese un regime di fatto. La vita quotidiana, dalle “zone di guerra” alle regioni popolate di manifatture e industrie metalmeccaniche, cinghia di trasmissione tra fronte interno e linee di combattimento, in pochi anni avevano creato un'Italia diversa da quella vagheggiata nel primo quindicennio del Novecento, contrassegnata da moltitudini di scioperi economici, miglioramenti retributivi, anche nelle campagne, e crescita civile, suggellata dal conferimento del diritto di voto a tutti i maschi che avessero prestato servizio militare, benché analfabeti. Il fautore di quella riforma altamente politico-patriottica, Giovanni Giolitti, aveva osservato che chi aveva messo la vita a disposizione dello Stato aveva acquisito diritti politici al pari degli “intellettuali” che propugnavano la più grande Italia, impegnata nella colonizzazione interna e nella conquista di spazi Oltremare. Tra costoro, alla dichiarazione di guerra dell'Italia contro l'impero turco-ottomano per il dominio sulla Libia, il mite Giovanni Pascoli scrisse che “la grande proletaria si era mossa” e ne cantò le legioni. Altrettanto fece Giacomo Puccini che nel 1918 musicò l'Inno a Roma di Fausto Salvatori per la vittoria sugli Imperi Centrali, con i famosi versi «Tu non vedrai alcuna cosa al mondo maggior di Roma». Non era certo fascismo e neppure nazionalismo, bensì la giustificazione dell'unità nazionale e, al tempo stesso, la celebrazione della “missione” della Nuova Italia che, per avere il suo posto nel mondo, doveva essere essere in continuità con l'Antica Roma. Del resto, negli stessi anni, la Germania erigeva il monumento ad Arminio, distruttore delle legioni di Augusto, e la Francia s’identificava con la “beata” Giovanna d’Arco, fiera nemica degli inglesi, pur apprestandosi a combattere a fianco di costoro contro i tedeschi, spregiativamente detti “boches”.
...e trauma psicologico di massa.
In pochi anni, tra il 1917 e le “paci” del 1919-1923, non si rimescolarono solo i confini degli Stati, con la caduta di quattro imperi (russo, germanico, austro-ungarico e turco-ottomano) e con la nascita di un mondo nuovo sul quale s'affacciarono gli affaristi degli Stati Uniti d'America e del Giappone, che ebbe mano libera nell'Estremo Oriente. Accadde di più: l'avvento di una generazione che aveva appreso a convivere con la morte: non quella degli “eroi” caduti in combattimento, ma quella dei corpi abbandonati, difficili da recuperare all'indomani della battaglia, rimasti spesso senza croce, talvolta non identificabili perché nel vortice del combattimento avevano perduto la “piastrina”. Vennero poi tutti sublimati nel Milite Ignoto, la più partecipata cerimonia della storia italiana, celebrata dal re quale sommo sacerdote dell'Unità nazionale.
   La trasformazione delle coscienze (percepita da un prete che arrivava da studi di medicina e psicologia, quale Agostino Gemelli) investì anche il mondo femminile: quello delle fabbriche, ove la promiscuità introdusse pratiche un tempo considerate sconvenienti, e quello delle campagne, ove le donne svolsero i compiti dei mariti, risucchiati per mesi e anni dalla “città militare”, completa dei bordelli dai quali uscivano svezzati a costumi un tempo “colpevoli” ma ormai consueti, come convenivano il vescovo castrense Angelo Bartolomasi e padre Giovanni Semeria, fotografato con Gabriele d'Annunzio e alti ufficiali in colloqui nei quali si plasmava l'uomo nuovo, dalla “moralità” profondamente diversa rispetto all'anteguerra.
   Il libro di Scurati, alla pubblicazione, fu subissato di critiche severe da parte di storici che ne evidenziarono sbagli, errori e incongruenze. L’autore si difese opponendo che la sua non era opera di storia ma romanzo. Sennonché il romanzo ha il dovere e il pregio di interpretare lo “spirito del tempo”. Lui lo ridusse al “caso Mussolini”, mentre il dramma della Grande Guerra riguardò la miriade di italiani che avevano combattuto in condizioni estreme. Era il caso degli “arditi”, con le “fiamme nere” sul bavero, “avanguardia di morte”, guerrieri democraticamente votati a dare morte, perché quello è il compito, l'abito morale, del milite. Con chi si schieravano le migliaia di cappellani assegnati alle truppe? Con l'esercito combattente del loro Paese, fatalmente in lotta contro quelli nemici, in una guerra feroce, senza quartiere, proiettata nel tempo sino al completo esaurimento delle risorse dello Stato, verso una pace che coincideva con la disfatta della propria civiltà, come appunto avvenne sulla fine del 1918 quando i vinti caddero per fame e ormai incalzava l'epidemia di febbre spagnola, vincitrice suprema su tutti.
   Da lì arrivava la divaricazione fra la dirigenza politica d'anteguerra, usa a ritmi ormai arcaici, e il Paese che esigeva immediate e profonde riforme. Non solo diritto di voto per tutti (donne comprese), ma riconoscimento del contributo dato alla Vittoria, da tradursi immediatamente in trattamento economico e condizioni sociali “da vincitori”. “Terra ai contadini” e compartecipazione alla proprietà delle fabbriche o almeno della loro direzione e degli utili furono rivendicazioni ricorrenti in tutta Europa. Quella svolta epocale fu subito chiara agli scrittori nati in trincea, come Giuseppe Ungaretti, o a quanti descrissero la biblica “fornace ardente” dei combattimenti e i suoi riflessi permanenti sulla psiche dei milioni di sopravvissuti. Scurati, invece, stigmatizzò Mussolini, uno dei tanti. Uno che tuttavia, piaccia o meno, dalla primavera del 1919 si fece portavoce e interprete della necessità di una svolta radicale.

Mussolini in campo: dal marzo 1919...
All'adunata di Piazza San Sepolcro a Milano (23 marzo 1919), dalla quale viene datato il fascismo, parteciparono ebrei, massoni, ex ufficiali, professionisti, “intellettuali”, i cui esponenti apicali si presentarono alle elezioni del 16 novembre 1919. La pattuglia capitanata da Benito Mussolini comprese nomi da ricordare per capire: Filippo Tommaso Marinetti, capofila del Futurismo, Enzo Ferrari, Cristoforo Baseggio (massone), Guido Podrecca, anticlericale d'assalto, Arturo Toscanini, “maestro di musica” già famoso e futuro antifascista irriducibile, Agostino Lanzillo, economista d'avanguardia, e Amleto Galimberti, “operaio metallurgico”. La lista andò incontro a un fiasco solenne ma ebbe la simpatia di Guglielmo Marconi.
  A un secolo dal Discorso del 3 gennaio 1925 è necessario, finalmente, passare dalle narrazioni ai fatti e ai documenti. Contrariamente a quanto è stato e viene ripetuto (anche da Antonio Carioti nel “Corriere della Sera”), con esso Mussolini non ammise affatto la responsabilità del rapimento e della morte di Giacomo Matteotti (peraltro in circostanze mai del tutto chiarite, neppure nel profluvio di libri usciti nel suo centenario). A riguardo Mussolini fu molto netto. Aprì l'intervento richiamando il suo primo discorso da presidente del Consiglio, il 16 novembre 1922, quando alla Camera aveva avuto la fiducia non solo di fascisti e nazionalisti ma anche di demosociali, liberali e dei popolari, tutti presenti al governo con loro esponenti, incluso il giolittiano Rossi di Montelera. Di seguito domandò “formalmente” se nella Camera o fuori di essa qualcuno voleva valersi dell'articolo 47 dello Statuto, in forza del quale «la Camera dei deputati ha il diritto di accusare ministri del re e di tradurli dinanzi all'Alta corte di giustizia», come era accaduto in passato. Respinse l'addebito di aver fondato una Ceka, cioè una polizia segreta per compiere delitti politici, come quella, aggiunse, che nella Russia sovietica «aveva giustiziato senza processo dalle 150.000 alle 160.000 persone». Per lui la violenza («che non può essere espulsa dalla storia», come affermò anche Benedetto Croce nelle sue opere) «per essere risolutiva deve essere chirurgica, intelligente e cavalleresca». Ora le gesta «di questa sedicente Ceka [lì ne ammise implicitamente l'esistenza, senza confessarne la paternità, NdA] sono state sempre inintelligenti, incomposte e stupide». Si riferiva alle «aggressioni minori» ai danni di Alfredo Misuri e Cesare Forni, picchiati selvaggiamente perché fascisti “dissidenti”. Rievocò poi l'inaugurazione della legislatura e il suo discorso del 7 giugno 1924, nel quale disse che le opposizioni avrebbero potuto «sorpassare il fascismo come esperienza storica» e ottenne un «successo clamoroso», come riconosciuto dalle opposizioni stesse. Senza nominare Matteotti, Mussolini domandò poi, riferendosi all’«atmosfera idilliaca» creatasi nella Camera a seguito del suo intervento: «Come potevo pensare, senza essere colpito da morbosa follia, di far commettere non dico un delitto ma nemmeno il più tenue, il più ridicolo sfregio a quell'avversario che io stimavo perché aveva una certa “crânerie”, un certo coraggio, che rassomigliavano al mio coraggio e alla mia ostinatezza nel sostenere le tesi?»
   Mussolini, dunque, non solo non ammise affatto, ma respinse nettamente l'imputazione di essere il mandante del rapimento e della morte del segretario del Partito socialista unitario. Molto oltre confutò invece l'affermazione che il fascismo fosse «un’orda di barbari accampati nella Nazione ed un movimento di banditi e di predoni» (o una banda di delinquenti, come ha scritto il giornalista Aldo Cazzullo in un libro del 2022, centenario della mai avvenuta “marcia su Roma”). «Ma poi, o signori, – proseguì Mussolini andando al punto – quali farfalle andiamo a cercare sotto l'arco di Tito? Ebbene, io dichiaro qui al cospetto di questa assemblea ed al cospetto di tutto il popolo italiano che assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano a impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda…»
La lunga marcia verso il regime
   Nel volgere di un anno, fra il 3 gennaio 1925 e il 31 gennaio 1926 l'assetto formale dello Stato mutò, con ritmo accelerato, nella direzione vaticinata dalle consultazioni elettorali del novembre 1919, maggio 1921 e aprile 1924. A quel processo parteciparono attivamente i protagonisti della “rivoluzione” accorpati nel Gran Consiglio, popolato di giovani e giovanissimi: lo squadrista Italo Balbo, massone, poco più che ventenne, il politico Dino Grandi, Giovanni Giuriati, nazionalista, Aldo Finzi, il borghese fidatissimo di Mussolini, poi suppliziato alle Ardeatine, Giuseppe Bastianini, massone come Giacomo Acerbo, Roberto Farinacci, “ras” di Cremona, Francesco Giunta, Achille Starace, Giovanni Marinelli, Alessandro Dudan, Edmondo Rossoni, segretario dei sindacati fascisti, Cesare Rossi, capo ufficio stampa del ministero dell'Interno, retto da Mussolini in persona ed Ernesto Civelli (iniziato alla Gran Loggia), intendente generale della Marcia con il “fratello” Gaetano Postiglione . Era la “cupola” del “movimento” ancora lontanissimo dall'essere partito di massa, ma già proiettato a disegnare lo Stato fascista, soprattutto con l'ingresso di Alfredo Rocco (“invitato” nell'aprile 1925), che poi vi entrò a vele spiegate per dare forma al regime, tra introduzione della pena di morte per i reati contro lo Stato, istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, riforma elettorale e costituzionalizzazione del Gran Consiglio.
   I partiti d'opposizione, o quanto ne rimaneva, dall'indomani dell’“affare Matteotti” scelsero di astenersi dall'Aula, di arroccarsi su un immaginario “Aventino” (considerato dagli studiosi non prevenuti, come Sandro Rogari, il suicidio della democrazia parlamentare), così celebrando la conclusione del decennio di dimostrata impotenza a cospetto dei mutamenti politici in atto. Partiti e sindacati “di sinistra” erano risultati assenti dalla scena nei momenti cruciali di quel periodo: nel maggio 1915, quando si trattava di fermare la corsa verso l'intervento nella Grande Guerra; nell'ottobre 1922, a fronte dell’“insurrezione” delle squadre fasciste, ancora minoritarie nel Paese, contro l'Esercito e i poteri istituzionali, che quei partiti non vollero né seppero difendere, avendoli essi stessi sempre osteggiati e auspicandone il crollo traumatico quale parte del loro stesso piano di guerra; nell'estate 1924, infine, allorché l'opposizione si ridusse ad alimentare la “questione morale”, liquidata sarcasticamente da Mussolini nel discorso del 3 gennaio.
   Il punto di arrivo di quel processo furono le cd. “leggi fascistissime”. Tra queste spicca la «regolarizzazione dell'attività delle associazioni e dell'appartenenza alle medesime del personale dipendente dallo Stato» (legge 26 novembre 1925, n. 2029), precorsa di pochi giorni dall’autoscioglimento delle logge del Grande Oriente d'Italia e della Serenissima Gran Loggia d'Italia, ovvero dal crollo verticale dell'unica organizzazione elitaria della borghesia riformistica, con un piede nell'Ordine e uno nella rivoluzione permanente, con tendenza repubblicana.
   Furono inoltre ridefinite le «attribuzioni e prerogative del capo del governo» (legge 24 dicembre 1925, n. 2263): non più presidente del Consiglio, “primus inter pares”, come era stato da Camillo Cavour a Giolitti, ma primo ministro capo del governo con facoltà di riproporre al Parlamento le leggi bocciate da una Camera e di farle votare. Nelle cerimonie ufficiali il capo del governo ebbe la precedenza sui Cavalieri dell'Ordine Supremo della SS. Annunziata, “cugini del Re” (fra questi figurava Mussolini stesso, cui Vittorio Emanuele III conferì il “collare” dopo l'annessione di Fiume all'Italia, in applicazione della regola non scritta secondo cui l’onorificenza spettava agli statisti che procuravano l'ingrandimento del territorio nazionale).
   A coronare il processo di riforma fu infine la legge 31 gennaio 1926, n. 100 sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche, previa deliberazione del Consiglio dei ministri e udito il parere del Consiglio di Stato: vera e propria sostituzione del Parlamento, relegato in posizione secondaria e sussidiaria nella formazione delle leggi.
   Quelle norme, coordinate in un progetto coerente, furono liberticide ma al tempo stesso ottennero il consenso dell'elettorato, certificato nelle elezioni del 29 marzo 1929. Esse vennero varate nel corso dell'Anno Santo 1925, tuttora da studiare nei suoi molteplici aspetti e ripercussioni. Il minimo che se ne può dire in questa sede è che il Giubileo di papa Pio X coincise con la liquidazione del poco che rimaneva del Partito popolare italiano, del quale la Santa Sede non aveva mai sentito bisogno, con il severo monito al clero di astenersi da questioni politiche e con la facoltà conferita ai vescovi di assolvere i massoni dalla scomunica loro comminata dal Codice di diritto canonico del 1917.

Il Re isolato
E il Re? Prese atto della volontà popolare espressa dalla Camera elettiva e dal Senato popolato di a-fascisti e, ancora, da antifascisti dichiarati. Sovrano scrupolosamente costituzionale, Vittorio Emanuele III non poteva non sanzionare e promulgare leggi approvate dalle Camere che, egli confidò a chi gli chiedeva di “scendere in campo” contro il governo, erano i suoi occhi e i suoi orecchi. Per farlo gli occorreva un voto parlamentare di sfiducia verso l'esecutivo o almeno un suo robusto pronunciamento in Aula. Ma ormai l'opposizione era svanita, in parte di sua stessa iniziativa, in parte perché dichiarata decaduta per assenza ingiustificata.
   Quale fosse allora il clima del Paese venne poi scritto nella voce “Italia” dell'Enciclopedia Italiana diretta da Giovanni Gentile, pubblicata nel 1933, scritta da Alberto Maria Ghisalberti, all'epoca incaricato di storia contemporanea all'Università “La Sapienza” di Roma  futuro presidente dell'Istituto per la storia del Risorgimento italiano. Dopo il 1922, essa recita, “l'ardua fatica, sulla quale il Duce aveva invocato l'aiuto di Dio, s’iniziava. Ordine, lavoro e disciplina venivano dati alla nazione turbata, s’«inquadrava» e si rafforzava lo stato, si dotava la rivoluzione di uno strumento armato, la milizia, si ricostituivano le forze militari, si affrontava in pieno l'assillante problema del riassestamento economico e finanziario. Sin dal primo tempo venivano migliorati i servizi pubblici, specie il ferroviario, attuata una politica marinara di vasto respiro, gettate le basi di un radicale riordinamento scolastico, iniziato il risanamento della moneta, bandita (autunno 1925) la battaglia del grano, che ha permesso l’affrancamento dai mercati stranieri, cominciate e condotte a termine centinaia di iniziative in tutti i campi, per le quali ci sarebbero voluti decenni sotto i passati regimi […]. Tramontata per sempre la concezione demoliberale, lo stato si è ordinato su basi corporative. […] E quando la violenza di alcuni dissennati in un cupo episodio di passione partigiana soppresse un deputato di opposizione [Giacomo Matteotti, NdA], i rappresentanti di questa ne vollero far responsabile il fascismo e i suoi capi con una campagna di denigrazione senza esempio e senza limiti. Ma la “secessione dell’Aventino” fu stroncata dal memorabile discorso del Duce del 3 gennaio 1925 e, superata l’artificiosa questione morale, il fascismo riprese il suo cammino vittorioso. E il popolo fu con lui, come attestarono le elezioni plebiscitarie del 1929 e il grandioso e pur controllato accrescersi di iscritti al partito e alle sue organizzazioni.» Quest'ultimo avvenne col favore, ma Ghisalberti non lo scrisse, del giuramento obbligatorio di fedeltà al duce oltre che al Re e con l'obbligo della tessera del PNF per adire i concorsi e gli uffici pubblici. Era la “tessera del pane”, bene accetta dalle moltitudini alle quali poco importavano la “dottrina” e la “mistica” fascista, purché si stesse meglio e non si corressero rischi di nuove guerre sui confini d'Italia. Quando una ne venne, catastrofica, il regime crollò: su decisione non degli “antifascisti” ma di Vittorio Emanuele III, che il 25 luglio 1943 revocò Mussolini e lo sostituì con Pietro Badoglio.
Aldo A Mola

DIDASCALIA: Ritratto a olio di Benito Mussolini, dipinto da Franck O. Salisbury (1927). Il duce, col distintivo del PNF, tiene in mano una carpetta intitolata “Governo”.


IL SILENZIO ELOQUENTE
DEL PRESIDENTE MATTARELLA

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 29 dicembre 2024, pagg. 1 e 7.

Il professore e avvocato Tito Lucrezio Rizzo,
                    autore di “Mattarella. L'eloquenza della sobrietà”
                    (Herald Editore). Studioso di vasti orizzonti, con
                    la dott.ssa Marzia Taruffi e altri, fa parte del
                    Comitato nazionale per la celebrazione del IV
                    centenario della nascita dell'astronomo Gian
                    Domenico Cassini (2025).La “domanda di serenità” raccomandata dal Re ai “politici”.
Nel discorso di fine anno, anticipato “una tantun”a Natale, agli spagnoli, variegato universo di genti e di lingue, Re Filippo VI di Borbone ha detto che in una società aperta e interconnessa qual è l'attuale migrazioni e attenzione per l'ambiente devono essere al centro della “politica”, chiamata a rispondere alla “domanda di serenità” che sale dai cittadini. Come altri popoli d'Europa, gli spagnoli sono angustiati dal “discorde rumore di fondo” dei tanti che, per imporsi e prevalere, urlano e gesticolano, seminando inquietudine, pessimismo e sfiducia nel futuro, proprio mentre, grazie ai progressi della scienza in ogni campo, l'uomo può migliorare rapidamente “lo stato sociale e democratico di diritto” i cui lineamenti sono scolpiti nella Costituzione.
   Le parole di Filippo VI sono un invito garbato ad abbassare i toni e a riscoprire il dovere/piacere del dialogo e della comprensione reciproca. Gli adulti, gli anziani, i vecchi debbono dare il buon esempio, anziché lamentare che i “giovani” siano “ni ni”: né studiano, né lavorano. Chi li ha dis-educati?
“Dodici apostoli” sul Colle più alto
Identico monito è proposto dal giurista e storico Tito Lucrezio Rizzo in “Mattarella. L'eloquenza della società” (Herald Editore, Roma, novembre 2024), da leggere nell'attesa del sempre più seguito discorso presidenziale di fine anno. Il titolo del volume riecheggia quello del profilo del Presidente tracciato da Rizzo a conclusione del robusto volume “Il Capo dello Stato dalla monarchia alla Repubblica, 1848-2022 (Herald, 2023). Dopo un saggio sul periodo regio, l'autore passò in rassegna i “dodici apostoli” che si sono alternati al Quirinale dal 1946 a oggi. A capo dello Stato si sono susseguiti tre napoletani veraci: Enrico De Nicola, presidente provvisorio dal 1946 al 1948; Giovanni Leone, giurista di chiara fama e statista tanto integro quanto perseguitato sino alle dimissioni anticipate, e Giorgio Napolitano. Primo presidente rieletto alla suprema carica dello Stato, questi aprì il secondo mandato con un discorso sferzante. I parlamentari lo subissarono di applausi e, nei fatti,  beffardamente lo ignorarono. Altri sei presidenti sono originari dell'antico regno di Sardegna: i piemontesi Luigi Einaudi, monarchico e liberale, il socialdemocratico Giuseppe Saragat, e Oscar Luigi Scalfaro (novarese di famiglia originaria della Calabria); i sardi Antonio Segni e Francesco Cossiga; e, infine, il ligure Sandro Pertini (1978-1985), di cui Tito L. Rizzo ebbe l'onore di essere “ghost writer”. La Toscana dette alla Repubblica due presidenti: Giovanni Gronchi, nativo di Pontedera, già sottosegretario di Stato per il partito popolare italiano all'alba del governo Mussolini (1922) e poi deputato della Democrazia cristiana sin dalla Costituente; e il livornese Carlo Azeglio Ciampi, che agli italiani ripropose il Tricolore e il Canto Nazionale. Sembrava che il vivaio dei Capi dello Stato fosse circoscritto a un territorio esclusivo, quasi predestinato. Niente Lombardo-Veneto, né Emilia, Marche, Abruzzo, Puglia… Se ne aveva tacita conferma anche dalle candidature apparentemente solidissime, ma poi sfumate. Mentre nel 1948 De Gasperi era convinto di far eleggere il lucchese Carlo Sforza ma dovette abbandonarlo per convergere su Einaudi, l'abruzzese Franco Marini, quasi sicuro ai blocchi di partenza quale presidente del Senato non fu eletto. Come accadde al reggiano Romano Prodi, bruciato “in nuce” da cento voti dei suoi stessi potenziali sostenitori.
   Grazie all'abile regia di un toscano, Matteo Renzi, che lo fece scendere in campo al quarto scrutinio, con l'elezione al Colle più alto (665 voti: quasi due terzi dell'assemblea) Mattarella spezzò l'incantesimo negativo e segnò l'ingresso di un siciliano al Quirinale. Era il 31 gennaio 2015, quasi dieci anni addietro. Appena eletto visitò le Fosse Ardeatine, il cimitero monumentale ove sono raccolte le 335 vittime della rappresaglia della Germania di Hitler in risposta all'attentato messo a segno a Roma il 23 marzo 1944 da un Gruppo di azione partigiana del Partito comunista italiano contro un reparto tedesco.
   Mattarella appellò l'Europa e il mondo a unirsi “per sconfiggere chiunque voglia trascinarci in una nuova era di terrore”. Era il presentimento del tempo che stiamo vivendo: guerre di sterminio condotte con armi sempre più micidiali, a dimostrazione di quanto l'ingegno possa industriarsi per fare il male anziché il bene. “La Luce è venuta nel mondo ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie” si legge nel Vangelo di Giovanni (3, 19). Se ne vedono gli effetti.
La forza suasoria della parla sommessa
Come infondere ravvedimento e riportare sulla retta via? Con la parola: eloquente nella sobrietà, come osserva Rizzo. È la cifra dei “Discorsi del Presidente”, pronunziati con occhio sereno e un sorriso misurato, spesso venato da un trasalimento che sa di mestizia e di speranza nella redenzione: sentimenti propri del cattolicesimo sociale nel cui solco plurisecolare Mattarella si è formato.
   Evocando Luigi Einaudi nel 150° della sua nascita, lo scorso ottobre qualcuno ha osservato che dalla prima giovinezza lo statista ed economista piemontese “non studiò da presidente della Repubblica. Semplicemente studiò”. Lo si può ripetere di Mattarella. Nato il 23 luglio 1941 a Palermo da Bernardo (1905-1971), autorevole esponente del partito popolare, poi della democrazia cristiana e cinque volte ministro della Repubblica, e da Maria Buccellato (1907-2001). Fratello di Piersanti, presidente della Regione Siciliana, assassinato da Cosa Nostra nel 1980, di Antonino e Caterina (morta l'anno della sua elezione al Colle), Sergio Mattarella crebbe a Roma. Allievo dei Fratelli maristi delle Scuole e iscritto all'Azione cattolica, si laureò a 23 anni in giurisprudenza con una tesi sulla funzione dell'indirizzo politico. Avvocato specializzato in diritto amministrativo, alla professione forense accompagnò la docenza universitaria, da assistente ad associato, sino al 1983, quando fu eletto deputato e lasciò la cattedra e, con nobile gesto, lo stipendio connesso.
   A sollecitarne l'impegno nella vita politica fu il lungimirante segretario della Democrazia cristiana Ciriaco De Mita. Gli elettori della circoscrizione Sicilia occidentale lo premiarono con quasi 200.000 preferenze. Era tempo di rinnovamento: per il quarantaduenne democristiano esordiente alla Camera dei depuati, la politica è impegno morale, sull'esempio di Aldo Moro.
L'elezione al Colle di un giurista “al di sopra delle fazioni”
   Nel 2015 le dimissioni di Napolitano, eletto quale esponente della Sinistra, aprirono la via a un candidato di area progressista ma meno “militante” di lui, osannato da cronachisti e biografi come “Re Giorgio”: una nomea che, a ragion veduta, non gli giovò. Mattarella aveva lasciato la tessera della Democrazia cristiana sin dall'elezione al Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, seguita da quella a giudice della Corte costituzionale: una decisione assunta per evidenziare l'assoluta indipendenza nell'esercizio di cariche che escludono condizionamenti partitici. Aveva dunque i requisiti per essere da subito il presidente di tutti gli italiani.
   Nel 2013, in vista della successione a Napolitano, il suo nome era già stato proposto con quelli del democristiano Franco Marini e del socialista Giuliano Amato da Luigi Bersani, segretario del Partito democratico, a Silvio Berlusconi e a Mario Monti (Scelta Civica) per una candidatura unitaria al Quirinale. Fu scelto Marini, che però non decollò. Dopo molti  estenuanti scrutini a vuoto, la crisi istituzionale fu scongiurata con la rielezione di Napolitano. Alle sue dimissioni, il 29 gennaio 2015, su indicazione di Matteo Renzi il Partito democratico propose quale candidato unico Sergio Mattarella e decise di votarlo dal quarto scrutinio, quando fu eletto. Ebbe il sostegno di Sinistra Ecologia Libertà, Scelta Civica e Area Popolare.
   Nel corso del suo primo mandato la presidenza del Consiglio passò da Renzi a Paolo Gentiloni (dicembre 2016), che si dimise dopo le elezioni anticipate del 4 marzo 2018, dall'esito incerto. Dopo lunghe consultazioni e il conferimento di un mandato esplorativo alla presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, che ebbe esito negativo, Mattarella prese atto della convergenza del Movimento 5 Stelle e della Lega per la formazione di un governo presieduto dall'avvocato Giuseppe Conte, ma non accolse la proposta di Paolo Savona a ministro dell'Economia e delle finanze. Da posizioni diverse il “pentastellato” Luigi Di Maio e Giorgia Meloni, per Fratelli d'Italia, ventilarono il proposito di accusare Mattarella di “attentato alla Costituzione” in base all'articolo 90 della Carta. Una enormità spropositata. Fu un vero e proprio assalto al primo magistrato d'Italia. Era già accaduto quando con un gruppo di parlamentari “comunisti” accusò Francesco Cossiga di alto tradimento della Carta. 
   Il Presidente incaricò l'economista Carlo Cottarelli che accettò con riserva ma il 31 maggio rinunciò, informato che stava nascendo un sofferto accordo su un “contratto” tra due forze presenti in Parlamento. Si aprì la via al governo presieduto da Conte, con Savona ministro agli Affari Europei. Il “contratto” conteneva clausole anticostituzionali, come l'esclusione dall'esecutivo di appartenenti alla Massoneria, una associazione non riconosciuta in Italia, ma neppure vietata. Anche i matrimoni sono “contratti”, ma non sempre reggono. Altrettanto accadde a quello tra pentastellati e leghisti, anche per l'intemperanza di Matteo Salvini che ventilò la pretesa di “pieni poteri”. La maggioranza deflagrò nell'agosto 2019. Il 5 settembre nacque il governo Conte II, con il sostegno dei 5 Stelle, del Partito democratico e di LeU. Anche quella coalizione  ebbe breve durata. Con le dimissioni dei ministri di Italia Viva, guidata da Matteo Renzi, si aprì la lunga crisi conclusa con l'incarico a Mario Draghi, già presidente della Banca Centrale Europea. Il suo governo, insediato il 31 febbraio 2021, ottenne il voto favorevole di tutti i partiti, a eccezione di Fratelli d'Italia e di Sinistra italiana. Il nuovo esecutivo sembrava dovesse/potesse durare a tempo indeterminato per il prestigio del suo presidente e perché il Paese, alle strette dopo la pandemia, aveva bisogno di raccoglimento per risalire la china. Non fu così. Lo fa intendere il volume di Tito Rizzo.
Tito L. Rizzo alla ricerca del “segreto” di Mattarella
Maturità classica al “Giulio Cesare” della nativa Roma, “Alfiere del Lavoro”, laureato ventiduenne in Giurisprudenza alla “Sapienza”, quarant'anni al Quirinale, ove fu Consigliere capo servizio per la sicurezza, cinque volte Premio della cultura della presidenza del Consiglio, autore di dodici monografie e 540 pubblicazioni, Tito Lucrezio Rizzo premette al nuovo libro parole che meritano di essere riportate pari pari. Il Capo dello Stato, egli scrive, è un “potere neutro”, «il che non significa potere inerte bensì al di sopra delle parti, in una funzione di imparziale arbitraggio, resa ancor più preziosa in una fase storico-politica come l'attuale, dove non vi sono più in campo delle squadre con dei colori ben identificabili, bensì delle aggregazioni fluide e dove non è infrequente che i giocatori cambino maglia durante la partita, passando in campo avversario. Ma ci sono ancora le “maglie”, cioè dei partiti solidamente strutturati con dei programmi oggettivamente identificabili su precise identità politiche (liberali, popolari, socialisti)?»
  No, risponde Rizzo: oggi prevale «la capacità affabulatoria dei “Pifferai di Hamerlin” di turno, degli imbonitori da circo equestre, a coagulare dei consensi drogati da slogan con alto impatto emotivo, senza il necessario “humus” della cultura, presupposto indispensabile ad ogni consapevole discernimento critico, assente il quale non si afferma la democrazia, ma la sua tragica deformazione della demagogia».
   «In questo nebuloso scenario per la navigazione a vista della nave “Italia”, con il rischio che andasse a sfracellarsi sugli scogli dell'antipolitica, uscendo dalla rotta europea, l'equilibrio dimostrato da Mattarella durante il suo primo mandato, temprato da pregresse immani tragedie familiari, ha rappresentato il miglior biglietto da visita del nostro Paese in ambito internazionale, supportato al tramonto della sua prima investitura, da un altro grande italiano – anche in ambito internazionale – come il presidente del Consiglio Mario Draghi.»
   Rizzo rileva inoltre che il magistero del Presidente si è fatto più incalzante nel “semestre bianco”, quello “notoriamente crepuscolare”. Non sorprende dunque che nel gennaio 2022, com’era già accaduto nove anni prima con Napolitano, i “grandi elettori” del Quirinale, dopo giorni di confusione, dovettero chiedere a Mattarella di accollarsi il secondo mandato, nonostante egli avesse già predisposto nei dettagli il suo “nunc dimitte”. Ebbe 832 voti su 1011: una percentuale che premiava il suo prestigio e sapeva di atto di contrizione del Parlamento.
   L'armonia, però, non durò a lungo. Il 14 luglio 2022 il Movimento 5 Stelle si assentò su un voto di fiducia. Già dimissionario, richiesto da Mattarella di ripresentarsi alle Camere per un chiarimento ulteriore, posta la questione di fiducia su un mozione a proprio sostegno, il governo Draghi venne affondato per l'assenza dal voto di Forza Italia, Lega e 5 Stelle. Al Presidente non rimase che sciogliere anticipatamente le Camere e indire le elezioni del settembre 2022. Alle urne, disertate dal 40% degli elettori, Fratelli d'Italia risultò il partito più votato (ma, a conti fatti e al di là dell'enfasi, ottenne il favore di un modesto 16% degli elettori: un po' poco per “fare la storia” a propria immagine e somiglianza). Il 21 ottobre Mattarella incaricò Giorgia Meloni di formare il governo, tuttora in carica: coalizione di Fratelli d'Italia, Lega, Forza Italia e “Moderati”.
L'Arbitro, crucciato dall'astensionismo
Proprio gli ondeggiamenti delle cangianti maggioranze hanno fatto di Mattarella il perno della vita pubblica dell'Italia al suo interno e di fronte alle Cancellerie di tutti gli Stati. A cospetto della sempre più vasta e preoccupante astensione dei cittadini dal voto, sia amministrativo sia politico, il Presidente, grazie al suo ruolo di garante della legalità costituzionale, si è imposto quale caposaldo dello Stato nella comunità internazionale. È quanto emerge dall’antologia di Sergio Mattarella curata da Tito Lucrezio Rizzo, suddivisa in cinque capitoli: dalla cattedra universitaria al Quirinale; la giustizia come sostanza prima che come forma; la centralità del ruolo della donna; lo scenario internazionale; l'universo giovanile e la cultura.
   Fermo nel rispetto dei limiti e delle competenze, Mattarella non ha mancato di ricordare: «Io ho le mie opinioni, ma ho il dovere di accantonarle, perché se le scelte sono fatte da Organi cui queste competono secondo la Costituzione, devo rispettarle e le rispetterò sempre, naturalmente.» Nondimeno egli ha fatto quanto in suo potere per ribadire l'amicizia speciale dell'Italia con la Repubblica francese e con ogni altro Stato dell'Unione Europea, come dei membri della Nato e delle Organizzazioni internazionali in favore delle quali la Repubblica ha acconsentito alle limitazioni della propria sovranità “necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni”, come recita l'articolo 11 della Costituzione.
   Superfluo quindi evidenziare la distanza tra la visione dello Stato e della società nella quale Mattarella si è formato e di cui è fautore dai fantasmi di populismo, nazionalismo fanatico, sovranismo qui e là affioranti. Altrettanto vale per i “diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” (art. 2 della Carta), da lui fermamente richiamati e propugnati, e per i “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” nell'ambito della Repubblica “una e indivisibile”, contro ogni tentazione di prevaricazione egoistica di una parte del suo territorio a danno di altre.  
   Stato di recente formazione (ha da poco festeggiato il 160° della proclamazione del Regno, nel 1861), travagliato nella prima metà del Novecento da un trentennio di guerre, dall’occupazione straniera e da una lunga contrapposizione ideologica, per motivi geostorici peculiari l'Italia odierna è un cantiere aperto, che richiede armonia tra tutte le sue componenti e la “serenità” che le è mancata per l'esasperazione del protagonismo di molti suoi “politici” e “narratori”. Il problema tuttora irrisolto non è la riforma delle Istituzioni e, meno ancora, del rapporto equilibrato tra Capo dello Stato, parlamento, governo nazionale e amministrazioni regionali e locali – chiaro nella Costituzione, molto confuso e scoraggiante nella realtà quotidiana – bensì è il varo di una legge elettorale capace di rianimare la sempre più fievole partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Tanti si domandano perché recarsi alle urne se non possono scegliere liberamente il proprio rappresentate e debbono votare candidati “preconfezionati” e spesso poco appetitosi? Senza una legge elettorale adeguata ai tempi la divaricazione fra cittadini e Stato, in tutte le sue articolazioni, è destinata a crescere, sino alla crisi finale.  
   Perciò i Discorsi del Presidente resteranno memorabili: non solo in sé e per sé, ma anche per misurare, nel tempo, se e quanto quella di Mattarella sia rimasta “vox clamantis in deserto”. Quando si dovesse constatare che chi doveva tenerne conto non lo fece (accadde già con il secondo mandato di Napolitano), si potrà stabilire a chi addebitare il saldo negativo della Repubblica. Non certo ai suoi Presidenti, ma a una “classe dirigente” che tale è solo per etichetta, non per la sostanza.
Aldo A. Mola


Mattarella deputato e ministro.
Ripercorrere la vita politica di Sergio Mattarella dall'ingresso alla Camera quale deputato (1983) e al governo come ministro per i rapporti con il Parlamento (governi Goria e De Mita, 1987-1989), della Pubblica istruzione (governo Andreotti VI, 1989-1990) e della Difesa (governi D'Alema e Amato, 1999-2001) travalica le dimensioni di un articolo, per quanto ampio. Va almeno ricordato che, già vicepresidente del Consiglio e autorevole componente della Commissione parlamentare per le riforme costituzionali presieduta da Massimo D'Alema, nel 2008 Mattarella non si ricandidò alla Camera. Aveva dato. Eletto componente della Corte Costituzionale (2011-2015), non prevedeva certo l'elezione a Capo dello Stato, né, tanto meno, il conferimento del secondo mandato presidenziale.


FOTOGRAFIA: Il professore e avvocato Tito Lucrezio Rizzo, autore di “Mattarella. L'eloquenza della sobrietà” (Herald Editore). Studioso di vasti orizzonti, con la dott.ssa Marzia Taruffi e altri, fa parte del Comitato nazionale per la celebrazione del IV centenario della nascita dell'astronomo Gian Domenico Cassini (2025). 



PINEROLO, UNA CITTÀ BIFRONTE
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 22 dicembre 2024 pagg. 1 e 7.
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Il cavallo “Cromwell” di Emanuele Cacherano di
                  Bricherasio (Museo storico dell'Arma di Cavalleria,
                  Pinerolo). Il cavallo fu montato da Federigo Caprilli,
                  del quale ha scritto il colonnello Carlo Cadorna in
                  “Equitazione naturale moderna” (Grottaferrata,
                  Bcsmedia). La fotografia è tratta da Aa.Vv, “Pinerolo,
                  mille anni di storia”, a cura di Ilario Manfredini,
                  ed. Marcovalerio (Marco Civra), 2024, voll. 2). E' un'
                  opera editorialmente impeccabile, realizzata in due
                  soli anni, con eccellente corredo iconografico.   Pinerolo ha mille anni. Ci tiene e li dimostra. Unisce passato remotissimo, attualità e ambizioni, memore di dominio sabaudo e francese, come documenta l'opera collettanea curata da Ilario Manfredini “Pinerolo, mille anni di storia” (ed. Marcovalerio). E' sempre stata la base per il dominio sul Vecchio Piemonte. Tomaso II di Savoia la elevò a “capitale” al di qua delle Alpi. Ma sulla cittadina, poche migliaia di abitanti raccolti in un passaggio strategico, misero costantemente occhi e mani anche i “francesi”. Al trotto e al galoppo da lì si arrivava rapidamente a Torino. All'epoca militarmente irrilevante, l'antica “Augusta Taurinorum” era la via fluviale verso est: uno spazio agognato da chi, Oltralpe, aveva difficoltà a scendere verso la Cornice.
   Una prima dominazione francese durò dal 1536 al 1574, quando il duca Emanuele Filiberto di Savoia la ottenne da Enrico III di Francia. Sembrò fatta per sempre, anche perché in quegli anni crollò il marchesato di Saluzzo, altra preda della Francia. Carlo Emanuele I (1580-1630) condusse lunghe e dispendiose guerre per impadronirsi di Saluzzo e difendere Pinerolo dal duca Francesco di Lesdiguières.
   Nel 1601 il trattato di Lione riconobbe Saluzzo ai Savoia, ma la partita su Pinerolo rimase aperta. Nel 1631 il cardinale Richelieu guidò in persona la spedizione francese sulla città, “porta aperta in Italia”. Storia e carte alla mano non aveva torto. Le battaglie fondamentali nelle guerre tra la Francia dei Valois e dei Borbone contro gli Asburgo d'Austria e di Spagna per l'egemonia sull'Europa ebbero per teatro la pianura padana, ricca di messe e di armenti, di mercati e di artigianato d'avanguardia. Sottomessala, Parigi fece di Pinerolo non solo una piazzaforte ma anche una prigione di rigore. Luigi XIV vi fece rinchiudere il sovrintendente alle finanze, Nicolas Fouquet, reo di aver abusato dei suoi privilegi e ostentato le ricchezze che si era procacciato per sé anziché per lo Stato, e la tanto celebre quanto misteriosa “Maschera di ferro”, spunto per dicerie (era il gemello del Re Sole?), romanzi e film. Quando dovettero lasciarla, i francesi minarono e fecero esplodere il castello e la fortezza.

   Proprio con Luigi XIV il Piemonte occidentale tornò teatro di guerra. Vittorio Amedeo II, duca di Savoia, ebbe la peggio nella battaglia di Staffarda. Il conflitto riprese con la guerra alla successione sul trono di Spagna (1701-1713). L'armata francese invase il ducato e vi condusse la “guerra totale”: assedio di cittadine e di borghi, imposizione di enormi “taglie”, versate per scongiurare assalto finale e devastazione, anche di luoghi sacri, e distruzione di ponti, strade, piloni. Non bastasse, gli alberi da frutta e i vigneti furono mozzati al ceppo, così da impedirne crescita e fioritura. È stato calcolato che in quella guerra il “Piemonte” perse un terzo dei suoi beni. Il conteggio (poi studiato da Prato e da Einaudi) fu effettuato meticolosamente su ordine del duca in vista del trattato di pace. L'ammontare dei danni era pegno per il “risarcimento” che gli fruttò il titolo di Re di Sicilia, pochi anni dopo mutato in quello di Re di Sardegna. Fu premessa remota delle guerre per l'indipendenza e l'unità d'Italia? Rimasero in gran parte chiusi nel silenzio dettato dalla vergogna gli abusi di cui furono vittime le donne e, assai spesso, anche uomini da parte di un nemico che sodomizzava pubblicamente i vinti per umiliazione perpetua.
   In un volume di prossima pubblicazione, “Nel nome del Re Sole. Cenni storici su crimini, danni ed angherie del nemico nel Piemonte in guerra e nell'Alta Italia, 1703-1709”, ne scrive Alessandro Mella, che documenta come anche gli “imperiali”, inviati da Vienna in soccorso di Vittorio Amedeo II per cacciare i francesi assedianti Torino, non mancarono di vessare la popolazione. Ma i peggiori furono comunque i “cugini” d'Oltralpe. Tra i molti spiccano i casi di Orbassano e di Pinerolo. Dopo aver soggiogato Susa, nel 1704 i francesi assalirono, saccheggiarono e incendiarono Orbassano. L'anno seguente la cittadina fu nuovamente assediata e sottoposta a tributo per non subire identica sorte. Nel 1706 venne investita per la terza volta dai gallici in rotta da Torino verso la Francia. Dettero alle fiamme 143 delle sue 183 case: una rovina alla quale fu difficile rimediare, dopo i saccheggi subìti nel 1690 e 1693. Non migliore fu la sorte di Pinerolo, raggiunta dai francesi il 10 marzo 1705. Vi rimasero tre mesi estorcendo tutto il possibile. Subì incendi, furti di bestiame, ruberie di mobili, vettovaglie, lingerie e violenze di vario genere. Per una popolazione in larga parte ordinariamente in ristrettezze fu un'esperienza atroce.

   Quasi un secolo dopo la plaga tornò teatro di guerra. Prima irruppero i francesi della Repubblica nata nel 1792 sulle rovine della monarchia capetingia, poi gli austro-russi, giunti sino a Pinerolo, poi nuovamente i francesi guidati attraverso le Alpi da Napoleone, vittorioso a Marengo (giugno 1800). Come aveva profetizzato il cardinale Richelieu, Pinerolo divenne porta aperta dell'Italia. Fu annessa alla Repubblica, poi all'Impero. Nel 1806 la lingua ufficiale divenne il francese. La sua storia sembrò decisa per sempre come quella del Piemonte e dell'Italia. Invece neppure dieci anni dopo Napoleone e il suo sistema furono travolti. Nel 1821, come ha scritto Dario Seglie, presidente del CeSMAP e animatore della rivista “L'Ipotenusa”, Pinerolo fu il punto di partenza di Santorre di Santarosa e Guglielmo Moffa di Lisio che chiesero il riconoscimento del “diritto dei popoli” alle libertà. Il fallimento di quel moto non cancellò le speranze d'Italia. Ripresero il loro corso nei decenni seguenti e videro rifiorire anche la città: manifatture, industrie meccaniche, fondazione della società di mutuo soccorso, prima in Pimonte, e iniziative culturali, tra le quali spicca la biblioteca civica “Alliaudi”, la cui storia è documentata dal suo attuale direttore, Gianpiero Casagrande.

   Nel Novecento Pinerolo ha dato alla storia d'Italia due figure politiche di rilievo nazionale: Luigi Facta, sindaco, deputato, ministro, presidente del Consiglio nel fatale ottobre 1922, e Ferruccio Parri, comandante delle formazioni “Giustizia e Libertà” promosse dal Partito d'azione, presidente del Consiglio dei ministri dal giugno al dicembre 1945 e punto di riferimento dei partigiani non stalinisti. Ma merita di essere ricordata anche Lidia Poët (Traverse di Perrero, 1855-Diano Marina, 1949), valdese, prima donna a iscriversi nell'Ordine degli avvocati di Torino nel 1883.
   A pochi passi dalle “valli valdesi” Pinerolo ha all'attivo anche una vivace presenza di logge massoniche. A una tra le più rilevanti (originariamente intitolata a Giordano Bruno, poi “Mario Savorgnan di Osoppo”) furono affiliati studiosi di chiara fama, quali Ferdinando Gabotto, primo storico della città, Carlo Patrucco e Giuseppe Colombo. Ma tra Sette e Ottocento la città ebbe uno tra i massoni eminenti in Europa, Sebastiano Giraud, scienziato, la cui biografia merita un libro.
   Ottant'anni dopo l'ultima guerra anche nel Vecchio Piemonte ci si domanda se la pace attuale sia durevole, se non perpetua, o sia solo una tregua tra un conflitto e l'altro. Perciò rivisitare la storia non è vano. Insegna che tutto dipende dalle decisioni degli uomini. Da ciascuno.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Il cavallo “Cromwell” di Emanuele Cacherano di Bricherasio (Museo storico dell'Arma di Cavalleria, Pinerolo). Il cavallo fu montato da Federigo Caprilli, del quale ha scritto il colonnello Carlo Cadorna in “Equitazione naturale moderna” (Grottaferrata, Bcsmedia). La fotografia è tratta da Aa.Vv, “Pinerolo, mille anni di storia”, a cura di Ilario Manfredini, ed. Marcovalerio (Marco Civra), 2024, voll. 2). E' un' opera editorialmente impeccabile, realizzata in due soli anni, con eccellente corredo iconografico.

SAVOIA E BORBONE, DINASTIE EUROPEE
di Aldo A. Mola

Chissà perché il 15 dicembre nella rubrica “Lo dico al Corriere” Aldo Cazzullo si è sentito in dovere di affermare che “Re Felipe a Napoli ricorda che i Borboni erano stranieri”. Stranieri per chi? Il re di Spagna non lo ha detto affatto. È un'opinione di Cazzullo. Nato a Madrid il 30 gennaio 1968, don Felipe nacque da Juan Carlos di Borbone (Roma, 5 gennaio 1938) e da Sofia di Grecia, che appartiene a una Famiglia dai rami diffusi in tutta Europa e legata a doppio filo alla Casa Savoia-Aosta.
   Accolto in Parlamento a Camere riunite, onore speciale, Filippo VI ha parlato fluentemente in italiano, una tra le lingue di suo uso comune.
A Napoli, come a Roma, non si è affatto sentito straniero, ma, qual è, europeo. Certo è gravato dal rango di Capo di uno Stato, la Spagna, la cui coesione è propiziata dalla monarchia e, come già suo padre, coltiva speciali legami con i Paesi dell'America “latina”, radicati in mezzo millennio di storia, quando essi, a differenza di quanto solitamente si crede, non erano “colonie” ma parte dello Stato spagnolo. Del pari il Paese iberico moltiplica i rapporti con gli ispanofoni degli Stati Uniti d'America, in continua espansione, e con genti che lo spagnolo come “lingua franca”, pur a fianco dell'inglese.
   Dopo aver messo in riga lo “straniero” don Felipe, in una successiva risposta a un lettore, Cazzullo ha asserito che “i Savoia sono a tutti gli effetti una dinastia italiana da quando Emanuele Filiberto spostò la capitale (del ducato di Savoia, NdA) da questa parte delle Alpi, da Chambéry a Torino. Era il 1563...”. Un realtà erano e rimasero europei. “Testa di ferro”, come quel duca era detto, vincitore nel 1557 sui francesi di Enrico II a San Quintino, con la pace di Cateau Cambrésis (1559) aveva ottenuto la restituzione delle terre già sabaude e le stava riordinando a marce forzate. Il Ducato era uno Stato transalpino e anfibio, un piede sulle Alpi, l'altro immerso nel mare tra Nizza e Ventimiglia, ma territorialmente ancora esiguo.
   Figlio di Carlo III il Buono e di Beatrice di Portogallo, Emanuele Filiberto sposò Margherita di Francia. Suo figlio, Carlo Emanuele I, si unì a Caterina di Spagna (Asburgo). I successori alternarono matrimoni con principesse francesi, tedesche (Polissena Cristina d'Assia-Rheinfels) e spagnole (Borbone). Gli ultimi tre re discendenti diretti di Testa di ferro (Carlo Emanuele IV, Vittorio Emanuele I e Carlo Felice) sposarono rispettivamente una francese, un'Asburgo d'Austria e una Borbone di Napoli.
   A inizio Ottocento si verificarono due eventi di forte portata simbolica. Sconfitto da Napoleone I, Francesco II d'Asburgo rinunciò al titolo di sacro romano imperatore e retrocesse a Francesco I d'Austria. Divorziato da Giuseppina de la Pagérie, Napoleone ne sposò la figlia, Maria Luisa d'Asburgo. Doveva essere il matrimonio del secolo: garantire la pace perpetua tra l'impero austriaco e la Francia, mentre gli altri Stati europei di terra ferma erano satelliti di Napoleone, “imperatore dei francesi”.
   Vincitori su Bonaparte, nel settembre 1815 i sovrani d'Austria (Francesco I, cattolico), Russia (Alessandro I, ortodosso) e Prussia (Federico Guglielmo, luterano), con successiva adesione della Francia del restaurato Luigi XVIII di Borbone (cattolico), sottoscrissero a Parigi la Santa Alleanza. «In nome della Santissima e indivisibile Trinità» i tre monarchi proclamarono di «restare uniti coi legami di una vera e indissolubile fratellanza». «Considerandosi come compatrioti», si impegnarono ad aiutarsi vicendevolmente «in qualunque occasione ed in qualunque luogo», come padri di famiglia dei propri sudditi. Anche se di lingue diverse, nessuno era “straniero” all'altro: erano una “comunità”.
   Le pulsioni nazionali sprigionate dalla Rivoluzione francese (altra cosa dalla guerra per l'indipendenza delle colonie della Nuova Inghilterra contro  la Gran Bretagna, dalla quale nacquero nel 1783 gli Stati Uniti d'America) erano considerate fonte di divisioni artificiose e di confitti pretestuosi. Per frenarle, nel 1815 gli Alleati deliberarono di ritrovarsi annualmente in congressi, anche a vantaggio degli Stati che, come il regno di Sardegna, via via aderirono e ne accettarono le decisioni. Quell'intesa fu meno retorica di quanto si crede, perché, pur tra varie scosse, garantì un secolo di pace, sino alla catastrofe del 1914. Ciascuno nella propria ottica, un Borbone, un Asburgo, un Savoia condividevano la responsabilità di un governo “cristiano” sovranazionale che aveva il pregio non secondario e più illuministico che reazionario di aver consegnato al passato remoto le guerre di religione. Non per caso alla Santa Alleanza non aderì il papa, per il quale chi non era cattolico era “eretico” e in “peccato mortale”, al pari di liberali, socialisti e dei massoni, a suo giudizio ispiratori di sette sataniche.
   Primo re di Sardegna della Casa di Savoia-Carignano, Carlo Alberto (1798-1849), figlio di Carlo Emanuele e di Maria Cristina Albertina di Sassonia-Curlandia, già conte dell'impero napoleonico, francofono, all'ascesa al trono non pensava affatto a un “progetto italiano”. Sposata Maria Teresa di Asburgo-Lorena (Toscana) ne ebbe il futuro Vittorio Emanuele II, che prese in moglie Maria Adelaide d'Asburgo (Austria), e Ferdinando, duca di Genova, che sposò Elisabetta di Sassonia e ne ebbe Margherita, poi consorte di Umberto I, suo cugino primo, e Tommaso Alberto, maritato con Isabella di Baviera.
   Nel 1838 Carlo Alberto maturò la svolta: depose formalmente il rango di Vicario dell'ormai inesistente sacro romano imperatore e conferì alla Regia deputazione di storia patria il compito di esplorare e proporre la missione italica della Casa di Savoia: un compito al quale si dedicarono Cesare Balbo e uno stuolo di studiosi. Le guerre condotte da Carlo Alberto e da Vittorio Emanuele II contro il dominio diretto e la preponderanza degli Asburgo in Italia furono o vennero narrate come inter-parentali (dati i vincoli matrimoniali fra Savoia, Asburgo e Borbone delle Due Sicilie) ma non inter-italiche. La storiografia evidenziò che gli eserciti dei sovrani degli Stati pre-unitari erano mercenari o coatti, a differenza di quello sabaudo, ispirato da una missione morale e civile e in lotta per la liberazione dal secolare “servaggio”. Però anche da re d'Italia i Savoia continuarono a svolgere il ruolo richiesto ai sovrani: concorrere di persona a procacciare la pace europea. Lo si colse nel 1871, quando, mentre l'Europa era sconvolta dalla guerra franco-prussiana (o franco-tedesca) e dalla “Commune” di Parigi, il venticinquenne Amedeo di Savoia, duca di Aosta, secondogenito di Vittorio Emanuele II, maritato con Maria Vittoria Dal Pozzo della Cisterna, assunse la corona di Spagna, offertagli dalle “Cortes” di Madrid su impulso del generale Prim e d'intesa con Carlo Michele Buscalioni, già gran maestro del Grande Oriente Italiano. Dopo la sua abdicazione e un breve esperimento di repubblica, sul trono di Spagna tornò un Borbone, Alfonso XII, gradito ai liberali e contestato dai “carlisti”, capifila dei clerico-reazionari d'Europa, alla stregua del conte Enrico di Chambord, vaticinato re di Francia in alternativa alla Terza Repubblica.
   A conclusione si può riconoscere che Filippo VI di Borbone, al pari degli attuali principi della Casa di Savoia, è espressione della storia europea: più precisamente del ruolo svolto in Europa dalle molte Case che nei secoli ne hanno scandito la storia. Chi un tempo riteneva che i re fossero la causa prima di guerre e che le repubbliche avrebbero garantito pace, libertà e progresso, oggi deve constatare che, là ove sono, i sovrani non risultano affatto più esecrabili di tiranni di formazione repubblicana. Per i molti motivi accennati sentivano di avere una missione comune, più di quanto oggi mostrino di avere politici provvisoriamente al potere e, talvolta, disposti a tutto pur di rimanervi. Come mostra il caso di Sarkozy, inseguito da una voce che si leva dal deserto.
Aldo A. Mola


L'EPOPEA DI GIARABUB
NELL'OPERA DI ZERRILLO E CAPPONE

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 15 dicembre 2024, pagg. 1 e 6.

Il volume “Dalle Langhe a Giarabub” del
                    capitano Massimo Cappone e del generale Antonio
                    Zerrillo (in fotografia) è stato presentato giovedì
                    12 dicembre al Teatro “Moretta” di Alba, attiguo al
                    Santuario dei Padri Giuseppini, presente un pubblico
                    folto e partecipe. L'opera è patrocinata dai Comuni
                    di Alba, ove nacque l'ufficiale medico Ferruccio
                    della Valle, Levice, patria del cappellano don
                    Giovanni Blengio, Caltagirone, che dette i natali al
                    comandante Salvatore Castagna, il “Leone di
                    Giarabub” poi asceso a generale, di Morcone e di San
                    Zenone a Po. La realizzazione del sontuoso volume,
                    promosso dall' Associazione Nazionale della Sanità
                    Militare italiana e introdotto dal suo segretario,
                    generale Vincenzo Barretta, è stata approvata e
                    finanziata dal Ministero della Difesa.1941: primavera di tristezza
«Dopo quattro mesi di assedio è caduta Giarabub.»È la lapidaria annotazione affidata al “Diario” dal generale Paolo Puntoni, primo aiutante di campo di Vittorio Emanuele III, al termine del colloquio quotidiano con il Re. Era il 21 marzo 1941, triste equinozio di primavera. La guerra non andava affatto bene per le armi italiane. Al rientro dall'Albania, Mussolini era furente. «Il nostro attacco alla Grecia – prese atto il duce – è sostanzialmente fallito, specialmente se si tiene conto delle speranze che in esso erano state riposte. In Africa orientale la situazione precipita. È in corso l'abbandono completo della Somalia.» Neppure un paio di mesi dopo, il 5 maggio, l'imperatore Hailé Selassié fu riportato dagli inglesi ad Addis Abeba. Il 24 aprile il principe Amedeo di Savoia, III duca d'Aosta, si asserragliò sull'Amba Alagi. Dopo un mese di eroica resistenza si arrese ai britannici con l'onore delle armi. Il “Duca di ferro” morì prigioniero in un ospedale di Nairobi il 3 marzo 1942. Volle essere sepolto tra i suoi soldati. Nel volgere di pochi mesi l'intera Africa Orientale Italiana andò completamente perduta.

La guerra nell'Africa settentrionale
Il 28 giugno 1940 Italo Balbo, governatore della Libia, fu abbattuto da mai chiarito “fuoco amico” nel cielo di Tobruk. Mussolini lo sostituì con Rodolfo Graziani, che non vi aveva lasciato buon ricordo nella fase conclusiva della riconquista, e gli ordinò di muovere contro gli inglesi in Egitto. Winston Churchill consigliò ad Archibald Wavell di non accettare battaglia e di acquartierarsi a Marsa Matruh in attesa di tempi più favorevoli. Questi vennero sulla fine dell'anno. Il 7-8 dicembre 1940 inglesi e “imperiali” (precisamente australiani) mossero all'offensiva in Cirenaica. Avanzarono a valanga. La sera del 10 il comando del battaglione “Coldstream” informò che era «impossibile contare i prigionieri a causa del loro elevato numero», ma che c'erano «circa cinque acri di ufficiali e duecento acri di truppa». Wavell era ormai così sicuro della vittoria che dirottò via mare un'intera divisione verso l'Eritrea per l'assalto finale agli italiani. Come poi annotò Churchill, sia Graziani sia Mussolini e la sua cerchia si mostrarono del tutto impari ad affrontare gli eventi. L'11 dicembre il duce dovette costatare che in Libia in soli due giorni erano state polverizzate due divisioni. A commento dei telegrammi catastrofici di Graziani, che lamentava di essere stato messo nelle condizioni di fare «la guerra della pulce contro l’elefante» e annunciava di volersi arroccare addirittura a Tripoli, Mussolini confidò a Ciano: «Ecco un altro uomo con il quale non posso arrabbiarmi perché lo disprezzo.»
   Il 1941, sin dall’inizio, fu costellato di “notizie buie”. L'attacco inglese in Marmarica “squarciò” le difese italiane. Il duce si rassegnò ad abbandonare la Cirenaica. Il 12 gennaio il generale Italo Garibaldi sostituì Graziani, ruvidamente richiamato in patria. Lo stesso giorno, su direttiva di Adolf Hitler, a Tripoli giunse Erwin Rommel, per allestire il comando dell'Afrika Korps. Secondo lo storico Jens Petersen «l’establishment militare [germanico, NdA] diffidava di Rommel ed in parte lo odiava». Invece Churchill ne elogiò le qualità e le ribadì in “La seconda guerra mondiale”: «Un avversario assai audace e abile e, se posso dirlo al di sopra delle stragi della guerra, un grande generale». Meritava rispetto anche perché, «pur essendo un leale soldato tedesco, finì con l'odiare Hitler e tutta la sua opera e partecipò alla cospirazione del 1944 per salvare la Germania tentando di togliere di mezzo il fanatico tiranno. Per questo sacrificò la vita».
   A fine gennaio del 1941 Vittorio Emanuele III confidò a Puntoni: «Nei momenti difficili tutti sono capaci di criticare e di soffiare sul fuoco; pochi o nessuno sono quelli che osano prendere decisioni nette e assumersi gravi responsabilità.» Gli ricordò che nel 1922 si era rassegnato a chiamare al governo “questa gente”, cioè Mussolini e i nazional-fascisti, perché «tutti gli altri, chi in un modo, chi in un altro» lo avevano abbandonato. Per 48 ore egli in persona aveva dovuto «dare ordini direttamente al questore e al comandante del corpo d’armata [di Roma, il pluridecorato Emanuele Pugliese, NdA] perché gli italiani non si ammazzassero fra loro». Ora, a suo giudizio, Mussolini non era più in grado «di raddrizzare la situazione» perché «ormai soffocato e avviluppato dai tentacoli del partito». Il re vedeva lontano.
   Meno di un mese dopo giunse a Roma la notizia della resa di Giarabub, annotata da Puntoni nel “Diario” e magistralmente evocata dal generale Antonio Zerrillo e del capitano Massimo Cappone nel volume “Dalle Langhe a Giarabub: un medico, un cappellano, soldati nel deserto africano durante la seconda guerra mondiale” (2024). Benché noti, richiamiamo sinteticamente i quattro mesi di lotta spasmodica. Dalla storia antica e gloriosa, Giarabub era dominio italiano dal 1926, con la rettifica del confine tra l'Egitto e la Cirenaica. Nella sua moschea riposava la salma del fondatore dei Senussi, una “setta” rigorista dell'islam con la quale si era confrontato Giovanni Giolitti, che nel 1920 ne aveva invitato a Roma gli esponenti per avviare la pacificazione della Cirenaica all'indomani della Grande Guerra. L'oasi era nota per la prestigiosa scuola coranica.
   Nel giugno 1940 era sede di una guarnigione fortificata. L'oasi di Giarabub, un bacino di 25 chilometri di lunghezza e 6 di larghezza, sparso di acquitrini e paludi, incassato da 6 a 15 metri sotto il livello del mare, non manca di laghetti, ma salati, né di fontanili, ma di acqua salmastra. A parte il vasto e lussureggiante palmeto, irrorato da un ruscello spontaneo e con l'acqua estratta da pozzi, aveva orti che producevano il necessario per le poche centinaia di abitanti della “zavia”, ma del tutto insufficienti per gli oltre duemila militari del presidio. Allestito al di fuori della città, questo contava circa 1350 nazionali e 750 soldati libici agli ordini del maggiore Salvatore Castagna, un valoroso ufficiale, decorato durante la Grande Guerra, ma dalla carriera rallentata perché celibe. La “piazza” disponeva di un discreto parco di cannoni di diversi modelli e di 56 mitragliatrici da campo. Aveva anche una considerevole scorta di munizioni. Però, privo di risorse autonome, per l'alimentazione il presidio doveva essere rifornito dai centri affacciati sulla costa, ai quali era collegato da una faticosa pista di 226 chilometri attraverso il deserto infuocato e abbacinante.

L'assedio di Giarabub...
Lontana dal fronte di guerra, con l'avanzata degli “imperiali” lungo la costa della Cirenaica Giarabub non fu investita dall'offensiva, ma rimase isolata. Benché irrilevante sotto il profilo strategico, il suo presidio costituiva una presenza insopportabile per i britannici, decisi a liberare il loro fianco sinistro da una insidia, anche se lontana. Per eliminarla, come bene documentano Zerrillo e Cappone, il comando britannico lanciò un reggimento di cavalleria motorizzata della 6^ divisione australiana, forte di carri leggeri e di artiglieria. Impossibile via terra per la ritirata degli italiani dalla Cirenaica, il rifornimento del presidio continuò per via aerea sino a quando il 9 gennaio 1941 gli inglesi misero fuori uso a cannonate la pista di atterraggio, estrema possibilità di soccorrere la guarnigione, asserragliata in una “piazza” dal perimetro di circa quattro chilometri, protetta da reticolato e, a tratti, da campi minati, da una corona di posti di vigilanza e di sbarramento, da fossi anticarro, trincee e postazioni per puntate all'esterno e rifugio di emergenza per le pattuglie inviate in esplorazione. Il maggiore Castagna aveva approntato tutto il necessario per la difesa, ma non poteva provvedere all'alimentazione. L'8 febbraio Graziani lo autorizzò a regolarsi di propria iniziativa. Appena promosso a tenente colonnello, Castagna prese tutte le responsabilità sulle sue spalle.
   Il 25 febbraio egli comunicò: «Ho una sola giornata di viveri. È doloroso dopo tanti sacrifici doversi arrendere per fame.» Gli inglesi invitarono alla resa: «Difensori di Giarabub: i vostri capi probabilmente non vi hanno detto che abbiamo occupato l'intera Cirenaica, catturando 115.000 prigionieri ed ingenti quantità di materiali. Le nostre truppe marciano ora su Tripoli. Ogni vostro sforzo è quindi inutile ed anche la via di ritirata è preclusa. Arrendetevi: noi vi tratteremo bene.» Il comandante sapeva che i “fatti” erano proprio quelli, ma ritenne che non bisognava cedere “neppure un metro”: non per fatua cocciutaggine e sprezzo del pericolo, ma per senso del dovere, condiviso da tutti gli uomini del presidio, compresa una sessantina di libici che decisero di rimanervi. Sapevano di far parte di una “grande guerra”. Le sorti del conflitto dipendevano dalla abnegazione di ogni singolo uomo.
   Il 16 e 17 marzo gli “imperiali” costrinsero gli assediati a retrocedere dai posti di sbarramento. Nessuno si illuse quando il 17 l'ultimo aviolancio di gallette e scatolette fu accompagnato da un messaggio di Erwin Rommel: «Saluto i valorosi difensori di Giarabub ed esprimo la mia ammirazione. Continuate a fare il vostro dovere. Fra pochissime settimane saremo da voi.» Il comandante dell'Afrika Korps prometteva di raggiungerli «per via terrestre». Il piano scattò ad aprile ed inizialmente lungo la costa ebbe successo straordinario. A quel punto, però, la guarnigione di Giarabub era stata travolta.

… e la sua caduta
Gli assediati sentirono arrivare la fine. Da quasi due mesi erano allo stremo. Eppure tennero i nervi saldi. Il 19 respinsero un reparto nemico, ma il 20 gli imperiali attaccarono a ventaglio tutti i capisaldi. Grazie alla netta superiorità dell'artiglieria, con gittata superiore all'italiana, scompaginarono le estreme difese. La battaglia culminò con scontri ravvicinati e “corpo a corpo”. Anche il comandante Castagna venne ferito mentre combatteva alla testa di un nucleo di libici. Sulla sera la lotta terminò. I sopravvissuti, catturati uno a uno, ebbero l'onore delle armi. Finirono prigionieri in Sud Africa, India, Australia.
   Il bilancio delle perdite indica il loro valore: contro i 400 italiani morti o feriti, tra i quali sette ufficiali, gli australiani lamentarono 17 morti e 77 feriti: una disparità notevole, perché, secondo la dottrina, solitamente gli assalitori subiscono perdite maggiori rispetto agli assaliti, se questi, però, sono dotati di armi migliori e si battono da posizioni dominanti. Fu l'opposto di quanto avvenne a Giarabub nei giorni decisivi. La fine non fu dettata dalla mancanza di valore o di fortuna ma dalla disparità dei mezzi. Quelli degli “imperiali” erano oggettivamente superiori. Dall'avvento delle artiglierie di lunga gittata, della motorizzazione, dei carri armati, dell'aviazione e della comunicazione radio anziché su filo o con messaggi scritti, obbligatoriamente consegnati a mano (come ancora in uso nel 1914-1918), la guerra divenne una lotta fra sistemi di produzione e organizzazione logistica: malgrado la retorica, quelli italiani erano inconfrontabili con quelli dell’impero britannico. La mancanza di un piano strategico generale e la dispersione delle armate su troppi fronti secondari fecero il resto. Come hanno osservato tutti gli storici obiettivi e lo ripete Oreste Bovio nella “Storia dell'Esercito italiano” (US-SME), la resistenza delle Forze Armate a tre anni di guerra (giugno 1940-settembre 1943) ha del miracoloso.
   La caduta di Giarabub entrò subito nella leggenda. A dare voce alla sua epopea furono Ferrante De Torres, Simeoni e Ruccione, già autori di “Camerata Richard” e, nel 1942, un film di vasto successo con la partecipazione di attori celebri e il giovane Alberto Sordi.
   Ma perché proprio Giarabub? Nella seconda Guerra Mondiale i militari italiani dettero prove di valore in misura inversamente proporzionale alle risorse belliche messe a loro disposizione. Il Comando Supremo e gli stati maggiori delle tre armi ne erano consapevoli. Specialmente quello dell'Esercito. Il 1° giugno 1940 il Capo di stato maggiore generale, Maresciallo Pietro Badoglio, scrisse a Mussolini che bisognava guadagnare ancora tutto il mese prima di intervenire «senza fare la figura dei corvi». L'offensiva era impossibile, perché l'esercito difettava gravemente di munizioni da fuoco e da bocca. Infatti alla dichiarazione di guerra la direttiva del Comando Supremo fu: “osservazione” e risposta al fuoco solo se assaliti (Mario Montanari, “L'Esercito italiano alla vigilia della 2^ Guerra mondiale”, Roma, Ufficio storico dello SME, 1982).
   I difensori di Giarabub avevano mostrato che “l'antico valor” negli “italici cor” non era “ancor morto”. Molte battaglie affrontate da militari italiani nella seconda guerra mondiale entrarono nella memoria per l'alto numero dei caduti e per i canti che ne nacquero. “Il ponte di Perati” (che riecheggia un nenia della Grande Guerra) ricorda il sacrificio degli alpini della “Julia” nella campagna di Grecia. Il suo abbrivo è lugubre: “Sul ponte di Perati bandiera nera…”. La ritirata di Russia non ha ispirato canzoni di pari intensità. Eppure tra le prove di valore assoluto delle armi italiane nella seconda guerra mondiale due vennero date proprio su quel fronte, così remoto dalla Madrepatria. Il 24 agosto 1942 a Isbuchenskij 700 cavalieri del “Savoia Cavalleria”, del “Lancieri di Novara” e delle “Voloire” sfondarono la sacca nella quale stavano per essere chiusi dall'Armata Rossa. Parimenti eroica fu l'impresa compiuta il 26 gennaio 1943 a Nikolaevka dagli Alpini, che l'hanno assunta a giorno memoriale. Le due “cariche” di Isbuchenskij e di Nikolaevka entrarono tra gli episodi gloriosi dell'esercito nella seconda guerra mondiale, ma rimasero una realtà diversa dai lunghi mesi della resistenza opposta al nemico da “quelli di Giarabub”.
   Perciò questa meritava la rievocazione proposta da Antonio Zerrillo e Massimo Cappone, sulla traccia dell'opera di Salvatore Castagna che nel 1967 pubblicò “La difesa di Giarabub”, imprescindibile per quanti sono tornati a scriverne, sino a “Giarabub. 1941. Un'oasi, una battaglia, una leggenda” di Pierluigi Romeo di Colloredo Mels (2021).

Il Generale Zerrillo, il capitano Cappone e il giudizio di Churchill
Già autore di importanti saggi e promotore delle rievocazioni del medico Ferruccio Della Valle ad Alba e di don Giovanni Blengio a Levice, per anni il generale Antonio Zerrillo, in collaborazione con il capitano Massimo Cappone, ha cercato ogni possibile traccia degli “uomini di Giarabub”. Per individuarli ha mobilitato gli uffici anagrafe dei comuni più remoti e, lo ripete egli stesso, le stazioni dei carabinieri, fonte indispensabile per ottenere informazioni altrimenti inarrivabili. Ecco, dunque, il suo metodo: ricerca dei documenti, rintraccio dei “testimoni” o dei loro eredi e visita, diretta o indiretta, dei luoghi teatro delle vicende narrate. I frutti del lungo lavoro sono consegnati al lettore con stile narrativo accattivante, fluido, arricchito da icasticità delle immagini e precisione dei termini tecnici quando si addentra nell'esame di reparti e di armi. L'indagine sugli “australiani” che presero parte all'assedio di Giarabub è un “caso di scuola”, meritevole di essere proposto quale modello di indagine archivistica e rispetto delle fonti. Uno straordinario apparato iconografico in bianco/nero e a colori e l'indice dei nomi arricchiscono il volume.
   Zerrillo non nasconde che, mentre compiva la ricerca, sentiva martellanti in memoria questo o quel verso della Sagra di Giarabub. Forse il più assillante è il finale: «sono morto per la mia terra, / ma la fine dell'Inghilterra incomincia da Giarabub.» Lo ebbe chiaro Winston Churchill. Il crollo dell'impero coloniale italiano, egli osservò, fece la differenza tra il prima e il dopo nella storia d'Italia dalla sua unità in poi. In particolare, se la guerra nell'Africa settentrionale avesse avuto altro corso e l'asse italo-germanico si fosse impadronito delle colonie africane di francesi e inglesi, le ripercussioni sarebbero state di dimensioni planetarie e di durata imprevedibile. Il mondo non sarebbe quale attualmente è. Lo percepirono gli autori della Sagra di Giarabub, come il regista e gli interpreti del film (1942), al pari dei primi giornalisti che intervistarono i reduci dall'assedio. Fu il caso di Gian Dal Po, pseudonimo di Gianni Brera, la cui facondia apprezzai mentre spartivamo pane e pesci appena scottati su pietra arroventata in una trattoria della sua terra. Tra i molti il generale Zerrillo ha avuto il merito di “scovare” quel suo primo “libretto”, scritto con lo stile del tempo.
La “lezione” di Giarabub,
Il tenente colonnello Castagna, i suoi ufficiali, i suoi uomini sentirono di dover servire fino in fondo la Patria: «…non si cede nemmeno un metro.» Perché la Patria si difende e si salva con tanti gesti quotidiani che, sommati, si risolvono nella salvezza o nella catastrofe. La sua difesa è “sacro dovere” del cittadino, come detta l'art. 52 della Costituzione. Arroccati senza speranza gli “uomini di Giarabub” si sentirono e furono parte della Grande Storia. Il loro fu un caso unico, sotto il profilo militare e psicologico. Merita memoria e meditazione.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Il volume “Dalle Langhe a Giarabub” del capitano Massimo Cappone e del generale Antonio Zerrillo (in fotografia) è stato presentato giovedì 12 dicembre al Teatro “Moretta” di Alba, attiguo al Santuario dei Padri Giuseppini, presente un pubblico folto e partecipe. L'opera è patrocinata dai Comuni di Alba, ove nacque l'ufficiale medico Ferruccio della Valle, Levice, patria del cappellano don Giovanni Blengio, Caltagirone, che dette i natali al comandante Salvatore Castagna, il “Leone di Giarabub” poi asceso a generale, di Morcone e di San Zenone a Po. La realizzazione del sontuoso volume, promosso dall' Associazione Nazionale della Sanità Militare italiana e introdotto dal suo segretario, generale Vincenzo Barretta, è stata approvata e finanziata dal Ministero della Difesa.


ALDO G. RICCI
NON “STORIELLE”, STORIA

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 8 dicembre 2024, pagg. 1 e 6.

Aldo Giovanni Ricci (Novara, 1943). Sulla scia
                    dei “Verbali dei governi 1943-1848”, ha pubblicato
                    le introduzioni ai “Verbali del Consiglio dei
                    ministri della Repubblica sociale italiana.
                    Settembre 1943-Aprile 1945” (Roma, 2002, voll. 2) e
                    ai “Verbali del Consiglio dei ministri. Maggio
                    1948-Luglio 1953” (Roma, 2005-2007, voll. 3),
                    entrambi a cura di Francesca Romana Scardaccione:
                    opere di riferimento per qualsiasi studio su quegli
                    anni. Ricci ha anche concorso alla realizzazione di
                    “Giovanni Giolitti al Governo, in Parlamento, nel
                    Carteggio” (voll. 3, tomi 5, ed. Bastogi,
                    2007-2009): opera preceduta dall’individuazione
                    sistematica di carte giolittiane presenti negli
                    Archivi di Stato italiani. Quei volumi e “Giolitti,
                    lo Statista della Nuova Italia” (ed. Mondadori,
                    2003,2012 e RusconiLibri, 2019) sono a disposizione
                    del cattedratico, di un paio di sindaci di “luoghi
                    giolittiani” (formula che introducemmo nel 1978 per
                    il Convegno internazionale patrocinato da Sandro
                    Pertini) e di altri che domandano “Ma quanti di noi
                    sanno veramente chi fu Giovanni Giolitti?” e si
                    propongono di riesumarlo in vista del centenario
                    della morte (2028). È già fatto, da tempo. Però
                    “repetita juvant”…Alla scoperta del referendum del 2-3 giugno 1946
La “Giornata particolare” appena dedicata al 2 giugno 1946 da Aldo Cazzullo su “LA7” è un'occasione mancata per far conoscere al grande pubblico come davvero andò il referendum istituzionale. Sin dal sottotitolo: “Monarchia contro Repubblica”, anziché “Monarchia o repubblica”. Il referendum e l'elezione dell'Assemblea costituente furono gestiti da un governo formato esclusivamente da fervidi repubblicani, a eccezione di Leone Cattani che la notte fra il 12 e il 13 giugno votò contro il conferimento delle funzioni di capo dello Stato ad Alcide De Gasperi. Quel “gesto rivoluzionario” (come lo definì Umberto II nel Proclama agli italiani diramato partendo da Roma alla volta del Portogallo), o “colpo di Stato”, pose il re di fronte al dilemma: cedere alla prevaricazione del governo o rischiare di precipitare l’Italia in una nuova guerra civile. Nell’esecutivo i poteri strategici erano nelle mani dei socialisti Giuseppe Romita, ministro per l'Interno, e Pietro Nenni, vicepresidente (che minacciò “Repubblica o caos”), e del comunista Palmiro Togliatti, ministro di Grazia e Giustizia, il quale ripetutamente impose la sua linea trincerandosi anche dietro affermazioni non vere. Per esempio, a chi chiese il controllo delle schede referendarie votate rispose che esse erano già state distrutte.
   Mentre per la repubblica si schierarono quasi tutti i quotidiani “di opinione” e, s'intende, i programmi radiofonici, i monarchici non riuscirono a dar vita a un giornale nazionale. Pesò anche il desiderio del principe Umberto, dal 5 giugno 1944 Luogotenente del regno (anziché “del Re”), di rimanere “al di sopra della mischia”. In tal modo egli finì quindi per subire le imposizioni del governo, espressione del Comitato centrale di liberazione nazionale, vincolato alle direttive anglo-americane. Emanò il Decreto luogotenenziale 25 giugno 1944, n. 151, che, rimettendo la scelta della forma dello Stato alla decisione dei cittadini, di fatto sospese lo Statuto albertino e instaurò un regime di “costituzione provvisoria”: cesura sulla quale non si conosce il giudizio di Vittorio Emanuele III, che aveva, sì, trasferito al figlio tutti i poteri nessuno escluso, ma non la Corona.
   Nell'impossibilità di rettificare in questa sede le inesattezze della narrazione esposta da Cazzullo, ne vanno corrette almeno alcune affermazioni sulle quali la storiografia ha fatto luce da tempo. Il governo Mussolini, insediatosi il 31 ottobre 1922 senz'alcun bisogno della leggendaria “marcia su Roma”, comprese esponenti di tutti i partiti costituzionali. Alla Camera fu il capogruppo De Gasperi a motivare il voto favorevole del Partito popolare italiano. Ad approvare a larghissima maggioranza quel governo furono deputati liberamente eletti il maggio 1921: un caso unico di “suicidio politico”, come, fra altri, ha insegnato per decenni lo storico socialista Giovanni Sabbatucci, morto ottantenne pochi giorni addietro.
   Scrupolosamente costituzionale, come gli viene riconosciuto da studiosi non faziosi, il re assecondò i pareri di tutti i gruppi parlamentari, delle forze costituzionali e anche dell'altra riva del Tevere, con la quale Mussolini era in rapporti diretti. Negli anni del regime autoritario (non totalitario), il re sanzionò, emanò e promulgò leggi approvate dal Parlamento, anche quando (come quelle razziste del 1938) non le approvava affatto. Non aveva facoltà di rinviarle alle Camere, come invece previsto dalla Carta repubblicana. La sua condizione non fu troppo diversa da quella del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che recentemente ha dichiarato di aver firmato anche leggi da lui non condivise. “Così si può colà dove si puote”: il Parlamento, eletto dai cittadini, sempre pronti a scaricare su altri le proprie responsabilità.
   Mentre ha omesso di ricordare che fu Vittorio Emanuele III, nella pienezza dei suoi poteri, a sostituire Mussolini con Pietro Badoglio, e a smantellare il Partito fascista e tutti i suoi organi e istituti (25 luglio 1943: decisione presa a prescindere al voto del Gran Consiglio), Cazzullo ha reiterato l'accusa di “fuga da Roma” del re (9 settembre 1943), già usata da Mussolini e dai repubblichini. Il fuggiasco procede occultamente sotto finte spoglie. L'auto del sovrano, in divisa militare, uscì dalla Capitale con lo stendardo reale bene in vista. Né è stato sottolineato che l'accettazione della resa (3 settembre) salvò la continuità dello Stato e la sua quasi totale integrità territoriale.
   Quando, dopo lunghe digressioni, giunto al punto il narratore ha ricordato quanti andarono alle urne ma non ha detto una parola sui tre milioni di aventi diritto al voto che ne furono impediti, o per motivi politici, o perché ancora prigionieri di guerra (centinaia di migliaia) o perché non ebbero la tessera elettorale o, infine, perché residenti nella XII Circoscrizione elettorale (Friuli-Venezia Giulia, Fiume, Zara...), esclusa dalla consultazione, come la provincia di Bolzano, con la promessa di potersi pronunciare quando fosse cessata la loro condizione di terre disputate: impegno mai mantenuto dal governo. Su 28 milioni di elettori, i votanti furono circa 25 milioni. La monarchia ottenne 10.700.000 suffragi; la repubblica 12.700.000: poco più della metà dei voti validi, molti meno della metà degli elettori e con un margine di vantaggio sul numero dei votanti così ristretto da legittimare la richiesta di verifica dei verbali dei seggi, inviati dagli Uffici elettorali circoscrizionali a quello Centrale.
   Il 10 giugno, a cospetto di dati ancora provvisori, il presidente della Corte Suprema di Cassazione, Giuseppe Pagano, chiese che fossero rendicontati non solo i voti validi ma anche le schede bianche, nulle, contestate e non attribuite (circa 1.500.000), fino a quel momento ignorate. Prima ancora che la verifica avesse corso (13-16 giugno), il Consiglio dei ministri compì il “gesto rivoluzionario” di cui sopra si è detto. Ormai partito il Re dal suolo patrio, la verifica si risolse in un'operazione burocratica, suggellata dal colpo di Stato contro la lingua italiana messo a segno da 12 dei 18 componenti della Corte Suprema secondo i quali per “votanti” non si intende quanti vota ma solo i voti validi: decisione non condivisa né da Pagano né dal Procuratore generale della Corte, Massimo Pilotti, e rimasta unica nella storia elettorale d'Italia perché del tutto infondata. “Votante” è chi va al seggio, ritira la scheda, la vota e la depone nell'urna. Alle 18 del 18 giugno, letti gli esiti comunicati dall'Ufficio Elettorale Centrale, Pagano non “proclamò” affatto la Repubblica (prevalsa per effetto della legge elettorale), né accolse l'invito rivoltogli da De Gasperi di accompagnarlo al Viminale. Nessuno fece notare (e Cazzullo ha perso l'occasione di dirlo) che dopo il 10 giugno e anche dopo la partenza di Umberto II dall'Italia tutti gli atti con valore legale continuarono a essere intestati “in nome del Re” sino al 19 giugno, quando la “Gazzetta Ufficiale” pubblicò il verbale dell'adunanza del 18.
   Si dirà che queste sono cose arcinote e documentate. Ma allora perché non dirle invece di narrare storielle irrilevanti? Perché, mentre Umberto viene definito “uomo ordinario”, di Vittorio Emanuele III si ripete che fu complice del regime? Alle urne gli italiani andarono nel 1919, 1921, 1924, il 24 marzo 1929, subito dopo la Conciliazione Stato-Chiesa dell'11 febbraio, e ancora nel 1934. Seguirono gli “anni del consenso” (Renzo De Felice). Il re poteva/doveva scendere in piazza da solo contro piazze stracolme di persone che inneggiavano al governo Mussolini (vezzeggiato anche da Stati “democratici”) e continuarono a credergli sino alla catastrofe del 1943?

Aldo G. Ricci, archivista...
Per conoscere, capire e parlare degli anni 1943-1948, cioè dal governo Badoglio alla vittoria della Democrazia cristiana guidata da De Gasperi, è d'obbligo la lettura, matita alla mano, dell'edizione critica dei “Verbali del Consiglio dei ministri” di quegli anni, curati da Aldo Giovanni Ricci: dieci volumi in quindici tomi, con introduzioni e uno sterminio di note.
   A 24 anni Ricci entrò per concorso all'Archivio Centrale dello Stato. Occhiuto direttore della Sala di studio frequentata da generazioni di studiosi e poi della Biblioteca, vice sovrintendente sino al 2002 e sovrintendente dal 2004 al 2009, Ricci non rimase succubo dei chilometri di scaffali e dalla mole immensa di faldoni, croce e delizia degli storici che per scrivere non si limitano a sfogliare qualche libro altrui ma risalgono alle fonti. Nella congerie di carte allo studioso accade di imbattersi nella conferma di quanto riteneva o di documenti che costringono a sostare e talvolta a correggersi perché “sapientis est mutare consilium”.
   Ricci ne ha conosciuti e aiutati tanti. Li ha assecondati nella ricerca e nel confronto. Era, del resto, la sua personale esperienza. Laureato con Lucio Colletti e poi suo assistente volontario, fece i conti con il marxismo, con tutte le “eresie” del socialismo e con Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi (Ginevra, 1773-1842). Poi studiò i massimi protagonisti del Risorgimento italiano, da Cavour (ne pubblicò per primo i verbali dei governi nella collana “Libro Aperto”) a Garibaldi, biografato in “Obbedisco. Garibaldi eroe per scelta e per destino” (Palombi, 2007) e a Mazzini, una cui raccolta di ricordi e pensieri pubblicò nel 2011, 150° della proclamazione del regno d'Italia. All'attività scientifica, inclusa la collaborazione con l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani, Ricci unì la pubblicazione in quotidiani e periodici di articoli che sono veri propri saggi, conferenze, interventi in una miriade di convegni e le lezioni dalla cattedra di storia dei partiti nell'Università Guglielmo Marconi di Roma e nel master “Esperti in politica” presso la Lumsa di Roma.

… storico del centrismo degasperiano...
Ricci ha concentrato le sue riflessioni sull'intervento dell'Italia nella Grande Guerra e le ripercussioni sul dopoguerra, tra avvento dei partiti di massa e polverizzazione dei democostituzionali, e sulle lacerazioni del socialismo in fazioni più intente a contendersi lo spazio della sinistra che a proporsi quale forza di governo. Ripropose con introduzione critica “Rifare l'Italia” di Filippo Turati (Roma, Talete, 2008). Del pari approfondì la crisi del secondo dopoguerra in quattro saggi concatenati: “Aspettando la Repubblica” (Roma, Donzelli, 1996), “Il compromesso costituente” (Foggia, Bastogi, 2000), “La rinascita dei partiti in Italia, 1943-1948” (con Pino Bongiorno, Roma, 2009) e “La breve età degasperiana, 1948-1954” (ed. Rubbettino, 2010). Tirando le somme di anni di studi su guerra e immediato dopoguerra Ricci tracciò il bilancio dell’egemonia esercitata dallo statista trentino anche alla luce della crisi della cosiddetta Prima repubblica e del confronto con la vanità parolaia di inizio Duemila. I governi De Gasperi vararono Cassa del Mezzogiorno, adesione al piano Marshall, firma del Patto Atlantico (malgrado l'opposizione accanita delle estreme e, va aggiunto, i dubbi di tanti democristiani e del clero, diffidente verso il mondo anglo-americano, protestante assai più che cattolico), piano per il lavoro e impulso alle grandi opere che prepararono il “miracolo economico”.
   De Gasperi, infine, con Luigi Einaudi, fu in Italia tra i veri fautori della scelta europeistica, imboccata all'indomani della guerra e del Trattato di pace del febbraio 1947. L'istituzione della Ceca e dell'Euratom suscitarono gli entusiasmi poi gelati dalla decisione della Francia di bocciare senza appello la Comunità europea di difesa. Si dice che al suo annuncio De Gasperi abbia pianto desolatamente. La via verso la Federazione si era bruscamente interrotta, proprio mentre la guerra della Francia per conservare l'impero coloniale nella lontana Indocina andava contro la sconfitta. Il ripiegamento verso la futura Europa delle nazioni (e dei nazionalismi: Charles De Gaulle) mise in ombra gli Statisti, come appunto De Gasperi, e riportò in auge i partiti, ancorati a rigidità ideologiche, fonte di lunghi ritardi sulla via del disgelo, avviato, promesso, poco promosso e di là da venire, malgrado la breve stagione di Kennedy, Kruscev e Giovanni XXIII.

… e divulgatore
Nel 1996 Ricci dedicò ai figli Ilaria e Giovanni una raccolta di 26 articoli sotto il titolo “Storie della storia d'Italia”, pubblicata dalla Fiap (Federazione italiana associazioni partigiane, presieduta da Aldo Aniasi e con segretario il vulcanico Lamberto Mercuri). Nella prefazione il socialista Gaetano Arfé affrontò il nodo di cui abbiamo parlato la scorsa settimana a proposito dell'opera di Franco Bandini e Luciano Garibaldi. In Italia molti “divulgatori della storia” non facevano affatto “ricerca” ma, al più, frugavano in archivi alla ricerca di un “documento esclusivo” per fare un po' di rumore. Ben diverso, precisò Arfé, era il metodo dell'allora vice-soprintendente dell'Archivio Centrale dello Stato, che sapeva inquadrare ogni episodio nella cornice della “lunga durata”: i problemi costitutivi dello Stato, l'assetto dei poteri, gli ideali che coniugavano le dirigenze consapevoli di fine Novecento alle non ancora del tutto esaurite culture politiche del Sette-Ottocento e alla conoscenza della storia senza barriere cronologiche né tematiche.
   Un lustro dopo, Ricci pubblicò il saggio che ne documenta l'ampiezza degli orizzonti: “La Repubblica”, dedicato a suo padre, Dante. Uscì nella collana “L'Identità italiana” diretta da Ernesto Galli della Loggia per “il Mulino”, che già contava libri di Anna Foa, Piero Dorfles, Luciano Cafagna, Franco Cardini, Alessandro Campi, Nico Perrone... In sei capitoli, dai Comuni medievali alla vittoria della Repubblica nella “giornata particolare” del 2 giugno 1946, che “rappresentò la tormentata” (e, diciamo pure, risicata) “conclusione di un cammino” a segmenti discontinui, Ricci collocò il proprio saggio nella fioritura di studi sulla crisi del sistema-Paese, sul problema dell'Italia-Nazione, sulla morte della patria (tema all'epoca molto discusso) e sull'esistenza o meno di un patriottismo della Repubblica o, come alcuni scrivevano, di una “religione civile”. Erano anche gli anni nei quali il presidente Carlo Azeglio Ciampi ripropose agli italiani il canto nazionale, il tricolore, l'orgoglio della propria storia, ma senza alcuna indulgenza verso nazionalismo, isolazionismo, populismo, sibbene da europeo nato in Italia, come fu ricordato da chi, come Mario Draghi, ne condivise l'impresa di modernizzare l'Italia nel rilancio dell'europeismo.
   Con quelle premesse di divulgatore scientificamente attrezzato Aldo G. Ricci condivise il progetto del mensile “Storia in Rete” (SiR) diretto da Fabio Andriola e affiancato da un comitato comprendente lui, Nico Perrone e Giuseppe Parlato e sorretto, dall'esterno, da Luciano Garibaldi.
In quell'ambito si ritagliò la rubrica mensile “Libri&Recensioni”.

Filosofia della storia
Vent'anni dopo, forse anche per l'amarezza dell'improvvisa sospensione dell'approdo di SiR in edicola, Ricci ha sentito l'urgenza di raccogliere 32 saggi (articoli, relazioni svolte in convegni...) dal titolo eloquente: “Elogio della Storia. L'Italia nella guerra civile europea 1914-1953”, pubblicato nella collana Passato-presente della Editrice Oaks, con partecipe prefazione di Ernesto Galli della Loggia. Come ha rilevato Stefano Folli, l'attualità del volume sta anche nella drammaticità dei tempi incalzanti. Mentre si moltiplicano i fronti di guerre sempre più devastanti e sanguinose, l'illusione della “fine della storia” e di una pace perpetua universale, libera da assilli ideologici e da rovelli morali, liquidati come moralismi dei tempi andati, si rivela per quello che era ed è: illusione di sottrarsi alla Storia, che torna a martellare prepotente sulla vita quotidiana e costringe anche Stati dalla vocazione neutralistica a schierarsi, ad armarsi e, anzi, a distribuire ai cittadini le istruzioni per la sopravvivenza in caso di guerre con armi “non convenzionali”.
   Fra le decine di saggi, ripartiti in quattro sezioni tematiche (la Grande Guerra, quando, con Caporetto, l'Italia si scoprì Nazione; fascismo, antifascismo, resistenza; la Repubblica sociale italiana, riscattata da certo oblio storiografico perché dopo appena ottant'anni dall'unità l'Italia si scoprì “una Nazione con due Stati”, ognuno dei quali fonte giuridica; il dopoguerra) ne citiamo uno solo per suggerire al lettore la misura della tensione anche emotiva dello storico a cospetto di momenti salienti della breve storia dei popoli d'Italia accomunati nel regno e poi nella Repubblica italiana: “Il significato simbolico della tumulazione del Milite Ignoto”. È la relazione pronunciata da Ricci il 9 ottobre 2021 nel convegno svolto a Vicoforte (Cuneo), due passi dalla Basilica ove, su impulso della principessa Maria Gabriella di Savoia e il concorso del Presidente Sergio Mattarella, nel dicembre 2017 furono traslate le salme di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena. Il re, scrive Ricci con parole condivise, all'Altare della Patria si presentò «come una sorta di sommo sacerdote di un rito laico collettivo». Fu il “re soldato” che celebrò «il funerale di un commilitone, diventando simbolo e tramite della volontà e del cordoglio dell'intera Nazione». Perciò «il soldato senza nome, morto per la Patria al di fuori di schieramenti di parte, potrebbe rappresentare davvero ancora oggi il defunto che tutti possono onorare con una memoria almeno per una volta effettivamente condivisa. Un auspicio il mio, forse un sogno… ma sognare non costa nulla». Però, aggiungiamo, nella confusione dei “mala tempora” incombenti, il “sogno” consente di reperire il filo della filosofia della Storia animata da “pietas” e distinguerla da ogni “storiella”, intrisa di malanimo. È quanto Ricci suggerisce di fare.
Aldo A. Mola


DIDASCALIA: Aldo Giovanni Ricci (Novara, 1943). Sulla scia dei “Verbali dei governi 1943-1848”, ha pubblicato le introduzioni ai “Verbali del Consiglio dei ministri della Repubblica sociale italiana. Settembre 1943-Aprile 1945” (Roma, 2002, voll. 2) e ai “Verbali del Consiglio dei ministri. Maggio 1948-Luglio 1953” (Roma, 2005-2007, voll. 3), entrambi a cura di Francesca Romana Scardaccione: opere di riferimento per qualsiasi studio su quegli anni. Ricci ha anche concorso alla realizzazione di “Giovanni Giolitti al Governo, in Parlamento, nel Carteggio” (voll. 3, tomi 5, ed. Bastogi, 2007-2009): opera preceduta dall’individuazione sistematica di carte giolittiane presenti negli Archivi di Stato italiani. Quei volumi e “Giolitti, lo Statista della Nuova Italia” (ed. Mondadori, 2003,2012 e RusconiLibri, 2019) sono a disposizione del cattedratico, di un paio di sindaci di “luoghi giolittiani” (formula che introducemmo nel 1978 per il Convegno internazionale patrocinato da Sandro Pertini) e di altri che domandano “Ma quanti di noi sanno veramente chi fu Giovanni Giolitti?” e si propongono di riesumarlo in vista del centenario della morte (2028). È già fatto, da tempo. Però “repetita juvant”…



GARIBALDI, BANDINI...
UOMINI ALLA RICERCA DELLA STORIA

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 1 dicembre 2024, pagg. 1 e 6.

La copertina di “Il cono d'ombra. Chi armò la
                    mano degli assassini dei fratelli Rosselli” (1990,
                    mai ristampato) che costò a Bandini l'ostracismo
                    politico, forte del pregiudizio accademico nei
                    confronti dei “giornalisti-cronisti” che si ergano a
                    storici. Abusivi... A Bandini il mensile “Storia in
                    Rete” diretto da Fabio Andriola dedicò un numero
                    speciale, con ampia raccolta di suoi scritti.Luciano Garibaldi...
La morte di Luciano Garibaldi (26-IX-1936/23-XI-2024) fa riflettere sul rapporto tra ricerca e divulgazione della storia. Chi stabilisce la “veridicità”? La risposta pare semplice e immediata. Se chi scrive propone il risultato della ricerca e suffraga le sue affermazioni “documenti alla mano” ha motivo di essere credibile. Non significa che abbia enunciato la “verità definitiva”. Altri ha fatto o potrà fare meglio di lui. Però, quanto meno, anch'egli ha diritto di ascolto, anche se non ha titoli accademici, né ascrizioni a questa o quella “scuola storiografica”, non vanta tessere di partito, avalli editoriali o, come soleva dirsi, “santi in Paradiso”, inclusi ministri e sottosegretari in un'età di decadenza nella quale domina il principio che ogni nomina è “politica”. Allievo da ragazzo dei padri scolopi, poi dei gesuiti (due poli della pedagogia cattolica), Garibaldi non raggiunse neppure la laurea. Non so (non me ne accennò mai) se quando decise di interrompere gli studi universitari e optare per il giornalismo avesse già letto la pagina famosa in cui Luigi Einaudi propose l'abolizione del valore dei “diplomi” quale titolo di precedenza nei concorsi. Imboccò la strada che sentiva propria: la ricerca e la divulgazione dei suoi risultati. Un sentiero seminato di pietre aguzze, perché per percorrerla non occorre né basta una “patente”. Richiede un “mestiere” della cui correttezza si risponde a se stessi (una volta si diceva “alla propria coscienza”). Luciano Garibaldi sapeva che l'“ordine dei giornalisti” era nato dall'Albo dei giornalisti professionisti voluto nel 1925 dal regime, quando Mussolini decise di imbrigliare definitivamente la libertà di stampa. Il duce non poté, perché è impossibile, soffocare quella di pensare. Ma sapeva bene che il libero pensiero appaga la persona libera ma non mina il potere, se non può essere scritto e diffuso sino a divenire opinione condivisa, tale da capovolgere i luoghi comuni imposti dall'alto.
   Garibaldi fu e rimarrà tra gli esempi rilevanti dello stretto rapporto tra piacere/dovere della ricerca storica e distillazione e comunicazione dei suoi esiti, ovunque possibile. Tramite i “media” in democrazia, con fogli clandestini o graffiti sui muri in quelli di autoritarismo e totalitarismo. I suoi libri, come le “inchieste” pubblicate nei periodici e gli interventi in dibattiti, rimasero però sempre circondati da una riserva, magari non esplicita, ma sottintesa. In fondo, egli non aveva “titoli”, se non la sua parola.
   Com'è, come non è, le riviste che per decenni furono palestre di giovani talenti e avvicinarono decine di migliaia di lettori alla curiosità per la storia, senza barriere cronologiche o tematiche, prima o poi piegarono le vele e affondarono. Difficile credere che siano state vittime solo della sorte cinica e bara dettata da difficoltà di bilancio. Se così fosse, tutti i periodici, a cominciare dai giornali, sarebbero estinti da tempo. In realtà, la cinghia di trasmissione tra ricerca, editoria e periodici dichiaratamente “di storia” si è spezzata a danno di questi ultimi. Proprio la morte di Luciano Garibaldi, che a lungo fu un campione della colleganza tra indagine e comunicazione tramite i “media” suggerisce di non chiudere il caso e di ricordare quanto la conoscenza della storia deve a persone che ne hanno scritto, e molto, per il precipuo piacere/dovere della ricerca, al di fuori degli schemi, senza attendere alcun “nihil obstat”, rischiando, anzi, l'espulsione dal campo.

...e Franco Bandini , vent'anni dopo.
Fu il caso di Franco Bandini (16-XI-1921/12-XI-2004), un altro scrittore che accompagnò gusto per l'indagine e divulgazione dei suoi risultati e merita di essere ricordato vent'anni dopo la sua morte. Il libro al quale intendeva legare la sua fama di storico, “Il cono d'ombra. Chi armò la mano agli assassini dei fratelli Rosselli”, uscì per le Edizioni SugarCo di Milano nel febbraio 1990. Il 31 marzo fu presentato al teatro “Garibaldi” di Poggibonsi, poco lontano da Colle Val d'Elsa, dal Casalone, ove, settantenne, viveva tra libri, fascicoli e una miriade di “schede”: miniera per i suoi studi e per gli amici che salivano a sentirne il verbo.
   La novità del libro stava nel metodo della ricerca. Secondo l'autore «è ovviamente inutile cercare e sperar di trovare documenti di prova (dell'infiltrazione dei “servizi” dell'Unione sovietica nel controspionaggio italiano in età fascista) anche perché i pochissimi che ebbero conoscenza o sospetto di essi giudicarono più opportuno tener la bocca chiusa, allora e poi, per le sorprendenti ragioni che si vedranno. Ma in questa torbida vicenda i fatti, narrati con serenità, costituiscono prove schiaccianti, arrivano addirittura a fornirci una globale e inedita spiegazione di avvenimenti e “momenti” apparentemente slegati da essi, che fino ad oggi han costituito altrettanti misteri nella storia dell'agonia del fascismo e dei suoi massimi personaggi».
   Bandini non si propose di scrivere “chi” uccise Carlo e Nello Rosselli il 9 giugno 1937 a Bagnoles-de-l'Orne. Sulla colpevolezza “materiale” della “selvaggia mattanza” perpetrata dai “cagoulards” non avanzò dubbi. Osservò tuttavia che gli autori del delitto, solitamente spacciati per “fascisti”, curiosamente assassinarono solo avversari del partito comunista sovietico e dei suoi più fedeli “affiliati”, quali all'epoca erano i comunisti italiani capitanati da Palmiro Togliatti. Come appunto recita il sottotitolo, Bandini mirò invece a rispondere alla domanda fondamentale: “chi armò la mano” dei sicari.
   Dodici anni dopo la pubblicazione dell'opera e le delusion che gliene derivarono, in una lettera inedita a un amico Bandini conveniva che il libro era «macchinoso e pesante, una specie di “arma impropria”». Tuttavia ne era contento, perché «tutto si potrà dire meno che – così – non sia stata raggiunta la verità». L'opera si mosse su tre livelli concatenati, presenti in ogni pagina: quello propriamente storiografico, il politico e l'etico.
   Secondo la narrazione tradizionale il duplice assassinio era stato commissionato da Galeazzo Ciano e messo a segno da suoi fiduciari (Filippo Anfuso, Santo Emanuele, Roberto Navale...: tutti infine scagionati in sede giudiziaria) tramite i “cagoulards”: era, in sintesi, la prova della criminalità intrinseca del “regime”. Però quel “racconto” non chiarì il “movente” dell'assassinio: perché il “fascismo” aveva motivo di uccidere i Rosselli a inizio giugno del 1937? Bandini ribadisce la non rilevanza “politica” di Nello, studioso innovatore del Risorgimento, molto apprezzato dallo storico nazionalista Gioacchino Volpe, che nel 1931 aveva scritto a “Sua Eccellenza Mussolini” per favorirne un lungo soggiorno di studio in Gran Bretagna, ottenendone una replica favorevole ma irridente. Quanto a Carlo Rosselli avanzò due quesiti concatenati: per controllarne gli spostamenti i “servizi” italiani dovevano superare enormi difficoltà. Meritava correre il rischio di essere scoperti solo se la sua brutale eliminazione era dettata da un alto “profilo politico”, tale da costituire una minaccia mortale per il regime (in quei mesi al colmo del “consenso”) o addirittura per lo Stato.

La fragilità “politica” di Carlo Rosselli
Con vasta e meticolosa ricerca Bandini accertò quanto prima di lui nessuno aveva documentato. Temporaneamente privato della carta d’identità, Carlo Rosselli rinnovava annualmente il permesso di soggiorno, consegnatogli l'ultima volta il 15 maggio 1937, due mesi prima della scadenza del passaporto, che “aggiornava” tempestivamente. Su di lui l'Ambasciata italiana a Parigi trasmetteva ogni notizia “in chiaro” al Ministero degli Esteri, che pertanto era perfettamente informato sui progetti di viaggio di Carlo e della moglie, Marion Cave, sino all'ultima istanza di rinnovo, quando Rosselli ne chiese l'estensione per una dozzina di Paesi, tra i quali Olanda, Danimarca, Norvegia e Svezia e altri Stati “nordici”, e i due dichiararono di non avere intenzione di recarsi in Italia e «di non potere ancora stabilire quale sarà la meta del loro prossimo viaggio».
   Reduce dalla non fortunata partecipazione alla guerra di Spagna, ove si era battuto a difesa della Repubblica di Madrid contro i “quattro generali” sorretti da Germania e Italia, Rosselli aveva maturato il rifiuto di collaborazione ulteriore con il partito comunista di Togliatti, Luigi Longo, Vittorio Vidali e del loro “mandante” Stalin. Li aveva visti all’opera nell’eliminazione degli anarchici. La scelta comportava l'archiviazione dell’arcaica “Concentrazione antifascista”, pullulante di informatori dell'Ovra e svigorita dal rientro in Italia di tanti antifascisti in esilio (lo ricordò Alberto Giannini nella terza edizione riveduta e aggiornata di “Le memorie di un fesso. Parla Gennarino “fuoruscito” con l'amaro in bocca”, Roma, 1948, ristampata da Arnaldo Forni) e, ancor più, qualsiasi avvicinamento ai comunisti. L'amara esperienza della guerra di Spagna costringeva a riflettere sui limiti politici e operativi della “terza via”, incluso il programma originario di “Giustizia e Libertà”, sintetizzato nella formula mazziniana “Insurrezione e Rivoluzione”. A identica conclusione giunse (con maggior fortuna personale) il repubblicano e massone Randolfo Pacciardi che, scampato di misura all’eliminazione fisica da parte dei “rossi”, dalla Spagna, ove ebbe un prestigioso comando a sostegno della Repubblica, raggiunse gli Stati Uniti d'America, forte di un’appartenenza massonica, incompatibile con il PCUS e i suoi addentellati, per i quali l'iniziazione ai misteri del Grande Architetto dell'Universo è indizio di asservimento alla borghesia.
   Secondo Bandini lo schema esplicativo “tradizionale” del “delitto Rosselli” non ricalcava dunque i rapporti tra i partiti e movimenti antifascisti del 1937-1938 ma quelli del 1943-1946, fatti propri dalla “storiografia” postbellica, ispirata all'unità della lotta contro il regime mussoliniano e i suoi “complici”, inclusi la monarchia e l'esercito.

Un libro scomodo, a volte staffilante ma veridico
Per comprendere l'accoglienza riservatagli va ricordato che, quando “Il cono d’ombra” vide le stampe, Giampaolo Pansa stava scrivendo “Il gladio e l'alloro. L'esercito di Salò” (Mondadori, 1991), lontano anni luce dal suo successivo approdo a “Il sangue dei vinti”, mentre Claudio Pavone lavorava a “Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza” (Bollati Boringhieri, 1991), accolto con curioso entusiasmo da quanti a “destra” (come Giano Accam) ritennero che preludesse a una sorta di “riconoscimento reciproco” e di pacificazione tra quanti si erano combattuti da opposti versanti.
   Nella “revisione del mito” di Rosselli, Bandini indulse a espressioni pesantemente svalutative e talvolta grevi, specie sul suo ruolo di “rivoluzionario” e sul suo “declino politico”. Lo liquidò come “giornalista disoccupato”, corrivo a immaginare disegni tanto “grandi” quanto irrealizzabili e persino “insani” (formule da lui talvolta stralciate da “informazioni” circolate nelle file dell'antifascismo, in specie tra i comunisti). Bandini sintetizzò il “carattere rosselliano” nel «fare per il fare, il pericolosissimo vizio mentale di prendere decisioni, prima e indipendentemente da una seria valutazione di quadro reale». A suo giudizio Rosselli era e rimase un velleitario, condannato all'emarginazione. Non bastasse, in un passo centrale dell'opera ne stigmatizzò «il dilettantismo un po' chiacchierone […] una dabbenaggine che non ha alcun riscontro nella vita pubblica e privata di nessun altro personaggio della Storia recente […] fu davvero un vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro, sballottato da un mare adirato e da potentissimi venti, spiranti da direzioni che non gli riuscì di capire. Confuse gli amici con i nemici, le ideologie con la realtà, le Nazioni con le Rivoluzioni, e rimase solo e nudo di fronte alle cambiali in incasso».

“Ex ore tuo, te judico”...: l'esclusione di Bandini dal campo
Proprio questa frase fu impugnata dallo storico Arturo Colombo per stroncare “Il cono d’ombra” nel “Corriere della Sera” (domenica 22 aprile 1990). La breve durissima recensione deplorò l'«atteggiamento giustiziere, usato con pesantezza di stile e di contenuto», quasi l'autore «fosse l'unico capace di offrirci chissà quali rivelazioni». Sintetizzata la «tesi, ripetuta con monotonia ossessiva» (il delitto non fu opera dei fascisti ma di emissari di Stalin), secondo Colombo «il libro – pur costruito con la tecnica del giallo – porta solo delle congetture». «Scritto con l'irruenza, la grossolanità, e persino certa volgarità di termini del giornalista-cronista in cerca di effetti e di effettacci» a suo giudizio esso era «inconsistente sul piano storiografico e neppure utilizzabile per una operazione pseudo-anticomunista». Come e dove poteva replicare l'autore? Vennero calate le saracinesche contro di lui e contro chiunque invitasse a leggere e a discutere non solo la sua nuova opera ma anche le precedenti, sempre di ampio successo.
   In “La Nazione” di Firenze il 9 giugno 1990 (anniversario del delitto) Francesco Ghidetti ricordò che l'addebito dell'assassinio ai “rossi” era già stato sostenuto da Luigi Villari, figlio del celebre Pasquale, e che nel luglio 1951 esso aveva generato un'aspra disputa tra Volpe e Gaetano Salvemini. In “Antifascismo sott'accusa? La parola agli storici” Ghidetti citò la valutazione pacata di Zeffiro Ciuffoletti, storico accademico, sull'opera di Bandini. Anche se non produceva “prove definitive”, essa riusciva a «descrivere il contesto dei grandi intrighi internazionali di quegli anni terribili, il che, peraltro, non è poco». Pur senza condividere le conclusioni di Bandini, Ciuffoletti ammonì: «forse è vero che troppo spesso gli storici si sono adattati a interpretazioni troppo semplicistiche, ma di sicuro effetto politico». Dal canto suo, invece, Nicola Tranfaglia obiettò che i comunisti non avevano alcun motivo di assassinare Rosselli mentre «i rapporti tra Pci e Giustizia e Libertà erano ottimi». Secondo lui il libro di Bandini era «un'operazione politica chiarissima: svalutare l'antifascismo e dire che il regime non uccideva»: affermazione, quest'ultima, del tutto assente in “Il cono d’ombra”, che non verte sul “fascismo” ma su quello specifico delitto. Capovolgendo la realtà conclamata dei “fatti”, Tranfaglia dichiarò a Silvia Sereni che negli ultimi mesi di vita Rosselli era diventato «molto critico delle posizioni anarchiche» e si era «reso conto della necessità di un'organizzazione come quella dei comunisti», posizione che lo rendeva «ancor più di prima un nemico pericoloso del regime fascista». Asserì inoltre che in un documento da lui trovato decenni prima all'Archivio Centrale dello Stato la “polizia fascista” elencava i nomi dei combattenti della guerra di Spagna uccisi o fatti uccidere dai fascisti: «Tra quei nomi – affermò – compare quello di Carlo Rosselli».
   Si spinse infine a deplorare che il libro di Bandini fosse stato pubblicato da Sugar.Co, «editore di solide tradizioni democratiche»: una “censura” che andava molto oltre la storiografia e lasciava trasparire una “sorveglianza” sulla libertà di stampa, senza la quale quella di pensiero è quasi zero. Invero, proprio perché tale, la Sugar.Co aveva e avrebbe dato alle stampe una quantità significativa di opere che avevano e avrebbero messo in discussione la leggendaria “unanimità” dell'antifascismo.
   In una lettera rimasta inedita, il 1° marzo 1999 Tranfaglia ribadì a Bandini l'intenzione di pubblicare l'elenco degli esuli “uccisi dai fascisti”: una sorprendente autoaccusa, questa, che neppure i più fessi tra gli assassini avrebbero mai fatto, tanto più se interni ai “servizi” e quindi consapevoli dell'uso di simili “dichiarazioni” non solo da parte di futuri “storici” ma degli avversari e, caso mai, dei magistrati, se, come e quando. Comunque Tranfaglia non mandò mai a Bandini quel per lui famoso documento.

Tecnica dell'“infiltrato”
A differenza delle molte opere precedenti di Bandini, sempre accolte con ampio favore (“Tecnica della sconfitta”, “Gli italiani in Africa”, “Vita e morte segreta di Mussolini”...), quella del 1990 finì… in un cono d'ombra. Contrariamente a quanto molti ritennero, essa non intese dare risposte categoriche ma aprire il dibattito: andare oltre i silenzi di Mussolini, Ciano, Edda, dei “dirimpettai di Mussolini” e degli storici, «per i quali il tema dei rapporti trini ma non perfetti tra le dittature mussoliniana, nazista e comunista è materia di indagine soltanto nei riguardi delle prime due: quasi che sulla carta geografica della morale politica contemporanea si leggesse ancora scritto, dal 1917 in poi, nell'area vergine della Soviezia quel “hic sunt leones” che per gli avi romani chiudeva ogni curiosità di ricerca».
   In “Il cono d’ombra” Bandini lasciò cadere tanti sassolini per tracciare la strada di future ricerche proprie e altrui, anche con la speranza che si aprissero archivi e a qualcuno tornasse la memoria. Però, contrariamente a quanto si attendeva, quelle e altre suggestioni non sono state coltivate affatto. Lo si rilevò già nel convegno di Firenze dedicato alla sua opera a fine novembre 2006, con interventi di Gianni Bonini, Aldo G. Ricci, Marcello Veneziani, Luciano Garibaldi, Leonardo Tozzi, Enrico Cernuschi, Fabio Andriola e altri, concordi nel ricordare che egli era rimasto vittima della “damnatio memoriae” da parte della “sinistra”, ma era stato emarginato anche da larga parte del centro-destra. Con “Il delitto Rosselli. 9 giugno 1937. Anatomia di un omicidio politico” di Mimmo Franzinelli (Mondadori, 2007) l'anno seguente tornò in auge la versione pre-bandiniana, anche se emendata dall'insostenibile idillio tra “G.L.” e comunisti. Franzinelli, anzi, stigmatizzò l'“appropriazione” strumentale della figura di Carlo Rosselli da parte del Pci.
   Il paradosso è che il libro di Bandini uscì proprio mentre la caduta del muro di Berlino, la riunificazione della Germania e la dissoluzione del regime sovietico si ripercuotevano sul quadro politico interno e avrebbero dovuto spalancare porte e finestre a voci nuove, a una rilettura generale della storia. Invece, non rimase in alcun modo scalfita l'egemonia della “sinistra” basata sull’“unanimità dell'antifascismo”, garante della superiorità del “comunismo” e dei suoi eredi politico-culturali.
   Motivo in più per tornare a leggere le opere di Luciano Garibaldi, di un autore anticonformista come Bandini e di loro rari emuli.
Aldo A. Mola


DIDASCALIA: La copertina di “Il cono d'ombra. Chi armò la mano degli assassini dei fratelli Rosselli” (1990, mai ristampato) che costò a Bandini l'ostracismo politico, forte del pregiudizio accademico nei confronti dei “giornalisti-cronisti” che si ergano a storici. Abusivi... A Bandini il mensile “Storia in Rete” diretto da Fabio Andriola dedicò un numero speciale, con ampia raccolta di suoi scritti.


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