Proposte Associazione di Studi Storici Giovanni Giolitti-Associazione Studi Storici Giovanni Giolitti
Per
ultima viene la storia militare?
Il Premio speciale Antonio
Semeria del Casinò di Sanremo 2024 per la
saggistica storica è conferito al Generale di
Corpo d'Armata Oreste Bovio. La decisione
della Giuria merita il plauso per molti
motivi. In primo luogo richiama l'attenzione
sulla storia delle Forze Armate mentre ferve
il dibattito sul loro ruolo presente e futuro
sia in e per l'Italia, sia nell'ambito delle
alleanze difensive, a cominciare dalla NATO,
che ne hanno assicurato e ne garantiscono la
sicurezza, e sia, infine, nella prospettiva
per anni vigorosamente indicata, fra altri,
dal sempre rimpianto generale Claudio Graziano
(“sacerdote di Marte”, lo direbbe il gen.
Bovio), già comandante della Brigata
multinazionale a Kabul, Force Commander e capo
della Missione Unifil in Libano, Capo di Stato
maggiore dell'Esercito e della Difesa e
presidente del Comitato militare dell'Unione
Europea. Del futuro delle Forze Armate il
generale Graziano scrisse con Marco Valerio Lo
Prete in “Missione. Dalla Guerra fredda alla
Difesa europea” (ed. Luiss). Vi additò il
percorso già immaginato da Altiero Spinelli,
tra i grandi profeti di un'Europa «che sia in
grado di parlare con una voce singola,
autorevole, credibile». Parole sagge. Mai come
oggi se ne avverte l'urgenza, mentre guerre da
tempo aperte in molti continenti rimangono
senza soluzioni e la competizione di “cartelli
partitici” rischiano di impantanare per
tenzoni irrilevanti le poche certezze
faticosamente promesse dalla recente elezione
diretta del Parlamento europeo, che sembrava
dovesse esprimere la sovranità dei cittadini,
spesso invece raggirati.
Del pari si avverte la necessità
di collocare la riflessione sull'Italia
odierna e ventura nell'ambito del lungo
processo che tra fine Settecento e metà
Ottocento condusse dall'annuncio del
Risorgimento alla costruzione del Regno
d'Italia proclamato dal Parlamento il 14 marzo
1861: nelle uniche dimensioni territoriali
possibili, dopo due guerre contro la
preponderanza dell'Impero d'Austria
sull'Italia. Il suo centenario, celebrato con
iniziative culturali di vasto respiro e di
ampio successo, quali la Mostra a Palazzo
Carignano in Torino, visitata da scolaresche
giuntevi da tutta Italia, ebbe suggello nella
“Storia militare del Risorgimento” di Piero
Pieri, ristampata nel 2010 con beneaugurante
premessa del sottosegretario alla Difesa,
Giuseppe Cossiga, in vista dell'imminente 150°
dell'unità nazionale.
Studioso insigne, Pieri ricostruì
passo passo la via verso l'unità d'Italia: gli
ideali patriottici che avevano animato società
segrete, incluse logge massoniche,
cospirazioni, moti, insurrezioni, imprese
impavide ma destinate alla sconfitta (dai
fratelli Bandiera a Pisacane) avevano infine
preso nel regno di Sardegna, forte degli
strumenti precipui dello Stato: la diplomazia
e la spada. Le trame diplomatiche intessute da
Camillo Cavour e dai suoi stretti
collaboratori erano state perlustrate da
storici autorevoli molti decenni prima
dell’opera di Piero Pieri. Meno indagata era
rimasta, invece, la macchina militare che
aveva consentito al “Piemonte” di Vittorio
Emanuele II di uscire dai confini geografici
dell'Italia e di proporsi quale compartecipe
dei nuovi assetti dettati dal Quarantotto,
dalla seconda impetuosa industrializzazione
(ferrovie e trafori, telegrafia e navigazione
a vapore e, aggiungiamo, riviste e quotidiani
a prezzi popolari) e dalle prospettive
spalancate dall'apertura del Canale di Suez:
impresa ciclopica che condizionò non solo i
commerci ma anche l'espansione coloniale,
divenuta spasmodica e affollata da Stati (fu
il caso dell'Italia) che, rinunciato alla via
dell'Atlantico, senza Suez non avrebbe mai
potuto imboccare imboccato quella del Mar
Rosso, verso l'agognato Oceano Indiano.
Il sessantottismo, l'eclissi dello Stato e
la salvifica riscoperta di Giuseppe
Garibaldi
Il lungo “Sessantotto”, durato
dal primo governo presieduto da Mariano Rumor
al quinto ministero di Giulio Andreotti, fu
segnato da agitazioni, proteste, scontri di
piazza ed efferati delitti politici che
disorientarono l'opinione pubblica avvilita
dall'inflazione e dalle ripercussioni della
crisi dell'istruzione, in ogni ordine e grado,
con ripercussioni sulle Università,
sull'orientamento degli studi e, scendendo per
li rami, nel dibattito quotidiano. Taluni
“intellettuali”, titolari di laute prebende
pubbliche, si proclamarono “né con le
BR, né con lo Stato”. Mentre fioriva una
manualistica di orientamento
antimilitaristico, veniva rivendicato
l'avvento del “Proletariato senza rivoluzione”
e si prometteva di rispondere al “potere” (o,
come si diceva, al “sistema”) “mai più senza
fucile”, come scrisse minacciosamente un ex
comandante partigiano del Cuneese.. Il
Risorgimento e l'età postunitaria, inclusa
quella giolittiana, divennero bersaglio di
critiche pregiudiziali e faziose. La svolta
venne nel quinquennio corso dal primo governo
presieduto da Francesco Cossiga all'avvento di
Bettino Craxi: quegli esecutivi contarono a
lungo sui democristiani Emilio Colombo agli
Esteri e Virginio Rognoni all'Interno e sul
socialista Lelio Lagorio alla Difesa.
Punto di
convergenza per la ripresa della memoria
storica fu, nel 1982, il ritorno a una figura
centrale del Risorgimento: Giuseppe Garibaldi.
Nel centenario della morte, l'Eroe dei due
mondi venne proposto quale perno dell'unità
nazionale. Era il Generale della libertà.
Popolano, ispirato dai socialisti utopisti
francesi ancor prima che da Giuseppe Mazzini
(ne scrisse Romano Ugolini, curatore de suo
Epistolario, finalmente avviato alla
conclusione), cospiratore, forzatamente esule,
generale dell'Armata sarda di Vittorio
Emanuele II nel 1859, pacifista ma
all'occorrenza corsaro, guerriero,
condottiero, deputato alla Camera dal 1848
alla morte, sognatore e pragmatico, Garibaldi
era la figura capace di rilanciare l'idea di
un'Italia aperta all'Europa e ai popoli d'ogni
continente. Egli era stato anche massone, anzi
il “primo massone d’Italia”: ciò bastava per
mettere tra parentesi le polemiche all'epoca
imperversanti su una loggia assai discussa e a
far riscoprire l'Italia “laica”, con venature
anticlericali ma al tempo stesso imbevuta di
“cristianesimo delle origini”. In quel 1982 il
ministro Lagorio, che scrisse la prefazione al
volume “Garibaldi vivo” (ed. Mazzotta), ebbe
nel colonnello Oreste Bovio, capo dell'Ufficio
Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito, il
collaboratore più fattivo. Su suo impulso fu
organizzato il sontuoso convegno
internazionale aperto a Villa Barberini, in
Roma, e concluso a Caprera, ove, sotto il sole
cocente, parlò il presidente del Consiglio,
Giovanni Spadolini, in nobile gara con Craxi
nella raccolta di cimeli garibaldini.
Sull'onda di quel successo, il
colonnello Bovio varò il comitato “Forze
Armate e Guerra di Liberazione” che nel
1983-1985 celebrò i convegni internazionali di
Milano (sull'Otto settembre e sulla
Cobelligeranza italiana nella lotta di
Liberazione dell'Europa), Firenze (“L'immagine
delle Forze Armate nella scuola italiana” che,
nel 1984, ebbe per insegna “Forza Italia”) e
Torino L Forze Armate dalla Liberazione
all'adesione dell'Italia alla Nato). Merito
del colonnello Bovio, imitato dal suo
successore, Pier Luigi Bertinaria, fu di
stringere a coorte storici in divisa e senza
divisa, accomunati nella ricerca e impegnati a
confrontarsi documenti alla mano. Tra i molti
spiccò il giurista Paolo Ungari.
Bovio, innovatore della storiografia
militare
Nato a Vercelli nel 1932, Bovio
frequentò a Napoli la Scuola Militare
“Nunziatella”, l'Accademia di Modena, la
Scuola di Applicazione di Torino, la Scuola di
Guerra e prestò servizio negli uffici dello
Stato Maggiore dell'Esercito (Ordinamento e
Regolamenti). Autore di saggi in riviste
specializzate e relatore in convegni in Italia
e all'estero, agli impegni di istituto sin da
giovane Bovio ha accompagnato studi su campi
prima quasi inesplorati, proponendone i frutti
in volumi corredati da ricco apparato
iconografico e accolti con largo favore, quali
“Le Bandiere dell'Esercito” (1982) e
“L'araldica militare” (1984).
Il Premio Antonio Semeria
conferitogli dal Casinò di Sanremo va dunque
alle sue opere personali ma anche alla sua
straordinaria capacità di organizzatore degli
studi. Su suo impulso, infatti, l'Ufficio
Storico dello SME moltiplicò le collane e curò
volumi di prestigio, studiati all'estero forse
più che in Italia. Nel 1987 pubblicò il saggio
“L'Ufficio Storico dell'Esercito”. La
presentazione del libro corresse
l'affermazione di Piero Pieri, secondo il
quale la storiografia militare era stata a
lungo languente, sicché sarebbe spettato alle
nuove generazioni non lasciar appassire i
primi cenni di rifioritura. In realtà, come
documenta Bovio attraverso i profili di quanti
dall'Ottocento si susseguirono alla guida
dell'Ufficio Storico, i militari avevano
prodotto una mole ingente di opere, che però
erano rimasti ai margini della storiografia
cosiddetta accademica. Occorreva pertanto
avvicinare i “profani” alle opere pubblicate
dai militari e al tempo stesso infondere in
questi ultimi la percezione della storia
militare come contributo alla “formazione
morale dei futuri comandanti”. Bisognava
chiamare a raccolta “chierici e laici”, ovvero
tutti i cultori di storia militare, sia
ufficiali sia “professori”, anche senza
cattedre ma attivi nella ricerca.
Lasciata Roma per incarichi sulla
frontiera orientale, da comandante di
battaglione a comandante di brigata, Bovio
andò infine in congedo col grado di generale
in ausiliaria. Cessato dal servizio ma non
dagli studi, egli ha continuato a indossare le
stellette peregrinando tra biblioteche,
archivi, convegni e sale affollate dai suoi
discepoli.
In “Sacerdoti di Marte” nel 1993
Bovio raccolse i profili di grandi condottieri
(Raimondo Montecuccoli, il Principe Eugenio di
Savoia e Giuseppe Garibaldi), ottimi
professionisti (generali insigni, molti dei
quali ministri della Guerra: Manfredo Fanti,
lo sfortunato Giuseppe Govone, Enrico Cosenz),
e presidenti del Consiglio (come Luigi
Pelloux: lo erano già stati i generali Alfonso
La Marmora e Luigi Menabrea, ingegere di vasta
preparazione) e “validi ausiliari”. Tra questi
ultimi ricordò Edmondo De Amicis (dei cui
scritti militari curò una edizione), il
pittore Quinto Cenni, il cappellano militare
Reginaldo Giuliani, lo storico Alberto Maria
Ghisalberti e lo scrittore-memorialista Paolo
Caccia Dominioni.
Lo stesso anno di “Due secoli di
Tricolore” (uscito nel bicentenario del
tricolore di Reggio Emilia), Bovio pubblicò il
suo Opus Magnum: la “Storia dell'Esercito
Italiano, 1861-1990”, successivamente
aggiornata sino al 2000. Opera di riferimento
per qualsiasi studio sulla vita politica,
economica, sociale e culturale dell'Italia
dopo l’unità, la sua Storia ha il pregio di
fondere le vicende dello “strumento militare”
con quelle della società in ogni suo aspetto.
Sin dai Congressi degli Scienziati Italiani
degli Anni Quaranta dell'Ottocento e poi negli
studi statistici, negli “Annuari” e nelle
Opere giubilari di maggior respiro era balzata
evidente la connessione tra le scienze
“esatte” (matematica, fisica, chimica...) e
quelle “morali”. D'altronde, va rimarcato, i
militari di spicco erano anche architetti,
ingegneri, scienziati temprati in lunghe
missioni all'estero: personalità del tutto
diverse dal “ritratto” che degli uomini in
divisa dava certa narrazione polemica,
travasata nei film alla cui proiezione in ore
di lezione venivano condotte scolaresche
disposte sempre a tutto pur di non stare nelle
aule.
In un libro di più ridotte
dimensioni (“In alto la bandiera. Storia del
Regio Esercito”, Foggia, Bastogi, 1999),
pubblicato con la presentazione del generale
Bonifazio Incisa di Camerana, suo sodale in un
cenacolo di cultori delle discipline storiche,
un quarto di secolo addietro Bovio avviò alla
lettura con parole di singolare attualità:
«Con la fine della guerra fredda, determinata
dal collasso dell'impero sovietico, lo
scenario internazionale è profondamente
mutato. All’“ordine di Yalta” è subentrato il
disordine delle nazioni. Il rischio di
distruzione totale aveva posto l'Occidente al
riparo della violenza delle armi, ora il mondo
intero è sotto l'incubo di molte piccole
guerre, provocate dall'instabilità
politico-strategica di molti Stati a causa del
contemporaneo sorgere di rivendicazioni
identitarie, localistiche e secessionistiche.
L'Occidente non ha ancora elaborato un metodo
sicuro per affrontare la nuova conflittualità;
i meccanismi di sicurezza e di difesa
collettiva, faticosamente creati durante il
lungo periodo della guerra fredda, si sono
dimostrati incapaci di contrastare situazioni
mutevoli e complesse.» Oggi il quadro
lumeggiato da Bovio nel 1999 non è affatto
mutato: anzi, è peggiorato. La mancanza di
certezze diviene angoscia e spinge a
rifugiarsi in un vacuo “presente”, vissuto
giorno per giorno, attimo per attimo. Un
precipizio dal quale ci si può tener lontani
solo con la leopardiana contemplazione della
storia.
La moralità della meditazione storiografica
Nel tempo il generale Bovio,
riconosciuto decano degli storici militari, ha
continuato a produrre saggi, libri e volumi,
anche su istituzioni che gli sono care per
memoria di famiglia. È il caso dei saggi
raccolti in “Dal Piemonte all'Italia. Tre
secoli di storia militare” (BastogiLibri,
2016), del volume “Quando il Piave mormorava”,
di “Soldati e politici dal Risorgimento alla
Repubblica” e, infine, di “Pagine di storia”
(ed. Roberto Chiaramonte, 2023). In
quest’ultimo volume l’Autore ripropone passi
esemplari su “La milizia paesana nel Ducato di
Savoia e nel Regno di Sardegna” e nella nota
bibliografica finale addita a modello i cinque
volumi di Virgilio Ilari sulla storia del
servizio militare in Italia (ed. Centro
militare di studi strategici), i quattro tomi
di Mario Montanari su “Politica e strategia in
cento anni di guerre italiane” (US-SME) e i
tre volumi di “Storia della dottrina e degli
ordinamenti dell'Esercito Italiano” di Filippo
Stefani: opere corpose ed esemplari, come le
sue.
Il titolo dell'ultima raccolta
del generale Bovio, “Pagine di storia”, senza
l'aggettivo “militare”, invece presente
direttamente o indirettamente nelle sue opere
precedenti, ha una motivazione profonda. Vi
sono “fatti” propriamente militari, figure di
comandanti e battaglie che hanno impresso
svolte storiche profonde. Non sono solo
“fatti d'arme”, ma “politici” e di civiltà.
Per essere compresi in tutta la loro portata
chiedono pertanto conoscenze che vanno al di
là della cognizione tecnica specifica degli
studi militari e richiedono la percezione di
quello che Riccardo Bacchelli definì “il
flusso della storia”: la visione di lungo
periodo e la comprensione della vastità dei
“problemi” che si addensano in ogni singolo
momento della storia. L'“avvenimento” è un
istante della “lunga durata”, di un processo
dalle componenti molteplici e talora
insondabili: somma di volontà e fatalità. È
quanto rende affascinante e appagante lo
studio della storia. Mentre com-patisce, esso
conforta in vista del distacco. Concilia
solitudine e partecipazione al cammino lungo i
secoli e infonde il senso della disciplina,
della responsabilità, del fare la parte che si
sente propria nel tempo che ci è dato. Questa
è la lezione impartita dal generale Oreste
Bovio attraverso le decine di opere che
vagheggiò sin dagli anni trascorsi nel Rosso
Maniero della Nunziatella e continua a
proporci con infaticabile lena.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Le Bandiere dell'Esercito
di Oreste Bovio.
La consegna del Premio Antonio Semeria
al Generale Bovio ha luogo al Casinò di
Sanremo alle ore 16 di sabato 23 novembre
2024: una cerimonia orchestrata dalla
dottoressa Marzia Taruffi (Ufficio Cultura
del Casinò) e dal conduttore e scrittore
Mauro Mazza. Una giuria di “lettori”
presenti nel Teatro del Casinò saranno
chiamati a scegliere il vincitore fra le tre
opere finaliste selezionate dalla giuria
della sezione scientifica: “Mussolini e
l'Oriente” di Enrica Garzilli, “La marcia
turca. Istanbul crocevia del mondo” di Marco
Ansaldo e “Putistan. Come la Russia è
diventata uno stato canaglia” di Giorgio
Fornoni: autori che sintetizzeranno in
pubblico le loro opere.
L'ambìto “Premio Semeria alla
carriera 2024” viene conferito al magistrato
Gian Carlo Caselli.
Il re e i suoi ministri: Cavour, Casati, Rattazzi...
Da quel momento Vittorio Emanuele II si trovò più alto e più solo.
Le aperture “a sinistra” e il ricordo di
Isacco Artom
Mantenne la parola e suo figlio Umberto I proclamò Roma “conquista intangibile”.
Per cementare l'unità nazionale: le
“nobilitazioni”
La salma del re. Al Pantheon o al
Campidoglio?
DIDASCALIA: La Città di Roma accoglie
Vittorio Emanuele II il 27 novembre 1871 per
l'inaugurazione della sessione parlamentare.
La Città Eterna è raffigurata
come matrona, con stola di ermellino, veste
rossa e mantello azzurro: i colori
solitamente usati per la Madonna. A capo
scoperto e il petto onusto di placche e
medaglie il Re fa il segno di
giuramento-riconoscimento tipicamente
massonico.
Taluno vorrebbe giustapporre i poteri del presidente del Consiglio dei ministri a quelli che la Costituzione conferisce al Capo dello Stato. Nel 150° della nascita di Luigi Einaudi (Carrù, 24 marzo 1874 - Roma, 30 ottobre 1961) ricordiamo il suo esempio di primo Presidente effettivo della Repubblica italiana: monarchico, liberale ed europeista.
Il 12 maggio 2018 il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, rievocò Luigi Einaudi nel 70° del suo insediamento alla Presidenza della Repubblica italiana. Guidato dal nipote Roberto, architetto, ne visitò la tomba nel cimitero di Carrù (Cuneo) e la villa in Dogliani, dalla celebre biblioteca. Nella sala del consiglio municipale ricordò che a lui, liberale, e al democristiano Alcide De Gasperi toccò «il compito di definire la grammatica della democrazia italiana appena nata».
Accolta in spirito di servizio la proposta di elezione alla suprema carica dello Stato, recatagli da Giulio Andreotti su incarico di De Gasperi (in alternativa al divisivo Carlo Sforza e in contrapposizione a Vittorio Emanuele Orlando, sostenuto dalle sinistre), pur privilegiando l'esercizio della “moral suasion” anche con lettere private, Einaudi unì discrezione e fermezza nella rivendicazione delle prerogative di Presidente, «a partire dall'esercizio del potere previsto dall'art.87 della Costituzione, che regola la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa governativa». Rinviò al Parlamento due leggi «perché comportavano aumenti di spesa senza copertura finanziaria, in violazione dell'art. 81 della Costituzione». Erano somme modeste, ma contava il principio.
Dopo le elezioni del 1953, Einaudi rifiutò il successore di De Gasperi indicatogli dalla Democrazia Cristiana, all'epoca partito di maggioranza, e nominò Giuseppe Pella, già apprezzato ministro del Tesoro, che guidò un governo tripartito (DC, repubblicani e socialdemocratici), con Mario Scelba all'Interno. A futura memoria, il 12 gennaio 1954 Einaudi lesse ad Aldo Moro e a Stanislao Ceschi, presidenti dei gruppi parlamentari democristiani, la “nota verbale” sulla corretta interpretazione dell'art. 92 della Carta («Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio»), motivata dal «dovere del Presidente della Repubblica di evitare si pongano precedenti grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore, immuni da ogni incrinatura, le facoltà che la Costituzione gli attribuisce». È un dovere anche oggi incombente.
Strenuo avversario dell'“assemblearismo” («il governo di assemblea vuol dire tirannia del gruppo di maggioranza») e del “mandato imperativo” (escluso dall'art. 67 della Costituzione), da senatore del Regno osteggiò la legislazione liberticida: come nel 1928, quando fu conferita al Gran consiglio del fascismo la compilazione della lista dei deputati alla Camera, e nel 1938, quando respinse le leggi razziali. Fu «un patriota – disse Mattarella – consapevole di contribuire, con la sua testimonianza, lui, di orientamento monarchico, al consolidamento della Repubblica democratica».
Un passo dell'intervento presidenziale rimarrà memorabile perché, attraverso le parole di Einaudi Sergio Mattarella ha fatto intendere la propria missione. Riferendosi all'azione di Vittorio Emanuele III per portare l'Italia al di fuori della catastrofe nell'estate 1943, Einaudi osservò che la prerogativa sovrana «può e deve rimanere dormiente per lunghi decenni e risvegliarsi nei rarissimi momenti nei quali la voce unanime, anche se tacita, del popolo gli chiede di farsi innanzi a risolvere una situazione che gli eletti del popolo da sé non sono capaci di affrontare o per stabilire l'osservanza della legge fondamentale, violata nella sostanza anche se ossequiata nell’apparenza». Nell'ora decisiva, il 25 luglio 1943, il Re esercitò i poteri statutari revocando Benito Mussolini da capo del governo. Fu l'inizio del nuovo corso storico.
Un profilo dello Statista
Luigi Einaudi fu eletto presidente effettivo della Repubblica italiana al quarto scrutinio l'11 maggio 1948, con 518 suffragi su 871 votanti. Liberale, monarchico e piemontese, prevalse sul siciliano Vittorio Emanuele Orlando, parimenti liberale, monarchico, “presidente della Vittoria”.
Einaudi non aveva studiato da capo dello Stato. Aveva studiato. Perso a dodici anni il padre, crebbe in casa dello zio, Francesco Fracchia, notaio a Dogliani. Allievo dei Padri Scolopi a Savona, fu cattolico praticante, ma senza ostentazione e rispettoso di altre confessioni. Per capirne le radici bisogna visitarne le terre d’origine, le stesse di Giovanni Giolitti e di Marcello Soleri. Il suo mondo era ispirato dai principi all’epoca comuni non solo alla classe dirigente ma a tutte le persone perbene, anche umili genere natae. I loro motti erano “aiuta te stesso” e “volere è potere”, divulgati dal naturalista Michele Lessona.
Laureato in giurisprudenza a Torino appena ventenne, dopo un impiego alla Cassa di Risparmio di Torino dal 1896 Einaudi collaborò al quotidiano “La Stampa”. Professore all’Istituto Tecnico “Franco Andrea Bonelli” di Cuneo e al “Germano Sommeiller” di Torino, divenne il maggiore economista liberale del Novecento. Autore di opere prestigiose (Un principe mercante. Studi sull'espansione coloniale italiana e saggi sulla finanza nello Stato sabaudo e sulle imposte), scrisse nella “Critica sociale” di Filippo Turati e di Claudio Treves e nella “Riforma sociale” diretta a Torino da Salvatore Cognetti de' Martiis. Collaboratore dal 1903 del quotidiano“Corriere della Sera” diretto da Luigi Albertini e dal 1922 dell'“Economist”, Einaudi polemizzò aspramente contro i “trivellatori dello Stato” e rimproverò a Giolitti di utilizzare il potere per mediare tra le parti sociali e garantire una costosa “stabilità di governo” a vantaggio di troppi “clienti” e di opportunisti. Docente di scienza delle finanze a Pisa nel 1902, lo stesso anno fu chiamato dall'Università di Torino, ove poi ebbe cattedra ad vitam.
Credeva nella “bellezza della lotta”, cui intitolò un saggio nel 1923. Interventista nel 1914-1915, il 6 ottobre 1919 fu nominato senatore da Vittorio Emanuele III su proposta del presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti. Rievocò le sue esperienze alla Camera Alta in un saggio del 1956 pubblicato nella “Nuova Antologia”. Nel 1922 appoggiò il governo di coalizione nazionale presieduto da Benito Mussolini, che ventilò il proposito di averlo ministro delle Finanze affinché potesse attuare i suoi insegnamenti: ridurre drasticamente la spesa pubblica “clientelare”, ripristinare il prestigio dello Stato, assicurare i servizi, azzerare mafie, camorre e tagliare le unghie agli opposti corporativismi (imprenditori “pescicani” e sindacati parassitari). Al fervore scientifico unì la passione civile per le libertà. Già direttore delI'Istituto di Economia “Ettore Bocconi” di Milano, pubblicò una raccolta di saggi per il giovane editore torinese Piero Gobetti, vittima del regime. All'indomani della morte del deputato socialista Giacomo Matteotti (10 giugno 1924), aggredito da una squadraccia fascista, Einaudi deplorò pubblicamente “il silenzio degli industriali”.
Le sue opere erano note ormai anche oltre Atlantico. Come Giovanni Agnelli e Attilio Cabiati, nel 1918 egli aveva giustapposto al sogno della Società delle Nazioni la più realistica e urgente Federazione europea per scongiurare che dal collasso degli imperi nascessero devastanti nazionalismi. Da altro versante ne scrisse in Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello di liberalismo, in controcanto con Benedetto Croce. Sarebbe però errato ritenere che Einaudi fosse un “liberista assoluto”. Tra le sue massime spicca «l’uomo libero vuole che lo Stato intervenga». Il suo era “liberalismo senza aggettivi”. Come ha ricordato Tito Lucrezio Rizzo nel suo profilo biografico, Einaudi ammonì: «la scienza economica è subordinata alla legge morale».
Di vasto respiro e profondità documentaria e critica spiccano due sue opere degli Anni Trenta: La condotta economica e gli effetti sociali della guerra (1933) e Teoria della moneta immaginaria nel tempo da Carlomagno alla rivoluzione francese (1936). Dopo l'arresto e la breve detenzione dei figli Giulio e Roberto (il terzo, Mario, era migrato negli Stati Uniti d'America) e la forzata chiusura della “Riforma sociale”, Einaudi fondò la dotta “Rivista di storia economica”, pubblicata dalla casa editrice di suo figlio Giulio e protratta sino al 1943. Nel 1938 fu tra i dieci senatori che votarono contro la legge “per la difesa della razza italiana”. Avversò l'antisemitismo e l'incipiente vassallaggio ideologico-diplomatico-militare di Mussolini nei confronti della Germania di Adolf Hitler. Tenuto, come tutti i pubblici dipendenti, a dichiarare la propria “stirpe” rispose che la sua gente era da sempre “ligure”, con apporti di altre genti nel corso del tempo.
Dopo molte edizioni dei fondamentali Principii di scienza della finanza, condensò decenni di studi in Miti e paradossi della giustizia tributaria (1938). Come ha scritto Ruggiero Romano, fu «il più grande demitizzatore» italiano del Novecento, non solo su teorie e pregiudizi economicistici, ma anche nella vita sociale: abolizione di maiuscole, titoli vanesi e formalismi pomposi ostentati per celare il vuoto.
La Ricostruzione
Al crollo del regime mussoliniano (25 luglio 1943) Einaudi fu nominato rettore dell'Università di Torino, mentre Filippo Burzio assunse la direzione della “Stampa”. Con la proclamazione della resa senza condizioni (8 settembre 1943), quando l'Italia rimase “divisa in due” (formula di Croce), appreso di essere ricercato riparò in Svizzera. Vi collaborò a “L'Italia e il Secondo Risorgimento” (Lugano) e pubblicò, tra altro, I problemi economici della Federazione europea. Chiamato a Roma dagli Alleati e dal governo presieduto da Ivanoe Bonomi, d'intesa con il ministro del Tesoro Marcello Soleri, il 4 gennaio 1945 fu nominato governatore della Banca d'Italia in successione a Vincenzo Azzolini, arrestato per presunta collusione con gli occupanti germanici in danno della Banca stessa. Quale direttore generale volle Donato Menichella, che non conosceva di persona ma la cui formidabile competenza sulle relazioni tra banca e industria molto apprezzava. Lo attese un compito immane. Aveva pubblicato Lineamenti di una politica economica liberale. Il governo era sotto tutela della Commissione Alleata di Controllo. L'amministrazione locale era a sua volta subordinata ai governatori militari. L'Italia meridionale era inondata dalle “Am-Lire”. La moneta circolante era quasi venti volte superiore a quella d'anteguerra. L'inflazione galoppava. Il prodotto interno in molte regioni era dimezzato. In tante plaghe la popolazione era alla fame. I sei partiti rappresentati nel Comitato Centrale di Liberazione Nazionale e nel consiglio dei ministri erano divisi, nell'immediato e nelle prospettive ultime. Il capo del governo, Pietro Badoglio, aveva sciolto la Camera dei fasci e delle corporazioni, paralizzando il Parlamento, bicamerale; l'alto commissario per l'epurazione aveva privato quasi tutti i senatori del rango e dei diritti politici e civili. Il governatore della Banca d'Italia dovette quindi valersi di cariche e di poteri ulteriori per risalire la china.
Nominato membro della Consulta Nazionale che preparò la Costituente, Einaudi fu eletto alla Assemblea Costituente (2-3 giugno 1946) tra i deputati del Partito liberale italiano. Nel 1947, dopo il viaggio negli Stati Uniti d'America, De Gasperi lo volle vicepresidente del Consiglio e ministro del Bilancio. Con apposito decreto fu confermato governatore della Banca d'Italia e poté tessere la tela quotidiana della Ricostruzione. Consapevole delle drammatiche difficoltà nelle quali versava il Paese, anziché vagheggiare progetti tanto vasti quanto inattuabili, puntò realisticamente a interventi “a pezzi e bocconi”, come narrato da Antonio d'Aroma, suo fido segretario particolare. Doveva ristrutturare un edificio occupato da persone che non potevano esserne allontanate: la burocrazia. Per attuare il risanamento monetario a suo avviso non esistevano “mezzi taumaturgici”. Lasciò che il tempo facesse tramontare propositi irrealistici, quali il “cambio della lira”, che avrebbe provocato la fuga dei pochi capitali disponibili e scoraggiato investimenti dall'estero. In un paio d'anni le speculazioni si esaurirono e l'inflazione si ridusse a indici accettabili, con la ripresa della produzione e del mercato, favorita dai giganteschi prestiti americani senza oneri (Piano Marshall).
Contrario a imposte straordinarie e contrarissimo a tasse patrimoniali che avrebbero colpito media e piccola proprietà, mirò alla riesumazione della classe media, della scuola (pubblica o privata, purché seria) e alla valorizzazione di quanti servivano lo Stato con dedizione . Monarchico libero da feticismi, poté presto salutare il plebiscito del “quarto partito”: i risparmiatori, spina dorsale della Nuova Italia.
Alla Costituente pronunciò discorsi appassionati e taglienti. Componente della Commissione dei Settantacinque che, presieduta da Meuccio Ruini, redasse la bozza della Carta, ottenne l'approvazione dell'articolo 81, che recita: «Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. Ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte.»
L'eredità di un Capo dello Stato europeista
Nominato membro di diritto del Senato della Repubblica (22 aprile), all'indomani delle elezioni, prese parte all'inaugurazione della prima legislatura, chiamata a eleggere il Capo dello Stato. Alle 6 del mattino dell’11 maggio 1948 Giulio Andreotti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, andò a informarlo che al quarto scrutinio De Gasperi lo avrebbe fatto votare presidente della Repubblica per superare lo stallo sul nome di Carlo Sforza, già tre volte invano sostenuto dalla Democrazia cristiana. Il settantaduenne statista non gli ricordò di aver votato monarchia; lo aveva fatto anche Andreotti. Osservò invece che, claudicante e minuto qual era, avrebbe dovuto sfilare dinnanzi ai corazzieri. Fu eletto e nessuno trovò alcunché da obiettare. I corazzieri non avevano dimenticato Vittorio Emanuele III: poco marziale, ma “Re Soldato”.
Capo dello Stato, Einaudi lasciò memoria del suo operoso settennato in Lo scrittoio del Presidente e in Prediche inutili. Improntò l'esercizio del ruolo a discrezione e continuità. Istituì il Segretariato Generale, nel solco del Ministero della Real Casa e all'insegna dell’austerità. All'inizio del 1945 aveva tracciato le linee del liberalismo: «Quando al figlio del povero saranno offerte le medesime opportunità di studio e di educazione che sono possedute dal figlio del ricco; quando i figli del ricco saranno costretti dall'imposta a lavorare, se vorranno conservare la fortuna ereditata; quando siano soppressi i guadagni privilegiati derivanti da monopolio, e siano serbati e onorati i redditi ottenuti in libera concorrenza con la gente nuova, e la gente nuova sia tratta anche dalle file degli operai e dei contadini, oltre che dal medio ceto; quando il medio ceto comprenda la più parte degli uomini viventi, noi non avremo una società di uguali, no, che sarebbe una società di morti, ma avremo una società di uomini liberi.»
Qual è l'eredità di Einaudi? Quando sentiva (talora da persone “vicine”) vagheggiare di ideologie “sovietiche” neppure rispondeva: batteva il bastone per terra per dire che era impossibile dialogare. Anch'egli auspicò riforme mai attuate ma sempre attuali, a cominciare dall'abolizione del valore legale dei titoli di studio.
Cultore profondo del “senso dello stato” che, spiegò Benedetto Croce, ministro dell’Istruzione nel V governo presieduto da Giolitti (1920-1921), non è solo “liberismo”, è “liberalismo”, Einaudi ne indicò i fondamenti nella tradizione civile sorta dalla cultura classica e dall'illuminismo, alla cui riscoperta critica si dedicarono egli stesso, bibliofilo appassionato, e Franco Venturi. Da presidente dell’Associazione dei piemontesi a Roma nel 1961 promosse i due poderosi volumi della Storia del Piemonte (ed. Casanova). Alla rievocazione del passato quale alimento irrinunciabile per la costruzione della Nuova Europa dedicò saggi memorabili, quali Andiamo in Piemonte! (pubblicato nel 1949 da “Il Ponte”, diretto da Piero Calamandrei) e Piccolo mondo antico, affidato a “Nuova Antologia”, la rivista che lo ebbe collaboratore sin dal 1900 e nella quale raccolse le finissime riflessioni Di alcune usanze non protocollari attinenti alla Presidenza della Repubblica (agosto 1956).
Quali pionieri e numi tutelari del federalismo europeo vengono solitamente citati Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer e Robert Schuman, autore del piano che dette vita alla Comunità europea del carbone dell'acciaio. Tra i profeti e artefici della Nuova Europa, ancora lontanissima da una vera unità d'intenti, va però posto e ricordato in primo luogo proprio Luigi Einaudi, capace di conciliare concretezza e profezia, sulla base dello studio storico, della scienza della finanze e dell'economia politica, senza la quale la politica economica è vaniloquio.
DIDASCALIA: Luigi Einaudi. Su di lui si vedano Riccardo Faucci, Einaudi, Torino, Utet, 1986; Francesco Forte-Paolo Silvestri, “Einaudi”, in Dizionario del Liberalismo Italiano, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015 e Tito Lucrezio Rizzo, Il Capo dello Stato dalla Monarchia alla Repubblica, Roma, Herald, 2024 (1^ ed. 2022).
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 27 agosto 2023 pagg. 1 e 6.
Il Re fuggiasco?
Il Quaderno n. 4157 di “La Civiltà Cattolica” invita all'ascolto di un podcast sull'8 settembre 1943 e le sue conseguenze. “Dopo aver proclamato l'armistizio – scrive il quindicinale della Compagnia di Gesù – il generale Pietro Badoglio fuggì da Roma insieme a Vittorio Emanuele III alla volta di Brindisi, in Puglia”. All'opposto, aggiunge, benché consapevole di essere bersaglio di Adolf Hitler, Pio XII non si mosse e si prodigò a favore della popolazione. Con tutta la deferenza che si deve alla “più antica rivista in lingua italiana”, l'affermazione è errata e la comparazione tra la condotta del re e quella del papa è improponibile. Sovrano della Città del Vaticano, il Vicario era sommo pontefice della Chiesa cattolica: inviolabile. Vittorio Emanuele III era re di uno Stato in guerra coi tedeschi, ormai nemici, in casa e senza sostegno militare da parte dei vincitori decisi a cancellare l'Italia dal novero delle potenze. Non fuggì affatto. Si trasferì all'interno del territorio nazionale per esercitare i poteri della Corona e salvare la continuità dello Stato.
Per comprenderlo occorre ricordare in quali circostanze e con quali ripercussioni si arrivò alla “resa incondizionata”, altra e peggiore cosa rispetto a un “armistizio”, che è frutto di trattativa. Come noto, di propria iniziativa e con la collaborazione efficace di una ristretta cerchia di militari, alle 17 del 25 luglio 1943 il re revocò Benito Mussolini e lo sostituì con il maresciallo Pietro Badoglio. “Fermato” (non “arrestato”) dai carabinieri, il duce scrisse a Badoglio di essere pronto a collaborare.
Nel volgere di pochi giorni il nuovo governo smantellò il regime. Sciolse il Partito nazionale fascista e il Gran consiglio del fascismo e impose alla Milizia volontaria di sicurezza nazionale di sostituire i fasci con le stellette. A quel modo evidenziò di non dovere nulla ai gerarchi che avevano approvato l'ordine del giorno approntato da Dino Grandi, Giuseppe Bottai, Luigi Federzoni, convinti di ridimensionare Mussolini senza rinunciare al proprio ruolo.
La svolta del 25 luglio fu la premessa di tre obiettivi concatenati: mostrare che l'Italia si liberava dal fascismo, uscire dalla guerra, manifestamente perduta, e arginare la prevista “vendetta” della Germania. Con i suoi mezzi il governo poteva attuare solo il primo dei tre obiettivi. Gli altri due erano nelle mani degli anglo-americani e di Hitler. La defascistizzazione venne facilitata vietando ogni manifestazione di partito. In un paese in guerra occorreva scongiurare insorgenze di fascisti e di avversari della monarchia.
Resa: un ultimatum
Salvaguardato l'ordine interno, Vittorio Emanuele III autorizzò la ricerca del contatto con il Comando alleato per stipulare la fine delle ostilità. Tra le molte “testimonianze” spicca il “Diario” del generale Giuseppe Castellano, militare di piena fiducia del re. Dopo complessi preparativi e scartate altre opzioni, il 12 agosto Castellano partì in treno per Lisbona sotto il falso nome di “Raimondi”. Poiché non conosceva l'inglese fu accompagnato dal console Franco Montanari. Il 15 agosto fece tappa a Madrid ove si fece ricevere dall'ambasciatore inglese Samuel Hoare, che dal 1917 era stato nel servizio segreto militare britannico a Roma, aveva simpatia per l'Italia e propiziò la sua missione. Giunto a Lisbona la sera del 16, Castellano prese contatto con il Comando anglo-americano. La mattina del 19 agosto l'ambasciatore inglese Campbell lo invitò a colloquio per le 22:30. Castellano si trovò dinnanzi l'incaricato d'affari George Kennan e il generale Smith, rappresentanti di Eisenhower, comandante alleato nel Mediterraneo, e il brigadiere britannico Strong. Nessuno gli tese la mano. Smith gli lesse i termini della resa imposta dagli Alleati all'Italia e una pagina con le decisioni del presidente degli Stati Uniti, Franklin D. Roosevelt, e del premier britannico, Winston Churchill. L'Italia doveva rispondere a Londra e ad Algeri, sede del Quartier generale alleato, entro e non oltre il 30 agosto.
Nella lunga conferenza di Quebec il 18 agosto gli anglo-americani stilarono la Dichiarazione sulle condizioni della “cessazione delle ostilità” da parte dell'Italia. Essa prospettò una modifica migliorativa delle condizioni della resa in misura “dell'apporto dato dal governo e dal popolo italiano alle Nazioni Unite contro la Germania durante il resto della guerra”. Con la Dichiarazione gli anglo-americani introdussero un soggetto nuovo accanto (ma non alternativo o antagonista) rispetto al regio governo: il popolo italiano.
Castellano tornò a Roma con il testo della “resa”: dodici “condizioni” su vari aspetti collaterali alla “cessazione immediata di ogni attività ostile da parte delle Forze Armate italiane”. Quelle fondamentali erano le ultime tre. “In cauda venenum...”.Vanno rilette: “Il Comandante in capo delle Forze alleate si riserva il diritto di prendere qualsiasi misura che egli ritenga necessaria per la protezione delle Forze Alleate per la prosecuzione della guerra, e il governo italiano si impegna a prendere quelle misure amministrative o di altro carattere che potranno essere richieste dal Comandante in capo, e in particolare il Comandante in capo stabilirà un governo militare alleato in quelle parti del territorio italiano ove egli lo riterrà necessario nell'interesse militare delle Nazioni alleate”. Era riconosciuta la sovranità del re e del suo governo. Al di là dell'undicesima condizione (“Il Comandante in capo delle Forze alleate avrà pieno diritto di imporre misure di disarmo, di smobilitazione e di smilitarizzazione”) la dodicesima lasciava però intravvedere il baratro:“Altre condizioni di carattere politico, economico e finanziario che l'Italia dovrà impegnarsi ad eseguire saranno trasmesse in seguito”.
Le “altre condizioni” non furono comunicate a Castellano ma al generale Giacomo Zanussi, inviato a Lisbona da Roma in carenza di notizie da e su “Raimondi”. Sotto la data del 29 agosto Castellano annotò che “su suggerimento di Acquarone il re sembra pronto ad accettare i termini dell'armistizio”. Dopo giorni convulsi e ripetuti contatti e viaggi da Roma alla Sicilia e ritorno, il 3 settembre il generale di brigata Castellano sottoscrisse a Cassibile “per il Maresciallo Pietro Badoglio, capo del governo italiano” le condizioni presentate dal maggior generale Walter B. Smith per il Comandante in capo delle Forze alleate Dwight D. Eisenhower e illustrate dal generale Harold Alexander, come recita il processo verbale. Alla firma, suggellata dalla cordiale stretta di mano tra il Comandante e Castellano, presenziarono Harold McMillan, ministro residente britannico presso il Quartier generale alleato ad Algeri; Robert Murphy, rappresentante personale del presidente degli USA; Royer Dick, commodoro della Reale marina britannica, capo di stato maggiore del Comandante in capo del Mediterraneo; Lowell W. Rooks, maggior generale dell'esercito USA, sottocapo di stato maggior presso il Quartier generale delle Forze alleate; il brigdiere Kenneth Strong, sottocapo di stato maggiore generale presso il Quartier generale delle Forze alleate e Franco Montanari, interprete ufficiale italiano.
Nel corso della riunione furono a lungo discusse l'azione degli italiani contro i tedeschi all'annuncio della resa e le numerose richieste navali anglo-americane. I presenti misero nel conto che Vittorio Emanuele III e Badoglio potessero cadere prigionieri dei tedeschi. Pertanto Alexander chiese che il re e Badoglio registrassero su disco la proclamazione dell'“armistizio” e che copia della registrazione fosse consegnata agli Alleati, “sicché in caso di emergenza si potrebbe fare l'annuncio”. Proprio per fronteggiare quella emergenza, precisò Castellano, il generale Vittorio Ambrosio, capo di stato maggiore generale, progettava di lasciare Roma, per tenersi pronto annunciare la resa anche da una emittente fuori Roma. Il “disco” con la registrazione sarebbe stata recata personalmente alla sede Eiar di Torino dal generale Ambrosio nel suo altrimenti inspiegabile viaggio proprio nell'imminenza dell’annuncio stesso.
Il verbale della riunione di Cassibile mette a nudo la curiosa “visione” di quanti intendevano impartire lezioni di incivilimento agli italiani. Alexander si dichiarò convinto che “gli italiani dovevano combattere per il loro paese. I contadini italiani armati (da chi? NdA) combatterebbero bravamente con la guerriglia organizzata” e che “non si doveva rimandare nessuna opportunità di uccidere i tedeschi”. Pensava inoltre che i “sindacati operai” avrebbero potuto bloccare o facilitare il transito ferroviario, secondo necessità. Probabilmente vedeva l'Italia come una delle “colonie” di cui aveva cognizione. Castellano non lo assecondò.
Tra le questioni non secondarie affrontate a Cassibile vi furono il giorno e l'ora dell'annuncio della “cessazione delle ostilità”. Al riguardo gli interlocutori di Castellano furono evasivi. Dissero che l’annuncio sarebbe stato dato da Eisenhower alle 18:15 e da Roma alle 18:30, senza però precisare la data. Castellano replicò quanto aveva già chiarito a Lisbona. “Un preavviso di poche ore del giorno D era insufficiente. Gli occorreva un preavviso di parecchi giorni”. Non parlava inglese ma aveva idee molto chiare. Alexander replicò che “non poteva rischiare perdita di sicurezza” e non rivelò dove e quando sarebbe avvenuto lo sbarco anglo-americano sulla costa tirrenica dell'Italia.
A conclusione dell'incontro Castellano fu trattenuto a Cassibile con la promessa di “una sede quanto possibile confortevole”. Eisenhower non presenziò e non firmò. Preferì tenersi al di fuori dallo “sporco affare” o dall’“inganno reciproco”: eloquente titolo, quest’ultimo, di un’opera ricca di documenti e di fondamentale importanza sull'Otto settembre scritta dalla storica Elena Aga Rossi. In mancanza di indicazioni precise, a Roma prevalse la certezza che la fine delle ostilità sarebbe stata annunciata il 12 settembre o addirittura il 16, come Badoglio scrisse in una lettera ricordata da Angelo Squarti Perla nel suo recente e documentatissimo saggio “Le menzogne di chi scrive la storia” (ed. Gambini).
A ingannare furono soprattutto gli anglo-americani, che parlavano a nome delle Nazioni Unite senza però che il loro alleato principale, l'URSS di Stalin, fosse informato. Avevano le loro buone ragioni, perché guardavano al di là del conflitto nel Mediterraneo. In gioco vi era la guerra degli USA contro il Giappone e per la difesa dell'impero coloniale da parte di Londra. I termini della resa, dunque, non dipesero dalla volontà di Vittorio Emanuele III ma dalla Conferenza di Casablanca che, su richiesta di Stalin, aveva deciso l'imposizione della resa senza condizioni.
Lontano da Roma, non dagli italiani
I giorni tra la firma della resa e il suo annuncio furono pochi e convulsi: dal 3 all'8 settembre. Senza bisogno di conoscerne nei dettagli i piani, il re e il governo sapevano bene che i tedeschi non avrebbero avuto alcun riguardo nei loro confronti. Se se ne fossero impadroniti li avrebbero eliminati o quanto meno deportati e sottoposti a umiliazioni. Sarebbe stata una “lezione” per i capi di Stato e di governo tentennanti. Al rientro da Berlino Boris III, zar dei Bulgari e genero di Vittorio Emanuele III (ne aveva sposato la figlia Giovanna), morì di morbo mai spiegato. Avvelenamento?
I tempi e gli spazi per salvare lo Stato erano sempre più stretti. In vista dell'ora e del giorno dell'annuncio, venne deciso l'allontanamento da Roma. Scartato l'aereo, il mezzo di trasporto all'epoca più insicuro e dalle conseguenze irreversibili in caso di “incidente”, fu previsto il trasferimento dei Reali e del governo da Civitavecchia alla Sardegna, saldamente presidiata da forze italiane. Sennonché quel porto divenne insicuro come tante altre piazze ormai sotto controllo o minacciate da vicino dai tedeschi, che dal 26 luglio avevano fatto irruzione in Italia con il pretesto di aiutarla nella lotta contro gli allora comuni nemici.
A ridosso dell'annuncio della resa giunsero a Roma due alti ufficiali per verificare con il Maresciallo Badoglio la fattibilità del lancio di una divisione paracadutata a sostegno di quelle italiane per contrastare i tedeschi che ormai la premevano. Come più volte narrato, Badoglio li ricevette in vestaglia e chiarì che i campi di aviazione vicini alla Capitale non erano in grado di propiziare il progetto. In realtà aveva chiaro che gli anglo-americani non avevano alcuna possibilità di attestarsi nei dintorni di Roma e che tutto si doveva fare tranne che trasformare la Città Eterna in campo di battaglia, senza probabilità di rinforzi di lungo periodo. Come noto, gli americani sbarcarono nella piana di Salerno e incapparono nella tenace risposta dei germanici. A Roma giunsero solo il 5 giugno 1944.
Fecero la guerra che conveniva loro. Essi consideravano l'Italia un teatro secondario del conflitto in corso. Più tedeschi erano trattenuti nel Paese dei Limoni meno essi ne avrebbero dovuti fronteggiare allo sbarco in Normandia, progettato prima ancora di dare l'assalto alla Sicilia e alla Calabria.
La resa fu infine comunicata alle 19 dell'8 settembre. L'annuncio fu preceduto alle 17 da una convulsa riunione (“una specie di consiglio della Corona” annotò Puntoni) nel corso della quale qualcuno prospettò addirittura di sconfessare la firma di Cassibile e sostituire Badoglio. Per intervento del maggiore Luigi Marchesi, che ne ha scritto ripetutamente, “il buon senso finisce per prevalere, si arriva però a una conclusione davvero deludente: l'armistizio è accettato ma Badoglio che rappresenta il governo non impartisce alcuna disposizione per fronteggiare gli avvenimenti che incalzano” (Puntoni). Nel volgere di poche ore il Re e Badoglio misero a punto l'unico piano possibile: lasciare Roma per un lembo d'Italia libero da tedeschi (che vi vennero anzi cacciati con le armi: come avvenne a Bari e in altre città) e non ancora raggiunto dagli anglo-americani, e quindi libero dalla loro diretta ingerenza. Ci volle il comprovato sangue freddo del Re Soldato per affrontare la prova.
Come annotò Paolo Puntoni, ritenuta impossibile la difesa della Capitale fu decisa la partenza. “Il Re – scrive Puntoni – convinto ormai che tutto sia stato predisposto per la partenza del governo al completo, aderisce a malincuore a lasciare Roma. Il suo intento è di garantire la continuità dell'azione del governo in collegamento con gli alleati e di impedire che la Città Eterna subisca gli orrori della guerra”. Alle 5:10 del 9 settembre la berlina guidata dall'autista Giovanni Baraldi lasciò il ministero della Guerra. Recava il Re, la Regina, il tenente colonnello De Buzzaccarini e Puntoni, che sbrigativamente raccomandò al colonnello Mario Stampacchia di distruggere, all'occorrenza, il carteggio riservato e quello segreto. Di seguito mossero la vettura della regina, con a bordo Badoglio, Mario Valenzano, suo nipote e segretario particolare, e il duca d'Acquarone. In una terza presero posto il principe ereditario con il generale Emilio Gamerra e due ufficiali d'ordinanza. Altre automobili seguirono alla spicciolata. La “piccola colonna” (Puntoni) si mosse senza scorta perché il plotone di autoblindo inviato dal Ministero della Guerra al Quirinale era rimasto nella Reggia.
La berlina del Re innalzava lo stendardo del Capo dello Stato. Come è stato ripetutamente osservato, chi fugge non alza le insegne. Il viaggio del re alla volta di Pescara via Avezzano e Popoli non fu una fuga ma il trasferimento dalla capitale per evitare la cattura e assicurare quanto era necessario: la persona e la funzione del re e del “suo” governo, garante dell'esecuzione della resa. Gli Alleati erano implicitamente tenuti a concorrere alla loro sicurezza, ma non consta che se ne siano curati. Nei limiti e nei modi documentati, Vittorio Emanuele III mostrò che la Corona operava in autonomia. Non per caso era stata respinta la proposta che si rifugiasse su una nave dei vincitori, cioè in territorio nemico. Un passo di quel genere avrebbe comportato l'abdicazione dalla libertà di capo dello Stato d'Italia.
È stato osservato che il trasferimento avvenne con gravi omissioni da parte del capo del governo e dei capi di Stato maggiore delle tre Armi. Lo hanno ribadito Filippo Stefani in “8 settembre 1943: Gli armistizi dell'Italia” (Marzorati) e gli autori delle relazioni svolte in numerosi convegni di studio promossi dal Ministero della Difesa e da altre Istituzioni. L'Archivio Centrale dello Stato conserva copiosissima documentazione sulle minute misure via via assunte dagli Uffici competenti per prevenire e scongiurare le conseguenze più gravi. Valgono d'esempio le “istruzioni” impartite per il trasferimento della principessa Maria José, delle tre figlie e del principe di Napoli, Vittorio Emanuele, all'epoca di 7 anni, dal Cuneese al Castello di Sarre e da lì in Svizzera.
In sintesi il Re lasciò Roma ma non l'Italia né gli italiani. Imbarcato a Pescara sulla corvetta “Baionetta” la sera del 9 settembre egli giunse a Brindisi alle 14:30 del 10 mentre già era in corso la lotta armata di liberazione contro gli occupanti germanici. Alle 9 mattutine dell'11 il sovrano presiedette un “consiglio” e dette lettura del messaggio di Eisenhower a Badoglio volto a stabilire subito la collaborazione tra truppe anglo-americane e governo italiano. Il Re rivolse un proclama agli italiani. Non dipendeva da lui arginare la reazione germanica. Si attendeva che il Paese seguisse ma, come vedremo, tra lui e gli italiani si interpose il Comitato di liberazione nazionale, ancora informale, ma decisivo per il futuro della monarchia in Italia. (*)
Aldo A. Mola
(*) Su regìa dello storico Marco Patricelli, il 9 settembre, nella Sala “Gabriele d'Annunzio” del Centro “Aurum” di Pescara, si svolge il convegno “La resa, la fuga, la patria”, con interventi di Roberto Olla, Ernesto Galli della Loggia, Lutz Klinkhammer, Francesco Perfetti, Luciano Zani, Mimmo Franzinelli e dei capi degli Uffici storici delle quattro Armi: gen. Antonino Neosi (Carabinieri), amm. Gianluca de Meis (Marina), ten. col. Edoardo Grassia (Aeronautica), ten. col. Emilio Tirone (Esercito), presente il ministro per la Cultura, Gennaro Sangiuliano.