Proposte - Archivio 2022

In questa sezione segnaliamo editoriali, articoli, note, recensioni e saggi brevi di interesse.



UN CENTENARIO
LA FUSIONE DI NAZIONALISTI E FASCISTI
LA MENTE E IL BRACCIO


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 25 dicembre 2022 pagg. 1 e 6.
 
Didascalia: Luigi Federzoni (1878-1967), in camicia perfettamente bianca, e Mussolini. Il “Diario inedito, 1943-1944” di Federzoni (a cura di Erminia Ciccozzi, con saggio introduttivo di Aldo G. Ricci) è stato generosamente pubblicato dall'Istituto di studi “Lino Salvini” di Firenze (ed. Pontecorboli) anche per documentare come egli abbia fatto atto di contrizione di tanti errori politici e culturali, senza però mai ammettere il più sconcertante: la sua avversione preconcetta contro la massoneria. Ne ha scritto recentemente Stefano Bisi in “Palazzo Giustiniani” (ed. Perugia Libri).
Didascalia
Il “patto di fusione” dell'Associazione Nazionalista Italiana (ANI) “col” (non “nel”) Partito Nazionale Fascista (PNF) il 25 febbraio 1923 comportò l'iscrizione d'ufficio dei nazionalisti ai Fasci “salvo le eliminazioni che si paleseranno necessarie”. Esso devolse al PNF “per intero il compito dell'azione politica e sociale” e affidò a “un organismo da esso dipendente intitolato Associazione nazionalista italiana” la “elaborazione e divulgazione della dottrina del partito e lo studio dei problemi politici, sociali, economici e tenici di attualità”. Sarebbero stati elucubrati da un Ufficio centrale dei gruppi di competenza istituito presso la segreteria generale politica del PNF “da cui dipende e a cui è devoluto l'inquadramento”. Chi guadagnò e chi perse da quell'accordo barocco?
Nazionalisti 1922: mosche cocchiere del duce?
I molti libri, non tutti utili, pubblicati sul centenario della mai avvenuta “marcia su Roma” (28-31 ottobre 1922) hanno generalmente sorvolato sul ruolo in quei giorni svolto dai “nazionalisti”. L'elusione non è affatto nuova. Ricalca quella delle principali “interpretazioni del fascismo” passate in rassegna decenni addietro da Renzo De Felice. Da una parte, la riduzione “marxista” del “fascismo” a tracotante vittoria del capitalismo sul proletariato non sentì alcun bisogno di prendere in considerazione la loro pattuglia, numericamente irrilevante. Dall'altra, i pifferai della “Rivoluzione fascista” la schifavano come mosca cocchiera della vittoria conseguita dagli squadristi duri e puri. Per gli uni e per gli altri, insomma, i nazionalisti erano solo retori, succubi dei “picchiatori”.
   Nel 1932 la Mostra del Decennale non andò molto oltre la narrazione di Giorgio Alberto Chiurco che nella “Storia della Rivoluzione fascista” (Vallecchi, 1929) sbrigativamente scrisse che il 31 ottobre “Le squadre nazionaliste per prime portano l'omaggio al Milite Ignoto e si dispongono in Piazza (Venezia), in attesa che giungano i fascisti, in una densa fila di maglie e di gagliardetti azzurri. Lungo la scalinata del Monumento si dispongono gli esponenti maggiori del nazionalismo: l'on. Gelasio Caetani, il sottosegretario Alfredo Rocco, il ministro delle Colonie Luigi Federzoni. Si suona l'inno di Mameli (multiuso, poi adottato dalla Repubblica, NdA) e l'inno Giovinezza. Il popolo commosso saluta entusiasta dalle finestre con scroscio di battimani e pioggia di fiori”. Seguono l'elenco delle “legioni”, complete della “cavalleria fascista romana” e l'elogio dei diciannove aerei fascisti plananti sul corteo.
   Pur animato dall'ideologia Chiurco è attento ai “fatti”. Il giorno del “corteo” (31, non 28 ottobre) Mussolini aveva da poche ore formato il governo di coalizione costituzionale festeggiato appunto dalla sfilata di circa 25.000 “militi”. Alla loro parata – ed è questo il punto – presenziarono solo i nazionalisti. Gli esponenti degli altri partiti di governo (democratici sociali, liberali, popolari, giolittiani...) si tennero a distanza. Non avevano “squadre” ed erano riluttanti alle piazzate. Ma quella era l'Italia, come altri Stati usciti malconci da una guerra che aveva sostituito le “divise” alla libertà di pensiero.
   Con il loro schieramento al Vittoriano i nazionalisti vollero mostrare che nel nuovo governo i fascisti erano il braccio teso verso chissà quale futuro ma essi erano la mente. Nel passaggio da movimento a partito (novembre 1921, nove mesi dopo la nascita del Partito comunista d'Italia, ennesima costola del socialismo e sezione locale della Terza Internazionale moscovita) il programma del fascismo era rimasto non solo variegato ma ambiguo e persino vago su alcuni nodi sostanziali, a cominciare dalla questione istituzionale e dal rapporto con la chiesa cattolica. Nell'ottobre-novembre 1922 il Partito nazionale fascista (PNF) comprendeva pulsioni dichiaratamente repubblicane, ferocemente anticlericali e persino neopagane, anche se in molte dichiarazioni Mussolini non mancava di strizzare l'occhio alla chiesa.
La lunga marcia dei nazionalisti
I nazionalisti arrivavano da lontano, da Alfredo Oriani e da Enrico Corradini, fondatore di “Il Regno”, e dai convegni e congressi del 1908-1912 dai quali era nata l'Associazione Nazionalista Italiana (ANI) con militanti quali Scipio Sighele, Pietro Foscari, Mario Carli, Roberto Forges Davanzati, Maurizio Maraviglia. In un quindicennio il loro programma si era nettamente diversificato dal nazionalismo francese di Charles Maurras (venato di antisemitismo) e depurato da scorie. Aveva tutt'altra coerenza ideologica rispetto al “fascismo”. I nazionalisti miravano a ripristinare il primato dello Stato monarchico uscito vittorioso dalla durissima prova della Grande Guerra. Per loro Vittorio Emanuele III era il re del 24 maggio 1915, cioè dell'intervento per la liberazione delle terre ancora oppresse dalla dominazione austriaca e per il coronamento del Risorgimento. Era il re che l'8 novembre 1917 a Peschiera aveva affermato ai rappresentanti delle potenze alleate che l'Italia si sarebbe battuta sino alla vittoria. Aveva subito una sconfitta, ma Caporetto non era stata “la disfatta”. Lo ebbe chiaro il comandante supremo Luigi Cadorna che orchestrò la ritirata dall'Isonzo al Piave e gettò le basi della “battaglia di arresto” e della riscossa. Dopo il brutto sarebbe arrivato il bel tempo. All'epoca, come documentano Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella in “Nero di Londra” (ed. Chiarelettere), Mussolini era un agitatore ex socialmassimalista osservato speciale dai servizi segreti miliari inglesi che lo presero a noleggio per un po' di sterline al mese e (ma sarà proprio vero?) lo teleguidarono verso la conquista del potere.
   Sennonché (e forse proprio perciò) quando il 30 ottobre 1922 formò il governo il “duce del fascismo” riservò ruoli minori e marginali ai nazionalisti. Luigi Federzoni, che aveva motivo di aspirare agli Esteri, fu relegato alle Colonie, in successione al democratico Giovanni Amendola. All'epoca le colonie erano la remotissima ed economicamente irrilevante Somalia, l'inospite e costosa Eritrea e la Libia, ove Giuseppe Volpi faticava a ripristinare la presenza dell'Italia, ridotta a pochi capisaldi durante la Grande Guerra quand’era prevalsa la ragionevole “dottrina Cadorna”: l'Italia l'avrebbe riconquistata vincendo sul Carso. Con Federzoni, eletto deputato dal 1913 nel prestigioso collegio Roma I, Mussolini chiamò sottosegretari di Stato i nazionalisti Alfredo Rocco, Alessandro Sardi e Luigi Siciliani. Costanzo Ciano e Cesare Maria De Vecchi facevano da cinghia di trasmissione tra i nazional-fascisti e la Corona. Fuori orizzonte rimasero i fascisti monarchici (o monarchici fascisti) dieci anni dopo passati in rassegna Mario Carli e Giuseppe Attilio Fanelli nell'“Antologia degli scrittori fascisti”(Firenze, 1931), studiata da Francesco Perfetti in “Fascismo monarchico (Bonacci, 1988). Ai margini vennero tenuti anche gli alfieri della “tendenza repubblicana”, che faceva capo ai quadrumviri  Michele Bianchi e Italo Balbo e guardava all'inquieto  Filippo Tommaso Marinetti.
Massonofagi
Di altra compattezza era l'ANI, che nelle elezioni del 1921 ottenne 11 deputati. Essa aveva alcuni capisaldi. In primo luogo, fermo restando il rispetto e l’assimilazione della tradizione culturale del Risorgimento, ne ripudiavano come devianze l'anticlericalismo, le nostalgie giacobine, il volontariato indisciplinato. Per loro Mazzini era l'Apostolo dei Doveri dell'uomo, mondato dalle pretese repubblicane. Garibaldi non era il capofila di imprese disperate come “Roma o morte” ma il Generale sabaudo che aveva combattuto con l'insegna “Italia e Vittorio Emanuele”. Giosue Carducci era il cantore dell'“Eterno femminile regale”, non il vindice di Ugo Bassi e meno ancora il poeta dell'Inno a Satana. Inoltre l'Italia doveva rifiutare le contaminazioni dall'estero: sia quelle tedesche, aspramente avversate da chi, come Federzoni, anni prima della Grande Guerra aveva messo in guardia dalla conquista germanica del lago di Garda, sia della Francia, paese corrotto e corruttore, infetto di spiriti ugonotti, intriso di internazionalismo socialista e, soprattutto, “tripuntino”. A Parigi nel giugno del 1917 era stata inventata la massonica Società delle Nazioni che rischiava di svigorire lo sforzo dell'Intesa (amputata dalla rivoluzione in Russia) e dell'Italia contro gli Imperi centrali. Per l'ANI il pacifismo e l'internazionale “azzurra” (propugnata dalla Lega internazionale dei diritti dell'Uomo) erano la maschera dietro la quale si nascondeva il tradimento della patria.
   Dal 1912 i nazionalisti avevano individuato, denunciato e combattuto a viso aperto quello che consideravano il nemico mortale dell'Italia: la massoneria. A loro giudizio  società segreta al servizio dello straniero, essa era il tentacolo di una misteriosa Internazionale che sin dall'Illuminismo aveva intossicato le sfere più elevate della società (aristocratici, militari, circoli culturali e persino molti ecclesiastici). Aveva inoculato l'illusione di ideali improponibili: la libertà (nient'altro che libertinaggio), l'uguaglianza dei diritti (prepotenza dei malavitosi), la fraternità (abuso della “pietas” e imposizione della “carità” sotto forma di taglieggiamento a beneficio degli sfaticati). Successivamente i giacobini francesi avevano inventato ed esportato l'idea di “nazione”, sostitutiva della “societas christiana”, identificata con lo Stato a esclusivo vantaggio della minoranza di politicanti cambiacasacca giunta a impadronirsi dei gangli del potere e a soggiogare il Popolo, sempre buono e innocente. Perciò la “democrazia parlamentare” andava combattuta come la peste.
   Il pensiero liberale italiano era stato sempre tiepido sulla centralità della “nazione” quale fulcro della Nuova Italia. Questa era nata dalla fortunata convergenza tra diplomazia, spada e scienza: un groviglio risolto in tempi e modi irripetibili da Vittorio Emanuele II. Per Camillo Cavour, Pasquale Stanislao Mancini e i maggiori pensatori pre e post unitari l'Italia non era a sé stante ma partecipe di un processo civile europeo. Il mite Ruggero Bonghi insegnò che “appartengono alla nazione i popoli che nella loro coscienza sentono di appartenervi”. Monarchico senza se e senza ma, Bonghi precorse i principi fondamentali della Costituzione ora vigente (che tanto deve allo Statuto albertino, anche se in questo suo 75° non viene ricordato): in primis vi è l'uomo (la coscienza), poi la comunità storicamente identificabile (il “popolo”) e infine la “nazione”, che si fonda sul consenso (il “plebiscito quotidiano” dei cittadini) e si fa Stato attraverso la legislazione. 
La massoneria: ecco il nemico! Verso il pensiero unico
I nazionalisti capovolsero la clessidra e anteposero all'uomo il principio astratto di “nazione”, mirando a servirsi dello Stato per confiscare il cittadino. Sostituirono il militarismo al patriottismo, l'imperialismo all'italianità. Senza bisogno di evocarli nominativamente in causa, la più efficace replica al loro provincialismo fu “La storia d'Europa nel secolo decimonono” di Benedetto Croce, pubblicata, però, quando ormai i nazionalisti stessi erano ridotti a una costola minoritaria e assai contrita del regime fascista, che stava abusando del termine di “nazione” sino a renderlo indigesto. Sicché sarebbe bene, oggigiorno, evitare di riesumare quel termine e dire piuttosto “Italia” quando ci si riferisce allo “Stato”.
   Nel febbraio 1923, tre mesi e mezzo dopo l'avvento del governo Mussolini, i nazionalisti premettero sull'acceleratore. Il 13 febbraio il duce convocò la seconda seduta del Gran Consiglio del Fascismo, un comitato ancora del tutto privo di valenza pubblica ma nondimeno decisivo per il corso politico del Paese, perché vi furono anticipate le direttive per il partito e la sua condotta in Parlamento. Ai 29 presenti (i quadrumviri, molti componenti del governo, i due sovrintendenti della marcia su Roma, Gaetano Postiglione ed Ernesto Civelli...) si aggiunse, come invitato, uno spretato da anni noto quale principe dei massonofagi. Non aveva fama di portafortuna. Su sua istanza (evidentemente concordata con Mussolini, che non se ne fece imbeccare) il consesso “invitò” i fascisti massoni a scegliere tra PNF e logge. Era l'inizio dell'offensiva, che poi arrivò all'espulsione dei massoni dal partito e infine  alla loro esclusione dai pubblici uffici (1925). Alla riunione del Gran Consiglio (denominazione riecheggiante le cifre massoniche: Supremo Consiglio e simili) non presero parte Federzoni, Rocco né altri esponenti del nazionalismo. Perché mai, visto che erano al governo? Stavano compunti alla finestra, come “monachella” a “las Conchas”? Attendevano la resa del duce, che poche settimane prima aveva incontrato in incognito il cardinale Gasparri?
   Sin dal 21 giugno 1921 Mussolini si era pubblicamente pronunciato alla Camera dei deputati contro la massoneria e a favore della Chiesa cattolica: “Il Fascismo non è legato alla Massoneria, la quale in realtà non merita gli spaventi da cui sembrano pervasi alcuni del partito popolare. Per me la Massoneria è un enorme paravento dietro al quale generalmente vi sono piccole cose e piccoli uomini (...) la tradizione latina e imperiale di Roma oggi è rappresentata dal cattolicesimo (…) l'unica idea universale che oggi esista a Roma è quella che si irradia dal Vaticano...”.
   Dal verbale della seduta del 12 febbraio 1923, citato dai giornali e riproposto da Angelo Livi in “Massoneria e fascismo” (ed. Bastogi), risulta che quattro gerarchi si astennero. Erano massoni notori: Giacomo Acerbo, Italo Balbo, Cesare Rossi (Gran Loggia d'Italia) e Alessandro Dudan (Grande Oriente). Però tra i presenti gli “iniziati” erano numerosi: Giuseppe Bastianini, vicesegretario del PNF, il chiassoso Achille Starace, Giovanni Marinelli (fucilato a Verona con Galeazzo Ciano), Edmondo Rossoni, segretario delle corporazioni fasciste, Roberto Farinacci, Civelli e Postiglione, Aldo Finzi,... tutti “pezzi da Novanta”. Taciti e pronubi? O, cospiranti, volgevano gli occhi alla Volta Stellata?
Patriottismo/nazionalismo
“Post hoc ergo propter hoc”, all'indomani della “scomunica” dei massoni, i nazionalisti, debitamente paghi, il 25 febbraio deliberarono la loro confluenza nel PNF. Per loro l'“idea di Italia” non poteva avere due padri (o madri): la visione europea della Terza Italia coltivata da Federico Confalonieri, Silvio Pellico, Camillo Cavour, Giolitti e da un rosario di statisti, e quella italo-centrica di cui essi si pretendevano depositari. Mussolini optò per quest'ultima. Codificò la confusione tra patriottismo (legittima difesa degli interessi generali permanenti dello Stato, quale ne sia la forma) e nazionalismo (contrapposizione tra gli “italiani” e gli “altri”, etichettati con denominazioni non sempre rispondenti ai cangianti confini dei Paesi).
   I maggiorenti del nazionalismo originario si ridussero a ruota di scorta del regime che avevano concorso a erigere. Federzoni fu nominato ministro dell'Interno mentre imperversava la crisi per l'“affare Matteotti”. Lo rimase sino all'“attentato Zamboni” (Bologna, novembre 1926). Da presidente del Senato nel 1938 subì l'acclamazione di Mussolini a “primo maresciallo dell'Impero”, un grado fatuamente conferito anche al re, il quale poteva proprio farne a meno essendo per statuto comandante delle forze armate. Alfredo Rocco cesellò tutte le leggi liberticide, anche a detrimento dei monarchici non fascisti, come l'ex nazionalista Armando Zanetti, sino alla legge elettorale del 1928 e alla costituzionalizzazione del Gran Consiglio del fascismo.
   A quel punto in Italia rimasero in pochi a invocare “gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis”. L'Italia era ormai legata a Hitler dal “patto di acciaio” di cui divenne succuba. Eterogenesi dei fini. I nazionalisti, sorti come ala del liberalismo e bastione contro la Germania, furono travolti al crollo del regime. “Simul stabunt, simul cadent”.
   A togliere le castagne dal fuoco e a rimettere il Paese in carreggiata il 25 luglio 1943 non furono i nazionalisti ma Vittorio Emanuele III. Mentre l'Italia ha bisogno di respirare Europa, pochi lo ricordano e meno ancora lo ammettono. Federzoni lo fece.

Didascalia: Luigi Federzoni (1878-1967), in camicia perfettamente bianca, e Mussolini. Il “Diario inedito, 1943-1944” di Federzoni (a cura di Erminia Ciccozzi, con saggio introduttivo di Aldo G. Ricci) è stato generosamente pubblicato dall'Istituto di studi “Lino Salvini” di Firenze (ed. Pontecorboli) anche per documentare come egli abbia fatto atto di contrizione di tanti errori politici e culturali, senza però mai ammettere il più sconcertante: la sua avversione preconcetta contro la massoneria. Ne ha scritto recentemente Stefano Bisi in “Palazzo Giustiniani” (ed. Perugia Libri).

BONAPARTE LADRO D'ARTE?
LA NASCITA DEI MUSEI MODERNI


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 11 dicembre 2022 pagg. 1 e 6.
      
DIDASCALIA: Napoleone in tenuta di Primo Console. Sin dalla campagna d'Italia del 1796-1797 Bonaparte ebbe chiara l'importanza del patrimonio monumentale e artistico non solo sotto il profilo economico ma per il prestigio che derivava al suo possesso. Perciò non si fece scrupoli e ordinò l'invio di statue, quadri, gioielli dall'Italia alla Francia del Direttorio, sull'orlo della bancarotta. In tal modo consolidò la sua fama personale. Da giovane brillante generale ascese a uomo politico e impose al governo i suoi piani: dalla campagna in Egitto al colpo di Stato del 18 brumaio, dopo il suo rientro a Parigi.     Ma l'eredità più importante lasciata da Napoleone al secolo seguente, a cominciare dagli italiani, fu soprattutto ideale e politica. Sotto le sue bandiere essi presero coscienza della propria identità e del proprio valore, anche militare. Documenti alla mano, ne ha scritto Alessandro Mella in “Viva l'Imperatore! Viva l'Italia! Le radici del Risorgimento: il sentimento italiano nel ventennio napoleonico”, intr. di Francesco Paolo Tronca, Roma, BastogiLibri.
Didascalia
   Napoleone “en marche”
Fra i tanti aneddoti su Napoleone Bonaparte uno è assai gustoso. Conversando con non si sa chi l'Imperatore (Aiaccio, 1869 - Isola di Sant'Elena, 1821), “francese” solo perché un anno prima della sua nascita il genovese Banco di San Giorgio aveva venduto la Corsica alla Francia, sibilò che gli italiani sono tutti ladri. L'interlocutore pare abbia ironizzato giocando sul suo cognome: “Non tutti. Solo buona parte”. Ciuffetto da antico romano sulla fronte, occhio gelido a labbra strette Napoleone abbozzò. Conosceva il suo “mestiere”. Non era un “ladro”, ma il punto di arrivo della Grande Rivoluzione. L'Arte andava “mostrata al popolo”, proprio come la “Rivoluzione”, che Massimiliano Robespierre aveva posto alla testa della “processione” in onore dell'Ente Supremo. Amico di Augustin, fratello dell'“Incorruttibile” (perciò finì incarcerato, a rischio della vita), Napoleone completò il grande disegno: la transumanza dall'ancien régime allo Stato ispirato alla solenne dichiarazione dei “diritti dell'uomo e del cittadino”.
   Abolì il complicatissimo calendario repubblicano, croce senza delizia di chi doveva redigere atti pubblici, represse giacobini in ritardo e cospiratori che ancora pretendevano l'“uguaglianza” e avviò “libertà” e “fraternità” (altra cosa dalla utopica fratellanza) sui binari del consolato e dell'Impero. Si proclamò successore di Carlo Magno. Avvolto in un passato millenario fu l'Uomo Nuovo. Chiesto di raffigurarlo in una statua, Antonio Canova lo propose come si vede a Palazzo Brera in Milano: nudo. Era l'incarnazione del “Genio del mondo”, come poi annotò Hegel. Arbitro assiso tra due secoli, il Settecento dell'Aristocrazia illuminata e l'Ottocento delle “masse”, decisivi per la storia universale, come alla sua morte ne scrisse Alessandro Manzoni. Dopo di lui la Francia rimase perennemente “en marche”, sino a Emmanuel Macron e alla sua Ninfa Egeria, Brigitte.
   Formato nella lettura dei classici greco-romani, da giovanissimo assunse a modello Caio Giulio Cesare, l'unico “predecessore” con il quale meritasse confrontarsi. Annibale e Scipione l'Africano erano stati grandi capitani in guerra, ma entrambi erano finiti esuli; uno addirittura costretto a darsi la morte. Non portavano bene. Alessandro era stato grandissimo sui campi di battaglia. Ma aveva almeno due macchie incancellabili: l'incendio e distruzione di Persepoli e l'uccisione, in uno scatto d'ira, di uno tra i suoi amici più cari. A differenza di tanti condottieri delle età precedenti e dei due secoli successivi, sin dall'inizio delle imprese da lui capitanate Napoleone concesse alle sue armate di sfogare sui vinti gli appetiti dell'anima “vegetativa” mentre egli si dedicava al trionfo di quella “razionale”: ordinare. Che non significa imporre ma educare. Passare da uno all'altro stadio del “cammino umano”. Con lui si aprì il secolo della Pedagogia. L'Illuminismo aveva scrostato da pregiudizi arcaici. Ora occorreva edificare.
   Napoleone fu l'arco portante dalla distruzione alla costruzione. I francesi del giovane generale, ancora Buonaparte, puntarono sul forte di San Leo per liberare Giuseppe Balsamo, noto come conte di Cagliostro, uno dei miti di fine Settecento. Ma vi giunsero quando ormai il “Grande Cofto” era morto dopo anni di durissima reclusione nel “pozzetto” ove era rinchiuso e spesso selvaggiamente bastonato. Ne cercarono invano le spoglie. Era giusto che non venissero trovate. Era lo Spirito, l'inventore del Rito Egizio, il richiamo dell'Oriente che attendeva di essere s-velato e ri-velato. Quando salpò verso l'Egitto per colpire l'Inghilterra nelle sue remote colonie Napoleone portò con sé militari ansiosi di vittorie e soprattutto scienziati delle più diverse discipline, archeologi e artisti. Come lui, essi andavano in cerca del Sapere arcano, sino a quel momento investigato in “libri proibiti” avidamente letti: altra cosa dal vederlo nei suoi veri lineamenti nelle terre dei Magi, là dove era nato e fiorito. Ne rimase affascinato il generale Menou, mille anni di nobiltà alle spalle, futuro governatore del Piemonte francesizzato, con tanto di tenda allestita per la moglie islamica.
Gli orrori dei sanculotti 
   Il flusso della storia segnata da Napoleone il Grande si coglie nell'avvincente saggio di Giorgio Enrico Cavallo su Napoleone ladro d'arte. Le spoliazioni francesi in Italia e la nascita del Louvre (ed. D'Ettoris). Il libro prova l'eterogenesi dei fini. Sin da quando appena ventisettenne piombò in Italia, all'imposizione di enormi tributi ai vinti e ai pavidi unì la massiccia “deportazione” di opere d'arte. Dopo il 18 Brumaio 1799, l'irruzione in Piemonte dall'invalicabile Gran San Bernardo e la vittoria di Marengo del giugno 1800, egli riprese sistematicamente la Grande Opera. Mentre disegnava e ridisegnava la carta politica dell'Italia, prima repubbliche poi principati e regni di fantasia (come quello “di Etruria”) e l'invenzione del regno d'Italia nel 1805, che affidò al figlio adottivo Eugenio di Beauharnais, dopo essersene proclamato sovrano nel Duomo di Milano con tanto di Corona Ferrea, l'Imperatore riprese a far rastrellare il meglio per il vagheggiato “Museo Napoleone”.
   Come correttamente ricorda Cavallo, nella sistematica di spoliazione degli “oggetti d'arte” Napoleone fu preceduto dall'ascesa dei “vandali” al potere sulla Francia: i sanculotti che dall'agosto 1792 cominciarono ad abbattere le opere emblematiche della monarchia, a cominciare dai monumenti equestri di Luigi XIV e di Luigi XV e dalla statua di Enrico IV, benché gli si dovesse l'editto di tolleranza di Nantes a beneficio degli ugonotti. A Parigi la cattedrale di Notre-Dame venne mutata in Tempio della Ragione, con eliminazione sistematica delle sculture e di 24 monumenti sepolcrali su 25. Poteva andare peggio. Claude-Henri di Saint-Simon, precursore del cosiddetto socialismo utopistico, si era offerto di acquistare l'“immobile” per farlo demolire a sue spese. Non bastasse, il 1° agosto 1793 la Convenzione repubblicana ordinò la distruzione delle tombe reali. L'amministratore della basilica reale di Saint-Denis narrò puntualmente la profanazione dei feretri, la riesumazione e lo scempio delle salme, il furto e la dispersione dei gioielli. Il poco che venne salvato dalla barbarie finì al Museo dei monumenti francesi diretto da Alexandre Lenoir. Anche il quarantenne vescovo “costituzionale” Henri Grégoire, pur allineato con la “rivoluzione”, deplorò il “vandalismo” e propose come rimediare. Ricordò che “des furieux” avevano progettato di incendiare le biblioteche pubbliche e che era stata fatta man bassa di libri, quadri, monumenti che recavano le insegne della religione, dell'età feudale e della monarchia con danni irreversibili e incalcolabili. Poiché aveva cercato di opporsi allo scempio Grégoire era stato bollato come fanatico. Gli eccessi non conobbero limiti. In molti casi, i cadaveri dei sovrani, spesso irriconoscibili, furono sottoposti a demenziali processi d'accusa. Quello di Enrico IV subì la decapitazione. La testa, ricorda Cavallo, “ricomparve” solo nel 2008 e fu al centro di indagini per accertarne l'identità. Ne nacquero anche, aggiungiamo, polemiche retrospettive, rapidamente sopite perché politicamente scorrette e lesive del mito di Marianne. Nella memoria corrente la Rivoluzione doveva essere solo luminosa, monda dalle sue pagine più orrende: le feroci stragi del settembre 1792, quando la principessa di Lamballe, iniziata alla Massoneria, venne sventrata e decapitata, la repressione dei vandeani, l'esecuzione capitale di Luigi XVI e di Maria Antonietta, ghigliottinati…
Il ritorno all'Ordine
Quegli orrori andavano cancellati dal ricordo e dimenticati. Allo scopo Napoleone mirò a fare di Parigi il Tempio del Bello con l'allestimento del Museo intitolato al suo nome, affidato alle cure del barone Dominique Vivant Denon, già affiliato alla “Parfaite Réunion” del Grande Oriente di Francia come poi la maggior parte dei marescialli, ammiragli, prefetti e notabili dell'Impero. Il Louvre, scelto quale “contenitore” delle meraviglie fatte affluire a Parigi dai Paesi via via assoggettati (non solo l'Italia), divenne meta del primo grande turismo d'arte. Vi accorsero anche i britannici. Proprio l'inglese Maria Luisa Caterina Cecilia Hadfield sposata con Richard Cosway, di vent'anni più anziano, nata a Firenze da una famiglia anglicana ma educata da suore cattoliche, ritrasse tanti capolavori del Museo Napoleone. Ma, narra Cavallo, non ottenne il successo sperato.
   Quando il Louvre risultò saturo dalla “smodata mole di oggetti” concentrati in Parigi l'imperatore ordinò l'allestimento di musei dipartimentali, a prosecuzione del gigantesco progetto di inculturazione degli abitanti dell'impero attraverso la moltiplicazione dei licei. In ogni giorno, alla medesima ora, i docenti impartivano agli allievi le identiche lezioni per formare i futuri insegnanti e funzionari del regime napoleonico, mentre nei collegi militari venivano plasmati i quadri della Grande Armée, una “macchina” che mise a frutto la tradizione secolare della Francia, aggiornata alla luce della Rivoluzione trionfata nella battaglia di Valmy, ove, secondo Goethe, si levò l'aurora dell'Età Novella.
   Dopo il crollo definitivo di Napoleone i sovrani restaurati chiesero la restituzione delle opere d'arte indebitamente trafugate. Molte furono agevolmente individuate. Parecchie altre, però, erano finite nelle mani di “privati” o si erano “smarrite” e risultarono inarrivabili dopo un quindicennio di vicende turbinose. Gian Francesco Galeani Napione capitanò il recupero delle opere d'arte del Vecchio Piemonte su mandato di Vittorio Emanuele I di Savoia. Altre vennero restituite alla Liguria, dal 1814 assegnata alla corona sabauda. Grazie alla sua memoria ferrea Antonio Canova concorse al recupero di quelle destinate allo Stato pontificio e in specie a Roma, ove Pio VII tornò dopo la lunga detenzione in Francia e a Savona che, come il Piemonte, era stata incorporata nei confini dell'impero.
L'“invenzione” dei musei moderni e l'eredità politica 
   Con grande equilibrio Giorgio Enrico Cavallo conclude che «al netto di tutte le ignobili profanazioni dei luoghi sacri, della distruzione gratuita di opere di pregio, della dispersione dei patrimoni, dei danni occorsi nel trasporto in Francia o nella loro restituzione, un punto merita di essere esaminato, e che probabilmente è l'eredità più sensibile dello sconcertante esperimento del Musée Napoléon: la nascita dei moderni musei. Quelle che erano state per secoli opere d'arte conservate nelle gallerie delle famiglie aristocratiche o nelle collezioni di duchi, principi e papi, erano state forse per la prima volta apprezzate da un vasto pubblico. Si trattò di un democratizzazione dell'arte che per noi contemporanei è scontata, quasi che l'opera in sé nasca per essere fruita da tutti». Anche se, come scrive l'architetto Marco Albera, collezionista e saggista, in un passo citato da Cavallo a conclusione del suo libro, «[il museo moderno] è rivoluzionario proprio per la sua caratteristica di mostrare l'arte separata dal suo contesto architettonico, devozionale, celebrativo delle glorie delle antiche famiglie, per diventare esclusiva esibizione di tecnica e ridursi, in definitiva, solo ad arte per l'arte, un'arte il cui fine diventa sempre meno intelligibile. L'ambizione di creare con il Louvre-Musée Napoléon il materiale catalogo di quanto di meglio l'umanità abbia prodotto si risolve nel tentativo di erigere un'ennesima, moderna Torre di Babele». Ma che cosa dire, allora, della celebre “Enciclopedia” di Diderot e d'Alembert e di tutte le sue imitazioni “nazionali” inclusa quella italiana?
   D'altro canto il londinese British Museum e i Musei d'oltre Atlantico (da New York a Los Angeles) consentono di cogliere il percorso planetario e millenario delle arti senza viaggi fuori portata per la maggior parte dei loro visitatori. Malgrado le deplorazioni che continuano a flagellarne la memoria non va infine dimenticato che a Napoleone non passò mai per il capo di infliggere la sorte dai Romani riservata ai loro nemici “mortali”: la distruzione totale e lo spargimento del sale sulle rovine. Anche durante e dopo lunghi sanguinosi conflitti quell'Europa dette mostra di umanità. Non per caso al Congresso di Vienna nel 1815 la Francia sedette alla pari con i vincitori e venne rappresentata dal principe Charles-Maurice Talleyrand-Périgord (1754-1838), antico vescovo di Autun, deputato per il clero agli Stati Generali del 1789 e molto sensibile al fascino femminile. Dal 1799 al 1807 era stato ministro degli Esteri di Napoleone, che lo creò principe di Benevento, ducato sottratto al papa. Nel 1830-1834 fu ambasciatore di Luigi Filippo d’Orleans a Londra.
   Anche la Storia, insomma, è “opera d'arte”.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Napoleone in tenuta di Primo Console. Sin dalla campagna d'Italia del 1796-1797 Bonaparte ebbe chiara l'importanza del patrimonio monumentale e artistico non solo sotto il profilo economico ma per il prestigio che derivava al suo possesso. Perciò non si fece scrupoli e ordinò l'invio di statue, quadri, gioielli dall'Italia alla Francia del Direttorio, sull'orlo della bancarotta. In tal modo consolidò la sua fama personale. Da giovane brillante generale ascese a uomo politico e impose al governo i suoi piani: dalla campagna in Egitto al colpo di Stato del 18 brumaio, dopo il suo rientro a Parigi. 
   Ma l'eredità più importante lasciata da Napoleone al secolo seguente, a cominciare dagli italiani, fu soprattutto ideale e politica. Sotto le sue bandiere essi presero coscienza della propria identità e del proprio valore, anche militare. Documenti alla mano, ne ha scritto Alessandro Mella in “Viva l'Imperatore! Viva l'Italia! Le radici del Risorgimento: il sentimento italiano nel ventennio napoleonico”, intr. di Francesco Paolo Tronca, Roma, BastogiLibri.


TROPPI,  MAL DISTRIBUITI
O ANCORA REFRATTARI ALLA COESISTENZA PACIFICA?


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 20 Novembre 2022 pagg. 1 e 6.
  
Didascalia
   Ma quanti siamo!
   Drin, drin! Lo speciale osservatorio dell'ONU, organizzazione di discussa utilità anche per ammissione di chi ne detiene le chiavi come membro del suo Consiglio di sicurezza, ha suonato il campanello d'allarme: gli “umani” viventi sul pianeta hanno superato gli otto miliardi. Il 31 ottobre di undici anni addietro se ne contavano 7. L'incremento di un miliardo di persone in un decennio preoccupa. Anzi, mentre normalmente una nuova nascita viene festeggiata, questo traguardo suona invece come annuncio di sventura. Parafrasando Salvatore Quasimodo massone e premio Nobel per la letteratura, siamo in troppi “sul cuor della terra (…)  E presto verrà sera”. Anzi, per dirla con un altro poeta di spiccato ottimismo, “verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. 
   Ma davvero siamo sempre più stretti su questa aiuola che ci fa tanto feroci o siamo feroci perché ognuno vuole l'aiuola tutta per sé?
   Stiamo ai dati.
   In primo luogo va detto che prima dell'Ottocento circa la popolazione dei diversi continenti abbiamo solo “stime” per i paesi europei mentre per gli altri si va “a spanne”, anche perché i confini degli “Stati” erano più che labili e l'ultima preoccupazione dei loro governi era contare i sudditi se non per tassarli. I “poveri” e i loro numerosi figli non facevano statistica. Semmai fornivano “soldati”. I demografi valutano che due secoli fa la popolazione mondiale si avvicinava a un miliardo. Gli abitanti dell'Europa erano poco più di 200 milioni; quelli dell'Africa forse 100 milioni. L'America latina ne contava 24 e quella settentrionale, Groenlandia compresa, appena 7. 
   E prima? A parte l'antichità (di cui si sa solo approssimativamente) verso il 1340 l'Europa  arrivò a circa 70 milioni di abitanti. Su di essi si abbatté la falce della “peste nera”. Ci vollero 150 anni perché recuperasse le perdite. In quel secolo e mezzo, però, gli abitanti non si abbandonarono affatto allo sconforto. Impararono  a “convivere” con la peste, a circoscriverne i focolai e a frenare i contagi con strategie dagli esiti infine vittoriosi. Quella Minieuropa conobbe lo splendore del Rinascimento e pietrificò immensi capitali: palazzi e castelli ammirevoli, ornati di splendidi affreschi, dipinti, quadri e sculture. I minieuropei continuarono a guerreggiare e uccidersi come prima della peste. Continuarono a farlo con fervore anche dopo la “scoperta” dell'America, la circumnavigazione del mondo e lo sfruttamento delle miniere d'argento e di oro del Nuovo Mondo. Anzi. Più soldi, più armi. Più spazi, più eresie. Più cielo, più guerre di religione. Più scienza, più roghi.
   Nei secoli seguenti, tra Cinque e Seicento, la peste continuò a visitare quasi tutti gli Stati europei. Poi, come era venuta, disparve. Gli studiosi non hanno certezze su come sia accaduto. Di sicuro le misure di contenimento rimasero in vigore e vennero inasprite a ogni segnale di nuove epidemie, come il colera, che di quando in quando picchiavano duro nelle città più che nelle campagne e di volta in volta ne frenavano la crescita.
Dalle rivoluzione industriali a quella “verde” 
   Le guerre franco-napoleoniche (1792-1815) causarono in Europa più o meno cinque milioni di morti, in massima parte giovani. Si accompagnarono ai primi segnali dell'onda lunga iniziata con la prima rivoluzione industriale, inizialmente circoscritta alla sola Inghilterra. La seconda fase dell'industrializzazione è in parte descritta nei romanzi di Honoré Balzac e di Victor Hugo e in altre parte studiata da Karl Marx, che, uomo di pensiero e di azione, dette il suo piccolo contributo alla crescita demografica. Quanti costatano esterrefatti il balzo demografico dell'Europa dei due secoli seguenti e di quello anche maggiore degli altri continenti e in specie della Cin-India si domandano se non avesse dunque ragione Thomas Malthus che sin dal 1798 predisse che le risorse alimentari non avrebbero tenuto il passo con l'incremento della popolazione. Il “mondo”, soprattutto quello che più gli premeva, precipitava verso spaventose rivolte di massa dettate dalla fame, sempre pessima consgliera. Un anno dopo la profezia di Malthus nella guerra tra le compagnie di Santa Fede e i giacobini a Napoli e nei suoi dintorni si verificarono molteplici casi di cannibalismo, non per motivi “rituali” ma per la fame che attanagliava la popolazione. Occorreva dunque intervenire drasticamente per scongiurare le carestie e le sue devastanti conseguenze sociali e politiche. Unica soluzione era la riduzione delle nascite. In tempi recenti neo-malthusiani hanno riproposto il divario inesorabile tra impennata demografica e disponibilità di cibo. 
    Le previsioni apocalittiche, di quando in quando affacciate da demografi sconfortati, lasciano quasi sempre tra parentesi gli immensi progressi nel frattempo compiuti da scienze e tecnologia. Molte malattie sino a pochi decenni addietro pressoché incurabili oggi costituiscono di rado causa diretta di morte. Grazie alla “rivoluzione verde”, non meno importante di quella industriale, pur con molte evidenti disparità il Pianeta è in grado di produrre alimenti in misura sufficiente per le necessità primarie della popolazione mondiale. L'esportazione di granaglie dall'Ucraina dall'inizio della “operazione militare speciale” ha aperto gli occhi anche del cittadino “comune”. Di lì il prolungamento della vita, con tutti i problemi connessi all'invecchiamento della popolazione e all'attenzione per la terza, quarta, quinta età, un tempo considerate “fatali” anche nelle aree più progredite.  La mortalità infantile è pressoché scomparsa nella maggior parte dei Paesi. Eppure un secolo addietro aveva dimensioni raccapriccianti. Per stare al solo “caso Italia” a fine Ottocento si contavano circa un milione nati all'anno. Ma solo il 50% di essi raggiungeva il 15° anno di vita. Gli ultrasessantenni costituivano una quota modesta. Gli ultraottantenni erano rari. Oggi papa Francesco deplora quotidianamente la cultura dello scarto.  
    Un paio di guerre mondiali, di fatto combattute solo in Europa e a scapito della sua popolazione per una somma di circa 70 milioni di morti in mezzo secolo, non hanno mutato l'indice di crescita demografica del pianeta. Anzi, hanno avuto e avranno per contraccolpo l'onda di ritorno della decolonizzazione a tutto vantaggio specialmente degli abitanti dell'Africa. Sulla fine dell'Ottocento l'Europa si spartì Africa e Asia ma nel volgere di meno di cent'anni i suoi imperi crollarono. Vero è che al dominio diretto si sostituì il capitale finanziario e quello indiretto, tramite una dirigenza “locale” quasi sempre eterodiretta e corrotta, ma la carta politica del mondo mutò rapidamente colori negli atlanti e nelle affisse nelle aule scolastiche. In quelle italiane per decenni insegnanti e studenti continuarono a contemplare l'Europa “dei sei” (Francia, Italia, mezza Germania e Benelux) mentre il mondo galoppava e sfuggiva all'ottica ormai provinciale della dirigenza italiana.
Dall'ambientalismo alla bonifica delle “filosofie”
    Oggi dunque siamo otto miliardi. 
    E' un campanello d'allarme? L'umanità precipita verso la catastrofe?  
    Si può osservare che il problema non è il numero in sé, né la sua prevedibile ulteriore espansione (la cui curva, però, secondo tutte le previsioni  è destinata a declinare), ma il rapporto tra la popolazione con il pianeta che abita. Da qualche decennio sono stati messi sotto accusa lo sfruttamento selvaggio di risorse (a cominciare dall'acqua) e di materie prime (anzitutto petrolio e gas, ancora abbondanti ma non illimitati) e la prolungata indifferenza nei riguardi delle ripercussioni dell'“industrializzazione” sull'“ambiente”. Nessuno dubita che occorrano riflessione e provvedimenti, come si ripete in tante (forse troppe) conferenze internazionali sul clima e sull'ambiente. Nel frattempo, però, molti Paesi additati quali responsabili dell'inquinamento non sono affatto rimasti con le mani in mano, come provano le centrali nucleari di nuova generazione e un ampio ventaglio di sistemi produzione di energia anche con l'utilizzo di risorse a costo zero, come le maree.    
    Minor attenzione invece è stata e viene posta su altri fattori non meno decisivi del balzo demografico registrato a livello planetario tra il 1975, quando la popolazione mondiale era stimata intorno ai 4 miliardi, e l'oggi, che ne conta 8. Non se ne parla per il “pregiudizio” che è alla base di tutte le Carte delle istituzioni internazionali e sovranazionali, a cominciare dall'ONU: la presunzione dell'uguaglianza delle “filosofie” che connotano popoli e ne ispirano la condotta, collettive e individuali. Eppure queste fanno la differenza. Fingere che non esistano è generoso ma ingenuo e rende impossibile l'opera delle Agenzie internazionali istituite proprio per imprimere coordinamento agli sforzi volti ad aumentare il benessere dell'umanità, dalla Fao (che ha sede a Roma, anche se pochi lo sanno e lo ricordano) all'Organizzazione mondiale della sanità, la cui esistenza è stata scoperta dai più solo per le polemiche che hanno investito l'opera del suo segretario generale a cospetto dell'epidemia detta covid-19. 
   Le “filosofie” o concezioni del mondo o comunque le si voglia chiamare (possiamo anche dire “religioni”?) che rifiutano il controllo delle nascite non sono prive di conseguenze sia sulla demografia sia sulla produzione e distribuzione dei beni di consumo. Prescindono dal concetto di programmazione sorta con la rivoluzione industriale e con il progresso delle scienze dei due ultimi secoli, costituiscono una variante incontrollabile e rendono quindi impossibile qualsiasi previsione attendibile sul futuro. Da un canto il fatalismo, dall'altro la responsabilità. Quest'ultima non significa pianificazione coatta delle persone (cosa del tutto diversa dalla programmazione) ma assunzione di coscienza delle conseguenze generali di ogni gesto individuale.
Il numero non è potenza; lo spazio c'è.
   Forse, ma solo forse, sono alle spalle due antichi motti: “Il numero è potenza”; “Siamo troppi in poco spazio”.
   Il primo è finito come sappiamo. Otto milioni di baionette erano e si rivelarono una colossale smargiassata. Con i pugnali puoi assassinare Cesare nella Curia, ma non vinci una guerra nell'età della industrializzazione. Il capolavoro di un ottenebrato al governo fu la dichiarazione di guerra agli Stati Uniti d'America. Il numero degli abitanti di un territorio costituisce la somma dei loro problemi. Se non hanno da mangiare, da bere, da dormire in luoghi confortevoli sono condannati a rimanere il fotogramma scattato da un turista “di passo” anziché ergersi a Persone.
  Alla seconda pessimistica previsione dell'esaurimento degli spazi abitabili da oltre mezzo secolo vennero cercate risposte e proposti rimedi da parte di cenacoli di studiosi lungimiranti, come  componenti del Club di Roma, allarmati dalla necessità di intervenire per precorrere movimenti scomposti di masse riluttanti a fare i conti con il “progresso”. I risultati dei loro sforzi è rimasto lontano dal successo. Negli stessi anni, anzi, dilagarono movimenti ispirati dall'irrazionalismo, votati alla “sfida”, al rifiuto del dialogo e inclini a trasformare la protesta in violenza. 
  A cospetto del ritardo della “politica” si registra la novità degli anni in corso. Le statistiche documentano che proprio nei Paesi più progrediti una quota significativa e crescente della popolazione lascia le “città” e si trasferisce (o ritorna)  dalle megalopoli a cittadine e borghi. “Da casa” si può lavorare. E a casa si può oziare in attesa della Grande Visitatrice. Lontani dai rumori, dalle ordinanze che ogni giorno condizionano la vita quotidiana delle aree affollate come fossero zona di guerra. Anche questa mutazione non è affatto indolore: richiede una vasta e lungimirante riorganizzazione dei servizi, per un numero non illimitato di utenti.
Andare oltre la paura dell'Apocalisse
   Nei due giorni trascorsi da quando queste righe sono state scritte a quando vengono lette, secondo stime attendibili nel mondo si sono registrate circa 500.000 nascite e poco più di 250.000 morti. Il saldo attivo dei viventi è sotto gli occhi. Ma non vale per tutti gli “spazi” del pianeta. Le nascite sono più numerose nei paesi tradizionalmente prolifici; meno altrove. L'Europa registra un deficit demografico netto. Ma i suoi abitanti per chilometro quadrato continuano a essere fra i più alti del mondo, a parte il Giappone. Se si scorrono le statistiche degli abitanti, a parte il preoccupante miliardo e mezzo circa di cinesi e altrettanto di “indiani”, che da soli sommano il 40% degli abitanti del pianeta, si constata che la Germania, con poco più di 82 milioni di abitanti, figura al 15° posto tra gli Stati più popolosi della terra ed è preceduta da  Etiopia, Vietnam, Filippine, Messico, Giappone...Gli altri Paesi dell'Europa centro-occidentale arrancano seguono: con la Francia (65 milioni), l'Italia (circa 60) e poi via via gli altri. Tanti. L'Unione Europea, se davvero si decidesse a essere qualcosa di serio, ha una consistenza superiore agli Stati Uniti d'America, per non parlare dei “Brics”, che (come anche gli USA) hanno crescenti problemi interni per la coabitazione di etnie non sempre conciliate. Ma al di là del numero netto degli abitanti dei singoli Stati maggiore attenzione merita la loro densità. Paesi già sovrappopolati possono fars carico di migrazioni incontrollate? Pelesemente no.    
  La riflessione sull'andamento della crescita demografica planetaria non può fermarsi alla conta della diffusione e uso dei contraccettivi, degli ospedali e delle sempre più minacciose deplorazioni dei matrimoni senza figli (riecheggiante la “tassa sui celibi” introdotta da un non rimpianto regime). Va commisurata con altri parametri. Oggigiorno un miliardo di persone non dispone di  acqua potabile e quasi 800.000 muoiono per malattie contratte da acque infette. I denutriti sono circa 850 milioni; i sovrappeso il doppio. Gli obesi 800 milioni. Almeno 22.000 esseri umani muoiono ogni giorno di fame mentre per dimagrire gli statunitensi nelle stesse ore spendono una somma iperbolica.
  Che fare? Riflettere sui dati disponibili. La spesa per la sanità pubblica è superiore a quella per l'istruzione. E quella per la “difesa” (ovvero per la produzione di armi: l'unica che “tira” sempre e ha mercati in crescita) supera tutte le altre. La domanda è: siamo certi che essa renda più serena e sicura la vita dei singoli, dei popoli, del pianeta? 
   Nel dubbio merita rileggere il “De Rerum natura” di Tito Lucrezio Caro (98?-55? a. Cr.) e quel che rimane di Epicuro (Samo, 341 – Atene, 270 a. Cr.)  e coglierne il messaggio di sempre più stringente attualità: “vivere appartati”, liberi dal “timore” degli dei e della vita ultraterrena, della morte, dei dolori e della ricerca di piaceri futili, da sostituire con il piacere catastematico (o statico), fondato sul pacato appagamento di quanto si ha e di come si è. Un pensiero non troppo diverso dall'“Ecclesiaste”. In un mondo segnato dal frastuono, dalla confusione, dalla quotidiana precipitosa corsa verso il nulla il tetrafarmaco epicureo mette al riparo dallo sgomento e dal castrofismo, pessimo consigliere in un'epoca contrassegnata dal timore della guerra nucleare. Meglio lasciarsi alle spalle le vanità e vivere in solitudine”, anche se gravati da responsabilità apicali, a cospetto ma non succubi della “folla”. 
  A quel punto, con quei canoni si scopre che sulla faccia della Terra c'è spazio per tutti, se ognuno fa la sua parte: vive e lascia vivere.
Aldo A. Mola     
   
          
DIDASCALIA: Inaugurazione del Canale di Suez. Un'opera faraonica. Diminuì drasticamente la percorrenza tra l'Europa, l'Africa occidentale e l'Asia. L'umanità ne trasse immensi benefici. Ma fu anche acceleratore della fase apicale della colonizzazione e poi teatro di conflitti ancor in corso.  


EUROPA INVERTEBRATA
E “FIUME” IN SECCA


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 13 Novembre 2022 pagg. 1 e 6.
 
Didascalia
Una perturbazione atlantica in picchiata sull'Italia?
   Ma la Francia ama l'Italia? Come no! Dove, quando e da chi il re dei Franchi Carlo si fece porre sul capo la corona di Sacro Romano Imperatore? A Roma, il giorno di Natale dell'anno 800 d. Cr., da papa Leone III. Senza la Città Eterna la Francia rimane “in cerca”. La sua passione per l'Italia divampò nuovamente con Carlo VIII di Valois che, appena giovinotto, nel 1494 vi irruppe e in un battibaleno arrivò sino a Napoli. Il suo affetto non fu del tutto corrisposto. Papa Giulio II (Giuliano della Rovere, Savona, 1444-Roma, 1513) nel 1511 promosse la Lega Santa con Spagna e Venezia e bandì la crociata contro i francesi al grido “Fuori i barbari!”. Nel 1796, tre secoli dopo Carlo VIII, Napoleone Buonaparte capitanò la francese Armata d'Italia alla conquista del Bel Paese. Gli piacque allo spasimo. Contento che Ugo Foscolo lo avesse invocato “liberatore”, ne portò via tutto il possibile. Ricordini in gran parte rimasti là. Quando si incoronò imperatore si dichiarò successore di Carlo Magno. Anche Napoleone III volle bene agli italiani (di passaggio anche alla contessa di Castiglione, molto meno influente di quanto si narri). Appena morto Camillo Cavour, lo spiegò a Vittorio Emanuele II: l'Italia aveva sbagliato a volere l'“unificazione”, doveva contentarsi di essere una “unione”, più o meno una confederazione, senza toccare lo Stato Pontificio. Poi la storia andò come andò. Nel 1945-1947 la Francia di De Gaulle impose mortificanti rettifiche di frontiera, irrilevanti in caso di guerra. Aveva la testa volta al passato remoto. Ne scrisse “Il Pensiero di Nizza Bollettino semestrale di studi nizzardi e tendaschi,1995-2006”  riproposti in volume  da Achille Ragazzoni (ed. Settimo Sigillo). I recenti “dissensi” italo-francesi sono dunque appena un cirro in un cielo roseo rispetto alle tempeste dei tempi andati.
   Furono altri, come Altiero Spinelli e Jean Monnet, di qua e di là delle Alpi, a insegnare, settanta e più anni fa, che dopo la nuova guerra dei trent'anni (1914-1945) era tempo di Europa.
L'Europa non c'è
   Però i fatti sono ostinati. Insegnano che, come Clemens von Metternich diceva dell'Italia, l'“Europa” odierna è solo “un' espressione geografica”. Senza politica estera e di difesa veramente unitaria (lo ricorda il generale Claudio Graziano in “Missioni”, ed. Luiss) essa ha confini labili, a differenza della nostra Penisola che va indiscutibilmente dalle Alpi a Capo Passero. Nei miti e nei manualetti delle elementari l'Europa spaziava dall'Atlantico agli Urali. Oggi per molti essa termina dove inizia la Federazione delle repubbliche russe: strabismo politico-culturale dalle conseguenze imprevedibili. Parecchi hanno un'“idea di Europa” più piccola rispetto a quella già matura nel Settecento, quando zar e zarine attraevano in Russia giganti dell'Illuminismo. Il congresso di Vienna del 1815 fu incentrato sullo zar Alessandro I vincitore su Napoleone e “profeta” della Santa Alleanza stipulata tra lui, il re di Prussia e l'imperatore d'Austria (26 settembre 1815). I Tre sovrani decisero di «considerarsi tutti come membri di una medesima nazione cristiana delegati dalla Provvidenza a governare tre rami di una stessa famiglia», senza alcun bisogno di patti costituzionali con i sudditi. Il loro accordo, malgrado tutto, durò sino alla conflagrazione del 1914.
   La Grande Guerra, nel 1917 degenerata nella prima guerra mondiale, travolse quattro imperi (russo, turco, austro-ungarico e germanico) e partorì una decina di nuovi Stati di varie dimensioni (Finlandia, le repubbliche baltiche, la Polonia, la Ceco-Slovacchia, l'Albania, la Turchia stessa...): una babele condannata alla precarietà e precipitata nella seconda fase della “guerra dei trent'anni”, conclusa con la Conferenza di Postdam (17 luglio-2 agosto 1945), che definì un assetto durato fino al crollo dell'Unione sovietica. In “Requiem per un Impero” François Fejto ha descritto magistralmente le rovine causate dalla “repubblicanizzazione” dell'Europa orientale voluta dalla Francia all'indomani della Grande Guerra. La artificiosità dei confini tracciati nelle cinque paci del 1919-1923 generò l'instabilità interna degli Stati novelli e pulsioni neo-nazionalistiche, fomite di altri conflitti. È un “fatto” fisico.
Grande politica e passi rituali
   Tra i frutti tossici della Grande Guerra vi fu l'invenzione del “regno serbo-croato-sloveno”, tenuto a balia dai francesi e dal presidente degli Stati Uniti d'America Wilson che ne assunse la tutela.
   Nel quadro delle relazioni sta Stati antichi e di nuovo conio il Grande Oriente d'Italia (GOI) e la Serenissima Gran Loggia d'Italia (GLI), principali Comunità massoniche italiane negli anni dall'intervento nella Grande Guerra all'avvento del governo Mussolini (1915-1922), esercitarono un'influenza effettiva sulla politica estera e, in specie, per l'annessione di Fiume al Regno d'Italia sin dal 1917-1918? Se n’è parlato a Udine sabato 12 novembre alla presentazione del libro “L'impresa di Fiume tra mito e realtà, 1919-1920”, Atti del convegno svolto nel Castello di Villalta il 19 ottobre 1919 (ed. Etabeta), con interventi di Antonio Binni, già gran maestro della GLI, Valerio Perna, docente emerito di relazioni internazionali, Enrico Folisi e del filmografo Giorgio Sangiorgi. Il quesito merita attenzione perché è rimasto ai margini o è stato appena accennato nelle numerose e talora corpose opere pubblicate a ridosso del centenario della “marcia di Ronchi”. È il caso di “Fiume città di passione” di Raoul Pupo (ed. Laterza), che gli riserva un rapido cenno, mentre è del tutto ignorato nella magistrale opera di Maurizio Serra “D'Annunzio il Magnifico”. Se ne disse nel convegno internazionale di studi organizzato da Giordano Bruno Guerri al Vittoriale (Gardone) nel centenario dell'“impresa”, i cui Atti sono raccolti in “Fiume, 1919-2019” (Silvana Editoriale), ma l'interrogativo è entrato nelle corde solo di pochi studiosi di Fiume e della questione fiumana. Tra costoro, Luca Giuseppe Manenti ne ha scritto in “Meditati riserbi. La massoneria italiana e l'impresa di Fiume”, pubblicato con saggi di Fabio Todero in “Di un'altra Italia. Miti, parole e riti dell'impresa fiumana” (pref. di Raoul Pupo, ed. Gaspari).
   Nell'insieme la domanda sul peso politico effettivo delle Comunità massoniche è rimasta senza risposta esauriente, alla pari dell'altro quesito affiorato nel profluvio di libri pubblicati nel centenario della cosiddetta “marcia su Roma” e della formazione del governo Mussolini. Quale parte vi ebbero i massoni? Mere comparse o protagonisti? La differenza non è affatto irrilevante. Per comprenderne l'importanza occorre un cannocchiale con molte lenti. In primo luogo bisogna inquadrare le Comunità liberomuratòrie italiane nella rete della Massoneria universale: Grandi Orienti o Grandi Logge, secondo le loro denominazioni nei diversi Paesi, e i Conventi mondiali dei supremi consigli del Rito scozzese antico e accettato e gli altri Ordini liberomuratòri, sia noti e sia più riservati. In secondo tempo occorre “testare” il ruolo svolto dalle “massonerie” delle potenze uscite vittoriose dalla prima guerra mondiale nell’ideazione e costituzione della Lega delle Nazioni. Infine vanno accertati i rapporti tra quest'ultima e la Associazione Massonica Internazionale (AMI), di cui in Italia pochissimo si è scritto.
Tre “tre puntini” per Fiume italiana
   Nell'impossibilità di percorrere i meandri di una vicenda aggrovigliata e dalla documentazione frammentaria, per fornire almeno la cornice entro la quale vanno campeggiate “le opere e i giorni” delle Comunità liberomuratòrie italiane con riferimento alla “questione fiumana”, nodo delle tensioni italo-francesi, va ricordato in sintesi che i tre principali propugnatori dell'italianità di Fiume furono massoni: uno, Giacomo Treves, iniziato a Torino nella loggia “Ausonia” del GOI; un secondo, Antonio Vio, membro della “Sirius” di Fiume (già all'obbedienza della Gran Loggia simbolica di Ungheria); e un terzo, Attilio Prodam, iniziato in una “officina” di Venezia della Gran Loggia d'Italia. Si dovrebbe ricordare anche il leggendario Cesare Pettorelli Lalatta Finzi (iniziato alla Gran Loggia d'Italia) ma è meglio non disperdersi in troppi rivoli. Sin dal 30 ottobre 1918, prima della richiesta di armistizio (2-3 novembre) e della sua entrata in vigore (4 novembre) Vio rivendicò pubblicamente l'annessione di Fiume all'Italia. Lo fece con l'autorevolezza che gli derivava dall'essere maggiorente della città, come documenta il poderoso volume “I Verbali del Consiglio Nazionale Italiano di Fiume e del Comitato direttivo, 1918-1920” curato da Danilo L. Massagrande per la benemerita Società di Studi Fiumani. Nelle stesse ore Prodam intraprese la sua missione. Da Fiume raggiunse l'ammiraglio Paolo Thaon di Revel e lo sollecitò a inviare una squadra navale per presidiare la città quarnerina dalle mire dello Stato serbo-croato-sloveno i cui rappresentanti da anni operavano in perfetta sintonia con il Grande Oriente di Francia e con la Gran Loggia di Francia, efficaci proiezioni della politica estera di Parigi. Come egli stesso narrò in “Gli Argonauti del Carnaro”, Prodam ottenne riscontro positivo dal comandante della Marina italiana (membro del Supremo consiglio della Gran loggia d'Italia), che, è da credere, attendeva da parte dei fiumani un segnale che legittimasse l'immediato invio di navi, giunte nel porto di Fiume la mattina del 3 novembre. A quel modo venne scongiurato il rischio che l'occupazione interalleata della città escludesse l'Italia dalla possibilità di accogliere il voto di quanti ne chiedevano l'annessione.
   In vista della pubblicazione del trattato di pace italo-austriaco di Saint-Germain (10 settembre 1919), che rese ufficiale l'esclusione di Fiume dalle terre assegnate al regno d'Italia, Vio rimase a presidiare la città contro gli “autonomisti” capitanati da Riccardo Zanella (ne ha scritto ripetutamente Giovanni Stelli, autore della densa “Storia di Fiume dalle origini ai giorni nostri”, ed. Biblioteca dell'Immagine). Fiume era in fermento. Lo si vide con i “vespri fiumani”, il 6 luglio 1919, quando in un conflitto a fuoco con marinai italiani i “francesi” (alcuni erano annamiti, invero) lamentarono nove morti e undici feriti.
   A inizio settembre, invece, Prodam e Treves in giorni diversi e separatamente raggiunsero Gabriele d'Annunzio alla Casetta Rossa in Venezia per chiedergli di mettersi alla guida della spedizione armata su Fiume, con l'assicurazione che avrebbe avuto il sostegno di un reggimento dei Granatieri di Sardegna ispirati dai “Sette giurati di Ronchi” (nessuno dei quali risulta massone), decisi ad assumere l'iniziativa armata in aperto conflitto con il governo di Roma, tenuto a rispettare il trattato di pace di cui era firmatario. Dopo il Trattato di Versailles del 28 giugno, quello di Saint-Germain costituiva il secondo punto di arrivo del Congresso di pace in corso a Parigi.
   A cospetto del “colpo di mano”, il governo italiano, presieduto da Francesco Saverio Nitti tenne una condotta altalenante. Ufficialmente contrario all'“impresa” e preoccupato per l'afflusso in Fiume di un numero elevato di militari (sin quasi a diecimila uomini), indifferenti al richiamo all'ordine, tentò continuamente mediazioni e non ostacolò i giganteschi soccorsi recati a Fiume dalla Croce Rossa presieduta dal massone Giovanni Ciraolo, che svolse una “diplomazia parallela”.
   Il 25 settembre Vittorio Emanuele III convocò un inedito “Consiglio della Corona” con la partecipazione degli ex presidenti del governo (Giolitti incluso) e dei rappresentanti di tutti i gruppi parlamentari. I soliti socialisti si sottrassero accampando che esso non figurava tra gli organi politici previsti dallo Statuto. Il parere fu unanime: il governo non poteva dichiarare unilateralmente l'annessione di Fiume. Si trattava di una “questione” di carattere internazionale tanto più che erano ancora in corso i lavori poi approdati ai Trattati di pace di Neuilly, Trianon e Sèvres.
   La debolezza del governo Nitti aveva alle spalle gli errori dei suoi predecessori come bene argomenta Valerio Perna nel saggio sulla Marcia di Ronchi, “Un evento annunciato: i presupposti di un colpo di mano”. Si continuava a usare “moneta vecchia” (la disputa su questioni territoriali minimali) a cospetto della “moneta nuova”: lo scenario aperto dal crollo della “Vecchia Europa” e dall'irruzione degli Stati Uniti d'America che al congresso di Parigi si presentò forte di centinaia di consulenti, mentre Roma si limitò a un paio di “politici”, Orlando e Sonnino, a parte Silvio Crespi che a cospetto dalla loro inconcludenza si dimise.
D'Annunzio diplomatico o rivoluzionario?
   Un secolo dopo va constatato che l'ambiguità di Nitti costrinse d'Annunzio a proseguire per la sua via. Che cosa fare a Fiume? In “D'Annunzio diplomatico e l'impresa di Fiume” (ed. Rubbettino) con dovizia di documenti e di analisi Eugenio Di Rienzo colloca l'“impresa” e la sua “lunga durata” nel groviglio dell'instabilità politico-militare postbellica e della “ritirata” degli USA dagli affari europei sin dal crepuscolo dalla presidenza di Wilson. Appena un mese dopo l'“occupazione” della “città olocausta” d'Annunzio fu sul punto di andare oltre l'incertezza con una seconda “marcia”, su (e da) Trieste per incendiare l'Italia. Cozzò contro la ferma opposizione del gran maestro del Grande Oriente d'Italia, Domizio Torrigiani (GOI). La nuova “impresa” avrebbe scatenato l'insurrezione dei socialisti e questi sarebbero stati annientati dall'esercito. In Italia si sarebbe imposto un regime militare. Ma a defilarsi furono anche altri, compreso Benito Mussolini (già al soldo degli inglesi, 75 sterline al mese, secondo quanto scrivono Cereghino e Fasanella in “Nero di Londra”, ed. Chiarelettere) che “capitalizzò” il fiumanesimo a vantaggio del fascismo nascente.
   La “stasi” della questione fiumana fino alla proclamazione della Reggenza e della Carta del Carnaro e al Trattato italo-jugoslavo di Rapallo (novembre 1920) concorse a condurre l'“impresa” nei binari degli interessi dell'Italia, al riparo dalle pesanti interferenze di Parigi. A deciderne le sorti fu infine Vittorio Emanuele III, che recepì e sintetizzò i “consigli” delle maggiori forze economiche del Paese, molto più risolutivi rispetto all'anemico Consiglio della Corona del 25 settembre 1919. I nodi aggrovigliati sul confine italo-jugoslavo nel 1918-1924 si ripresentarono vent'anni dopo, a danno degli italofoni della costa dalmata, di Fiume, dell'Istria e della Venezia Giulia con la terribile  pagina delle foibe e del forzato esodo di trecentomila cittadini italiani. Tra i quali Attilio Prodam, poi asceso alla guida della Gran Loggia d'Italia. Quel “mondo” rimane in attesa di essere meglio conosciuto e apprezzato.
   Dunque gli screzi odierni tra le “sorelle latine” hanno secoli di storia alle spalle. Sono brume in attesa che sull'Europa sorga il Sole.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Sui rapporti tra Gabriele d'Annunzio (Pescara, 1863-Gardone Riviera, 1938: qui ritratto nella copertina del Quaderno curato da Giacomo Treves per il Comitato torinese “Pro Fiume e Dalmazia) e la Libera Muratoria ha scritto recentemente Raffaella Canovi in “L'Iniziato. D'Annunzio e la Massoneria” (ed. Ianieri), che privilegia Giacomo Treves quale tramite fra il Vate e il Grande Oriente d'Italia. Molto più durevole e profondo fu il rapporto instaurato dal Poeta con Attilio Prodam, rimasto al suo fianco anche nel “Natale di sangue”, venerabile della “XXX Ottobre”, “officina” della Serenissima Gran Loggia d'Italia (GLI) e “ponte” tra il Comandante e il sovrano scozzesista Raoul Palermi. Suscita interesse il notevolissimo sviluppo registrato dalla rete di logge della GLI da Trieste all'Istria e alla costa dalmatica dopo il 1918.
   Poiché è una realtà poco nota, giova ricordare alcuni dati. In primo luogo, nel decennio tra il 1915 e l'auto-scioglimento (1926), deliberato sotto la persecuzione antimassonica scatenata dai nazionalfascisti, vennero annotate 28.800 iniziazioni, alcune delle quali “segrete”. A parte le logge installate all'estero, richiamano l'attenzione quelle di Trieste (“Trieste Redenta”, “Nuova Italia” “Washington”, “Bovio”, “San Giusto”, “Sabotino”, “Adriano Lemmi”), Udine (“Carlo Pisacane”, “Cavalieri del Friuli”), Gorizia (“Santa Gorizia”), Istria (“Capodistria”, “Nazario Sauro”), Pola (IV novembre”, “Nazario Sauro”), Abbazia (“Concordia”), Zara (“Premuda”) e, s'intende, Fiume (“XXX Ottobre 1918-12 settembre 1919”). 
   Troppo spesso sottostimato dai massonologi, Palermi si mosse con lungimiranza, attraendo nella sua Comunità personalità già affermate: militari, industriali (tra i quali Vittorio Valletta), banchieri, diplomatici, politici nettamente contrari al bolscevismo, artisti, scrittori (Curzio Malaparte), futuri storici (come Nino Valeri, collaboratore di uno dei figli del Vate, Gabriellino d'Annunzio, a sua volta iniziato), sino ad Antonio De Curtis, “Totò”, Cesco Baseggio e altri.
   Anche su pressione dei nazionalisti, Mussolini annientò il GOI e la GLI ma continuò a valersi di massoni, anche in posizioni eminenti (Italo Balbo, Giacomo Acerbo, Balbino Giuliano, Edmondo Rossoni, Alberto Beneduce...), perché essi costituivano il nerbo della classe dirigente e risultavano insostituibili. Esattamente come accadeva negli USA, in Gran Bretagna, Francia e negli Stati di nuova creazione, ove le logge erano e sono espressone diretta e indiretta della “grande politica”, le cui vicende possono dunque essere meglio comprese proprio addentrandosi nel mondo lato mistico, da studiare e narrare senza pregiudizi, compreso quello secondo il quale le logge non si occupano né di politica né di religione. È esatto, ma solo se per tali si intendano “fazioni” e  “fanatismi”.
A.A.M.

ITALIA E MONTENEGRO
INSIEME IN EUROPA


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 6 Novembre 2022 pagg. 1 e 6.

Alle 12 di oggi, domenica 6 novembre 2022, nel Santuario-Basilica di Vicoforte l'Ambasciatrice dello Stato del Montenegro in Italia, Dott.ssa Milena Sofranac Ljuboljevic (nella fotografia con il Presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella), accompagnata dal Ministro consigliere, Jelena Burzan, e dal Primo segretario dell'Ambasciata, Dejana Backovic, rende omaggio alla Reale Tomba della Regina Elena di Savoia (1873-1952), nata Petrovic-Niegos, Principessa del Montenegro, consorte di Vittorio Emanuele III, Re d'Italia dal 1900 al 1946.   L'Ambasciatrice viene accolta dal Rettore del Santuario, don Francesco Tarò, e dalla Consulta dei Senatori del Regno presieduta da Aldo A. Mola, che porge agli illustri ospiti il “benvenuto” della Principessa Maria Gabriella di Savoia, forzatamente assente, e del generale Giorgio Blais, presidente del Gruppo Croce Bianca (Torino).   Interviene una folta delegazione dell’Associazione Italia-Montenegro guidata dalla Presidente, Danijela Djurdjevic, che già fu a Vicoforte il 18 marzo 2018, di concerto con il segretario della Consulta, Gianni Stefano Cuttica.   La visita dell'Ambasciatrice concorre a rendere sempre più saldi i rapporti tra l'Italia e il Montenegro, che, già membro della Nato, da anni è in attesa dell'ingresso a pieno titolo nell'Unione Europea, nell'interesse dei due Stati che si affacciano sull'Adriatico e hanno motivo di ripercorrere e confrontare le rispettive storie all'insegna della collaborazione culturale ed economica e di promuovere la conoscenza reciproca.13 luglio 1878: quando il Montenegro divenne Stato
   Così vicine, così lontane. L'Italia e la “Montagna Nera”. Poche miglia marine separano la costa orientale della penisola dalle Bocche di Cattaro. Eppure per secoli l'Adriatico meridionale nella percezione degli abitanti degli Stati preunitari italiani (Venezia a parte) rimase più largo di un oceano. Al di qua vi erano il Sacro romano impero e i Principi ai quali venne via via delegato l'esercizio del potere, soprattutto nel Mezzogiorno. Al di là, dopo la caduta di Costantinopoli nelle mani di Maometto II (1453), improvvisamente ci fu l'ignoto; anzi, la continua avanzata dell'impero turco-ottomano, giunto ad assediare Vienna e fermato solo da Eugenio di Savoia che lo sconfisse tra Sei e Settecento a Zenta, a Petervaradino e a Belgrado. Per gli “italiani” dal mare giungeva il nemico assoluto. Perciò si susseguirono secoli di disattenzione nei confronti delle popolazioni indomite che al di là dell'Adriatico avevano difeso strenuamente per secoli la propria indipendenza, radicata anche nella confessione cristiana ortodossa. Solo nell'ultimo quarto dell'Ottocento un'esigua pattuglia di “politici” colti e lungimiranti scoprì l'esistenza del Montenegro e ne comprese l'identità, soprattutto da quando, a conclusione del Congresso di Berlino (13 giugno-13 luglio 1878), esso venne riconosciuto Stato sovrano dalla Comunità internazionale.
   Dopo la feroce guerra franco-prussiana e la proclamazione dell'Impero di Germania (1870-1871) l'Europa rimaneva in fibrillazione. Ad allentare la tensione non era bastata l'Alleanza degli imperatori di Russia, Germania e Austria-Ungheria (1873). Nel 1877 la guerra russo-turco, segnata da orrori medievali, rimise in discussione l'impero ottomano, il “grande malato di Oriente”. La pace di Santo Stefano (3 marzo 1878) chiuse quel conflitto a vantaggio dello zar, ma le sue conseguenze andavano condivise e ratificate dalle “grandi potenze”. Occorreva appunto un “Congresso”, come era avvenuto a Parigi nel 1856 al termine della guerra anglo-franco-turca (con adesione del regno di Sardegna) contro l'impero russo e, più addietro ancora, nel 1815 a Vienna, inizio del “secolo della pace” (1815-1914). Come scosse telluriche a bassa intensità, i conflitti “di teatro” scaricavano la tensione ora in un teatro ora nell'altro rimandando il terremoto devastante, la temutissima conflagrazione europea.
   Il “concerto delle grandi potenze” non accettava un direttore. Poiché ogni musico suonava per proprio conto, ignorando il ritmo generale, spesso l'orchestra steccava. Il bisogno di adottare uno spartito comune si impose (o così si ritenne di fare) con l'ultimo Congresso di pace dell'Ottocento, voluto dal Cancelliere germanico Otto von Bismarck. Il suo maggior pregio fu di prendere atto dell'esistenza delle “nazioni senza Stato” e di dare loro un assetto senza causare la deflagrazione degl'imperi turco e asburgico. La politica di equilibrio aveva già accettato le due principali “novità” di metà Ottocento: la costituzione del regno d'Italia nei confini fissati con la pace di Vienna del 1866 (ne ha scritto ampiamente Carlo M. Fiorentino in “Il garbuglio diplomatico. L'Italia tra Francia e Prussia nella guerra del 1866”, ed. Luni, Premio Acqui Storia 2022) con capitale a Roma, tolta al Papa, e quella dell'impero di Germania “sotto” l'egemonia della Prussia. Però vi erano tabù intoccabili. Fu il caso della cattolica Polonia che rimase spartita tra Russia (ortodossa), Prussia (luterana) e impero d'Austria (prevalentemente cattolico). Con il trattato “di pace” del 13 luglio 1878 (da poco Umberto I era succeduto a Vittorio Emanuele III e presidente del Consiglio era Benedetto Cairoli affiancato agli Esteri da Luigi Corti) Austria-Ungheria, Francia, Germania, Gran Bretagna, Russia e Turchia, «desiderando regolare in un pensiero d'ordine europeo le questioni sollevate in Oriente dagli avvenimenti degli ultimi anni», raggiunsero «felicemente» l'intesa. Uno “strumento” di soli 64 articoli inglobò e superò quelli di Parigi del 30 marzo 1856 e di Londra del 13 marzo 1871. Alcune “partite” molto delicate erano già state risolte alla chetichella tra i diretti interessati. Fu il caso dell'occupazione di Cipro da parte della Gran Bretagna, pattuita da una convenzione segreta tra Londra e la Sublime Porta il 4 giugno 1878.
   Le innovazioni concordate dal Trattato di Berlino segnarono il successivo secolo e mezzo della storia europea e in gran parte vigono tuttora. Gli articoli 1-11 riconobbero la Bulgaria come principato autonomo, con governo cristiano e milizia nazionale, benché ancora tributario del Sultano, e un principe liberamente eletto dalla popolazione ma estraneo alle dinastie regnanti nelle Grandi potenze. Gli articoli 13-22 istituirono la Rumelia Orientale, retta da un governatore generale nominato dalla Sublime Porta ma con temporanea occupazione di truppe russe gravanti sulla popolazione. Il Sultano si impegnò ad «applicare rigorosamente nell'isola di Creta il regolamento organico del 1868» con eque modifiche a garanzia dei non islamici. La loro continua violazione suscitò rivolte duramente represse. Bosnia ed Erzegovina furono occupate e amministrate da Vienna, che avrebbe mantenuto una guarnigione anche in Bosnia. Gli articoli 34-42 riconobbero l'indipendenza del Principato di Serbia e ne definirono le frontiere. Fu altresì riconosciuta l'indipendenza del Principato di Romania, ma con restituzione della Bessarabia all'impero russo. Venne deliberata la smilitarizzazione delle rive del Danubio, con libertà di navigazione. Furono inoltre ridisegnati i confini tra gli imperi russo e turco. La Sublime Porta si impegnò a concedere le riforme chieste dagli Armeni e a tutelarli dai Circassi e dai Curdi, ma verso fine Ottocento ne perpetrò il primo genocidio, condannato da Giosue Carducci negli aspri versi “La mietitura del turco”. Tutti i sovrani firmatari sottoscrissero “il principio della libertà religiosa”, caposaldo della “pax europea”, intimato sia al “principe” di Romania sia, in specie, al Sultano: «In nessuna parte dell'impero ottomano, la differenza di religione potrà essere opposta da alcuno come motivo di esclusione o di incapacità in ciò che concerne l'uso dei diritti civili e politici, l'ammissione ai pubblici impieghi, le funzioni e gli onori o l'esercizio delle diverse professioni e industrie». I monaci del Monte Athos ebbero speciale garanzia di libertà.
   Gli articoli 26-29 del Trattato, infine, riconobbero l'indipendenza e la neutralità del Montenegro. Per garantirle fu ordinata la demolizione di tutte le fortificazioni esistenti sul suo territorio e venne vietata la costruzione di nuove difese e di navi da guerra. Il suo sbocco al mare, Antivari, fu chiuso alle navi da guerra di Paesi terzi. Dunque, la “forza” del nuovo Principato risultò tutt'uno con il suo “disarmo”. Proprio perché indifendibile, esso era anche invulnerabile. Chiunque avesse voluto soggiogarlo avrebbe scatenato un conflitto di dimensioni imprevedibili, come avvenne nel 1914 con l'aggressione della Serbia da parte dell'impero austro-ungarico. La “Montagna Nera” allungò la sua ombra sull'Europa dalla pace sempre più precaria.
Una storia aggrovigliata
   Abitato da una popolazione fiera e bellicosa, prevalentemente cristiano ortodossa, dal 1711 il Montenegro divenne di fatto indipendente dalla dominazione turco-ottomana. Dal 1697 fu retto dalla dinastia Petrovic-Niegos, principi-vescovi, che si susseguivano da zio a nipote perché i vescovi osservavano il celibato a differenza del clero. Tra loro spiccò Petar II (1830-1851), due metri di altezza, volitivo ed elegante, autore del capolavoro letterario “Il serto della montagna”, nel quale sono celebrati i “vespri montenegrini”, cioè il massacro degli islamici alla vigilia del Natale ortodosso del 1702. Le sue spoglie riposano in un suggestivo Mausoleo sulla vetta di un monte. Suo nipote, Danilo II, interrompendo la tradizione, nel 1852 “laicizzò” il principato e, col titolo di Danilo I, lo rese simile agli altri Stati europei. Con abile strategia matrimoniale suo figlio Nicola (1860-1918), molto legato agli zar di Russia, strinse rapporti con altre dinastie.
   Il 24 ottobre 1896 Vittorio Emanuele di Savoia, principe di Napoli ed erede della Corona d'Italia, sposò una delle sue figlie, Elena di Montenegro, previa la sua conversione alla chiesa cattolica. La loro fu unione singolarmente felice, allietata dalla nascita di quattro principesse (Jolanda, Mafalda, Giovanna e Maria) e del principe ereditario Umberto di Piemonte (Castello di Racconigi, 15 settembre 1904-Ginevra, 18 marzo 1983).
   Nel 1910 il Montenegro fu elevato alla dignità di regno. Sei anni dopo, nella bufera della Grande Guerra, venne occupato dagli austro-ungarici. Nicola I riparò in Francia.  Un'assemblea a Podgorica nel 1918 lo dichiarò decaduto e approvò l'incorporazione del Montenegro nel nascente Stato serbo-croato-sloveno. Regno di Jugoslavia dal 1929, questo ebbe vicende interne turbolente sino alla seconda conflagrazione europea, che vide il Montenegro travolto dalle armate germaniche e affidato a un corpo di occupazione italiano. Il 12 luglio 1941 fu proclamato a Cettigne un effimero Regno libero e indipendente di Montenegro. L'indomani, ricorrenza dell'indipendenza del 1878, iniziò la rivolta dei montenegrini contro gli occupanti, repressa con metodi brutali dal governatore civile e militare Alessandro Pirzio Biroli. La popolazione visse pagine tragiche e fiancheggiò i “comunisti” locali e quelli di Tito, non per motivi ideologici ma per liberarsi dalla dominazione straniera.
   Nel settembre 1943, al momento della resa agli anglo-americani, l'Italia contava 27 divisioni in Jugoslavia e un corpo d'armata in Montenegro agli ordini e generale Ercole Roncaglia. Nel groviglio di fazioni in lotta (cetnici, monarchici filoserbi; ustascia croati e bande di varia stirpe e colore) i militari italiani sopravvissuti agli scontri con i tedeschi e con i “partigiani” stabilirono intese con l'Esercito popolare di liberazione jugoslavo e si organizzarono in Divisione “Garibaldi”, riconosciuta dal governo presieduto dal maresciallo Pietro Badoglio. Dettero ripetute prove di valore, in specie nell'agosto 1944 quando i tedeschi tentarono l'ultima offensiva. A fine conflitto il Montenegro entrò a far parte della Repubblica federale di Jugoslavia che sedette tra i vincitori al congresso di pace di Parigi, concluso con il diktat del 10 febbraio 1947 imposto all'Italia a tutto vantaggio di Tito.
   La distanza tra le due coste dell'Adriatico si ampliò nuovamente. Separò mondi che rimasero a lungo quasi privi di relazioni. Alla deflagrazione della Jugoslavia (1991), il Montenegro formò una federazione con la Serbia, che però, per la disparità di “forze”, si rivelò poco conveniente e anzi svantaggiosa a causa della politica estera intrapresa dal serbo Milosevic.
Il destino europeo
Nel 2002 la federazione venne commutata in “unione”, da sperimentare per tre anni. L'esito fu scontato. Nel 2006 con un referendum i Montenegrini chiesero l'indipendenza, proclamata a giugno e soccorsa da imponenti investimenti bancari internazionali. Dopo un lungo percorso, il 28 aprile 2017 il parlamento montenegrino ha ratificato l'adesione alla Nato, mettendo tra parentesi i bombardamenti e le vittime subite dalla sua stessa capitale, Podgorica, durante la “guerra di Bosnia”. Il governo presentò la richiesta di ingresso nell'Unione Europea, rinviata per la persistente gracilità del suo assetto economico, che tuttavia migliora di anno in anno, al di là della complicatissime vicissitudini parlamentari e partitiche e della sequenza di presidenti del governo, del tutto comprensibili per una Entità antica e nuova qual è la Repubblica del Montenegro. Tra le sue personalità di valenza internazionale spicca Dukanovic, politico di lungo corso, già presidente del Consiglio e poi della Repubblica con mandato sino al 2025.
   L'Italia ha tutto da guadagnare dal rafforzamento dell'amicizia con il “Paese delle Aquile” nella visione tratteggiata dal generale Claudio Graziano in “Missione. Dalla Guerra fredda alla Difesa europea” (ed. Luiss). Lo aveva intuito il futuro Vittorio Emanuele III anche prima di andare a Cettigne a chiedere in sposa la Principessa Elena Petrovic-Niegos a suo padre Nicola. L'Europa già c'era. Per riflettere sulle sue origini e sulle sue prospettive giova raccogliersi a riflettere dinnanzi alle Tombe nel Santuario di Vicoforte come fa l'Ambasciatrice del Montenegro in Italia, Milena Sofranac Ljuboljevic. D'altra parte il Paese dell'Aquila Bicipite, con lo scudo della dinastia Petrovic-Niegos sul petto e corona sormontata dalla Croce, impartì una lezione di storia e di stile quando, con una “operazione” molto complessa traslò a Cettigne, sua antica capitale, le salme dell'ultimo Re, Nicola, e della sua Consorte, Milena, morti in esilio e deposte nella cripta dalla Chiesa Ortodossa di Sanremo.
   La Memoria è intessuta di atti dal valore emblematico che uniscono due Paesi che si affacciano su uno stesso mare e nei secoli hanno avuto una storia parallela: la strenua difesa della propria identità.
Aldo A. Mola

Alle 12 di oggi, domenica 6 novembre 2022, nel Santuario-Basilica di Vicoforte l'Ambasciatrice dello Stato del Montenegro in Italia, Dott.ssa Milena Sofranac Ljuboljevic (nella fotografia con il Presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella), accompagnata dal Ministro consigliere, Jelena Burzan, e dal Primo segretario dell'Ambasciata, Dejana Backovic, rende omaggio alla Reale Tomba della Regina Elena di Savoia (1873-1952), nata Petrovic-Niegos, Principessa del Montenegro, consorte di Vittorio Emanuele III, Re d'Italia dal 1900 al 1946.
  L'Ambasciatrice viene accolta dal Rettore del Santuario, don Francesco Tarò, e dalla Consulta dei Senatori del Regno presieduta da Aldo A. Mola, che porge agli illustri ospiti il “benvenuto” della Principessa Maria Gabriella di Savoia, forzatamente assente, e del generale Giorgio Blais, presidente del Gruppo Croce Bianca (Torino).
  Interviene una folta delegazione dell’Associazione Italia-Montenegro guidata dalla Presidente, Danijela Djurdjevic, che già fu a Vicoforte il 18 marzo 2018, di concerto con il segretario della Consulta, Gianni Stefano Cuttica.
  La visita dell'Ambasciatrice concorre a rendere sempre più saldi i rapporti tra l'Italia e il Montenegro, che, già membro della Nato, da anni è in attesa dell'ingresso a pieno titolo nell'Unione Europea, nell'interesse dei due Stati che si affacciano sull'Adriatico e hanno motivo di ripercorrere e confrontare le rispettive storie all'insegna della collaborazione culturale ed economica e di promuovere la conoscenza reciproca.

OTTOBRE 1922
QUEL CHE NON ACCADDE


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 30 Ottobre 2022 pagg. 1 e 6.

Italia al bivio? Un manifestino fotografa la “vigilia”: circa 25.000 “camicie nere” (non 80.000 o addirittura 200.000) erano accampate a decine di chilometri da Roma, prive di munizioni da fuoco e da bocca. In Roma entrarono solo la notte fra i 30 e il 31, per sfilare e andarsene mentre si insediava il governo. A fine ottobre 1922 nessuno in Italia immaginava che Mussolini sarebbe rimasto presidente del Governo per ventun anni. Prima di lui anche gli statisti più coriacei (Depretis, Crispi, Giolitti) avevano retto appena un decennio, ma a ministeri intermittenti. La “svolta” avvenne il 3 gennaio 1925 per pressione dei Consoli della Milizia su Mussolini. Di “Italia al bivio” si è parlato il 28 ottobre nel Salone dei Mosaici di Ravenna, per iniziativa dell'Associazione Culturale “Tessere del Novecento” presieduta da Piero Casavecchia. Il 30 maggio 1922 Mussolini intitolò “Al bivio” un articolo pubblicato in “Il Popolo d'Italia”: «Le adunate regionali fasciste si susseguono in ogni regione d'Italia e si rassomigliano nella loro straordinaria imponenza e nella loro perfetta disciplina. […] La sua forza di propulsione, i suoi motivi di vita sono così potenti che lo fanno rassomigliare ai fenomeni logici e inesorabili della natura.» Però anche i più devastanti fenomeni naturali infine si placano e “la terra resta sempre immutata” (Ecclesiaste,1,4).In attesa di risposte
Domani, 30 ottobre, saranno cent'anni esatti dall'insediamento del governo di coalizione costituzionale presieduto dal trentanovenne Benito Mussolini, dopo Matteo Renzi il più giovane tra i primi ministri della storia d'Italia.  Nel “centenario” sono comparsi molti libri, di diverso valore. I più risultano “di occasione”: lunghe premesse su due anni e più di “malefatte” degli squadristi, l'organizzazione della “marcia” (mai avvenuta), la proclamazione dello stato d'assedio senza la firma del re, l'incarico a Mussolini di formare il governo e l'interrogativo di sempre: insurrezione? Rivoluzione o solo una melina? Molti autori ammettono che gli eventi cruciali, spesso narrati in modo ancora impreciso e fantasioso, rimangono avvolti nel mistero. Vale soprattutto per il rifiuto del re di firmare lo stato d'assedio e dei due ventilati “condizionamenti” all'origine del “gran rifiuto”: la lealtà dell'Esercito e l'incubo del “cugino”.
   A questo riguardo in “1922. La Marcia su Roma. Mussolini, il bluff, il mito”, ora nelle edicole con “il Giornale”, il saggista Claudio Fracassi afferma che «non sembra siano ancora emersi solidi elementi di fatto che colleghino direttamente i conflitti dinastici ai disegni di potere di Mussolini». In sintesi, la ventilata sostituzione di Vittorio Emanuele III con suo cugino Emanuele Filiberto, duca d'Aosta, è e rimane una diceria. Si basa su un vago “sentito dire” di Margherita Facta, figlia del presidente del Consiglio. È passato invece sotto distratto silenzio che la proclamazione dello stato d'assedio andava molto oltre le competenze del governo, dimissionario dal tardo pomeriggio del 27 ottobre, mentre il Re rientrava a Roma da San Rossore (Pisa) per affrontare la crisi sfuggita di mano alla compagine governativa. Furono Facta e i suoi ministri a scaricarne la soluzione sulle spalle del re, a camere chiuse. Un vero e proprio colpo di Stato. Liquidato in pochi minuti Facta, che andò a dormire pacificamente all'Hotel Londra, tra Villa Savoia e il Quirinale Vittorio Emanuele III si mise all'opera, assistito dal primo aiutante di campo, il generale Arturo Cittadini.
   La mattina del 28 ottobre la situazione politica era ormai chiara: tutte le personalità e le organizzazioni rapidamente consultate dal re o in grado di fargli pervenire il loro pensiero si erano schierate per un governo comprendente esponenti del Partito nazionale fascista, incluso Mussolini. Il luogotenente della “marcia su Roma”, Ernesto Civelli, lo assicurò sul “punctum dolens”: i fascisti intendevano entrare in Roma per applaudirlo, non per avversarlo. Lo garantivano anche i quadrumviri Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi, monarchici senza se e senza ma. L'ex presidente del Consiglio Antonio Salandra, sponsorizzato dai nazionalisti ma inviso a Vittorio Emanuele Orlando (che brigava per ottenere l'incarico), Giovanni Giolitti (che, non solo per colpa sua, ebbe il torto di non trovarsi a Roma nelle ore decisive) e lo stesso Facta, che puntava a succedere a sé stesso, si eliminarono a vicenda in una ridda senza capo né coda.
   La sera del 13 settembre l'altro possibile protagonista, Gabriele d'Annunzio, era stato spinto ai margini della lotta politica da Luisa Baccara infastidita dal corteggiamento del Vate a sua sorella minore, Jolanda. Cadde da sette metri, batté la nuca, rimase tra la vita e la morte e impiegò settimane a riprendersi. Se il parapetto della Sala della Musica di Villa Cargnacco a Gardone fosse stato più alto la storia d'Italia sarebbe stata diversa? Impossibile dirlo. Il “volo dell'Angelo” paralizzò e disperse i suoi seguaci, a conferma che non costituivano affatto una “forza d'interdizione” all'avvento di Mussolini. Ne ha scritto Raffaella Canovi nel documentato saggio “L'Iniziato? D'Annunzio e la Massoneria” (ed. Ianieri). Benché dolorante, nel confuso turbinio di trattative più meno coperte il Vate fu evocato sia da Facta, che lo voleva celebrante il 4 novembre all'Altare della Patria, sia da Francesco Saverio Nitti, dimentico di esserne stato irriso col nomignolo di “cagoia” (sta per lumachetta, ma suona peggio). Di fatto tutte quelle trame si risolsero nell’eliminazione reciproca dei concorrenti, a vantaggio di Mussolini, che a sua volta trattava direttamente o indirettamente con tutti e quindi, a differenza dei suoi singoli interlocutori, conosceva di ciascuno ambizioni e debolezze e arrivò a pretendere dal re quanto sino alla sera del 28 ottobre sembrava impossibile: l'incarico di formare il governo egli stesso, come esplicitamente annunciato per telegramma dal generale Arturo Cittadini (iniziato alla Serenissima Gran Loggia d'Italia, secondo Fracassi, che non adduce però alcuna prova di tale asserzione e nulla aggiunge a quanto scrisse nel 1950 Michele Terzaghi in “Fascismo e Massoneria”).
   Dunque su ciò che davvero avvenne nelle ore decisive siamo ancora ai punti interrogativi.
Una “marcia” per soli maschi
   E su chi rimase a margini?
   Il grande assente nella narrazione della scena italiana sulla fine di ottobre del 1922 furono le donne. La sera del 29 Rachele Guidi Mussolini preparò la valigia al marito Benito in partenza da Milano per Roma. Alla Stazione il duce incontrò la sua Ninfa Egeria, Margherita Sarfatti. Ma le due poi disparvero. Non se ne trova alcuna immagine nelle opere celebrative della “marcia” quale premessa logico-cronologica della “Rivoluzione fascista” e del governo che ne scaturì.
   Nella narrazione (e non solo lì, s'intende) la “marcia” risultò un'impresa esclusivamente maschile. Tre brevi considerazioni al riguardo. È ormai pacifico che il nerbo degli “squadristi” arrivava dagli Arditi, il corpo di élite approntato sin dall'estate 1917 (mesi prima di “Caporetto”) per operazioni che richiedevano massima preparazione fisica e sprezzo della vita. Ne allestirono di analoghi gli eserciti degli altri Stati in lotta, ma gli italiani primeggiarono. Nessuno prese in considerazione che i loro reparti potessero comprendere donne, escluse dal “servizio militare”. Il benemerito Corpo della Croce Rossa, nel quale le volontarie furono superiori a ogni encomio, aveva compiti del tutto diversi. In secondo luogo, per natura e scopi, le “squadre” furono formate da militi che venivano chiamati all'azione “ad nutum” dei superiori gerarchici mentre erano radunati nei loro “covi”, nelle trattorie o a casa, armati alla bell'e meglio: moschetti, revolver, bastoni, il “santo manganello”. Le donne badavano ai fornelli.
   Il Regolamento di disciplina per la Milizia fascista non lascia dubbi. “Il Partito fascista è sempre una milizia; la Milizia fascista è al servizio di Dio e della Patria (silenzio sul Re, NdA). La sua veste soldatesca è intesa a donare all'Italia una nuova virilità maschia […] Il Milite fascista conosce soltanto doveri […] Il Milite ha una sua morale. La morale comune, quella dal volto famigliare, dal volto politico, dal volto sociale, prismatica, faccettata, a larghe maglie, non serve al milite fascista L'onore per lui, come per i cavalieri antichi, è sempre al di sopra della legge scritta e formale”. Per chi si batteva il “Caballero andante”? L'Amata manco sapeva della sua esistenza. Era lui a “immaginarla” e a battersi per avere l'onore del suo sorriso.
   La “questione femminile” è fra le differenze profonde tra il fascismo e d'Annunzio, che consegnò la sua visione del mondo alla Carta del Carnaro, scritta dal sindacalista repubblicano Alceste De Ambris ma da lui integrata nei passi qualificanti. La vita quotidiana di Fiume, dall'impresa di Ronchi alla sua tragica conclusione, registrò un flusso continuo di presenze femminili, come di maschi che vi accorsero anche perché vi vigeva il divorzio. Ma fu la Carta a proclamare la completa parità giuridica dei cittadini a prescindere anche dal sesso.
   Lo squadrismo fascista si arrestò molto molto prima. D'altronde doveva scegliere tra il “libero amore” (predicato dai socialisti e praticato dagli squadristi) e il sostegno della Chiesa cattolica in un'Italia la cui legislazione solo nell'estate 1919 fece qualche passo avanti a beneficio della posizione giuridica della donna.
   La conferma balza evidente dalle celebrazioni ufficiali della “Marcia”. Nei cinque volumi della “Storia della Rivoluzione fascista” (saccheggiata e di rado citati nei libri recentemente comparsi sul 1922) Giorgio Alberto Chiurco inserì appena tre fotografie con donne sulle centinaia e centinaia disseminate nell'opera. In una compare un'anonima floreale signora alla sinistra del gerarca di terza fila Guido Pighetti all'inaugurazione del fascio di Arrone, in provincia di Terni. La seconda ritrae il fascio femminile di Roma capitanato da Piera Fondelli, che nel 1921 ebbe segretaria politica Rosa Bocco, poi Jolanda Pagni e contò nelle sue file Emilia Carreras, Corinna Consorti, Bianca Luisa Rossi e Ines Donati. Nata a Sanseverino Marche nel 1900, Donati era meritevole di speciale memoria. Nazionalista dal 1919, allieva dell'Istituto Superiore di Belle Arti, nota nel quartiere di Trastevere come «la Fascista, galoppina e propagandista nelle elezioni amministrative e politiche, tra mille pericoli, si era acquistata fama di eroina, fra i più fieri squadristi, in mille azioni, spedizioni e dimostrazioni, tra le quali anche quella di Ravenna nel 1921» (Chiurco). Arrestata per aver schiaffeggiato il deputato socialista e poi comunista Della Seta, ai suoi occhi colpevole di ingiurie contro la Patria, Donati subì varie aggressioni, tanto da essere solitamente scortata al rientro nella Casa Famiglia di Santa Ruffina ove era ospitata dalle suore. “Profondamente femminile”, ma per la sua “attività più che virile” meritò encomi e due medaglie di benemerenza. Quasi unica donna presente tra i “marciatori per Roma”, malata di tubercolosi si spense il 3 novembre 1924, “quasi col morire dello squadrismo”.
   Donati aveva presso parte anche alla spedizione per cacciare i “rossi” dal municipio di Falconara Marittima, vividamente descritta dal marchese Dario Colucci: «Alle 16 è venuta una squadra di fascisti; erano circa 25 con una donna. Banda curiosa. Camicie e berrette nere. Uno era con una tunica celeste. Uno aveva un elmetto di ferro. Un altro aveva un moschetto da cavalleria. Tutti con clave e bastoni nodosi inverosimili. Portavano una bandiera tricolore e si sono annunciati con spari di revolver e canti. I socialisti di qui sono scappati». Terminata l'“impresa” (devastazione del negozio di un comunista e incendio del circolo dei cacciatori) se ne partirono per Ancona.
   Terza donna ammessa nel Pantheon della “rivoluzione fascista” figurò Edda Mussolini fotografata a Villa Torlonia alla destra del padre, a regime instaurato: una delle tante immagini del “duce” a cavallo, inginocchiato dinnanzi al Sacello del Milite Ignoto, in uniforme di primo ministro, violinista, “rurale”, impegnato nella battaglia del grano e “sportman” (sic!), in posa con la lama sulla spalla.
Plebiscito di adesioni e silenzio delle “opposizioni”
   Nella “marcia” del 31 ottobre 1922, mossa dal Parco di Villa Borghese/Piazza del Popolo alla volta di Vittoriano, Quirinale, Stazione Termini, banda musicale di Roma alla testa, alle camicie nere si mescolarono le azzurre dei nazionalisti e le rosse di fervorosi garibaldini.
   Grande assente nelle narrazioni antiche e recenti della crisi di fine ottobre 1922 è l'“opposizione”, di cui nel Centenario poco si è scritto. Sotto silenzio rimane anche il “plebiscito” di telegrammi augurali, messaggi e lettere di plauso puntualmente pubblicati dal quotidiano mussoliniano “Il Popolo d'Italia”: senatori e deputati non ancora e persino mai intruppati nelle file del PNF e un lungo elenco di notabili italiani e stranieri, compreso il presidente del governo del Montenegro, artisti (Medardo Rosso), scrittori (Gino Piva, figlio naturale di Giosue Carducci e Carolina Cristofori, Annie Vivanti), i Crespi, i Pirelli, Bonaldo Stringher, Gabriellino d'Annunzio, un profluvio di sindaci, circoli, enti, associazioni... e il medico di fiducia di Mussolini, Ambrogio Binda, massone.
   Al coro si unì anche il comitato centrale dei Fasci repubblicani italiani, “saldamente attaccati alle dottrine di Giuseppe Mazzini, santo dei santi” dal quale “ancora molto debbono attendere le generazioni presenti e future”, fieri di tributare riconoscenza al Duce. Altrettanto fece il 1° novembre la direzione centrale del Partito liberale italiano, che telegrafò al generale Cittadini la «profonda commossa ammirazione verso il Sovrano, che, continuando la gloriosa tradizione della sua dinastia, ha saputo suscitare dalla tragica situazione presente i nuovi destini d'Italia».
   E le “sinistre”? Per i socialisti (che proprio alla vigilia della “marcia” registrarono l'ennesima scissione tra Psi e i Socialisti unitari capitanati da Filippo Turati e da Giacomo Matteotti) si pronunciò Pietro Nenni. Il crollo della democrazia parlamentare riguardava i borghesi e lasciava indifferenti gli apostoli della lotta di classe. Opinione condivisa dai comunisti. Nel silenzio dei partiti e dei gruppi parlamentari dell'Estrema, con grande stupore di Mussolini e dei quadrumviri, anche i sindacati tacquero: sia l’Alleanza del lavoro che a fine luglio aveva promosso il fallimentare “sciopero legalitario”, “Caporetto delle sinistre” come subito intuì Turati, sia la Confederazione generale italiana del lavoro che raccomandò: «Gli operai si mantengano calmi, sereni e fidenti nel loro immancabile avvenire. Soltanto gli scriteriati fanfaroni comunisti hanno potuto pensare ad una partecipazione delle forze proletarie ad un conflitto che non le interessava direttamente.» D'altra parte sino alla mattina del 30 ottobre Mussolini intendeva conferire il ministero del Lavoro al socialista Gino Baldesi, cancellato all'ultimo minuto su pressione della Confindustria, contraria a una maggioranza troppo variegata e quindi incoerente. Se il nuovo governo costituiva una svolta doveva mostrarlo anche nella sua composizione, esclusivamente di “costituzionali”, di quelle forze che sin dal 1920 Giolitti aveva accorpato nei “blocchi nazionali” in risposta all'occupazione delle fabbriche e all’incessante minaccia di quanti volevano “fare come in Russia”.
E il Re? La “normalizzazione”.
   Nell'ampia produzione saggistica si è scritto poco e in termini elusivi circa il ruolo svolto da Vittorio Emanuele III, che rimane il grande “assente” nella narrazione del 1922, anche se fu proprio lui a riportare nei binari statutari la crisi extraparlamentare. È del tutto riduttivo e infondato asserire che sia stato Facta a chiedergli di rinunciare «alle sue divertenti galoppate» a San Rossore (Fracassi, pp. 224 e 246) per seguire dal Quirinale il corso della crisi. Infatti, da settimane il re chiedeva invano a Facta di convocare il Parlamento. “Latitante” non fu il sovrano ma il governo che da un lato, con scelte politiche, legò le mani all'Esercito (perfettamente in grado di bloccare l'eversione secondo i piani approntati e attivati dal generale Emanuele Pugliese) e, dall'altro lato, propose il salto nel buio dello stato d'assedio quando non v'era più alcun motivo di ricorrere alla forza ma occorreva cercare una soluzione politica, come appunto avvenne.
   Con l'insediamento del governo risultò chiaro chi aveva vinto e chi ne usciva sconfitto.
Il 1° novembre 1922 Mussolini aprì la prima seduta del governo da lui presieduto scandendo: «L'esodo dei fascisti da Roma è quasi compiuto. La situazione va normalizzandosi rapidamente in tutta Italia. Conto che entro domani tutto il Paese sarà tranquillo». La “smobilitazione” iniziò il 30 ottobre: «Il fascismo italiano è troppo intelligente per desiderare di stravincere». Era la fine dello “squadrismo”. Nessuno dei “quadrumviri” venne chiamato al governo. Cesare Forni, che aveva avuto il comando di varie “legioni”, finì due volte al bando dal partito. Il sindacalismo fascista fu inquadrato nel Consiglio nazionale delle corporazioni guidato da Edmondo Rossoni (che si affrettò a farsi iniziare massone nella Gran Loggia d'Italia), in salmo responsoriale con il “fratello” Gino Olivetti, dal 1906 segretario generale della Lega industriale di Torino, e Stefano Benni. Nel frattempo il sottosegretario alla Pubblica istruzione, Dario Lupi, massone del GOI, ordinò che nelle scuole venissero immediatamente collocati il crocefisso e la fotografia del re.
   In conclusione, su quanto avvenne e non avvenne nell'ottobre 1922 ancora molto va documentato, scritto e fatto capire, al di là dei luoghi comuni che continuano ad avvolgere il varo di un governo che tra i 17 e il 27 novembre ottenne il pieno favore delle Camere. Ma forse è saggio lasciare che il Centenario sfumi sull'orizzonte, evocatore di umori atrabiliari che, anche per la nascita del governo ora in carica, poco hanno a che fare con la storiografia.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Italia al bivio? Un manifestino fotografa la “vigilia”: circa 25.000 “camicie nere” (non 80.000 o addirittura 200.000) erano accampate a decine di chilometri da Roma, prive di munizioni da fuoco e da bocca. In Roma entrarono solo la notte fra i 30 e il 31, per sfilare e andarsene mentre si insediava il governo. A fine ottobre 1922 nessuno in Italia immaginava che Mussolini sarebbe rimasto presidente del Governo per ventun anni. Prima di lui anche gli statisti più coriacei (Depretis, Crispi, Giolitti) avevano retto appena un decennio, ma a ministeri intermittenti. La “svolta” avvenne il 3 gennaio 1925 per pressione dei Consoli della Milizia su Mussolini. Di “Italia al bivio” si è parlato il 28 ottobre nel Salone dei Mosaici di Ravenna, per iniziativa dell'Associazione Culturale “Tessere del Novecento” presieduta da Piero Casavecchia. Il 30 maggio 1922 Mussolini intitolò “Al bivio” un articolo pubblicato in “Il Popolo d'Italia”: «Le adunate regionali fasciste si susseguono in ogni regione d'Italia e si rassomigliano nella loro straordinaria imponenza e nella loro perfetta disciplina. […] La sua forza di propulsione, i suoi motivi di vita sono così potenti che lo fanno rassomigliare ai fenomeni logici e inesorabili della natura.» Però anche i più devastanti fenomeni naturali infine si placano e “la terra resta sempre immutata” (Ecclesiaste,1,4).
UNA “FESTA” DI TUTTI I CITTADINI?
LA NASCITA DEL REGNO D'ITALIA


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 23 Ottobre 2022 pagg. 1 e 6.

Carlo Alberto di Savoia-Carignano, re di Sardegna, precursore del Regno d'Italia fondato il 14 marzo 1861 con l'approvazione legge che recitò: “Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e i successori il titolo di Re d'Italia”. Benché ancora mancasse  di Venezia, Roma Trento, Trieste..., esso fu il primo Stato d'Italia, tutt'uno con l'attuale.    Una Festa dello Stato d'Italia
Lo Stato d'Italia non ha una Festa che accomuni tutti i suoi cittadini. Ha il tricolore, scritto nella Costituzione, l'inno musicato da Michele Novaro, l'emblema (bruttino) due volte disegnato da Paolo Paschetto. Ma una festa vera? La festa di tutti? In tante faccende affaccendati governo e Parlamento avranno certo altre priorità. Però la “questione” rimane. Da tempo immemorabile.
   Ci vorrebbe poco a tagliare il nodo gordiano e dare agli Italiani la Festa dello Stato d'Italia.
   Nello spumeggiante discorso di insediamento alla presidenza del Senato (seconda carica dello Stato) Ignazio La Russa ha proposto di dichiarare festa nazionale la proclamazione del Regno d'Italia in aggiunta alle tre esistenti, il 25 aprile, il 1° maggio e il 2 giugno. Ha colto tutti di sorpresa. Il “suggerimento” è stato accolto da un boato di silenzio. Commenti? Quasi nessuno. Un quotidiano torinese ha però “raccolto” l'opinione del saggista Gianni Oliva. Secondo lui ricordare “la nascita della nazione è condivisibile”, ma il 17 marzo 1861, quando il “Parlamento nazionale riunito a Torino proclamò Vittorio Emanuele II di Savoia re d'Italia non va bene”, perché successivamente nell'Italia meridionale “sorse una vera e propria insurrezione sociale”, classificata come “brigantaggio”. Inoltre l'ordinale “II” voluto dal re mostrerebbe “il riflesso della continuità dello Stato piemontese e del carattere di progressiva espansione del Regno di Sardegna assunto dal Risorgimento”. Cavour, Garibaldi, Mazzini e compagnia non fecero l'Italia ma ingrandirono i possedimenti di “monsù Savoia”. È quanto da sempre sostenuto da papisti, borbonici e paleogramsciani. Semmai, sostiene Oliva, l'unità dovrebbe essere “celebrata nella prospettiva europea”. La Russa avrebbe dunque commesso “uno svarione terminologico e storico”, persino poco rassicurante.
   Chi ha ragione?
Il 25 aprile?
   Senza pretendere di ergermi arbitro tra cotanto senno, occorre anzitutto convenire che il presidente del Senato ha posto all'attenzione un “fatto”. a questione  Oggigiorno lo Stato d'Italia riconosce festivi Capodanno (che lo è in tutto il mondo; “a prescindere” da ogni differenza di religioni, razze, sesso opinioni politiche e… meridiani), otto solennità cadenti nei giorni osservati dalla religione cattolica (Epifania, Pasqua, Pasquetta, Assunzione, Ognissanti, Immacolata Concezione, Natale e Santo Stefano) e le tre civili anzidette. Ma sono “feste” unificanti?
   Il 25 aprile ricorda l'insurrezione del Corpo Volontari della Libertà che mise fine alla Repubblica sociale italiana. Come tutte le date convenzionali, sintetizza una sequenza di eventi diversissimi, avvenuti in un paio di settimane: la liberazione del Settentrione dal fascismo repubblicano (con l'eliminazione fisica di molti suoi gerarchi, a cominciare da Mussolini, il 28 aprile), la fine della guerra in Italia (con la resa dei tedeschi agli anglo-americani e i tedeschi a Caserta a far data dal 2 maggio) e quella delle Nazioni Unite (USA, Gran Bretagna, URSS...) in Europa contro la Germania di Hitler.Un groviglio di del tutto diversi. Il 25 aprile celebra (con vari giorni di anticipo sui fatti) la liberazione dall'occupazione germanica, la fine del conflitto (compresi i bombardamenti anglo-americani sulle città, che causarono circa 70.000 morti non militari) e della sua pagina più tragica: la “guerra civile” tra aderenti al fascismo repubblicano e partigiani all'ultimo momento organizzati nel Corpo volontari della libertà, in corso nelle forme più atroci dall'autunno 1944 nella sola Italia settentrionale. Dal settembre 1943 quella meridionale e dal giugno-settembre 1944 la centrale vivevano una storia del tutto diversa: fame, certo; rovine, anche; miserie materiali e morali, sicuramente (rileggere “La Pelle” di Curzio Malaparte). Ma la guerra vera, i bombardamenti spietati (come sull'Abbazia di Montecassino), le battaglie (carri, mitragliatrici, fucili, baionette...), era ormai lontana. Il 25 aprile è una pagina scritta e riscritta, anche col sangue. Per molti fu e rimase una data dolente. Segnò la fine di una guerra interna, con vincitori giustamente orgogliosi della missione compiuta e con vinti condannati alla mortificazione perpetua. Aprì o no la riflessione su quanto era accaduto? Avviò o no alla conciliazione? Quasi ottant'anni dopo si torna spesso alla casella di partenza. Nella crescente perplessità dei cittadini in attesa di Stato.
Il 1° maggio?
   Il 1° maggio è la “festa dei lavoratori”, celebrata in Italia come quasi in tutto il mondo. E' osservata anche dai tanti, troppi, che vorrebbero guadagnare onestamente “il pane col sudore della fronte” (condanna biblica) ma rimangono senza occupazione decorosamente retribuita. Comunque il 1° maggio non è una solennità “italiana” ma “di acquisto”. Certo l'Italia odierna è andata oltre la Carta del Lavoro del 1927 e anche (ma solo per alcuni aspetti) la Carta del Carnaro di Gabriele d'Annunzio e Alceste De Ambris. Ma quanto resta da fare prima che la Repubblica sia effettivamente “fondata sul lavoro”.
Il 2 giugno?
   Il 2 giugno non è la festa dello Stato d'Italia ma del cambio della sua forma istituzionale. Lo Stato c'era e rimase, grazie alla legislazione del Regno d'Italia, che, a differenza di quanto credono in molti (alcuni persino sedicenti monarchici)  non venne affatto “mandata in soffitta” neppure dalla Costituzione della Repubblica. Mutò la veste. È buffo festeggiare l'abito e dimenticare il corpo. Nel referendum tra monarchia e repubblica la seconda prevalse con 12.700.000 voti su 28 milioni di aventi diritto, cioè con il 42% dei voti del corpo elettorale. Il 2 giugno evoca il primo giorno del referendum, il cui esito rimase in discussione sino al 18. Come riconobbe l'Assemblea Costituente al suo insediamento, la Repubblica data dal 19 giugno, quando venne pubblicato il suo avvento nella “Gazzetta Ufficiale”, che fa testo. Il 1° luglio la “Gazzetta” annunciò l'insediamento del Capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, “al quale l'On. De Gasperi ha trasmesso i poteri di Presidente della Repubblica da lui esercitati nella sua qualità di Presidente del Consiglio dal giorno dell'annuncio dei risultati definitivi del referendum istituzionale”, ovvero dal 18 e non dal 13 giugno, quando gli vennero abusivamente conferiti dal Consiglio dei ministri con l'opposizione del solo Leone Cattani. Il 2 giugno, dunque, è una data opaca. Non ebbero motivo di “festeggiarla” i 10.700.000 cittadini che votarono per la monarchia, né il milione e mezzo che depositò scheda bianca, né un altro milione e mezzo escluso dal voto: i militari ancora prigionieri, i radiati per motivi politici e gli abitanti delle terre ancora contese come la provincia di Bolzano e l'intera XII circoscrizione elettorale: Venezia Giulia, Istria e le città ormai sotto il pesante e definitivo giogo della Jugoslavia di Tito.
   Dopo quel 2 giugno, o più correttamente con le leggi approvate dalla Costituente, chi aveva optato per la monarchia fu costretto a vergognarsi di se stesso, di quel che ricordava, delle sue legittime speranze di restaurazione o instaurazione della Corona. Esporre il tricolore con lo scudo sabaudo divenne reato. Tenere alla parete il ritratto del re risultò peggio che sconveniente. Chi rivendicava il ruolo svolto dalla monarchia da quasi un secolo venne liquidato come “nostalgico”: un vinto inebetito, incollato a un passato remoto meritevole di disprezzo. In un libello del 1944 e rielaborato nel 1945 Luigi Salvatorelli, che molti considerarono storico eminente, scrisse la condanna solenne di “Casa Savoia nella storia d'Italia”. Secondo lui Vittorio Emanuele III era stato il punto di arrivo di una monarchia intrinsecamente e inguaribilmente reazionaria, che infine aveva usato il fascismo come “guardia bianca” e ne era stata complice e quindi “responsabile moralmente, politicamente e legalmente, di tutti i misfatti del fascismo e di Mussolini”. Per molto meno, egli aggiunse, erano state spazzate via tante altre dinastie. A quel modo Salvatorelli assolse gli italiani dall'aver eletto le Camere che spianarono la strada all'avvento del governo Mussolini e lo sorressero negli anni. Da un canto il “popolo”, sempre innocente; dall'altra il tiranno colpevole. Come nelle favole belle, per ritrovare la felicità bastava cacciare il re. Il “popolo” fu felicissimo dell'assoluzione plenaria. Tornò ingenuo. E a volte riprese a votare con la testa nelle nuvole.
Le feste nazionali all'estero
   Nessuna delle tre festività civili vigenti celebra o ricorda la nascita dello Stato d'Italia. Questa è avvolta dalle nebbie. Molti ormai pensano che l'Italia dati dal 1945 (la “liberazione”) o dal 1946 (la “repubblica”). Parecchi non ne hanno alcuna cognizione. Questa smemoratezza, coltivata e incoraggiata da chi invece dovrebbe mirare a rinvigorire il senso civico, nuoce gravemente al Paese. Lo rende debole a confronto degli Stati che si riconoscono in una festa statuale condivisa, al di là delle traversie susseguitesi al loro interno nel corso del tempo.
   Con buona pace di chi evoca il brigantaggio come una sorta di maledizione all'indomani della proclamazione del regno d'Italia (fu alimentato dall'estero, dai clericali e dall'arretratezza culturale e civile, come era accaduto e accadde in tutti gli Stati europei giunti secoli prima a darsi assetto unitario), va ricordato che gli Stati Uniti d'America festeggiano il 4 luglio (dichiarazione dell'indipendenza della Nuova Inghilterra dalla Corona inglese) anche se a proclamarla furono solo tredici dei 52 loro Stati attuali e benché centosessant'anni orsono il Nord e il Sud degli USA (che all'epoca erano ancora quasi solo nella fascia orientale) si siano combattuti con ferocia nella prima “guerra industriale” della storia. A parte qualche malinconico abbarbicato all'ancien régime, in Francia il 14 luglio è festa per tutti: repubblicani, bonapartisti, socialisti, cattolici, miscredenti e via continuando. Il 14 luglio è “la Francia”. Quando instaurò l'Impero dei Francesi Napoleone I si proclamò successore di Carlo Magno. Luigi Filippo d'Orléans, il “re borghese”, fece traslare la salma di Napoleone da Sant'Elena a Les Invalides. Tutti i presidenti del Consiglio e della Repubblica susseguitisi in Francia rendono omaggio all'Arco di Trionfo, alla Storia.
   Altrettanto vale per la generalità degli Stati europei. La Spagna celebra il 12 ottobre, scoperta dell'America da parte di quel Cristoforo Colombo la cui “impresa” in Italia passa ormai sotto silenzio, e il 6 dicembre “el día de la Constitución”. La Federazione Russa festeggia la vittoria sulla Germania (9 maggio 1945) e il 12 giugno, che evoca la sua recente nascita, nel 1992. Il Belgio si riconosce nel ricordo del 21 luglio 1830 quando Leopoldo I giurò fedeltà alla Costituzione. La Norvegia festeggia il 17 maggio 1814, quando divenne indipendente dalla Svezia, che invece celebra l'indipendenza dalla Norvegia, risalente al 6 giugno 1523. Il Portogallo ha scelto per festa nazionale il 10 giugno, anniversario della morte del poeta Luis Vaz de Camoes (1525?-1580), autore di “I Lusiadi”.
   La Germania, altro Paese sconfitto nella seconda guerra mondiale e a lungo smembrato (sorte scampata dall'Italia grazie all'abilità di Vittorio Emanuele III), festeggia il 3 ottobre, in memoria della sua riunificazione: una data nella quale è difficile non riconoscersi. Anche stati minori celebrano date gloriose. E' il caso del Montenegro che festeggia il 13 luglio 1878, quando il Congresso di Berlino lo riconobbe 27° Stato indipendente nel mondo. Il 28 novembre di ogni anno l'Albania celebra la bandiera e l'indipendenza dall'impero turco (1912).
Feste mobili: Statuto, Venti Settembre...
   Quando venne costituito dal Parlamento con legge del 14 marzo 1861 (non 17, che è il giorno della sua  pubblicazione nella “Gazzetta Ufficiale”), il regno d'Italia aveva una sola festa civile: la proclamazione dello Statuto da parte di Carlo Alberto, re di Sardegna, il 4 marzo 1848. Quella data aveva segnato il passaggio dalla monarchia consultiva a quella rappresentativa. Unica Carta lungimirante tra quelle promulgate nel 1848 (riconobbe la libertà di culto, fondamentale nel mondo moderno), lo Statuto divenne la costituzione del regno d'Italia e durò un secolo. Nel tempo il suo festeggiamento fu spostato alla prima domenica di giugno, giorno più propizio per celebrazioni all'aperto. Nel 1895 il governo presieduto da Francesco Crispi introdusse una nuova festa civile: il Venti Settembre, in ricordo dell'annessione di Roma e della “debellatio” del potere temporale del papa (1870). Fu una scelta aspramente divisiva. Presenti e molto spesso prevalenti nei consigli comunali e provinciali, nella società civile, nella vita economica e culturale (basti pensare alla moltiplicazione degli edifici ecclesiastici, al culto dei santi, alle devozioni), i cattolici ligi alle direttive dal papa non eleggevano i deputati in ossequio al precetto “non expedit”: non è opportuno. A immetterli nel Senato, vitalizio, provvedevano i re. Eleggere i deputati voleva dire riconoscere lo Stato che tra il 1859 e il 1870 aveva annientato lo Stato Pontificio, occupato i palazzi dei Papi (Quirinale incluso) e chiuso un occhio sull'anticlericalismo militante che, secondo il magistero ecclesiastico (non aveva tutti i torti), pervertiva istruzione e costumi.
   Dopo la Conciliazione dell'11 febbraio 1929 fu il Venti Settembre a risultare inopportuno. Fu cancellato. Non si può bere e respirare allo stesso tempo. Il regime aveva altre date da festeggiare, inclusa la fondazione di Roma, il 21 aprile.
   Nel secondo dopoguerra, col favore dell'inclusione dei Patti Lateranensi nella Costituzione della repubblica, il Venti Settembre rimase nel dimenticatoio. Per le scuole divenne festivo il giorno di San Francesco, che interrompeva le lezioni poco dopo il loro inizio. Nella bizzarra altalena di feste nazionali una tenne durò a lungo: il IV novembre, nel ricordo della Vittoria del 1918 sull'impero austro-ungarico, l'unico evocato dal celeberrimo Proclama “firmato Diaz” (mentre l'Italia aveva combattuto anche contro l'impero turco e, tardi e controvoglia, quello germanico). Ma anche quella ricorrenza finì nel tritacarne dell'opportunismo dilagante negli Anni Settanta.
   Nel 1977, in una temperie politico-culturale che richiederebbe lunga analisi, furono abolite parecchie festività religiose (San Giuseppe, l'Ascensione, il Corpus Domini, i santi Pietro e Paolo) e due civili: il 2 giugno e persino il IV novembre, che era la Festa di tutti i caduti e delle Forze Armate, presidio della libertà. Voleva e vuole dire omaggio al Milite Ignoto, la più solenne cerimonia civile dello Stato d'Italia dalla sua nascita a oggi, con il Re sommo sacerdote celebrante l'unione sacra tra la Corona e i cittadini.
   Nel 2001 il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ripristinò il 2 giugno. Che era quello che era. Il IV novembre rimase in un'aura brumosa.
   È tempo dunque di istituire la Festa dello Stato. Non di una o dell'altra parte ideologica, di questa o di quell'altra regione o religione, di uno o altro ceppo, ma di tutti i cittadini, sia i nativi, sia quelli accolti nell'Italia che divenne Stato il 14/17 marzo 1861.
   È tempo di mettersi in linea con la Storia. Auspichiamo che se ne occupi chi risiede nel Palazzo che fu dei Papi e poi dei Re. I governi passano, lo Stato rimane e deve ergersi per impedire che l'Italia divenga “nave senza nocchiero in gran tempesta/non donna di provincia ma bordello”. Una leggina-scialuppa richiede pochi giorni di attenzione da parte del Parlamento Novello. Sarebbe un segnale importante per tutti. 
Aldo A Mola

DIDASCALIA: Carlo Alberto di Savoia-Carignano, re di Sardegna, precursore del Regno d'Italia fondato il 14 marzo 1861 con l'approvazione legge che recitò: “Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e i successori il titolo di Re d'Italia”. Benché ancora mancasse  di Venezia, Roma Trento, Trieste..., esso fu il primo Stato d'Italia, tutt'uno con l'attuale.
REALISMO
MENO RETORICA, PIU FATTI


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 16 Ottobre 2022 pagg. 1 e 6.

Emilio Colombo, Allegoria dell'Italia Turrita (1911). La nascita del  Regno d'Italia venne proclamata dal Parlamento il 14 marzo e divenne effettiva con la pubblicazione della legge nella “Gazzetta Ufficiale” il 17 seguente). La Nuova Italia entrò nella Comunità internazionale degli Stati. Nel suo Cinquantenario essa fu celebrata come Unità degli italiani per opera di Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi e Mazzini nello Stato retto da Vittorio Emanuele III, affiancato dalla Consorte, la Regina Elena. Era l'unione dei “popoli d'Italia”, come disse il Padre della Patria nel suo primo discorso della Corona da sovrano del nuovo Stato.Nazione o Stato?
   Anche in “politica” non c'è niente di peggio che trasfigurare la realtà in narrazioni fantasiose. Prima o poi i fatti si impongono nella loro cruda verità e chi si è arrampicato sugli specchi immaginando e descrivendo un mondo fittizio scivola a terra. Nel governo degli Stati, come a teatro, gli equilibrismi durano solo se tutti gli attori sono concordi. Ma basta uno che da fuori gridi “il Re è nudo” e la scena crolla. Questo rischio è destinato a divenire un incubo dove e quando l'immagine narrata non calza più con la realtà. Il richiamo al realismo non significa pessimismo preconcetto. Viene considerato una sorta di disfattismo solo da chi spera di sanare col gesso la distanza abissale tra il Paese reale, le sue rappresentazioni e le pretese di avere un “mandato” di gran lunga superiore a quello effettivamente conferito dalle urne. 
     Non porta lontano insistere nel sostituire termini retorici alla realtà nella quale i cittadini si riconoscono. E il caso dell'abuso costante del sostantivo “Nazione” in alternativa a “Stato”. Lo Stato è certezza, è la Legge. La “nazione” rinvia a una supposta unità a base etnica. In Italia fu prospettata da storici e scrittori due secoli fa, all'alba del Risorgimento, ma presto venne posposta a vantaggio di termini molto più rispondenti alla realtà fattuale di un Paese, come l'Italia, nel quale occorreva in via preliminare dare corpo allo Stato quale pilastro portante della formazione dei “regnicoli”, cioè delle persone che lo abitavano. Questa fu la grande sfida intrapresa e vinta con successo dagli artefici del Regno d'Italia (bene divenga festa nazionale, come proposto dal presidente del Senato Ignazio La Russa), proclamato il 14 marzo 1861 dalla VIII legislatura del Parlamento subalpino, che così divenne la I^ dello Stato d'Italia. Il Regno, una monarchia costituzionale incarnata dalla dinastia dei Savoia lentamente ottenne credito dalle potenze straniere. Il nuovo Stato fu riconosciuto in poche settimane da Svizzera, Stati Uniti d'America, regni di Grecia, Portogallo, Olanda e impero Turco-Ottomano. La Francia di Napoleone III si decise solo dopo la morte di Cavour, nel timore che in Italia prevalessero mazziniani e garibaldini. Lo zar di Russia e il regno di Prussia lo riconobbero solo nel luglio del 1862. Tre anni dopo seguirono la Spagna dei Borbone e altri. Per ultimo s'aggiunse l'impero d'Austria, sconfitto nella guerra del 1866, e solo nel 1867 la Nuova Italia sedette a Londra in un conferenza diplomatica internazionale, alla pari con quelle degli altri Stati lì presenti, di gran lunga più antichi e pertanto autorevoli perché anche nella Comunità internazionale “l'anzianità fa grado”. Quello “stato di grazia” accompagnò l'Italia sino alla resa senza condizione del 3-29 settembre 1943 e alla imposizione del Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947. Nei mesi seguenti l'Assemblea Costituente eletta il 2 giugno 1946 discusse la “bozza” di Costituzione approntata dalla Commissione dei Settantacinque presieduta da Meuccio Ruini e ne approvò larga parte, a cominciare dagli articoli più impegnativi, ove ricorrono i termini fondamentali del Paese Italia.
Italia: Repubblica, Nazione 
   Il primo, come noto, recita che “l'Italia è una Repubblica, fondata sul lavoro”. Nel suo enunciato l'Italia compare come soggetto. Il riferimento al “lavoro” risentì dei dibattiti tra i partiti della Concentrazione antifascista in Francia all'inizio degli Anni Trenta, quando (come narra Alberto Giannini in “Le Memorie di un fesso”, ed. Forni) si prospettò la formula “L'Italia è una repubblica 'di lavoratori'”. Poi i lavoratori vennero cancellati perché ad alcuni parve che per  tali si potessero intendere solo gli operai e i braccianti, a scapito degli impiegati e a danno delle “classi medie”, sempre sospettate di inclinazioni conservatrici o peggio. 
   Dall'articolo 2 della Carta il soggetto “Repubblica” sostituì “Italia”, che da sostantivo declinò ad aggettivo (“Repubblica italiana”). Sin da Napoleone I Oltralpe era prevalsa la esplicitazione del titolare della sovranità: “impero dei francesi”, con riferimento alla radice “etnica”. Diversa è l'enunciazione della sovranità nella Repubblica italiana: essa “appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.                 
     E la Nazione? 

     I padri costituenti fecero uso estremamente parco del sostantivo Nazione. Esso compare nell'articolo 9, secondo il quale “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio artistico della Nazione”. L'articolo 16 recita che “ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza” (come accadde due anni orsono con farraginosi decreti del presidente del Consiglio)”, ma subito dopo aggiunge che “ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientravi salvo gli obblighi di legge”. “Nazione” non viene ripetuto come sinonimo di Repubblica, ovvero di Stato. Non per caso non esistono “confini della Repubblica” o “della nazione” ma “di Stato”. La nazione ricompare nell'art. 67: i parlamentari non rappresentano chi li ha eletti (ignoti, dal momento che il voto è segreto) né il partito nelle cui file si sono candidati ma, appunto, “la Nazione”, lì  sinonimo di “popolo italiano”. Nulla di nuovo rispetto allo Statuto albertino il cui articolo 41, scritto per il regno di Sardegna ma di portata universale, recitava: “I deputati rappresentano la Nazione in generale e non solo le province in cui furono eletti: nessun mandato imperativo può loro darsi dagli Elettori”. Il termine torna nell'articolo 98: i pubblici impiegati sono “al servizio esclusivo della Nazione”, una tantum sinonimo dei cittadini o più correttamente dello Stato.
    Infine (un passo all'indietro) esso affiora nell'art. 11: “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli” e consente “limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”: eco della Carta fondativa dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, che in realtà è di “Stati” plurinazionali, come i grandi “imperi” di India, Cina, Fereazio e russa e, se si vuole, di USA, Brasile, ecc..
E la Patria? Lo Stato. 
    “Patria” è soggetto pressoché eluso dalla Carta repubblicana. Vi ricorre solo due volte. La prima per dichiarare che la sua difesa è “sacro dovere del cittadino” (comma 1 dell'art. 52, sul quale si astennero i costituenti democristiani Giulio Pastore, Aldo Moro e Benigno Zaccagnini, per i quali era “dovere” ma non “sacro”: così venne aperta la strada all'obiezione di coscienza). La seconda nell'art.59 che riconosce al Presidente della Repubblica la facoltà di nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per (sic! meglio suonerebbe“con”) altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario” in linea con il sintetico comma 28 dell'art. 33 dello Statuto albertino (che ne prevedeva la nomina “con servizio o meriti eminenti”).
    Pressoché assente è altresì “popolo”. Riaffiora solo nell'art.101, ove si dice che “la giustizia è amministrata in nome del popolo”, il quale però talvolta esprime indignazione per sentenze percepite come stravaganti.
    Dunque, a ben vedere, il soggetto primario evocato dalla Carta non è la Nazione ma lo Stato. Esso ricorre tutto dove necessario (e meglio suonerebbe ovunque i Costituenti scrissero  “Nazione”). Così nell'art. 7 sui rapporti tra Stato e Chiesa, nell'art.33 su arte, scienza istruzione, in cui figura tre volte, nel 38 (che fa carico allo Stato del mantenimento e all'assistenza sociale di cittadini inabili al lavoro o sprovvisti dei mezzi necessari per vivere: altra cosa dal discusso “reddito di cittadinanza”). Ma soprattutto è lapidario nell'art.87: “Il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale”, che sta nello Stato come il meno sta nel più. Anche quell'articolo ricalca lo Statuto (art.5): il Re “è il capo supremo dello Stato”. Torna nell'art. 117 (“La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni”, con specifica delle materie di competenza esclusiva dello Stato) e infine  nella XVIII disposizione transitoria e finale: “La Costituzione, munita del sigillo dello Stato, sarà inserita nella Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti della Repubblica. La Costituzione dovrà essere fedelmente osservata come legge fondamentale della Repubblica da tutti i cittadini e dagli organi dello Stato”, forse persino pleonastica nelle ultime parole, tanto più che l'art. 54 prescrive che  “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”: obbligo previsto, ma poi abolito, per tutto il personale scolastico che è (o dovrebbe essere) a servizio esclusivo dello Stato, “super partes” anziché di ideologie e men che meno di se stesso. 
  Per tutti questi motivi, pare improprio il martellante richiamo alla Nazione da parte dell'on. Giorgia Meloni, probabile presidente del Consiglio dei ministri. Secondo tutti i dizionari della lingua italiana “Nazione” (ne citiamo uno per tutti: ma si veda anche il Dizionario Treccani) sta per “collettività etnica di individui coscienti di essere legati da una comune tradizione sociale, storica, linguistica, culturale, religiosa che li distingue da altri gruppi etnici”. Lo Stato moderno però è altra cosa da quello “nazionale”. E “Stato dei cittadini” come enunciato dallo Statuto albertino, il cui Capo si dichiarò tale “per Grazia di Dio”, ma statuì:“Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammessibili alle cariche civili e militari, salve le eccezioni determinate dalle leggi”. (art.24). Inoltre, a integrazione, la legge 19 giugno 1848 emanata dal Luogotenente Eugenio di Savoia (Carlo Alberto era “al campo” contro l'impero d'Austria) sancì:“La differenza di culto non forma eccezione al godimento dei diritti divili e politici ed all'ammessibilità alle cariche civili e militari”. Nessun riferimento “etnico”. Del resto il regno di Sardegna era ufficialmente  bilingue. 
    Dunque: meno “Nazione”, più Stato, più “cittadini”. 
Mandato? Dal 14% del corpo elettorale
   Nel lungo “intervallo” tra l'enunciazione dei risultati elettorali dello scorso 25 settembre e l'elezione dei presidenti delle Camere la già citata presidente del Consiglio in pectore ha spesso ripetuto di sentirsi investita da un “mandato della Nazione”. Non v'è dubbio che il centro-destra abbia beneficiato della sua compattezza nei collegi uninominali, nei quali prevale la coalizione che ottiene il maggior numero dei suffragi. Per fermarci agli esiti relativi alla Camera dei deputati, esso ha ottenuto il 43,79% dei voti validi surclassando nettamente l'alleanza tra PD-Verdi e Sinistra. Arrotondando le cifre per chiarezza, con 7.300.000 suffragi Fratelli d'Italia ha sì sfiorato il 26% dei voti validi, contro l'8,77% della Lega e l'8,11% di Forza Italia e lo 0,91% dei Moderati, che sommati si sono fermati a circa  5.000.000 voti, cioè meno dei 5.355.000 andati al Partito democratico. Però, per avvalorare il preteso “mandato della Nazione”, i consensi conseguiti da Fratelli d'Italia, come dagli altri partiti scesi in lizza, vanno rapportati all'insieme del corpo elettorale. In tale contesto la portata politica effettiva dei voti ottenuti assume ben altra valenza.
   Gli aventi diritto a votare il 25 settembre 2022 erano più di 46 milioni. Alle urne si sono recati 29.355.592 elettori, pari al 63,79%  contro il 72,94% del 2018: un calo di oltre il 9%. In molti collegi l'afflusso ai seggi è rimasto intorno al 50%. Anche “La Civiltà cattolica”, sempre prudente, non esita a parlare in termini preoccupati di disaffezione dei cittadini ne confronti delle istituzioni.
     Quello è il primo dato sul quale riflettere. Sarebbe errato imputare l'astensione all' esercizio del “dovere civico” di votare allo scioglimento anticipato delle Camere e alla brevità della campagna elettorale, in pieno corso ancor prima che Mario Draghi si insediasse alla guida del governo di quasi unità nazionale, ovvero di emergenza, e già ripresa con toni assai vivaci dopo la per molti sconcertante elezione dei presidenti delle due Camere. La così ampia astensione è palesemente segno di stanchezza e di divaricazione tra cittadini e istituzioni e, in specie, di minor fiducia nei partiti che per mesi hanno ripetuto in coro appelli ripetitivi a tutelare “famiglie e imprese...”. Se le Camere fossero durate in vita sino alla scadenza “naturale”, cioè nella primavera del 2023 (dopo un autunno-inverno che si annuncia pesante), l'astensione avrebbe rischiato di essere ancora maggiore. Questo andrà tenuto presente dai partiti e movimenti ma anche dall'esecutivo, il cui primo compito sarà di interpretare non solo gli elettori dei partiti che lo formeranno e di quanti hanno votato per l'opposizione, ma soprattutto il 36% di elettori che hanno disertato le urne. Di più. Essi dovranno tenere conto anche di un altro dato scivolato via (o tenuto sotto traccia) dalla maggior parte dei computi riassuntivi delle votazioni e dai commenti che si sono susseguiti per giorni nei “media” e continuano a imperversare. 
    Agli astenuti occorre infatti aggiungere  817.251 schede nulle, 492.650 bianche e oltre 2500 contestate, per un insieme di oltre 1.310.000 voti di cittadini che si sono recati ai seggi, hanno ritirato la scheda e l'hanno restituita senza segnarvi alcunché o l'hanno annullata, benché l'indicazione delle preferenze non presentasse particolari difficoltà. Il “no” delle schede nulle e bianche va oltre la mera disaffezione verso i “ludi cartacei” (come diceva un tale che, giunto al potere, introdusse l'obbligo del voto) e si sostanzia in un giudizio negativo sull'intero arco dei partiti e movimenti e in un severo mònito agli eletti a darsi una mossa e a mettersi al lavoro per rialzare le sorti di un Paese in profondo affanno. I cittadini si sentono indifesi dinnanzi all'inflazione galoppante che in breve tempo ha eroso di un decimo il potere d'acquisto e il valore dei risparmi, al timore di rimanere al freddo in città sempre più buie, tristi e al connesso calo della sicurezza di persone e abitazioni. Dal governo da tempo dimissionario e prossimo a passare la mano è stata deplorata l'ingiustificabile speculazione che ha fatto impennare i prezzi dei prodotti energetici da molti mesi prima che iniziasse l'“operazione militare speciale” della Federazione russa contro l'Ucraina il 24 febbraio 2022. Ma che cosa ha fatto per individuare, denunciare alla pubblica opinione e sanzionare gli speculatori? Nel frattempo incombe la drastica retrocessione della fiducia nell'Italia da parte del Fondo Monetario Internazionale, dalla stessa Banca d'Italia e da chi ritene che i titoli di Stato potrebbero essere ridotti a “spazzatura”, come accade all'indomani di una guerra perduta.    
Il 14% del corpo elettorale non prefigura un “mandato”.
   In conclusione, con i suoi 7.300.000 voti Fratelli d'Italia ha ottenuto poco più di un quarto degli oltre 28 milioni di suffragi espressi dal corpo elettorale e un modesto 14% dei 46.000.000 di aventi diritto al voto. Anziché rivendicare il privilegio di un “mandato della Nazione” è tempo di consolidare lo Stato dei cittadini italiani.

Aldo A. Mola

    
DIDASCALIA: Emilio Colombo, Allegoria dell'Italia Turrita (1911). La nascita del  Regno d'Italia venne proclamata dal Parlamento il 14 marzo e divenne effettiva con la pubblicazione della legge nella “Gazzetta Ufficiale” il 17 seguente). La Nuova Italia entrò nella Comunità internazionale degli Stati. Nel suo Cinquantenario essa fu celebrata come Unità degli italiani per opera di Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi e Mazzini nello Stato retto da Vittorio Emanuele III, affiancato dalla Consorte, la Regina Elena. Era l'unione dei “popoli d'Italia”, come disse il Padre della Patria nel suo primo discorso della Corona da sovrano del nuovo Stato. 
MUSSOLINI AL SOLDO DELLA PERFIDA ALBIONE?

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 9 Ottobre 2022 pagg. 1 e 6.

Tra certezze e dubbi
   Dunque Benito Mussolini fu un informatore prezzolato al soldo della inglese Special Intelligence Service, branca del Directorate of Military Section (Dmi), allestita a Roma dal tenente colonnello Samuel Hoare? Lo sostengono Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella in “Nero di Londra”, da pochi giorni in libreria (ed. Chiarelettere).
   Mesta e rimesta nel calderone di “Memorie” pubblicate da tempo ma sfuggite ai più (o prudentemente dimenticate) e di archivi raggiunti solo da chi li vuole e sa cercare, verso metà del libro i due autori vanno al punto. All'inizio del 1918, dopo aver lautamente finanziato le manifestazioni bellicose del chiassoso e scomposto deputato repubblicano e massone Giovanni Battista Pirolini (Pavia, 1865-Milano, 1949), Hoare assunse a libro paga segretissimo “The Doctor” e “The Count” e forse molti altri di cui il libro non parla. Il “Dottore” era Luigi Resnati, medico, massone, di cui diremo. Il “Count” invece sarebbe (a libro chiuso, il condizionale rimane d'obbligo) Benito Mussolini. Il repubblicano Eugenio Chiesa, deputato, massone, commissario per l'Aeronautica nel governo Orlando (1917-1918) e gran maestro del Grande Oriente d'Italia dell'esilio (1930) asserì tra i primi che per avviare “Il Popolo d'Italia” Mussolini era stato “incoraggiato” dal Grande Oriente di Francia, non per simpatia verso la sua persona ma perché Parigi aveva bisogno di contrapporre a pacifisti e neutralisti un ex socialista qual era il futuro duce. “Per conto loro proprio, e alla insaputa dell'Ordine”, secondo Chiesa alcuni massoni raccolsero la bella somma di tre milioni e mezzo di lire “in contanti” a sostegno della “marcia su Roma”: una cifra ribadita dalla massona Maria Rygier in “Mussolini indicateur de la Police Française ou les raisons occultes de sa «conversion»” dal pacifismo all'interventismo (ed. anastatica Arnaldo Forni,1990).
   Secondo Cereghino e Fasanella, “quando posò gli occhi su di lui (Mussolini), Hoare guardò lontano: puntò, s'intende, su una pedina contro germanofili, neutralisti (gli odiati “giolittiani”) e la sinistra corriva a “fare come in Russia”, ma mirò anche a sottrarlo all'influenza francese. Quanto occorreva? Il 10 gennaio 1918 il tenente colonnello lo precisò al suo “superiore”, generale Macdonogh: 50 sterline mensili. Il futuro duce era l'uomo giusto per realizzare il “progetto” vagheggiato da Hoare: sottrarre l'Italia al pericolo “rosso”, sganciarla da alleanze pericolose e vincolarla ai disegni di Sua Maestà britannica.
   Ma Mussolini e “The Count” sono proprio la stessa persona? Leggiamo quanto ne scrivono i due autori a pagina 118: «Chi è? Nessuna certezza matematica, anche se è possibile azzardare un'ipotesi alquanto precisa sulla sua identità.» A pagina 119 però aggiungono: «L'altro personaggio in grado di esercitare un'influenza diretta sulle associazioni dei Reduci e Mutilati (che stavano organizzando una manifestazione contro i pacifisti, NdA) è Benito Mussolini», impegnato in «una propaganda decisamente vigorosa a favore della guerra». Già foraggiato per impadronirsi completamente di “Il Popolo d'Italia”, egli era ormai «a tutti gli effetti nei ranghi dell'intelligence militare britannica. “The Count” e Mussolini sono la stessa persona? A questo punto è più che un'ipotesi». Ma è anche una certezza?
   Per dare una risposta al di là di ogni dubbio occorre vagliare l'attendibilità del giovane intraprendente Hoare, approdato a Roma dopo una spericolata “missione” in Russia nei mesi tra l'assassinio di Rasputin e la Rivoluzione del marzo 1917. Senza disperderci nel ginepraio delle “carte Hoare” largamente citate da Cereghino e Fasanella, osserviamo che a proposito del “Doctor”, cioè di Resnati, e della massoneria italiana tra la guerra e l'avvento di Mussolini il tenente colonnello poco sapeva e quel che scriveva a Londra era approssimativo. In estrema sintesi, va premesso che negli anni narrati nel libro in Italia vi erano due Comunità massoniche, il Grande Oriente d'Italia (GOI) e la Serenissima Gran Loggia d'Italia (GLI), alle prese con defatiganti quanto vane trattative per ricomporre la scissione del 1908-1910. Nessuna delle due obbedienze aveva relazioni formali con la Gran Loggia Unita d'Inghilterra (GLUI). Il GOI era in rapporti continui ma poco fraterni con il Grande Oriente di Francia, che lo considerava più o meno un vassallo indisciplinato e gli inflisse molte e severe mortificazioni. In prima linea nell'interventismo del 1914-1915, con le dimissioni di Ettore Ferrari, dopo il misterioso assassinio del successore in pectore Achille Ballori e il ritorno del londinese e filobritannico Ernesto Nathan alla Gran maestranza, nel novembre 1917 il GOI aveva assunto l'avanguardia della lotta dura contro i pacifisti, ai quali (egli scrisse) bisognava schiacciare la testa come si fa coi serpenti. Nondimeno il GOI non raggiunse la meta agognata: ottenere lo scambio dei garanti d'amicizia con la GLUI. Sull'altro versante, sin dal 1912 il Convento mondiale dei Supremi consigli di Rito scozzese antico e accettato riconosceva la GLI come unica massoneria legittima e regolare in Italia. Di questo ginepraio, nel quale tanti si smarriscono, come è accaduto a Mimmo Franzinelli nel recente “L'insurrezione fascista” (Mondadori), Hoare mostra di conoscere e capire poco o nulla. Ignorò del tutto la GLI, il cui sovrano gran commendatore/gran maestro, Raoul Palermi, aveva eccellenti rapporti con un ampio ventaglio di politici, militari e diplomatici e vantava antenne anche in ambienti apicali della Corte. Hoare puntò le sue carte sul “dottor” Resnati, che nell'ambito della crisi postbellica prese la guida di una frangia di massoni accesamente repubblicani. Lo documentammo sin dalla Mostra “I massoni nella storia d'Italia” allestita a Palazzo Carignano (Torino) nel 1980, inaugurata dai grandi maestri Lino Salvini e Giordano Gamberini alla presenza del comunista Diego Novelli, all'epoca sindaco di Torino. Nathan aveva rapporti diretti con Vittorio Emanuele III. A sostegno degli irredentisti ne riceveva aiuti finanziari segreti che finivano in molti rivoli. A reggere il cordone del suo corteggio funebre andò anche Benedetto Croce. Idealisticamente mazziniano (chi non lo era almeno un po?), ma conscio che senza la monarchia l'Italia sarebbe andata a rotoli, nel dopoguerra Nathan fiancheggiò il governo del re in tutte le rivendicazioni: sia i compensi previsti dall'accordo di Londra del 26 aprile 1915 (alcuni in remotissime terre africane, più onerose che vantaggiose) sia, in aggiunta, Fiume. Al riguardo si scontrò direttamente con il presidente degli USA, Wilson. Resnati si schierò dalla parte opposta. Il contrasto si concluse con la radiazione dal GOI di Resnati e dei suoi seguaci: circa 250 massoni distribuiti in sei logge. Rappresentavano l'1% dei “fratelli” certificati e meno dello 0,5% dei quarantamila massoni di Palazzo Giustiniani, sommando “zoccolo duro” e nuovi iniziati (da 3 a 5.000 negli anni 1920-1921). A conferma che poco sapeva o meno capiva, secondo Hoare (scrivono Cereghino e Fasanella) Resnati era ormai il “capo politico” del GOI. Da molti decenni lo scomposto movimentismo paramassonico di Resnati e la sua sconfitta nella scalata alla conquista del Supremo Maglietto sono stati ampiamente e minutamente documentati da Gerardo Padulo, scrupoloso esploratore di archivi, nell'ambito di una interpretazione generale del ruolo della massoneria (GOI e GLI) dall'interventismo al governo del massonofago Mussolini. Anche chi non condivide la tesi di fondo di Padulo, non può ignorarne l'opera. Il tentativo di “The Doctor” di dar vita a una Lega universale per la società delle libere nazioni rimase poco più che un sogno e le sue speranze di essere incorporato nel Gruppo indipendente di Rito scozzese non ebbero alcun seguito.
   Sulla traccia delle “Carte Hoare” Cereghino e Fasanella tornano su momenti e personalità rilevanti del movimentismo, dalla fondazione del primo fascio il 19 marzo 1919 nel Circolo dell'alleanza industriali e commercianti di Milano messo a disposizione dal massone Cesare Goldmann, sino all'organizzazione della “marcia” nell'ottobre 1922, e insistono sulla rilevanza di un quartetto formato da Resnati, Pirolini, Maffeo Pantaleoni (la cui iniziazione non è documentata ma il cui nome nel 1901 figura tra i componenti della Commissione del GOI per la previdenza massonica con Antonio Cefaly e altri) e da uno spretato, innominabile, che per primo pubblicò in Italia “I Protocolli dei Savi Anziani di Sion”.
   Per le molte “sorprese” sparse nelle sue pagine “Nero di Londra” non mancherà di suscitare qualche sconcerto. Hoare forniva e riceveva confidenze in un fitto scambio con politici e giornalisti “smaniosi di informazioni”. Da agente scrupoloso amava “schedare” le sue prede nero su bianco a futura memoria e ne lasciava traccia. Il 26 gennaio 1922 all'ambasciatore britannico in Italia, sir Ronald Graham, riferì: «Di recente, è stato siglato un accordo con il noto giornalista Giuseppe Prezzolini per la distribuzione delle news britanniche»: un “servizio” prestato non certo a titolo gratuito. Tenne poi a far sapere, a far credere e forse persino a convincersi di aver retto le dande della “marcia su Roma” «dispensando utili consigli a “The Count”, ai capi delle forze armate, alla guardia regia e, naturalmente, a Vittorio Emanuele III». Una visione suggestiva ma forse solo soggettiva che lascia assai perplesso chiunque abbia cognizione di quegli eventi. La perplessità al riguardo è suffragata dalla circospezione dell'ambasciatore inglese nel primo colloquio con Mussolini e da quella manifestata dal responsabile della Congregazione degli affari ecclesiastici straordinari cardinale Francesco Borgoncini Duca a cospetto del nuovo governo, apprezzato dalla Santa Sede benché nato con modalità “del tutto incostituzionali”.
   A conforto della credibilità di Hoare i due autori ricordano una fonte di seconda mano, i Diari di sir Henry Channon. Il 2 gennaio 1939, quasi vent'anni dopo i “fatti”, nel corso di una cena nel castello di Elveden (nel Suffolk), sir Samuel Hoare, che aveva alle spalle una folgorante carriera politica, confidò alla “padrona di casa” Lady Honor Guinness, di essersi occupato di propaganda in Italia all'indomani di Caporetto (tema sul quale aveva una visione confusa e non condivisibile). In quella veste aveva conosciuto “un potente socialista”, il trentaquattrenne Mussolini, l'unico “capace di tenere l'Italia in guerra” e di garantire il controllo di Milano e del Nord sempre e quando si fosse provveduto a “corromperlo in modo adeguato”, come appunto egli si accinse a fare sborsando “una somma davvero molto considerevole” per permettergli di “comprarsi il Popolo d'Italia”. Quattrini alla mano, egli concorse poi a creare il partito fascista e a finanziare la “Marcia”. Aggiunse però che se pure era sempre stato ai patti, nei molti colloqui successivamente avuti con lui Mussolini aveva sempre glissato sulle loro “relazioni occulte”. Ammise di averlo incontrato una volta. Un po' poco per concludere che l'ex tenente colonnello era in grado di tenere al guinzaglio l'antico sfasciacarrozze asceso a capo del governo d'Italia. D'altronde chi sarebbe stato danneggiato di più se quei trascorsi fossero divenuti pubblici? I primi a non stupirsene troppo sarebbe stati proprio Adolf Hitler e Stalin: la cui ascesa al potere era stata sorretta da finanziamenti giganteschi (interni ed esteri) e accompagnata da crimini di gran lunga più efferati di quelli perpetrati dal duce e dai suoi seguaci. La rivelazione semmai avrebbe danneggiato la credibilità del governo inglese che lo aveva fatto crescere ma poi se l'era fatto sfuggire di mano e aveva quindi bisogno di eliminarlo fisicamente per cancellare le tracce, come da decenni scritto da Luciano Garibaldi in “La pista inglese”.
I difficili conti con la storia
   Il “racconto” fatto affiorare da Cereghino e Fasanella con l'esplorazione delle carte di Hoare manca di alcuni fondamentali tasselli, indispensabili per concludere che, per via delle 50 sterline mensili accordategli dai servizi britannici, Mussolini sia stato manipolato dalla “perfida Albione”. Anzitutto. Sino a quando continuò l'esborso? Se, quando e perché s'interruppe? Al riguardo conviene ricordare la riflessione di Leo Valiani sul primo volume della biografia di Mussolini scritta da Renzo De Felice: i “rivoluzionari” accettano (e persino sollecitano) “aiuti” da qualsiasi parte arrivino, salvo decidere come usarli per l'attuazione dei propri piani. Basti rileggere “Il grande Parvus” di Pietro Zveteremich, insuperata biografia dell'artefice della vittoria di Lenin.
   Resta che “Nero di Londra” è tra i rari apporti innovativi proposti nel centenario della crisi politica del 1922, sulle cui conseguenze reca luce Oscar Sanguinetti in “Fascismo e rivoluzione. Appunti per una lettura conservatrice” (Piacenza, ed. Cristianità, libreriasangiorgio.it), mentre gli scaffali delle librerie sono stati e vengono affollati da racconti tanto corruschi quanto ripetitivi ed elusivi. Valga d'esempio la puntata ottobrina di “L'Anno del fascismo” (“la Repubblica”, 4 ottobre 2022: presto in libreria), in cui Ezio Mauro “svela” quel che tutti sanno: la «notte inquieta della monarchia, e anche una delle più buie, è ancora misteriosa cent'anni dopo». «Il cambio di rotta del sovrano resta senza spiegazioni.» Però Mauro se ne concede una: «La verità è che un cerchio di interessi convergenti ha premuto nella notte sul Re, militari, massoni, politici, consiglieri, ingigantendo l'inquietudine del Sovrano, che si è sentito solo, insicuro (…), addirittura insidiato.» Incombeva il timore che i quadrumviri volessero sostituirlo con suo cugino Emanuele Filiberto duca d'Aosta? O ritenne fosse meglio non mettere alla prova la fedeltà dell'Esercito. La prima insinuazione, di terza o quarta mano, è del tutto fantasiosa. La seconda, ripetuta da Aldo Cazzullo (“Corriere della Sera”, 5 ottobre) in risposta a un lettore quale chiave per spiegare il successo della marcia su Roma, è a sua volta una diceria messa in circolo nel 1945. Né Mauro né Cazzullo recano un contributo innovativo su quanto si è detto, insinuato e asserito senza prove.
   Non solo. Né Renzo De Felice né i suoi molti discepoli hanno documentato come e quando Mussolini configurò la composizione del governo che sul mezzogiorno del 29 ottobre fu chiamato a formare. Il duce lo definì nelle sette ore corse tra il primo e il secondo colloquio con il sovrano, fra le 12 e le 19 del 30 ottobre. Avutane l'approvazione, si premurò di convocare i “ministri del re” per prestare giuramento e prendere le consegne dai predecessori alle 10 mattutine del 31 ottobre, in un quadro di assoluta continuità formale. Si conosce il punto di arrivo, ma rimangono ignoti molti passaggi del travagliato ricorso, “ante litteram”, al “manuale Cencelli” col quale infine venne impastato l'esecutivo formato, come arcinoto, da quattro fascisti, nazionalisti, democratici sociali, “liberali” e dal giolittiano torinese conte Teofilo Rossi di Montelera, che rimase titolare del ministero, non proprio secondario, dell'Industria.
   Salvo sorprese delle prossime settimane, si può dunque concludere che il centenario della crisi politica del 1922 è stato un'occasione mancata, anche quale premessa per fare davvero i conti col fascismo, più che mai necessari secondo Ernesto Galli della Loggia. Ma come poteva farli il Comitato centrale di liberazione nazionale auto-insediatosi dall'agosto 1943 e contrario a qualsiasi collaborazione con il governo Badoglio? Ivanoe Bonomi, suo presidente, il 15 maggio 1921 era stato eletto deputato in una lista comprendente il ras di Cremona Roberto Farinacci. Per simbolo aveva il fascio littorio. Alle elezioni del 6 aprile 1924 Bonomi si candidò a capo di una coalizione di “opposizione costituzionale” comprendente democratici autonomi e demosociali dissidenti. Non ottenne neppure un seggio e andò in sonno per un ventennio. Il punto vero è che l'Italia deve fare i conti con tutta la sua storia, compresa la monarchia, che, sebbene quasi dimenticata, fu l'artefice dell'unificazione nazionale. Ma forse il tempo per “fare i conti” sta per scadere. Come accade anche in altri Paesi la cui storiografia è travolta da leggi “sulla memoria”, imperversanti in Francia dal 2001 e da anni anche in Spagna, sulla storiografia italiana avanzano le nebbie della autocensura preventiva. Come osserva malinconicamente lo storico Dino Messina, «anche in Italia, si agita il desiderio di arrivare ad un imbrigliamento ministeriale della verità del mestiere di storico» e qualcuno propone quali «esclusivi soggetti di studio i movimenti politici e sociali che espressero repulsione verso la guerra, lo sforzo fatto per far avanzare delle prossime generazioni, per tutelare il rispetto delle identità e delle differenze e per estinguere il serpente velenoso dei nuovi e vecchi nazionalismi». Una storia coi paraocchi che manco il famigerato ventennio giunse imporre. Non impedì che la “Storia d'Italia” di Benedetto Croce venisse pubblicata e continuasse a fare scuola.
Mala tempora currunt...
Aldo A. Mola

Marciatori per Roma? Tutte le fonti concordano. Gli “squadristi”, pochi e pochissimo armati, si misero in viaggio venerdì 27 ottobre 1922 convinti di festeggiare in Roma il primo “sabato fascista”. Furono fermati dove stabilito dal pluridecorato generale Emanuele Pugliese, comandante della divisione della Capitale. Piovigginava. Faceva freddo. In Roma entrarono alcune “colonne” solo nella notte tra lunedì 30 e martedì 31, per una veloce sfilata.
   Un motto antico recita “né di Venere né di Marte, né si arriva né si parte”. Però così andò la “Marcia per (=attraverso) Roma” conclusa con la partenza dalla Stazione Termini la sera del 31.
   In quasi totale solitudine, bene informato di quanto volevano e non volevano partiti, chiesa cattolica, “poteri forti”, massonerie e le “opposizioni”, in stato caotico e assenti, Vittorio Emanuele III decise che l'Italia non aveva alcun bisogno di legge marziale (lo “stato d'assedio” proposto dal governo Facta) ma di un governo di unione costituzionale presieduto da Mussolini, forte del consenso di Francia e Gran Bretagna, come documentato nelle relazioni presentate al Convegno di Vicoforte il 1° ottobre sulla “Crisi politica del 1922”, ove è stato ricordato che, con stupore di Mussolini, all'indomani del suo insediamento nessuna “voce” si levò contro il governo (manifestazioni, scioperi, ecc.). La storia qualche cosa insegna sia a chi la conosce, sia a chi si propone di farla. Le Camere si insedieranno il 13 e forse l'incarico verrà affidato il 17: da tempo i veggenti incrociano le dita...


IL “GOLPE” DI FACTA 
E L'AVVENTO DI MUSSOLINI


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 2 Ottobre 2022 pagg. 1 e 6.

La copertina dell' “Almanacco Civile, 1923” pubblicato a cura della redazione di “La Ragione”, espressione dell'anticlericalismo intransigente (ed. Veritas, Roma, via di Porta Angelica 2), ristampato dall'Editore Bastogi (Foggia) nel 1986.    Contiene un'ampia rassegna sull'Associazione “Giordano Bruno”. Altre riviste (“Atanor”, “Ignis”) celebrarono il fascismo come avvento del neo-paganesimo contrapposto alla Chiesa di Roma. Sei anni dopo Mussolini e il cardinale Pietro Gasparri firmarono i Patti Lateranensi che composero il conflitto tra Stato d'Italia e Chiesa cattolica e vennero poi recepiti nella Costituzione vigente con il “patto” tra Democrazia cristiana e Partito comunista italiano, antenato del Partito democratico. Nel convegno di Vicoforte sulla crisi politica del 1922 (sabato  1 ottobre) molte relazioni hanno proposto nuovi documenti e interpretazioni delle radici e delle conseguenze dell'avvento del governo di coalizione costituzionale presieduto dal 31 ottobre 1922 dal “duce delle camicie nere”, meno durevoli degli abiti talari.Ma l'Italia fu ed è solo di meschini opportunisti?
Il Parlamento è sovrano. Ma Facta, benché sollecitato da Vittorio Emanuele III, non lo convocò. Così il re finì per incaricare Mussolini di formare il governo prima che le borse aprissero e colassero a picco l'Italia, più solida di quella odierna.
     La crisi politica dell'ottobre 1922 fu e rimane soggetto di caccia ai “colpevoli”: lo sfarinamento dei “liberali”, l'inconsistenza politica delle sinistre, indifferenti alle sorti delle istituzioni, e soprattutto Vittorio Emanuele III, che affidò l'incarico di formare il governo all'esponente di un partito che contava appena 35 deputati e un paio di senatori ma conquistò il potere con la violenza. Sull'altro versante vengono deplorate le “vittime” dell'avvento del governo Mussolini: la sinistre, repubblicani intransigenti compresi, i sindacati, le libertà politiche, la compressione di quelle civili.
   Le narrazioni prevalenti, ripetute in libri e articoli freschi di stampa, ricalcano gli antichi binari. I riflettori illuminano ancora una volta i presunti “responsabili” (=colpevoli) e lasciano in ombra altri attori. È il caso dell'articolo “A 100 anni dalla marcia su Roma” (“La Civiltà Cattolica”, 1-15 ottobre 2022, quaderno 4135) in cui p. Giovanni Sale SJ afferma che l'avvento di Mussolini al potere «non avvenne per una deterministica necessità storica, ma per responsabilità morali e politiche precise. Innanzitutto, per l'incapacità (ma anche l'opportunismo) della classe politica di allora di gestire la crisi politica e sociale di quegli anni agitati, per le ragioni, troppo spesso meschine e di basso profilo, che hanno portato al governo un movimento, o meglio un partito che si palesava violento e non pienamente rispettoso della prassi democratica. Secondo lui avvenne per vie “semilegali” in quanto la prospettiva insurrezionale fu “subita” passivamente dallo Stato e immediatamente dopo “legalizzata” con l'incarico dato dal re a Mussolini di formare il nuovo governo». A p. Sala (e non solo a lui) va ricordato che di quella “classe politica” facevano parte non solo i pochi repubblicani dell'epoca, favorevoli alla “svolta” mussoliniana, e le sinistre, del tutto indifferenti al crollo delle istituzioni incardinate sulla monarchia (come Pietro Nenni dichiarò agli emissari del “duce delle camicie nere”), ma anche il cattolico Partito popolare italiano. Fondato da don Luigi Sturzo il 18 gennaio 1919, forte di un centinaio di deputati alla Camera, molto influente anche in Senato, esso era presente nel governo Facta con personalità di peso, come il monregalese Giovan Battista Bertone, come poi nel governo Mussolini con ministri autorevoli e con Giovanni Gronchi, sottosegretario all'Industria, futuro presidente della Repubblica.
   Padre Sala deplora la meschinità e l'opportunismo della “classe politica di allora”, che da secoli  ammorbavano tutti gli Stati europei (e non solo) e accompagnarono il regno d'Italia dalla fondazione, come in libelli famosi scrissero Pietro Sbarbaro, Titta Madia e lamentò il radicale Felice Cavallotti, fautore di un improbabile Partito degli Onesti (ne abbiamo conosciuti decenni addietro ed altri se ne affacciano). Le loro polemiche riecheggiavano le delusioni della sinistra democratica, tardomazziniana e garibaldina, ma non ostile all'unità nazionale, a differenza del rifiuto categorico clericale del “Risorgimento scomunicato” (titolo di un bel libro di Vittorio Gorresio) e del regno nato dalla spoliazione dello stato pontificio.
   La pochezza di alcuni (o tanti) notabili costituzionali (o “liberali”) emerge dal carteggio tra i protagonisti diretti e indiretti della crisi politica del 1922. Ne è esempio proprio Facta. Tornato a capo del governo nel giugno 1920 Giolitti non gli conferì alcun incarico. In una piagnucolosa lettera del 6 giugno, inedita sino al 2009, Facta se ne lamentò con lo statista: «La crisi si svolse senza una tua parola (…) Non te ne faccio colpa, per carità (…) Ma certo questo silenzio di poco a poco si convertì per me in una vera tortura». Era certo di essere eletto presidente della Camera. Il saggio Giolitti gli preferì il napoletano Enrico De Nicola. Di lì il sospetto «che sia accaduto qualche cosa che abbia creato verso di me una tua avversione». Alla morte dell'ottimo ministro delle Finanze Francesco Tedesco, Giolitti lo chiamò al governo ma conservò la lettera in una carpetta (oggi all'Archivio Centrale dello Stato) e lo sentì sempre più lontano. Il 20 settembre 1922 non andò a festeggiarlo a Pinerolo, ove accorsero quattrocento parlamentari e oltre duemila invitati per un banchetto che non fermò l'Italia dalla china lungo la quale scivolava da tempo. Come noto e già ricordato, nelle settimane seguenti Giolitti venne ripagato da Facta, che fece di tutto per non averlo  a Roma, convinto qual era di superare da solo ogni ostacolo con un suo terzo governo, succedendo quindi a se stesso.
Il triangolo scaleno
   Messe tra parentesi le schermaglie tra notabili, le piccole gare tra partiti, gruppi parlamentari (spesso indipendenti dai partiti: era il caso dei socialisti) e agitatori di vario calibro, è possibile proporre una diversa lettura della crisi dell'ottobre 1922 e della decisione del re di incaricare Mussolini della formazione del governo.
   Il regime monarchico rappresentativo era un triangolo scaleno: il re, il governo del re, il Parlamento. Gli altri corpi dello Stato (i diplomatici, le forze armate, l'ordine giudiziario...) e gli enti  locali derivavano la loro identità e le loro funzioni dal “sistema”. Sin dall'esordio di Camillo Cavour alla presidenza del Consiglio nel regno di Sardegna l’esecutivo aveva retto sull'armonizzazione tra la nomina da parte del sovrano e la fiducia votata dal Parlamento, più precisamente dalla Camera dei deputati, espressione del corpo elettorale. La cornice venne fissata il 17 aprile 1861 quando fu stabilito che leggi e decreti sarebbero stati firmati dal Capo dello Stato quale “Re per grazia di Dio e volontà della nazione”. Dopo la proclamazione del regno i governi ressero sempre sulla ricerca del consenso delle Camere. Per assicurarselo presidenti del Consiglio dei ministri come Urbano Rattazzi e Bettino Ricasoli non esitarono a chiamare al governo esponenti del “terzo partito”, ex cospiratori e garibaldini come Angelo Bargoni e Antonio Mordini. Il dualismo Destra/Sinistra narrato nei manuali era già superato nei fatti. Lo fu dopo le elezioni del 1874, che prelusero alla sconfitta del governo presieduto da Marco Minghetti messo in minoranza alla Camera dei deputati il 18 marzo 1876, proprio quando raggiunse orgogliosamente la parità del bilancio d'esercizio dello Stato. A conferma che per rimanere al potere non basta “governare bene” ma occorre il Parlamento.
   Vittorio Emanuele II non esitò a conferire la formazione del governo ad Agostino Depretis già più volte ministro in posizioni rilevanti nei governi dai manuali catalogati “di Destra”. Dunque, l'avvento della Sinistra storica non fu un salto nel buio, ma una normale evoluzione politica. Unico a sfidare con irruenza la Camera fu il siciliano Francesco Crispi, che però si vide costretto alle dimissioni: una prima volta perché asserì che, a differenza del passato, l'Italia non era più servile (verso la Francia); una seconda per l'accusa di bigamia: imputazione giuridicamente fondata da cui uscì assolto con sentenza compiacente che non gli impedì di essere chiamato nuovamente alla presidenza del Consiglio da Umberto I, che lo definiva “un porco” ma lo riteneva statista migliore di molti altri. Gli ulteriori tentativi di comprimere diritti e consuetudini della Camera finirono con la sconfitta dei loro fautori da parte dei costituzionali.
   Però nel tempo la Camera divenne teatro di sortite antistatutarie. Nel 1917 il gruppo socialista si spinse a proporvi l'abolizione della monarchia mentre il Paese stava affrontando la fase più difficile della guerra, come Luigi Cadorna invano scriveva al governo Boselli, pusillanime. Nel febbraio 1921, quando Giolitti ritenne necessari scioglimento della Camera e nuove elezioni, anche per far votare gli elettori delle “terre liberate”, dopo un accalorato intervento del socialista Filippo Turati il suo compagno Emanuele Modigliani si spinse a dire che se il re avesse firmato il decreto “noi grideremo abbasso la Corona”. Seguito dall'intero governo, Giolitti si alzò indignato e uscì dall'aula.
   Qual era il clima del Paese? Lo sintetizzò appunto lo statista cuneese quando presentò il governo all'indomani delle elezioni del 15 maggio 1921: sino al 31 maggio si erano verificati 1889 “conflitti” tra opposte fazioni politiche (fascisti da un canto, “rossi” dall'altro), 1698 dei quali denunciati formalmente all'autorità giudiziaria. Dal 30 giugno 1920 al 1 maggio 1921 erano state effettuate 50.500 perquisizioni, sequestrati 52 tonnellate di cheddite, 40 tonnellate di altri esplosivi, 31.750 fucili, 5.000 rivoltelle, 60.000 cartucce, 7.500 capsule detonanti, 2.250 cartucce di dinamite. «Gli esplosivi – aggiunse Giolitti – non hanno colore politico. La polizia li sequestra dove li trova.» Lo squadrismo, osservò di seguito, non era più un problema di polizia ma politico, perché i fasci contavano ormai 187.000 iscritti. La condotta del governo rimase quella adottata dinnanzi all'occupazione delle fabbriche. Per sgomberare circa 500.000 occupanti non sarebbero bastate le forze armate e di sicurezza disponibili. Occorreva la smobilitazione dai vertici dei partiti. Alla questione di fiducia posta dal governo, Turati rispose con un secco “no” alla politica estera, interna, economica e sociale. Ottenne 200 voti contro i 234 andati al governo. La maggioranza c'era, ma ormai stretta.
Il “golpe”: ignorare il Parlamento 
   Nell'autunno 1922, dopo due governi (Ivanoe Bonomi dal giugno 1921 al febbraio 1922 e il primo ministero Facta da febbraio a fine luglio 1921) la bufera continuava: clima insurrezionale secondo alcuni, rivoluzionario per altri. Come rispondeva il governo? L'Ufficio Cifra del ministero dell'Interno, retto da Paolino Taddei, già prefetto di Torino su designazione di Giolitti, offre documentazione puntuale e abbondante. Le direttive erano chiare: reprimere i facinorosi con tutti i mezzi, all'occorrenza facendo uso di armi. Lo Stato doveva prevalere sulle fazioni. Ma non era affatto facile mantenere l'ordine pubblico mentre le sinistre sognavano di “fare come in Russia” e altri, in assenza di tutele, si difendevano ricorrendo a “squadre” alimentate dalla risacca della lunga partecipazione alla Grande Guerra. Nell'ultimo anno del conflitto nell'immensa “città militare”, dai Comandi alla prima linea, lo spettacolo quotidiano della morte aveva obnubilato la percezione della vita insegnata e praticata dagli italiani nella lunga pausa bellica durata dall'unificazione al 1914, la prima dopo secoli turbinosi. Le tre guerre per l'indipendenza italiana (soleva ricordarlo Gaetano Salvemini che nel 1919 venne eletto deputato in una lista comprendente i “Combattenti”) erano costate meno vite di una giornata di battaglia “alla fronte”. Il Guerrone (paventato da Pio X come ricorda il suo biografo Gianpaolo Romanato) lasciò dietro di sé l'onda lunga di chi era stato “educato” a uccidere e a conflitto concluso si trovò disoccupato e pronto a tutto.
   La voragine però divenne sempre più ampia non per i conflitti faziosi in corso ma perché il governo Facta non convocò le Camere. I verbali del Consiglio dei ministri mettono a nudo la sua debolezza effettiva. Il 6 ottobre 1922 Marcello Soleri, segretario perché era il ministro più giovane, verbalizzò una sola riga: «Si discute la situazione interna e parlamentare.» L'indomani in poche altre linee annotò l'approvazione del francobollo commemorativo del cinquantenario della morte di Giuseppe Mazzini (le Regie Poste non dimenticavano chi aveva combattuto per l'unità nazionale anche da sponda opposta a Carlo Alberto e a suo figlio), la prosecuzione della «discussione sulla situazione politica» e un paio di provvedimenti su affari correnti. Poco di più venne verbalizzato per le sedute del 10, 13, 14 e 17 ottobre. Il 20 ottobre il Consiglio deliberò «che alla riapertura della Camera (fissata per il 9 novembre) il governo deve fare le sue comunicazioni alla Camera, da iscriversi all'ordine del giorno prima del bilancio del Tesoro». Poi si disperse in quisquilie. Su proposta del ministro delle Finanze approvò lo «schema di decreto legge contenente il regolamento del decreto legge 2 febbraio 1922, n. 281 relativo al regime degli accenditori e delle pietrine focaie». Quattro giorni dopo i fascisti si radunarono a Napoli e misero a punto il piano di assalto al potere.
   Rientrato il 14 dalla visita di Stato in Belgio, da San Rossore (Pisa) Vittorio Emanuele III incalzò Facta e il 18 lo esortò: «Sarò molto lieto di rivederla dove lei crederà di venire. Parleremo insieme della situazione, la quale, anche per le notizie che mi raggiungono (aveva informatori fededegni, NdA), sembra richiedere la sollecita convocazione del Parlamento.» Sollecita voleva dire subito. A Parlamento aperto non ci sarebbe stata storia né per insurrezioni né per rivoluzioni, né per squadristi né per guardie rosse. Con i piani di difesa di Roma approntati dal generale Emanuele Pugliese nessuna camicia nera si sarebbe incamminata verso Roma.
   La svolta vera avvenne il pomeriggio del 27 ottobre. In un verbale prolisso e zeppo di quisquilie irrilevanti, in una riga e mezzo verso la fine della riunione il minutante verbalizzò: «Il Consiglio dei Ministri prende in esame la situazione politica e delibera di rassegnare a Sua Maestà le sue dimissioni.» Poi tornò a occuparsi di pagamento a diurnisti e di altre cosucce.
   Il triangolo scaleno andò in frantumi. Il re rimase solo. Senza un esecutivo nella pienezza dei poteri, senza statisti disposti ad accollarsi la responsabilità dell'emergenza, senza le Camere che (lo ripeté più volte negli anni seguenti) erano i suoi occhi e i suoi orecchi. E da solo fronteggiò la crisi.
Che fu extraparlamentare non per volontà sua né per tracotanza di Mussolini ma per insipienza di Facta. Con le dimissioni il governo scoprì le spalle del re proprio quando la Corona doveva essere tenuta al sicuro da colpi di mano sui quali nel tempo si inanellarono tante dicerie e leggende. Il “golpe” contro la tradizione e le consuetudini del governo parlamentare da Cavour a Giolitti non venne attuato da Mussolini ma proprio da Facta e dai ministri che lo assecondarono e ad unanimità si lavarono le mani della loro responsabilità, deliberando di proporre al re la proclamazione dello stato d'assedio, ovvero il conferimento dei pieni poteri alle forze armate. Ma non erano quelle la cui fedeltà, secondo una tardiva insinuazione, non andava messa alla prova?
   Quanto a opportunismi e altri spettri evocati da padre Sale SJ va ricordato che, a garanzia del successo e della lunga permanenza al governo, Mussolini mise tempestivamente le mani avanti assicurando il salvataggio del vaticanesco Banco di Roma sull'orlo del fallimento. Ma in tanti ritennero che Benito avrebbe fatto onore al nome impostogli dal padre, il “fabbro” che credeva nella rivoluzione socialista-repubblicana. Non per caso l'Almanacco Civile del foglio anticlericale “La Ragione” nel 1923 rese omaggio al 28 ottobre quale giorno della liberazione dell'Italia dall'oscurantismo pretesco e in copertina pubblicò il fascio littorio sormontante la cupola di San Pietro. “Quos deus vult perdere dementat prius.”
Aldo A. Mola

DIDASCALIA – La copertina dell' “Almanacco Civile, 1923” pubblicato a cura della redazione di “La Ragione”, espressione dell'anticlericalismo intransigente (ed. Veritas, Roma, via di Porta Angelica 2), ristampato dall'Editore Bastogi (Foggia) nel 1986. 
   Contiene un'ampia rassegna sull'Associazione “Giordano Bruno”. Altre riviste (“Atanor”, “Ignis”) celebrarono il fascismo come avvento del neo-paganesimo contrapposto alla Chiesa di Roma. Sei anni dopo Mussolini e il cardinale Pietro Gasparri firmarono i Patti Lateranensi che composero il conflitto tra Stato d'Italia e Chiesa cattolica e vennero poi recepiti nella Costituzione vigente con il “patto” tra Democrazia cristiana e Partito comunista italiano, antenato del Partito democratico. Nel convegno di Vicoforte sulla crisi politica del 1922 (sabato  1 ottobre) molte relazioni hanno proposto nuovi documenti e interpretazioni delle radici e delle conseguenze dell'avvento del governo di coalizione costituzionale presieduto dal 31 ottobre 1922 dal “duce delle camicie nere”, meno durevoli degli abiti talari.
   Raffaella Canovi ha chiarito che Gabriele d'Annunzio non fu mai iniziato alle comunità massoniche italiane, i cui travagli sono stati descritti da Luca G. Manenti. Gianpaolo Romanato ha perlustrato i cattolici tra due crisi (quella politica e quella interna alle loro file nel passaggio da papa Benedetto XV a Pio XI). Aldo G. Ricci ha percorso il suicidio delle sinistre, che poco o nulla  per fermare l'avanzata del fascismo: profezia delle loro successive sconfitte elettorali (dal 1948 al 2022). All'estero (come hanno documentato GianPaolo Ferraioli e Massimo Nardini) il governo Mussolini (composto con il “manuale Cencelli” che risale al 1848) ottenne sostegni e plausi perché garantì stabilità, ordine pubblico e pagamento dei debiti di guerra. Il col. Carlo Cadorna e il gen. Antonio Zerrillo hanno evocato il mondo militare, fondamentale nella “metamorfosi di un regime”, sapientemente ripercorsa da Tito Lucrezio Rizzo, all'indomani del “golpe” attuato da Luigi Facta. governo si dimise a Parlamento chiuso e scaricò sulle spalle di Vittorio Emanuele III la ricerca della soluzione istituzionale della crisi. Un fatto senza precedenti. Il re incaricò Mussolini che aveva ormai il sostegno della forze più rappresentative del Paese, compresa la chiesa e quasi tutti i quotidiani, come documentato da Dario Fertilio e si vede dai filmati d'epoca, presentati al convegno da Giorgio Sangiorgi. La videoripresa dei lavori sarà presto in rete a cura dell'Associazione di studi storici G. Giolitti (Presidente onorario Alessandro Mella, pres. Gianni Rabbia).

 
GOVERNO MUSSOLINI, 31 OTTOBRE 1922
“RIVOLUZIONE” O “MANUALE CENCELLI”?


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 25 Settembre 2022 pagg. 1 e 6.

Da sinistra Enrico De Nicola, presidente della Camera e futuro presidente provvisorio della Repubblica; il re e Mussolini (1923).Ministri che vanno, ministri che vengono, e altri che restano
“Rivoluzione fascista” come tanti hanno detto? Il “28 ottobre 1922” fu subito regime, come molti hanno scritto riecheggiando Emilio Gentile? Dopo le “impressioni” e le chiacchiere, stiamo ai “fatti”.
Quando sul mezzogiorno del 29 ottobre 1922 l'aiutante di campo del Re, gen. Arturo Cittadini, lo invitò a Roma per assumere l'incarico di formare il governo, il trentanovenne Benito Mussolini non aveva mai sentito parlare del “Manuale Cencelli”. Il mio amico “Max” lo invento mezzo secolo dopo. Però lo applicò, perché anche lui, “duce delle camicie nere” seguì la regola non scritta della “politica” nella democrazia parlamentare da Camillo Cavour a Giovani Giolitti: la spartizione. Ogni “partito” o gruppo parlamentare della maggioranza aveva diritto a propri rappresentanti nell'esecutivo. Presieduto da Luigi Facta, il governo uscente era una coalizione di “liberali” di varia denominazione e osservanza (Paolino Taddei, Carlo Schanzer, Giulio Alessio, De Capitani d'Arzago, Teofilo Rossi...), democratici (Giovanni Amendola), demosociali (Colonna di Cesarò) ed esponenti del cattolico partito popolare (Giambattista Bertone, Stefano Cavazzoni, Antonino Anile).
Salutata a casa la moglie Rachele Guidi e corso alla Stazione Centrale di Milano con Margherita Sarfatti, sua Ninfa Egeria, nel viaggio in vagone letto da Milano verso Roma Mussolini abborracciò una lista di ministri comprendente fascisti, nazionalisti, democratici sociali, popolari, liberali (tra i quali Luigi Einaudi) e almeno un socialista “moderato”, Gino Baldesi o Bruno Buozzi. Esclusi rimanevano solo social-comunisti e repubblicani, che un giorno sì e l'altro pure chiedevano la fine della monarchia e quindi erano fuori gioco.
I tormenti di Luigi Facta (Pinerolo, 1861-1930)
Il tardo pomeriggio del 27 ottobre 1922, dopo lunghe tergiversazioni, come si legge nel Verbale firmato da Facta e da Marcello Soleri, “il Consiglio dei Ministri prende in esame la situazione politica e delibera di rassegnare a Sua Maestà le sue dimissioni”. Per il deputato di Pinerolo era la seconda volta in pochi mesi. Lo aveva già fatto il 19 luglio quando, “in seguito al voto politico della Camera”, il governo rassegnò le dimissioni e si aprì una normalmente tormentosa crisi parlamentare, risolta dopo settimane con la formazione del secondo governo presieduto da Facta, un deputato di scuola giolittiana, più volte ministro, esperto di finanza pubblica. Nel suo corso, riunito per affari urgenti il 28 luglio, il Consiglio dei Ministri mise a verbale che, “essendo dimissionario”, non poteva “decidere registrazioni con riserva (provvedimenti) che costituiscono atti politici”. Figurarsi misure eccezionali di ordine pubblico. Come tutti i governi dimissionari, doveva occuparsi degli “affari correnti”.
A differenza di quanto accaduto a luglio, il 27 ottobre Facta aprì una crisi extraparlamentare. Da inizio ottobre Vittorio Emanuele III gli aveva ripetutamente chiesto di convocare le Camere che non si riunivano da quando il 9 agosto gli avevano concesso una risicatissima fiducia, in eloquente assenza dei maggiorenti di area liberale (Giovanni Giolitti, Vittorio Emanuele Orlando, Antonio Salandra...). Sordo ai mòniti del re e convinto di essere un “politico” abile e navigato, anziché parlamentarizzare la crisi Facta giocò in proprio, trattando con Benito Mussolini per dar vita a un governo comprendente qualche ministro del PNF, come ormai proponevano anche Giolitti, Orlando, il presidente della Camera Enrico De Nicola e tutti i partiti costituzionali. Nelle “Memorie” postume Soleri scrisse che in quei giorni aveva anche lui tutti i requisiti per trovare la soluzione giusta con Mussolini di cui si considerava buon amico. Non solo, nella certezza di poter gabbare il duce del fascismo e i suoi accoliti trascinando la crisi in lungo, Facta propose a Gabriele d'Annunzio di presiedere il IV novembre 1922 un'adunata di Grandi Invalidi per chiamare all'unità nazionale e consolidare un suo terzo ministero, rafforzato dall'ingresso di qualche fascista, magari persino con Mussolini in un ministero secondario.
Il “metodo Facta”, tuttavia, si rilevò fallimentare.
Che cosa accadde veramente il 28 ottobre 1922? Cent'anni dopo, sulla certezza storiografica continua ancora a prevalere la “narrazione”: i “fatti” rimangono sotto la polvere di molti “si dice” e di fantasie spacciate per verità. La coincidenza di quel centenario con le odierne elezioni politiche non ha certo giovato a una revisione pacata degli eventi. Ha spinto, anzi, ad alzare i toni sulla soluzione della lunga crisi di un secolo fa, già esacerbati da Antonio Scurati in “M. Il figlio del secolo” (Bompiani, 2018), che però ha l'attenuante di dichiararsi “Romanzo”. Le polemiche sull'incombenza di un nuovo “regime” hanno spinto a ripetere luoghi comuni sull'avvento del governo Mussolini, insediato il 31 ottobre 1922, descritto quale espressione della “Rivoluzione fascista”, formula retorica affacciata dal “duce” nel discorso del 3 gennaio1925 e poi divenuta canonica con i cinque volumi di Giorgio Alberto Chiurco sulla “Storia della Rivoluzione fascista” (Vallecchi, 1929), con la Mostra del 1932 sul Decennale della “marcia su Roma” e con i tre volumi della “Storia della Rivoluzione fascista” di Roberto Farinacci, il “ras” di Cremona che, come soleva, copiò anche il titolo della sua “opera”.
Il 26 ottobre 1922 Facta aveva rassicurato il sovrano, il quale, al rientro dal viaggio di Stato in Belgio, attendeva notizie a San Rossore (Pisa). Dette per cessato il pericolo di “marcia” delle squadre fasciste verso Roma. Ma tornò a evocarlo poco dopo, con un lunghissimo telegramma giunto al re alle 0.10 del 27 ottobre. Vittorio Emanuele gli rispose che si sarebbe messo subito in viaggio per Roma. Vi giunse verso le 20 del 27. E si trovò dinnanzi al vuoto: la crisi extraparlamentare.
Con le dimissioni deliberate la sera del 27 ottobre, infatti, fu proprio Facta ad aprire la crisi, a Camere chiuse (la loro convocazione era prevista il 9 novembre), mentre gli esponenti più responsabili e prestigiosi dell'area liberale e “cattolica” erano lontani dalla Capitale. Il governo scaricò sulle spalle del re la ricerca della soluzione politica e su quelle del comandante della divisione militare di Roma, gen. Emanuele Pugliese, la tenuta dell'ordine pubblico nella Città Eterna: presupposto necessario, quest’ultimo, per la soluzione della crisi, poiché, come Vittorio Emanuele III ruvidamente disse a Facta nel breve colloquio alla Stazione Termini, il re doveva decidere in piena libertà. Come le altre maggiori città del Paese Roma era tranquilla. Altrove si susseguivano assalti di squadre fasciste a sedi di poteri pubblici, nodi ferroviari, uffici telegrafici e telefonici. Nulla di incontrollabile perché le direttive impartite dal ministro dell'Interno, Paolino Taddei, erano chiare: respingere ogni illegalità facendo uso delle armi, se necessario, e arrestando i capi della sedizione e, all'occorrenza, trasmettendo la cura dell'ordine ai comandi militari, come avvenne a Firenze e altrove. L'esercito fece la sua parte senz'alcuna esitazione.
Dall'ordine allo stato d'assedio: il salto nel vuoto
La mattina presto del 28 ottobre il Consiglio dei ministri deliberò “ad unanimità di proporre al Re la proclamazione dello stato d'assedio, e autorizz(ò) tutti i provvedimenti per fronteggiare la situazione politica e finanziaria, conferendo ai ministri competenti le relative facoltà, con ogni più ampio mandato di fiducia e delega perché la crisi si svolga in piena libertà di decisioni”. Dunque, come ovvio, il governo non deliberò lo stato d'assedio (non era nei suoi poteri) ma di proporlo al re. Sennonché, prima che Vittorio Emanuele decidesse, il proclama fu diramato alle prefetture e a tutti i destinatari di rito.Venne anche stampato e affisso sulle cantonate. Era sabato. Borsa e banche erano chiuse. Se anche vi fu, il panico degli ambienti finanziari paventato da Soleri non ebbe conseguenze.
Nel verbale del Consiglio dei ministri non si trova notizia dell'Appello del governo al Paese, che pure ebbe due diverse redazioni e a sua volta venne pubblicato nei giornali e affisso, né degli eventi successivi. Il governo non si radunò più. Svaporò. Vittima di se stesso.
Alle 9 del 28 ottobre Vittorio Emanuele III rifiutò di firmare il decreto istitutivo dello stato d'assedio e allo sconcertato Facta che gli domandò che cosa fare con i manifesti già affissi gli rispose di “fare come il segretario di Monasterolo”(un piccolo comune del Cuneese) che incautamente aveva pubblicato un avviso di mobilitazione militare: il sindaco gli ordinò di andare a toglierli con le sue mani.
Assistito dall'aiutante di campo gen. Cittadini nella lunga veglia tra il 27 e il 28 ottobre Vittorio Emanuele III si trovò pressoché solo a sbrogliare l'aggrovigliata matassa della crisi extraparlamentare in assenza di statisti di assoluta fiducia sua e del Paese e mentre incombeva il pericolo vero: non l'avanzata di squadristi (erano tutti bloccati a decine di chilometri da Roma grazie alle drastiche misure dettate dal gen. Pugliese con l'interruzione delle linee ferroviarie a Civitavecchia, Orte, Tivoli, Sezze...) ma lo scontro armato tra fascisti e militari. Il suo dubbio sulla lealtà dell'esercito è una diceria di terza mano. Nasce da una dichiarazione del gen. Roberto Bencivenga rilasciata nell'agosto 1945 a Efrem Ferraris, capo gabinetto di Facta: il generale (e poi maresciallo d'Italia) Pecori Giraldi gli aveva confidato che il re aveva consultato lui stesso e Diaz sulla condotta dell'Esercito. Il duca della Vittoria avrebbe risposto “l'Esercito farà il suo dovere, però sarebbe bene non metterlo alla prova!”. Nella notte tra il 27 e il 28 ottobre Diaz era a Firenze. È improbabile che il re lo abbia consultato telefonicamente e che quelle siano state le sue parole. A Bencivenga il maresciallo Pecori Giraldi non disse quale sia stata la sua personale risposta. Sarebbe interessante conoscerla. L'unica certezza è che Diaz fu nominato ministro della Guerra nel governo Mussolini, mentre il Grande Ammiraglio Paolo Thaon di Revel divenne ministro della Marina. I vertici delle Forze Armate erano con la Corona, come tutti gli ufficiali e la generalità dei graduati. Altra certezza è che alle 7.30 del 28 ottobre il re ricevette in udienza il catanese Ernesto Civelli (intendente generale della marcia su Roma a fianco del foggiano Gaetano Postiglione) che gli assicurò la fedeltà degli “squadristi” alla monarchia, come ricordato da Chiurco e da quanti (come Antonio Di Pierro) lo copiarono senza citarlo.
Secondo un'altra leggenda destituita di fondamento Vittorio Emanuele III temette che i fascisti gli contrapponessero Emanuele Filiberto di Savoia (non Amedeo, suo primogenito, a differenza di quanto si legge in “L'insurrezione fascista” di Mimmo Franzinelli e in “Gli uomini della marcia su Roma” di Mauro Canali e Clemente Volpini). L'Italia uscita vittoriosa dalla Grande Guerra con il Re Soldato perennemente al fronte e per anni a ricomporre le beghe tra governi, partiti e il Comandante Supremo Luigi Cadorna, non era un principato balcanico. I primi a respingere un'ipotesi di quel genere sarebbero stati i quadrumviri Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi, ricevuti dalla Regina Margherita pochi giorni prima a Bordighera.
Solo la mattina del 28 ottobre, su incalzante sollecitazione del Quirinale, Facta telegrafò a Giolitti, Filippo Meda (cattolico moderato) e Mussolini che il re li desiderava a Roma per consultazioni sulla crisi. Giolitti, il più atteso, rispose solo nel pomeriggio. Tutto andava a rilento mentre il tempo incalzava. Sul mezzogiorno del 29, rifiutato l'ingresso in un governo coalizione presieduto da Salandra, Mussolini venne invitato a Roma per ricevere l'incarico formale. Dopo la forzata sosta del treno a Civitavecchia, nella lista dei ministri egli sostituì Einaudi con Alberto De Stefani e Baldesi con Stefano Cavazzoni, del partito popolare. Ma non voleva la rottura completa con i socialisti riformisti. Infatti ancora il 16 novembre dichiarò alla Camera il proposito di averne il sostegno.
Nel “Diario”, curato da Marco Pignotti (Ed. dell'Orso), Francesco Cocco Ortu, deputato dal 1876, decano della Camera e unico liberale contrario al governo Mussolini, ricorda che il “duce” comunicò a Federzoni la nomina a ministro delle Colonie (forse il capofila dei nazionalisti sperava di avere gli Esteri) e troncò rapidamente la conversazione. Di fatto il “duce” formò il governo in meno di 24 ore. Il 31 avvenne il rituale passaggio di consegne tra i ministri uscenti e quelli subentranti, compresi Facta e Taddei, in un clima di assoluta normalità.
Il nuovo governo contò tre fascisti: il massone Aldo Oviglio alla Giustizia, Giovanni Giuriati alle Terre Liberate e De Stefani alle Finanze. Gli altri dicasteri andarono a popolari (Tangorra e Cavazzoni), liberali (Carnazza) e democratici sociali (Colonna di Cesarò). All'Istruzione fu nominato Giovanni Gentile, tra i più influenti filosofi e organizzatori culturali del Novecento. Gli si deve l'“Enciclopedia Italiana”. Fu vilmente assassinato da un comunista a Firenze il 15 aprile 1944, nell'ambito della trama ricostruita da Luciano Mecacci (Premio Acqui Storia). De Capitani rimase all'Agricoltura e il giolittiano conte Teofilo Rossi di Montelera fu confermato all'Industria e Commercio. Caso unico nel “ventennio”, il 23 novembre 1922 il conte Rossi presiedette il Consiglio dei ministri in assenza di Mussolini in viaggio a Londra, ove ottenne plausi e consensi da chi sin dal 1917 aveva retto le dande finanziandone l'ascesa, come narrano José Cereghino e Giovanni Fasanella nell'imminente “Nero di Londra” (Chiarelettere).
Scorrendo quei nomi e verificando le realizzazioni di quell’esecutivo sino alle elezioni del 6 aprile 1924 risulta fuorviante liquidare i primi sedici mesi di governo come fosse capeggiato da “una banda di delinquenti, guidati da un uomo spietato e cattivo” (lo scrive Aldo Cazzullo in “Il capobanda”, ed. Mondadori). Né può tacersi che quel governo il 17 novembre 1922 ebbe l'approvazione della Camera a larghissima maggioranza, ricalcata da quella, anche più ampia, al Senato, il 27 seguente.
Due ultime constatazioni “di fatto”. Se l'Italia non fosse stata una monarchia rappresentativa ereditaria e se il capo dello Stato fosse stato elettivo, non v'è dubbio che alle prime elezioni successive all'ottobre 1922 Mussolini sarebbe stato eletto a furor di popolo, avrebbe ottenuto pieni poteri assoluti su tutto e su tutti e nessuno avrebbe potuto revocarlo e sostituirlo, come invece fece Vittorio Emanuele III il 25 luglio 1943. In secondo luogo, come già era accaduto a fine ottobre del 1922, i “politici” del Comitato di liberazione nazionale dall'estate 1943 al giugno 1944 rifiutarono di collaborare con il governo del Re, che rimase solo a fronteggiare la tracotanza dei vincitori, decisi a declassare l'Italia dal rango di aspirante grande potenza qual era stata dall'unificazione del 1861: una retrocessione dalla quale non si è più ripresa.

Didascalia: Da sinistra Enrico De Nicola, presidente della Camera e futuro presidente provvisorio della Repubblica; il re e Mussolini (1923).
SOLITUDINE DEI LIBERALI
IERI, DOMANI


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 20 Settembre 2022 pagg. 1 e 6.

Giovanni Giolitti anziano. Il 6 aprile 1926 l'ottantaseienne Statista scrisse alla figlia Enrichetta: “Di salute sto benissimo; il tempo è bello, la campagna va bene, gli alberi da frutta sono mazzi di fiori. Ora conto non muovermi finché non debbo tornare a Roma per la Camera; non conto però di fare il deputato molto zelante perché non ho mai amato fare cose inutili; e ora credo non esista cosa più inutile della Camera alla quale è tolto ogni potere e che, anche se avesse poteri, né vorrebbe né saprebbe esercitarli; avendo però un mandato lo esercito nella forma per escludere ogni solidarietà con chi ha disertato”, gli “Aventiniani”. Su “Giolitti. Liberale, una specie perduta” è fresco di stampa il saggio di Sergio Turtulici (LAReditore).Tocca ai cittadini
Il 25 settembre 2022 a decidere è il voto dei cittadini. Lo è dal 1913, quando si svolsero le prime elezioni con suffragio maschile quasi universale. A volerlo fu, con altri, Giovanni Giolitti, monarchico, liberale e conservatore progressista, fautore di riforme perché solo con riforme vere le Istituzioni durano. Tra il 1919 e il 1924 non fu un destino cinico e baro e men che meno il Re a gettare l'Italia nello scompiglio. Furono i votanti che si fecero abbindolare dai pifferai e i governanti che aggirarono il voto. Perciò, occhi spalancati. L'esercizio del diritto di voto è anche dovere civico. Chi non vota poi non si lamenti delle decisioni altrui.
Pochi ma buoni (non è facile esserlo davvero), i liberali avevano costruito l'Italia, europea sin dalla nascita nel remoto 1861. Disparvero. Oggi vanno cercati dove sono ed eletti al Parlamento. Ce ne sono. La loro sopravvivenza difende il primo diritto dell'uomo: il diritto alla solitudine, quella degli antichi monaci che salvaguardarono la Civiltà oltre la Barbarie. Ognuno il 25 settembre faccia la sua parte.
Giolitti: ultimo appello
«La convocazione di una nuova Camera implica certamente il proposito di richiamare il Parlamento all'esercizio delle sue funzioni statutali (sic!) e quindi di sottoporre al medesimo la risoluzione dei problemi più vitali per il paese. Ciò è conforme ai voti più ardenti del partito liberale, che vede nel Parlamento una grande forza nazionale, una garanzia per tutte le classi sociali e il più potente appoggio all'opera del governo.
«Il partito liberale sente altamente il dovere di dare tutta l'opera sua per la ricostruzione del Paese, per portarlo al più alto grado di civiltà, per assicurare all'Italia il posto che le spetta nel mondo. A questi alti fini corrispondono i principi e le tradizioni del partito, ma quest'opera il partito deve compiere col suo nome, colla sua bandiera. Sopprimere in Piemonte perfino il nome del partito di Cavour, di d'Azeglio, di Rattazzi, di Lanza, di Sella e di centinaia di altri patrioti sarebbe rinnegare le più pure nostre glorie, e rinnegarle a beneficio dei due partiti [i socialisti e i cattolici del partito popolare, NdA] che avevano reso impossibile la normale funzione del Parlamento. Conscio di avere un dovere da compiere, il partito liberale affronta la lotta da solo, forte dei suoi ideali, delle sue tradizioni, del suo programma, mantenendo intera la sua indipendenza.»
È la conclusione del discorso pronunciato da Giolitti a Dronero il 16 marzo 1924, in vista delle elezioni del 6 aprile. Lo statista sintetizzò l'opera da lui svolta nei quarantadue anni dall'elezione alla Camera e nei cinque governi presieduti tra il 1892 e il 1921, in specie nel suo ultimo ministero (1920-1921). Mirò al risanamento della finanza pubblica; trattò con la Jugoslavia per assicurare l'indipendenza di Fiume e la sua contiguità territoriale con l'Italia. Denunciò il veto opposto da don Luigi Sturzo a una coalizione di liberali, popolari e socialisti e mise in guardia dal connubio Sturzo-Turati-Treves, basato su ideologie ostili all'Italia nata dal Risorgimento.
Giolitti affermò che nell'impossibilità di costruire una robusta e durevole maggioranza parlamentare, a fine ottobre del 1922 a Vittorio Emanuele III non era rimasto che varare il governo Mussolini: «un ministero costituzionale, nominato dal Re, che prestò giuramento di fedeltà al Re ed allo Statuto, che espose al Parlamento il suo programma, e richiese quei pieni poteri che riteneva necessari per attuarlo, poteri che gli furono conferiti dai partiti liberali e democratici alla quasi unanimità; che infine presentò la nuova legge elettorale al Parlamento, che la approvò.» Ne conviene anche Aldo Cazzullo che, nel recente (e molto discutibile) “Mussolini il capobanda” (Mondadori), ammette: quando conferì al “duce” l'incarico di formare il governo, «il re non era né pazzo, né complice». Da re costituzionale non ebbe altra scelta.
Nel discorso di Dronero Giolitti rivendicò infine di aver concorso alla nuova legge elettorale quale presidente della Commissione camerale che la discusse e la varò coi voti dei partiti costituzionali, compresi i popolari di Alcide De Gasperi. Avrebbe preferito il ritorno ai collegi nominali; ma era meglio che niente.
A differenza di quanto asseriscono Emilio Gentile altri, con l'insediamento del governo Mussolini (31 ottobre 1922) l'Italia non divenne affatto un “regime totalitario” e neppure una “autocrazia elettiva”, come oggi si dice dell'Ungheria e si potrebbe dire di altri Paesi ove le elezioni si limitano a ratificare senza alternativa le forze al potere. La “legge Acerbo” (così detta dal nome del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giacomo Acerbo, che ne fu relatore in Parlamento) cancellò il riparto proporzionale dei seggi e assegnò due terzi degli scranni al partito che ottenesse il 25% più uno dei voti: la soglia sfiorata dal Partito socialista italiano nelle elezioni del 15 maggio 1921, quando il PPI ebbe poco più del 20%. La nuova legge, dunque, rimetteva nelle mani degli elettori le sorti del Paese.
Nel discorso del 16 marzo Giolitti sintetizzò i meriti storici dei liberali italiani: avevano cacciato gli stranieri, fondato lo Stato unitario e voluto Roma capitale d'Italia garantendo al papa, “capo della religione del popolo italiano”, libertà, indipendenza e autorità spirituale. Il partito liberale «ha presa come bandiera la dinastia dei Savoia e l'ha seguita fedelmente sui campi di battaglia, ha lavorato con cuore e con assoluto disinteresse a migliorare le condizioni dei lavoratori delle città e della campagna, sia economicamente sia elevandone la dignità e l'istruzione e chiamandoli a partecipare alla vita politica col suffragio universale.» Una scommessa generosa.
Passati in rassegna i progressi civili, il contributo alla pace, basato sull'equilibrio tra le potenze, lo statista additò gli obiettivi fondamentali: ristabilire «l'autorità dello Stato e l'impero della legge» tramite il «consenso che si ottiene con istituzioni, leggi e azioni di governo ispirate a vera giustizia sociale». Per il patrimonio storico accumulato nel secolo dai moti costituzionali alla ricostruzione avviata all'indomani della Grande Guerra, il partito liberale dunque non poteva «sparire, come non ne può sparire il programma di illuminato patriottismo, di dignità nazionale, di ordine, di libertà, di sana democrazia, di progresso, di tutela dei diritti di tutte le classi sociali».
Quando liberali e democratici si sfarinarono
Però nella primavera del 1924 il guaio ormai era combinato. Alle elezioni del 6 aprile si presentarono 23 liste con 1306 candidati. Le uniche presenti in tutti i collegi elettorali d'Italia furono solo tre: la Lista nazionale (detta “Listone”) incardinata sul Partito nazionale fascista, il Partito popolare italiano (PPI) e il Partito socialista unitario (PSU), guidato da Turati e dal giovane Giacomo Matteotti. La Lista nazionale, con emblema il fascio littorio, candidò tanti “ex” (popolari, democratici sociali e liberali) recentemente entrati nelle file del PNF o ancora indipendenti. Tra i suoi nomi spiccarono quelli di Vittorio Emanuele Orlando e di Enrico De Nicola. Il PPI si presentò con scudo crociato e “libertas” nel braccio orizzontale. Il PSU si riconobbe nel sole nascente con le parole Libertà (in grande) e Socialismo (in piccolo). Tralasciando le liste delle minoranze etniche e l'opposizione costituzionale capitanata da Giovanni Amendola e presente in quattro collegi con una stella nera a cinque punte per contrassegno, il vero guaio fu la frantumazione dei “liberali” in ben sette diverse liste: una in Sicilia, i liberali indipendenti (Alfonso Rubilli e Gianfranco Tosi) in Emilia e nel Mezzogiorno; una in Sicilia e nel collegio Basilicata-Calabria; altri liberali indipendenti in Campania e Puglia, altri ancora, di identica denominazione, in Sicilia e nel collegio Lazio-Umbria; Camillo Corradini, già sottosegretario giolittiano alla presidenza del Consiglio, e infine i seguaci di Giolitti, che scese in campo in Piemonte, Liguria e in Lazio-Umbria. Una babele.
Anche l'“opposizione costituzionale” si ripartì in quattro liste presenti sotto i contrassegni più bizzarri in una o due regioni. Quella guidata dall'ex presidente del Consiglio, Ivanoe Bonomi, sorretta da democratici autonomi e demosociali dissidenti, non ottenne neppure un seggio. Bonomi lasciò la politica, tornò alla professione forense e rimase “in sonno” sino al 1943-1944, quando assunse la presidenza del Comitato centrale di liberazione nazionale e divenne capo del governo in contrapposizione a Pietro Badoglio.
La “ratio” della legge Acerbo-Giolitti era chiarissima: chi voleva vincere doveva unire le forze. Il Listone del PNF ottenne il 60% dei voti; una lista fascista fiancheggiatrice il 5%. Insieme, fascisti e parafascisti ebbero due terzi dei seggi. Li meritarono “ope legis”. “Democratici” e “liberali” fecero l'opposto. Si sfarinarono. D'altronde un Partito liberale italiano vero e proprio nacque solo nel 1922, alla vigilia della crisi della democrazia parlamentare. Troppo tardi.
Erba medicinale
Alle elezioni del 6 aprile 1924 la lista guidata da Giolitti ottenne tre seggi in Piemonte (Giolitti stesso, Marcello Soleri ed Egidio Fazio, radicato a Garessio) e uno in Liguria. Un risultato deludente, anche perché erano espressione di una sola delle quattro province piemontesi (Torino, Novara, Alessandria, Cuneo). L'unica dalla solida tradizione liberale risultò, infatti, la “Provincia Granda”. Nel 1919 essa aveva eletto tre soli deputati liberali (Giolitti, Soleri e Camillo Peano). Socialisti e popolari ne ebbero quattro. Per Giolitti quell'esito fu una umiliazione cocente. Un dodicesimo deputato venne eletto come “agrario”. Due anni dopo lo stesso collegio elesse quattro liberali: i tre del 1919 e Fazio. Ma era ormai un caso unico. Nelle elezioni del Consiglio provinciale nel novembre 1920 la Granda confermò il primato dei liberali che ottennero la maggior parte dei 60 consiglieri, ma solo perché nei mandamenti vigeva il sistema maggioritario e gli antichi notabili davano garanzie agli elettori per competenza e impegno. All'epoca il liberalismo poteva persino consentirsi il lusso di divisioni in varie correnti: la roccaforte propriamente giolittiana tra Cuneo e Saluzzo, un'altra nel Monregalese, una terza ad Alba. Quel consesso, presieduto da Giolitti, vantava senatori, deputati, aristocratici (Annibale Galateri di Genola, Paolo Falletti di Villafalletto...), scienziati e artisti di fama, come lo scultore Giuseppe Canonica.
Alle elezioni del 6 aprile 1924 in Piemonte furono eletti tre popolari (tra i quali Giambattista Bertone, già ministro nei governi Facta), tre esponenti del Partito dei contadini (vaga anticipazione del populismo perpetuo), tre socialisti, due comunisti, due socialmassimalisti e 31 deputati della Lista nazionale. Molti tra questi precedentemente erano stati eletti nelle file liberali: Gastone Guerrieri di Mirafiori, Giovanni Battista Imberti e il monregalese Guido Viale. Nel dicembre 1925 fu quest’ultimo a capitanare il colpo di mano che rovesciò Giolitti da presidente del Consiglio provinciale in cambio di un cospicuo contributo del governo Mussolini per la prosecuzione del grandioso viadotto ferrostradale cuneese sulla Stura. Corruzione? Voltagabbana? Rassegnazione o pragmatismo?
Considerazioni analoghe valgono per i liberali in Liguria, forti nel Ponente, in grave arretramento in Genova e declinanti nel Levante. In cinque anni, tra il 1919 e il 1924, avvenne il più vasto ricambio di dirigenza politica dal 1882. Fu una tra le conseguenze dell'intervento nella Grande Guerra, dell'avvento di nuovi partiti (popolari, comunisti, fascisti) e della diffusa volontà di girar pagina senza sapere bene perché e che cosa scrivere nella volta. Avvenne e avviene.
Quattro gatti o il sale della Nuova Italia?
Su impulso di Fazio la pattuglia dei giolittiani (sui 535 deputati) non lasciò l'Aula neppure dopo il rapimento di Giacomo Matteotti. Quando divennero evidenti i propositi liberticidi del governo Mussolini, i liberali passarono dall’iniziale voto favorevole all’opposizione netta, sino al 16 marzo 1928 quando l'ottantaseienne Giolitti dichiarò in Aula che il conferimento al Gran consiglio del fascismo del potere di designare i 400 membri della Camera futura, previsto dalla nuova legge elettorale propugnata da Alfredo Rocco, segnava “il decisivo distacco dal regime retto dallo Statuto”.
Con lo scioglimento della Camera eletta il 6 marzo 1924 e l'elezione della nuova il 24 marzo 1929, sull'onda dei plauditi Patti italo-vaticani dell'11 febbraio precedente, per il liberalismo italiano iniziò la “morta gora”, come amaramente annotò Soleri. L'apparenza, però, fu diversa dalla sostanza. Anche il regime mussoliniano si risolse in un quindicennio di continui bruschi mutamenti di rotta, indicati dai continui cambi dei titolari di ministeri chiave, in specie di Finanze, Lavori Pubblici, Economia nazionale. In molti settori la continuità prevalse sulla retorica della “rivoluzione”. La generalità della burocrazia e dei vertici imprenditoriali e bancari si era formata e affermata nell'età vittorioemanuelina-giolittiana e ne conservò l'impronta: quel tasso elevato di responsabilità civica che dal 25 luglio 1943, all'indomani della revoca di Mussolini per decisione di Vittorio Emanuele III e dello scioglimento del PNF e delle sue organizzazioni, a partire dalla Milizia nel luglio 1943, agevolò il ritorno al pluripartitismo. Lo ricorda Paolo Cacace in “Come muore un regime” (ed. il Mulino), ottimo finalista al Premio Acqui Storia 2022. 
La storia riprese il suo corso. Ma in Italia il liberalismo stentò ad assumere la “forma partito” che nelle democrazie parlamentari è anche sostanza. Il PLI tornò a essere il “partito dei quattro gatti”. Orgogliosi di aver dato all'Italia Cavour, Giolitti ed Einaudi, i liberali furono sempre più emarginati, dimenticati e anche irrisi perché non non si rassegnavano a intrupparsi nei cortei delle “masse”.
Ma l'Italia può fare a meno di liberali? Essi non hanno un’insegna identificabile. Oggi tutti si proclamano tali, salvo ignorare la storia e negare la realtà.
Tocca allora agli elettori aguzzare la vista. Per scongiurare un'altra lunga “morta gora” a un Paese in grave affanno per la voragine del debito pubblico, la fuga dei “giovani” dalle responsabilità e il declino del senso dello Stato che animò i padri fondatori della Nuova Italia, nata nel 1861, non nel 1946 ome si pretende di far credere. Nel bene e nel male, sono infine gli elettori i responsabili della storia.
Aldo A. Mola 

DIDASCALIA. Giovanni Giolitti anziano. Il 6 aprile 1926 l'ottantaseienne Statista scrisse alla figlia Enrichetta: “Di salute sto benissimo; il tempo è bello, la campagna va bene, gli alberi da frutta sono mazzi di fiori. Ora conto non muovermi finché non debbo tornare a Roma per la Camera; non conto però di fare il deputato molto zelante perché non ho mai amato fare cose inutili; e ora credo non esista cosa più inutile della Camera alla quale è tolto ogni potere e che, anche se avesse poteri, né vorrebbe né saprebbe esercitarli; avendo però un mandato lo esercito nella forma per escludere ogni solidarietà con chi ha disertato”, gli “Aventiniani”. Su “Giolitti. Liberale, una specie perduta” è fresco di stampa il saggio di Sergio Turtulici (LAReditore).
MEMORIA DELL'INGHILTERRA

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 11 Settembre 2022 pagg. 1 e 6.

Giuseppe Garibaldi alla battaglia di Milazzo (20 luglio 1860), Acquerello di Gustavo Strafforello. Per Giuseppe Garibaldi l'Inghilterra fu modello ispiratore di una “politica” capace di conciliare Tradizione e Innovazione e per la formazione di un “partito dello Stato” aperto al dialogo con tutte le culture, all'insegna della pace universale nel progresso civile. Il 23 ottobre 1860 Garibaldi espresse al Consolato britannico a Napoli la riconoscenza per la “potente e generosa simpatia degli inglesi per i tanti benefizi da loro ricevuti a favore della bella causa italiana” e concesse “il permesso d'un tempio sul territorio di questa capitale ad uomini che adorano lo stesso Dio degli italiani”. Nel Regno delle Due Sicilie erano vietati i culti diversi dalla religione cattolica. Il partito straniero?
“Da secoli chi vuole governare in Italia deve essere gradito e apprezzato in un certo numero di capitali che variano nel tempo: Madrid e Parigi, poi Vienna e Londra, Mosca e Washington. Che poi raccolga pochi o molti voti o consensi in Italia può essere secondario...”. È il “Partito straniero” al quale “Storia in Rete” di settembre 2022 (n. 193) dedica la copertina e molti articoli firmati dal direttore Fabio Andriola e Marco Valle, da Michele Rallo e Pietro Romano, parecchio critici nei confronti di Mario Draghi, ricordato con la staffilante definizione di Francesco Cossiga, (“Un vile, un vile affarista...”), Beniamino Andreatta, Romano Prodi... Ma sarà vero che, come scrisse l'antropologa Ida Magli (11925-2016), “nessun popolo è stato mai tradito dai suoi governanti in maniera così determinata, ossessiva, cinica, perversa…”?
O, al contrario, dopo l'eclissi dell'Impero romano per risalire la china i popoli d'Italia hanno dovuto evocare l'intervento dello straniero per sottrarsi ai tiranni locali? Lo hanno fatto sommando l'eredità di Roma con il nuovo fulcro della storia universale, il Papato d'Occidente. Un papa chiama in Italia Carlo re dei Franchi contro un re longobardo, che viene sconfitto e imprigionato. Ma per passare da sovrano di un regno precario a Sacro Romano Imperatore Carlo deve farsi incoronare dal sommo pontefice non in un borgo d'Oltralpe ma a Roma. Perché è la Città Eterna a mettere ordine tra etica e politica e a trasformare le armi in “missione”. All'indomani dello sfarinamento dell'impero carolingio, saranno gli imperatori della casa di Sassonia a continuarne l'opera e via di seguito per secoli i loro successori. La consacrazione dell'imperatore è celebrata in Italia. È il papa a imprimerne il carattere sacramentale, che distingue l'impero medievale, davidico, da quello dei Cesari e degli Augusti, giuridico.
   Pensare in grande e cercare conferme Oltralpe divenne ancor più necessario in Italia dopo il fallimento delle Crociate, con la definitiva conquista dei Luoghi Santi da parte dei turchi, dalla constatazione dell'irrimediata separazione della Chiesa di Occidente da quella di Oriente e con la frantumazione del cristianesimo occidentale in cattolici apostolici romani, evangelici (dai valdesi ai calvinisti) e riformati (non solo Martin Lutero, dunque, ma anche la pletora di denominazioni “protestanti”). Il paradosso beffardo della storia fece coincidere il tramonto dell'unità cristiana dell'Occidente con l'esordio dei grandi navigatori e dei conquistatori che nel volgere di un secolo imposero il dominio dell'Europa su Americhe ed Asia: una “marcia” così travolgente, spesso spietata, che ancor oggi suscita dispute e persino la condanna senza appello di Cristoforo Colombo, Amerigo Vespucci e dei loro emuli. La dice lunga l'imbarazzato silenzio riservato ai cinquecento anni dalla prima circumnavigazione del globo terraqueo capitanata da Magellano (caduto in combattimento nelle future Filippine) e narrata da Pigafetta.
   Fu in quello stesso secolo che ogni Stato di un'Europa priva di un unico centro religioso e politico intraprese il proprio cammino o, se si preferisce, la propria missione storica. L'Italia, protagonista nei secoli dell'Umanesimo e del Rinascimento, ripiegò nella ripetività del barocco. Teatro delle guerre tra il cattolicissimo imperatore Carlo V d'Asburgo e il cristianissimo Francesco re di Francia, percorsa e ripercorsa da eserciti stranieri, l'Italia si adagiò tra le braccia dei vincitori prestando ai vertici del potere continentale politici abilissimi (da Mercurino di Gattinara a Giulio Mazzarino) e principesse raffinate (come Caterina e Maria de' Medici, regine di Francia).
L'ascesa dell'Inghilterra a impero marittimo  
   In quegli stessi secoli si risolse il duello tra le due potenze marinare emergenti: gli Olandesi e gli Inglesi. A sterzare la rotta di Londra nella storia fu Enrico VIII, che da “defensor fidei” divenne capo della chiesa anglicana, ribelle nei confronti d Roma. Con le nozze tra l'inglese Maria (“la Sanguinaria”) e Filippo II d'Asburgo re di Spagna, l'Inghilterra rischiò di divenire una “provincia” del regno iberico sul cui impero il sole non tramontava mai. Fu un attimo. Dall'indomani Londra imboccò la strada dell'autocefalia, con Elisabetta I, la “vergine regina” cantata come Astrea, simbolo della Giustizia opposta agli intrighi della terraferma, succuba del binomio Cesare e Piero, che quasi tre secoli dopo ancora indignerà Giosue Carducci nel sonetto in morte di Ugo Bassi, il barnabita garibaldino fucilato previa sconsacrazione perché in lotta contro l'impero d'Austria sorretto da Pio IX.
   Per affermare l'identità dell'Inghilterra la regina Elisabetta non esitò a far decapitare Maria Stuarda, regina di Scozia, a far torturare a morte i gesuiti che cadevano in potere del controspionaggio inglese ed a valersi della “guerra da corsa” di Francis Drake, secondo circumnavigatore del mondo, e di Raleigh. Nel volgere di due secoli, sconfitta la possente marineria dei Paesi Bassi, spogliati dei capidsaldi del loro dominio coloniale (dalla baia di Hudson alla Città del Capo), l'Inghilterra divenne capofila della nuova civiltà politica, studiata, compresa e propugnata da Montesquieu, Voltaire e dagli enciclopedisti francesi, alimentati e sospinti dalla Buona Novella della sorgente massoneria britannica, prontamente diffusa da Calcutta a Firenze, dalla Napoli di Raimondo Sangro di San Severo alla Vienna di Francesco Stefano di Lorena, consorte dell'imperatrice Maria Teresa d'Asburgo.
   Il mondo mutò a ritmo accelerato con la prima rivoluzione industriale e l'enunciazione dei capisaldi etici e politici del Nuovo Mondo, formulata dalla dichiarazione di indipendenza da Londra delle colonie britanniche nella Nuova Inghilterra, punto di partenza dell'ascesa di una nuova potenza, gli Stati Uniti d'America, che in due secoli e mezzo sono divenuti la prima potenza del pianeta.
   Poiché il corso della grande storia si misura sulle lunghe distanze, bene si comprende perché le avanguardie culturali anche italiane abbiano guardato (e ancora guardino) con ammirazione a quanto emergeva su orizzonti lontani, grazie a politici che al di là della Manica e dell'Atlantico studiavano appassionatamente gli illuministi italiani come Galliani, Filangeri e Pagano. 
Giuseppe Garibaldi, anglofilo che non parlava inglese 
“Se avessi avuto più discernimento ed avessi potuto indovinare le future mie relazioni con gli Inglesi, io avrei potuto studiare più accuratamente la loro lingua, ciocché potevo fare col mio secondo maestro, il padre Giaume, prete spregiudicato e versatissimo nella bella lingua di Byron. Io ebbi sempre un rimorso di non aver studiato dovutamente inglese, quando lo potevo, rimorso rinato in ogni circostanza della mia vita in cui mi son trovato cogli Inglesi”. Lo scrisse Giuseppe Garibaldi (Nizza Marittima, 4 luglio 1807 - Caprera, 2 giugno 1882) nel primo capitolo delle “Memorie”. In molte sue opere, specie nei romanzi, come “Clelia o il governo del monaco” (Torino, ed. Meb, collana diretta da Giovanni Arpino) l'Eroe dei due mondi tenne a ringraziare i britannici per i tanti provvidenziali interventi a sostegno delle sue battaglie per la libertà. Lo ripeté anche a proposito dello sbarco dei Mille a Marsala: “La presenza dei due legni da guerra inglesi influì alquanto sulla determinazione dei comandanti de' legni nemici (cioè di Francesco II di Borbone, NdA), naturalmente impazienti di fulminarci, e ciò diede tempo ad ultimare lo sbarco nostro. Fu però inesatta la notizia data da nemici nostri, che gl'Inglesi avessero favorito lo sbarco in Marsala direttamente, e coi loro mezzi. I rispettati e potenti colori della Gran Brettagna, sventolando su due legni di guerra della potentissima marina e sullo stabilimento Ingham (per la produzione ed esportazione del vino marsala, NdA) imposero titubanza ai mercenari del Borbone e dirò anche vergogna...”.
   Perché gli inglesi scommisero ripetutamente su Garibaldi? Lo avevano fatto da decenni con altri capitani di libertà, come Francisco Miranda, Simón Bolívar e i “libertadores” che, iniziati in logge lautarine e perfezionati in Inghilterra, avevano smantellato il domino ispanico sull'America Latina, compreso il Brasile. Detto per inciso, in Italia quasi nessuno ha ricordato il bicentenario della nascita del Brasile indipendente, con la separazione della sua corona da quella del Portogallo (agosto 1822), preludio all'affermazione del principio “l'America agli Americani”, enunciato nel 1823 dal presidente degli Stati Uniti James Monroe.
   Con la lunga guerra contro il dominio continentale di Napoleone I, colpito direttamente e indirettamente da Londra, sia con l'organizzazione delle coalizioni antibonapartistiche sia tramite l'aiuto diretto (lord Wellington) e indiretto alla guerriglia degli spagnoli contro gli occupati francesi capitanati da Giuseppe Bonaparte, gli inglesi si erano erti a campioni mondiali della lotta contro la tirannide napoleonica senza cadere nell'errore opposto, cioè la repressione delle libertà, voluta invece dalla Restaurazione imposta nel 1815 dalla Santa Alleanza: rifiuto e annientamento delle costituzioni liberali.
   L'“Inghilterra” (come era comunemente detto il Regno di Gran Bretagna e Irlanda) divenne insomma la centrale della cospirazione liberale contro l'assolutismo “del trono e dell'altare”. È curioso sia accaduto, perché il sovrano britannico è anche capo della Chiesa anglicana nonché, quando maschio, gran maestro della Gran Loggia Unita d'Inghilterra sorta nel 1813 dalla fusione tra massoni “antichi” e “moderni”. Racchiude, in sintesi, potere politico, religioso, iniziatico: il nuovo ciceroniano “genus mixtum” necessario per un impero universale fondato sulla libertà dei mari e la lotta contro l'avvento nell'Europa continentale di un'unica potenza egemone o di un blocco di potere deciso a fare del Mediterraneo un lago dei Paesi rivieraschi.
   L'Inghilterra divenne approdo dei liberali in fuga dall'assolutismo. Fu il caso di Ugo Foscolo che affidò al mite Silvio Pellico la cura delle poche cose lasciate a Milano e poi dei “settari” (carbonari, massoni, adelfi, federati...) scampati ad arresti, torture condanne a morte o al carcere duro. Bastino d'esempio Federico Confalonieri (niziato massone in Inghilterra dal fratello del re), Giorgio Pallavicino, Piero Maroncelli, Pellico... Infine la Gran Bretagna accolse i liberali italiani dopo il fallimento dei moti costituzionali del 1820-1821. Tra loro merita memoria Santorre di Santa Rosa, il cui pensiero politico è ora approfondito da Stefano Passaggio nel saggio sul neoguelfismo nel secolo liberale (Ed. Centro Studi Piemontesi). Negli stessi anni Londra sostenne moderatamente la guerra dei greci per l'indipendenza dai turchi (vi caddero Santa Rosa e lord Byron), ma con l'obiettivo strategico di non aprire gli Stretti tra Mar Nero ed Egeo all'impero russo, erede di quello di Bisanzio. Quella “partita” trent'anni dopo si concretò nella guerra contro l'impero zarista da parte dell'alleanza anglo-franco-turca, affiancata dal regno di Sardegna, con sovrano il trentaquattrenne Vittorio Emanuele II e  primo ministro il conte Camillo Cavour.  
 L'alba di un “partito dello Stato d'Italia”
L'amicizia italo-britannica, che albeggiava dai tempi di Vittorio Amedeo II, asceso da duca di Savoia a re di Sicilia, inaugurò il nuovo corso che ebbe in Garibaldi l'uomo-simbolo: guerrigliero, corsaro, generale, condottiero, capace di parlare ai popolani e con i sovrani.
   Se ne ebbe conferma con il suo viaggio trionfale in Gran Bretagna nel marzo-aprile 1864. La sua narrazione si è quasi sempre fermata alla descrizione dei banchetti organizzati in suo onore dalla duchessa di Anna Hay di Sutherland e da suo marito, George Granville Leveson-Gower, che lo misero a contatto con aristocratici, ministri, ecclesiastici (incluso l'arcivescovo di Canterbury), lord Russell, Palmerston, Florence Nightingale... La polizia aveva previsto che ad accogliere l'Eroe si sarebbero raccolte 100.000 persone. Ne affluirono almeno mezzo milione. Ma qual era la missione di Garibaldi in Inghilterra nell'anno della fondazione della Prima internazionale “socialista”? Tanti suoi biografi ricordano che Garibaldi rifiutò il dono in danaro raccolto dai suoi ammiratori, ma accettò quanto necessario per acquistare completamente Caprera. “Parva sed apta mihi”, l'isola divenne il suo regno incontrastato. Da li muoveva le acque d'Europa, accettava e rifiutava missioni impossibili come mettersi a capo di un'insorgenza nei Balcani contro l'impero d'Austria: avventura sconsigliata dal lungimirante Adriano Lemmi, il “banchiere della rivoluzione”, che temeva fosse una trappola mortale.
   Mentre scriveva lettere a Louis Blanc, Victor Hugo, Benedetto Cairoli, Gioacchino Paternò Castello e in casa del rivoluzionario russo Herzen incontrava Giuseppe Mazzini e altri illustri esuli, Garibaldi stava mettendo a punto una grande riforma, enunciata in una lettera alla duchessa di Sutherland: combattere il dispotismo e far trionfare la pace. “Nell'avvenire la guerra tra le nazioni è impossibile e tutte le differenze internazionali si giudicheranno da questo areopago universale”. Era il caposaldo da lui enunciato tre anni dopo al congresso per la pace svoltosi a Basilea. “Coll'unità politica e religiosa poco importerà l'essere nati sulle sponde del Tamigi, della Senna o del Tebro. L'uomo avrà per patria il mondo; i capitali delle nazioni saranno impiegati alla loro prosperità, non alla loro distruzione, e cesseranno, finalmente, quei macelli umani che si chiamano guerre ed a cui ci spinge da tanti secoli il dispotismo. Conclusione. Se per la politica l'uomo continua, come sembra, nell'incapacità di migliorare, si spinga avanti la donna a surrogarlo a stimolarlo almeno sulla via del bene. Per i motivi suddetti si spiega perché io cerco di mantenermi al di fuori dei partiti politici, come delle differenti credenze religiose. Fra i due principi del bene e del male, io mi attengo conforme al dettame della mia coscienza.” Quanto alla religione, osservava l'“unica e generale credenza nell'Onnipotente, scevra da qualunque interpretazione che non capisco. In poche parole alla religione della Verità, senza misteri o rivelazioni” (Da Caprera, 18 giugno 1864).
   Rivolto il saluto popolo inglese (22 aprile 1864) e tornato in patria, Garibaldi si dedicò all'unificazione delle sparse membra della massoneria italiana per farne l'interlocutore di quella britannica e la spina dorsale del “partito dello Stato” di cui la Corona di Vittorio Emanuele II aveva bisogno mentre il giovane regno d'Italia ancora mancava di Venezia, Roma, Trento, Trieste... e nel Mezzogiorno imperversava il grande brigantaggio alimentato dall'estero e lo Stato (a cominciare dal re e dai suoi ministri) erano “scomunicati” da Pio IX. In quel programma propose la costituzione di logge femminili.
  Il compito era immane. Per realizzarlo secondo Garibaldi l'Italia doveva guardare a due modelli: l'Inghilterra e la Svizzera, “impero” e federazione, pluralismo e unità.
   Nato dalla benevola connivenza della Francia di Napoleone III e della Gran Bretagna della Regina Vittoria, imperatrice delle Indie, l'Italia non doveva aver paura di “influenze” o “infiltrazioni” straniere. Anzi, doveva guardare all'estero per liberarsi del vecchiume che ne tarpava le ali.
   Per quei non tanto lontani trascorsi l'Italia odierna guarda con ammirazione il modello politico-culturale britannico che concilia tradizione e innovazione, con equilibrio: una catena d'unione di uomini liberi, senza retorica, capaci di ideali.

Aldo A. Mola

Didascalia: Giuseppe Garibaldi alla battaglia di Milazzo (20 luglio 1860), Acquerello di Gustavo Strafforello. Per Giuseppe Garibaldi l'Inghilterra fu modello ispiratore di una “politica” capace di conciliare Tradizione e Innovazione e per la formazione di un “partito dello Stato” aperto al dialogo con tutte le culture, all'insegna della pace universale nel progresso civile. Il 23 ottobre 1860 Garibaldi espresse al Consolato britannico a Napoli la riconoscenza per la “potente e generosa simpatia degli inglesi per i tanti benefizi da loro ricevuti a favore della bella causa italiana” e concesse “il permesso d'un tempio sul territorio di questa capitale ad uomini che adorano lo stesso Dio degli italiani”. Nel Regno delle Due Sicilie erano vietati i culti diversi dalla religione cattolica. 
ELEZIONE POPOLARE DEL CAPO DELLO STATO?
NO, GRAZIE


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 4 Settembre 2022 pagg. 1 e 6.

La “Biblioteca Piffetti” trasferita da Casa Savoia da Torino al Quirinale.  Residenza dei Papi, dei quattro Re d'Italia e dei Presidenti della Repubblica il Palazzo è sintesi e simbolo della continuità di uno Stato ancora giovane, bisognoso  di pace interna e internazionale. “Presidente del Consiglio come “sindaco d'Italia”?
L'accordo quadro di programma della coalizione Forza Italia-Lega-Fratelli d'Italia, probabilmente prevalente alle elezioni politiche del 25 settembre 2022, al punto 3 (Riforme istituzionali, della Giustizia e della Pubblica Amministrazione secondo la Costituzione) propone la “Elezione diretta del Presidente della Repubblica”.
La riflessione sulla storia conduce a concludere che essa non si addice all'Italia. 
Va osservato, in premessa, che la coalizione “Azione-Italia Viva”, cioè il “Terzo Polo” guidato da Carlo Calenda e Matteo Renzi, propone una profonda revisione del Titolo V della Costituzione alla luce delle misure adottate per contenere gli effetti della pandemia di covid-19 e sue varianti, quando emerse imperiosamente la necessità della clausola di supremazia dell'interesse nazionale su pulsioni particolaristiche. A differenza dell'accordo quadro FI-Lega-FdI, il “Terzo Polo” propone l'elezione diretta del presidente del Consiglio dei ministri sul modello dei sindaci delle città più grandi, che verrebbe implicitamente designato dal voto popolare. L'elezione “diretta” del capo del governo mette in discussione la prerogativa fondamentale del rapporto tra capo dello Stato e presidente del Consiglio. La Costituzione vigente riserva al primo la nomina del secondo, al quale spetta la scelta della rosa di ministri da proporre al capo dello Stato per la nomina di rito (art. 92 comma 2). La riforma prospettata da “Azione-Italia Viva” è dunque gravida di incognite per le istituzioni supreme dello Stato.
L'elezione “popolare” del capo dello Stato
L'accordo quadro del centrodestra suscita perplessità anche maggiori. In primo luogo anziché di “elezione diretta” sarebbe meglio parlare di “elezione popolare”, in linea con l'art. 1 comma 2 della Carta, senza però trascurare che la sovranità del “popolo” va esercitata “nelle forme e nei limiti della Costituzione” stessa. Come è stato osservato da autorevoli costituzionalisti, ma con prevalente attenzione per aspetti formali di architettura della Carta, la cosiddetta “elezione diretta” richiederebbe un’imponente serie di riforme ulteriori della Costituzione. Poiché l'elezione popolare ha il carattere di “plebiscito” o (come scrive la Carta) di referendum occorrerebbe in via preliminare stabilire le garanzie minime di validità del pronunciamento. Chi lo indice? E quale dovrebbe essere la percentuale minima di partecipanti e di voti validi per rendere la consultazione politicamente rappresentativa? E a chi dovrebbero essere indirizzati eventuali reclami su svolgimento ed esito della consultazione? 
  Alle obiezioni di natura tecnica se ne aggiungono altre, di maggior peso, che si basano sull’esperienza della storia.
Di buono c'è che questo Parlamento è sciolto. Ha fatto tutti i danni possibili, compresa la drastica riduzione dei componenti delle Camere da eleggere il 25 settembre. Da lì la rissa, a volte indecorosa, tra gli aspiranti allo scranno, da alcuni inteso come sedia a dondolo quasi vitalizia in attesa dell'ascesa spintanea al Colle più alto (nessun riferimento al “democratico” Pierferdinando Casini). A differenza del Senato, la Camera dei deputati non ha varato le riforme regolamentari minime indispensabili per agevolare l'opera di quella eligenda. Il suo avvio sarà quindi molto travagliato. Se la legislatura ora al capolinea è la peggiore di quelle susseguitesi dal 1948 a oggi, la prossima sarà tutta in salita, anche perché nessuno dei tre governi succedutisi dal 2018 ha frenato l'aumento del debito pubblico. A prescindere dalle migliori intenzioni del presidente Mario Draghi e di alcuni ministri, neppure il governo in carica è riuscito a invertire la rotta e a bloccare l'aumento del deficit, destinato a pesare come un macigno sulle generazioni venture. L'Italia, dunque, malgrado la litania di sciagure rimane il Paese di Bengodi?
Il Bicameralismo: da migliorare, mai da abolire 
 Per scongiurarne l'altrimenti inevitabile tracollo occorre, innanzitutto, sgombrare il campo da dispute intempestive sull'assetto istituzionale prossimo venturo. Per fortuna nessuno propone l'eliminazione del bicameralismo. E questa è buona cosa. Tempo addietro (appena ieri, a ben vedere, ma sembra anni luce lontano dall'oggi) Matteo Renzi propose la riforma del Senato e dei suoi poteri. Non risultò convincente. Il referendum del 2016 gli dette torto. Se è vero che prima o poi occorrerà superare il cosiddetto “bicameralismo perfetto” o “paritario”, anche in quest'ultima legislatura il Senato ha bocciato o almeno temperato tanti ardori della Camera. Non sarà per caso che il bicameralismo vige in tutte le democrazie parlamentari.
Il monocameralismo è di matrice giacobina. Per pavidità dei loro componenti e/o per tracotanza delle minoranze rumorose, i parlamenti monocamerali sono sempre dominati dalle fazioni più aggressive. In Inghilterra la camera dei comuni condannò Carlo I alla decapitazione. Eletta sull'onda delle “stragi di settembre”, la Convenzione repubblicana francese del 1792 dette la stura a un fiume di crimini politici spacciati come difesa della patria in pericolo: vietato pubblicare, vietato parlare, vietato pensare. Al confronto con il Terrore imposto da Robespierre (che, come Stalin, non per caso era stato in seminario) persino la “Santa Inquisizione” risulta un modello di correttezza: quanto meno prevedeva un processo.
Poiché, quando si parla di storia nulla va taciuto, occorre ricordare che la Costituzione della Repubblica romana approvata alle 2 del mattino e varata a mezzogiorno del 3 luglio 1849 fu per molti aspetti lungimirante e meritoria. Con l'art. 5 abolì la pena di morte; con gli articoli 6 e 7 dichiarò libera la manifestazione del pensiero e dell'insegnamento. Però essa istituì un'unica Assemblea. Esattamente l'opposto della monarchia rappresentativa instaurata Carlo Alberto di Savoia re di Sardegna con lo Statuto del 4 marzo 1848, ripubblicato in edizione anastatica dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga, cattolico liberale.
Con l'ottimismo sfrenato di chi organizzò complotti, insurrezioni, rivoluzioni e defezioni dei suoi seguaci dal campo di battaglia (come deplorò Giuseppe Garibaldi che se ne sentì tradito) e aveva l'attenuante di credere negli angeli, Mazzini scommise su un'Assemblea che ricalcava il modello della Convenzione francese. La “sua” costituzione fu approvata mentre i francesi di Luigi Napoleone Bonaparte principe-presidente eletto con plebiscito irrompevano in Roma e Garibaldi prendeva la via verso l'indomita Venezia alla testa di duemila volontari ai quali promise “sudore e sangue”. Mazzini si eclissò. Se pochi mesi dopo fosse stato chiamato alle urne per eleggere il capo dello Stato, il popolo romano non avrebbe esitato a votare in massa per Pio IX, papa-re, perché alla bonaria tirannide degli ecclesiastici era abituato, mentre i “liberatori” avevano lasciato pessima memoria di sé, dai “lanzi” capitanati da un luterano, autori del “sacco” del 1527, ai giacobini del 1798, ricordati come calamità. 
Il l4 marzo 1861 il Parlamento bicamerale del neonato Stato unitario, sorto dalla concatenazione insurrezioni liberali-annessione-conferma plebiscitaria, riconobbe “Vittorio Emanuele II, Re d'Italia”, che già lo era. Umberto I e Vittorio Emanuele III entrarono in carica per diritto ereditario e giurarono fedeltà allo Statuto, legge fondamentale perpetua e irrevocabile della monarchia, a cospetto delle Camere riunite, espressione della volontà popolare. Tutto semplice e chiaro. Nel bene e nel male, in Italia quel regime resse sino al cambio della forma dello Stato.
La divisività dell'elezione popolare del capo dello Stato: 
Nel 1946-1947, ormai in piena Guerra Fredda, presto dominata dall'“equilibrio del terrore”, i costituenti erano divisi su molti temi fondamentali ma, fatte le debite eccezioni, concordarono su alcuni capisaldi: impedire qualunque ritorno del fascismo “storico”, sia del “ventennio” sia della Repubblica sociale; far dimenticare la monarchia; ridurre ai minimi termini l'influenza della tradizione liberale (ne ha scritto Aldo G. Ricci); includere nella Carta i Patti Lateranensi italo-vaticani (pazienza se a firmarli con il cardinale Pietro Gasparri era stato Benito Mussolini, “credente” a giorni alterni) e far eleggere il capo dello Stato da parte delle Camere in seduta congiunta e dai rappresentanti delle regioni.
In quell'Italia era chiaro che l'elezione diretta (o “popolare”) del presidente della neonata Repubblica avrebbe spaccato il Paese. C'erano tutte le premesse. Il 2-3 giugno 1946 gli italiani si erano riconosciuti in una manciata di partiti, il più votato dei quali, la Democrazia cristiana, aveva ottenuto appena il 32,5%, mentre il Partito socialista (secondo per numero di voti con gran dispitto di Palmiro Togliatti) e il comunista erano rimasti al 20% ciascuno, seguiti a distanza dagli altri, sino al Partito d'azione che, sfaldatosi al suo primo congresso, racimolò un mortificante 1,4%. Dopo decenni di conformismo coatto nelle file del “partito unico”, gli elettori si distribuivano dunque a ventaglio.
Quello stesso corpo elettorale si divise invece quasi a metà nella scelta della forma dello Stato: 12.700.000 per la repubblica contro 10.700.000 per la monarchia e 1.500.000 schede bianche. Il referendum risultò dunque divisivo e politicamente pericoloso. Se ne ebbe la conferma il 18 aprile di due anni dopo quando al bivio tra “Occidente” e Unione sovietica il 48% dei voti andò alla Democrazia cristiana, mentre il Fronte popolare socialcomunista si fermò al 30%. Anche quello fu un plebiscito: o di qua o di là. La DC, però, non soggiogò il Parlamento né poté governare da sola perché “una tantum” furono immessi nella Camera Alta un centinaio di “senatori di diritto” in buona parte di sinistra o “centristi” non clericali (liberali, riformisti, democratici del lavoro...). In quelle condizioni l'elezione diretta del capo dello Stato avrebbe certamente assicurato la vittoria a un esponente della Democrazia cristiana. Per quanto stimati, il liberale Luigi Einaudi (eletto) e Vittorio Emanuele Orlando, a sua volta liberale e proposto dalle sinistre, non avrebbero avuto storia.
Fiutato il pericolo, di referendum “politici” non si parlò più per quasi trent'anni. Nel 1974 quello imposto dalla Chiesa ad Amintore Fanfani per abrogare il divorzio confermò che la consultazione popolare su questioni sensibili suscita profonde lacerazioni e ferite inguaribili negli sconfitti. Nel frattempo, dopo Einaudi, le Camere avevano eletto i democristiani Giovanni Gronchi, considerato “di sinistra”, e Antonio Segni, conservatore capace di grandi riforme, il socialdemocratico Giuseppe Saragat e Giovanni Leone, democristiano, giurista insigne, poi travolto da una sciagurata campagna diffamatoria che logorò le istituzioni e le espose molto indebolite all'offensiva del terrorismo politico degli anni seguenti. Ne ha scritto Tito Lucrezio Rizzo nel bel volume  “Il Capo dello Stato dalla Monarchia alla Repubblica” (ed. Herald). 
L'elezione popolare del Capo dello Stato, dunque, è divisiva e non si addice all'Italia per una lunga serie di motivi storici, la cui esposizione richiede ampio spazio (ci ritorneremo). Tra i molti va ricordata in primo luogo la potenziale contrapposizione tra l'Italia settentrionale, demograficamente ed economicamente più forte, e quella meridionale. La provenienza regionale non è mai entrata nelle talvolta ingarbugliate elezioni dei presidenti della Repubblica, anche perché ogni parlamentare rappresenta non quanti l'hanno votato bensì la nazione ed è quindi libero nelle sue decisioni ultime. Ma in caso di elezione “popolare”?
In un Paese sempre più incline all’esasperazione dei contrasti l'elezione diretta del capo dello Stato si configura inevitabilmente come incentivo al duello rusticano fra due sole fazioni. Un presidente della Repubblica eletto dalle Camere può reggere anche se prevalso con modesto margine (fu il caso di Leone, eletto anche con aiuto “fraterno”), ma difficilmente durerebbe se eletto a stretta maggioranza in una votazione diretta. I perdenti non mancherebbero di denunciare brogli (come avvenne, a ragione, nel 1946), di sentirsi mortificati per sette anni (che non sono pochi) e di non considerarsi rappresentati dal vincitore. La questione non è una disputa tra costituzionalisti. È squisitamente politica e va affrontata come tale per sgomberare il campo da equivoci ed evitare i guai ora divampanti negli Stati Uniti d'America.
La Presidenza della Repubblica va bene così com'è.
   Va dato atto ai Costituenti di aver blindato la figura del capo dello Stato nella maniera più pacata: copiarono quasi parola per parola lo Statuto albertino passato dal regno di Sardegna a quello d'Italia e durato cent'anni malgrado tante vicissitudini e tragedie, inclusi il regicidio, la durissima prova della Grande Guerra e l'assalto mussoliniano al governo nel 1922. Il potere supremo rimase nelle mani di Vittorio Emanuele III che il 25 luglio 1943 se ne valse per revocare Mussolini da capo del governo e designarne il successore.
   Ora, anche secondo i sondaggi a lui più favorevoli il 25 settembre il centrodestra si avvicinerà, ma non supererà, il 50% dei voti validi espressi da un possibile 65% degli aventi diritto. Nessuno dei partiti in gara viene accreditato di un consenso superiore al 25% dei consensi, pari dunque al 16% circa del corpo elettorale. Solo la legge elettorale presentata da Giacomo Acerbo, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, grado 30° della Gran Loggia d'Italia, nel 1923 assegnò due terzi dei seggi al partito che avesse superato il 25%. Ma lì si trattava di ripartire gli scranni della Camera dei deputati, mentre il Senato era di nomina regia e vitalizio e, a parte alcuni esagitati senza troppe speranze, nessuno metteva in discussione il capo dello Stato, il Re, che tale era “per grazia di Dio” e firmava leggi e decreti “per volontà della nazione”. Il presidenzialismo è del tutto estraneo al quadro politico-partitico italiano invalso mezzo secolo fa, col declino della Democrazia cristiana e il suo mancato sorpasso da parte del Partito comunista.
Che cosa potrebbe aggiungere alle prerogative del capo dello Stato la sua elezione popolare? Ha il comando delle Forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere, presiede il Consiglio superiore della magistratura, può concedere la grazia e commutare le pene, conferisce le onorificenze dello Stato, accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, ratifica i trattati internazionali, previa, quando occorra, l'autorizzazione delle Camere, nomina il presidente del Consiglio e, su proposta di questo, i ministri e, come già detto e conviene ricordare, “rappresenta l'unità nazionale”. Non bastasse, a differenza del Re, che era tenuto a firmare senz'altro le leggi deliberate dal Parlamento, il presidente della Repubblica “prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere, chiedere una nuova deliberazione”. Deve promulgarla solo in caso di nuova approvazione (art. 74 Cost.).
Proprio per la vastità dei suoi poteri è opportuno che il capo dello Stato continui a essere eletto dalle Camere anziché dalla prevedibile furibonda contrapposizione tra “tifoserie”, costrette, per prevalere, a estremizzare i motivi di conflitto e a soffocare le legittime identità e diversità all'interno di coalizioni che cesserebbero di essere convergenza tra affini e diverrebbero unioni coatte, a tutto vantaggio della forza maggioritaria, tentata di fagocitare gli alleati e soffocare le minoranze interne, a tutto danno del pluralismo, patrimonio irrinunciabile della democrazia parlamentare.
Infine, elezione diretta del Capo dello Stato vuol dire rischio del dominio della piazza e di pulsioni umorali in un Paese che nel corso della storia si è mostrato incline all'osanna e al crucifige e possibile sovrapposizione del presidente della Repubblica alle altre Istituzioni, a cominciare dalle Camere, e in definitiva, all’abdicazione da parte degli elettori alla loro sovranità proprio mentre votano. Anziché garantire la democrazia, cioè il pluralismo, l'elezione diretta del capo dello Stato genera la tirannide di una minoranza di votanti sulla maggioranza dei cittadini. L'Italia ha già dato...La storia invita alla riflessione e alla prudenza. 
 La Presidenza della Repubblica sta bene così come è, non troppo diversa dalla monarchia rappresentativa alla quale si deve la nascita dello Stato d'Italia, sorto appena 161 anni fa: il più “giovane” dell'Europa centro-occidentale. Forse anche per questo motivo non suscita affatto scandalo la rielezione del Capo dello Stato, quando risulti garante di stabilità del Paese nel quadro dei suoi vincoli internazionali e nel rispetto dei diritti non negoziabili che sono alla base della Costituzione vigente come erano in nuce nello Statuto albertino.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA. La “Biblioteca Piffetti” trasferita da Casa Savoia da Torino al Quirinale.  Residenza dei Papi, dei quattro Re d'Italia e dei Presidenti della Repubblica il Palazzo è sintesi e simbolo della continuità di uno Stato ancora giovane, bisognoso  di pace interna e internazionale. 
GIOLITTI, CADORNA E IL RE.
POLITICI E MILITARI NEL PRIMO NOVECENTO


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 28 Agosto 2022 pagg. 1 e 6.

Luigi Cadorna, Comandante Supremo (1914-1917). Se ne parlerà nel convegno  sulla Grande Guerra  organizzato dal gruppo 11^ Fanteria della Associazione nazionale del Fante nella sala conferenze del Castello di Monferrato, a Casale Monferrato, alle h. 15 di domenica 4 settembre 2022. Dopo i saluto del sindaco, Federico Riboldi, intervengono i generali Mario Righele e Antonio Zerrillo, il colonnello Carlo Cadorna, i saggisti Giovanni Pisano e Maddalena Oneglia e il ten. Ettore Bongiovanni, che ha tempestivamente curato l'elegante  volumetto degli Atti, a disposizione in Sala.“Distinti e per molti motivi distanti secondo una certa “storiografia” incline a narrare e talvolta a inventare conflitti e incompatibilità, dai rispettivi carteggi, dai loro memoriali e da una valutazione oggettiva dei ruoli da loro rispettivamente ricoperti Giovanni Giolitti, il più autorevole statista dell'Italia liberale, e Luigi Cadorna, comandante supremo delle forze armate durante la Grande Guerra, risultano molto più affini e convergenti di quanto sinora concesso.
Per comprenderlo occorre richiamare in premessa l'esordio e le vicissitudini del primo mezzo secolo del regno d'Italia, proclamato dal Parlamento il 14 marzo 1861, e del suo immediato antefatto, il regno di Sardegna. Come ricorda Franco Ressico in Carlo Cadorna (1809-1891.  Un statista del Risorgimento con e oltre Cavour,ed BastogiLibri)  il quarantenne Carlo Cadorna, inviato dal governo “al campo” ebbe il triste privilegio di assistere, unico in abito civile, all'abdicazione di Carlo Alberto di Savoia-Carignano la sera del 23 marzo 1849, quando per il Vecchio Piemonte tutto sembrava perduto. Iniziò invece la tenace ricostruzione guidata da Massimo d'Azeglio e da Camillo Cavour, che, d'intesa con Urbano Rattazzi, volle al governo Cadorna, dai giovanili trascorsi giobertiani, non ignaro di cospirazioni liberali, figlio devoto della chiesa cattolica ma, come Giuseppe Siccardi, tetragono nella difesa dei diritti dello Stato e nel propugnare l'uguaglianza dei cittadini di fronte alle leggi, quale ne fosse la professione di fede.
Un quindicennio dopo un altro Cadorna, il generale Raffaele, si misurò con l'insurrezione repubblicana di Palermo (1866), che colpiva alle spalle il governo impegnato nella terza guerra per l'indipendenza mentre non era ancora terminata la repressione, necessaria, del “brigantaggio meridionale” alimentato anche dall'estero e ritenuto esiziale per la sopravvivenza del giovane regno. Lo stesso Raffaele Cadorna il Venti settembre 1870 comaandò l'espugnazione di Roma, decretò la fine del potere temporale di papa Pio IX e fece indire il plebiscito che a inizio ottobre sancì l'unione del Lazio al regno d'Italia. Da quel momento per l'Italia iniziò un nuovo corso storico, vincolato da due esigenze fatalmente contrapposte: la riduzione del debito pubblico attraverso il pareggio di esercizio (conseguito nel 1876) e l'organizzazione della difesa del regno nel quadro di un'Europa lacerata dalla guerra franco-germanica del 1870-1871, completa di “Commune” parigina ispirata dall'Internazionale socialista e deplorata da Giuseppe Garibaldi, fautore dell'“Internazionale azzurra”, quella con il “grembiulino”, non con la ghigliottina.
La generalità degli Stati  preunitari non aveva mai pensato a un sistema unitario italiano di difesa mobile o “passiva”. Ciascuno aveva provveduto per sé. Però Con l'apertura del Canale di Suez e ancor più all'indomani della guerra russo-turca che a Londra fruttò Cipro (1878) e l'imposizione del protettorato francese sulla Tunisia (1881) divenne urgente la costruzione di una flotta militare adeguata alle condizioni geopolitiche e alle legittime aspirazioni della Nuova Italia e, al tempo stesso, quella dell'esercito, fondato sulla leva obbligatoria, ignota in molti Stati preunitari.
Sino all'avvento di Francesco Crispi il bilanciamento tra spese militari e priorità civili (infrastrutture, edifici pubblici, scuole, sanità...) costituì il tormento dei governi sia di Destra sia di Sinistra: divisioni più retoriche che reali, largamente superate dal “Terzo Partito” capitanato da Antonio Mordini e da Angelo Bargoni e dagli incarichi ministeriali assunti da Agostino Depretis e da Michele Coppino un decennio prima: non per caso tutti massoni, capaci di pensare l'Italia in una visione internazionale. Il programma di espansione coloniale (avviato nel 1885 con lo sbarco a Massaua), la prima guerra d'Africa con comandanti di valore come Giuseppe Arimondi e lo stesso “irredento” Oreste Baratieri, inizialmente osannato ma demonizzato dopo la sconfitta ad Abba Garima il 1° marzo 1896, fece da spartiacque tra chi capiva le necessità della Nuova Italia e chi no.
Risolutamente contrario alle imprese d'Oltremare (nel 1886 scrisse il “Manifesto” della sinistra subalpina), dopo il breve governo del 1892-1893, funestato dallo scandalo della Banca Romana, Giolitti si fermò sulla soglia di critiche alla politica estera che considerava riservato dominio dei governi via via in carica (Antonio di Rudinì, Luigi Pelloux, già titolare della Guerra nel suo primo ministero) e del sovrano. Pertanto non si schierò pubblicamente contro la politica dell'Italia nell'Estremo Oriente e sconsigliò a Pelloux di renderne conto in Aula per non aprire altri solchi nella maggioranza costituzionale impegnata nella difficile ricerca di “equilibri più avanzati” dopo la deprecata insurrezione di Milano del 1898 e ancor più dopo il regicidio del 29 luglio 1900 e l'ascesa al trono di Vittorio Emanuele III.

  I dieci governi susseguitisi nel primo quindicennio del Novecento (Saracco, Zanardelli, Giolitti, Fortis, Fortis, Sonnino, Giolitti, Sonnino, Luzzatti, Giolitti) ebbero per filo conduttore della politica estera la compensazione dell'alleanza difensiva con Vienna e Berlino (20 maggio 1882: in risposta alla Francia, all'epoca ostile nei confronti dell'Italia, anche con la “guerra doganale” ) con l'instaurazione di nuovi rapporti tra Roma e Parigi (accordi Prinetti-Barrère, 1902) e con l'impero russo di Nicola II Romanov (visita di Stato programmata sin dal 1905 ed effettuata nel 1909, all'indomani dell'annessione di Bosnia ed Erzegovina nei confini dell'impero austro-ungarico), nel quadro dell'amicizia costante e prevalente italo-inglese e dei fitti rapporti instaurati (dopo prolungate tensioni) con gli Stati Uniti d'America, il Brasile (nel 1897 l'Italia fu sull'orlo di dichiarargli guerra per il pessimo trattamento degli emigrati nostrani), molti Stati dell'America latina, a parte gli ottimi rapporti con Spagna, Portogallo e Paesi dell'Europa orientale, quali Romania e Bulgaria. 
  Il vero regista della politica estera italiana fu Vittorio Emanuele III, che precorse le tappe con il conferimento del Collare della Santissima Annunziata a capi di Stato e di governo, principi ereditari e ministri degli Esteri dei Paesi con i quali occorreva infittire il dialogo. Eloquenti furono quelli conferiti a tre presidenti della Repubblica francese in quegli anni impegnata nella legislazione laicistica che si sostanziò nell'espulsione delle congregazioni religiose, alle quali fu impedito di trarre lucro dall'insegnamento e vennero indotte a riversarsi in Italia.

   Il regio decreto 14 novembre 1901 sulle materie da deliberare in consiglio dei ministri costituì una svolta perché affermò che il presidente del Consiglio rappresentava l'unità politica del governo. I ministri, incluso quello degli Esteri, dovevano riferirgli su tutti gli affari di competenza dei loro dicasteri. A sua volta il presidente era il referente del re, che lo nominava con il compito di procurarsi e garantirsi la fiducia delle Camere. Nel dicembre 1903 Vittorio Emanuele III dette a Giolitti tre giorni per formare il governo, perché doveva partire per un viaggio di Stato in Inghilterra. Dopo il decennio di fine Ottocento, scandito da una filza di elezioni politiche (1890, 1892, 1895, 1897, 1900) e da molteplici cambi di governo anche in ministeri sensibili come Guerra e Marina, a tutto danno della continuità della realizzazione di piani di lungo periodo, il primo Novecento contò alla Guerra Coriolano Ponza di San Martino, Costantino Morin, Giuseppe Ottolenghi, Ettore Pedotti, Luigi Majnoni d'Intignano, Ettore Viganò e nel terzo ministero Giolitti sperimentò il primo civile, Severino Casana, in carica dal 29 dicembre 1907 al 4 aprile 1909, quando venne sostituito dal generale Paolo Spingardi, già comandante del Corpo dei Carabinieri.
Quei contini cambi la dicono lunga sulla carenza di un progetto unitario continuativo nell'approntamento dello “strumento militare” che richiede anni di progettazione e di azione, 
  Il re, Giolitti, Spingardi e il capo di stato maggiore dell'esercito formarono finalmente una sorta di quadrilatero stabile (compatibilmente con la volubilità della “politica parlamentare”), univoco nella costruzione dello strumento militare ma niente affatto privo di tensioni e frizioni, come si vide nel biennio 1908-1909, condizionato dal ricordato ingrandimento dell'impero asburgico. Come già nel 1903, anche nel 1908 si registrarono in Italia vivaci manifestazioni irredentistiche di protesta e rivendicazione di “compensi” in forza dell'articolo VII della Triplice Alleanza: considerata irricevibile da Vienna perché l'annessione della Bosnia e dell'Erzegovina dopo trentennale protettorato era previsto dalla pace del 1878.
In due lettere al deputato Luigi Facta, scrupoloso ministro delle Finanze, Giolitti espose la sua visione della posizione dell'Italia nell'ambito europeo delle alleanze e controalleanze. Il giovane e ancora militarmente debole regno doveva seguire la linea di Visconti Venosta, veterano della diplomazia italiana, inviato alla conferenza di Algeciras per dirimere il contenzioso coloniale: “Indipendenti sempre, isolati mai”. In caso di guerra europea, fatalmente “lunga e grossa”, argomentò lo statista, l'Italia avrebbe dovuto dirottare alle armi tutte le risorse che da anni stava investendo nel Mezzogiorno e nelle grandi isole per avvicinarne le condizioni materiali (e non solo quelle: erano gli anni della grande migrazione, mentre analfabetismo e pandemie, come la malaria e malattie da malnutrizione, continuavano a imperversare) a quelle di regioni da più tempo meglio organizzate: il nascente “triangolo industriale”. In tal caso il Mezzogiorno sarebbe tornato nelle spire di arretratezza e sottosviluppo, a tutto vantaggio delle forze disgregatrici e nemiche dell'unità e della monarchia. Non per caso, fece osservare Giolitti, a soffiare “sulla” e “per” la guerra contro l'Austria erano soprattutto i repubblicani. Non accennò alle interferenze della Francia che, dopo l'“affaire Dreyfus” (organizzato per intossicare i servizi tedeschi), stava intensificando le linee difensive contro l'impero germanico.
Come ampiamente documentato, altrettanto stava facendo l'Italia sul fronte occidentale (quello orientale era oggettivamente troppo sfavorevole per sperare di ribaltarne la situazione con spese ordinarie).

  Il 27 giugno 1908 il generale Tancredi Saletta, capo di stato maggiore dell'esercito, venne collocato in posizione ausiliaria per raggiunti limiti di età. Tre giorni dopo si insediò il generale Alberto Pollio, che rimase in carica sino alla morte (1 luglio 1914), tre giorni dopo l'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando d'Asburgo, principe ereditario della corona austro-ungarica, e della moglie Sofia Chotec. Allievo della napoletana Scuola militare della “Nunziatella” (come due suoi predecessori Enrico Cosenz e Domenico Primerano: se ne vedano i profili in “Sacerdoti di Marte” del gen. Oreste Bovio), alla nomina Pollio era comandante della divisione militare di Genova. Venne preferito a Luigi Cadorna, di due anni più anziano e quindi convinto di essere nominato. Sennonché, come lo stesso futuro Comandante Supremo documentò ed è stato ribadito in un ottimo volume (BastogiLibri) dal nipote, colonnello Carlo Cadorna, non di sua sola iniziativa Giolitti sondò l'orientamento di Luigi Cadorna nel merito della questione mai risolta sin dalla pubblicazione dello Statuto: a chi spettasse il comando effettivo dell'esercito in caso di guerra. Il precedente era la campagna del 1866, quando la dicotomia tra Alfonso La Marmora (ex presidente del Consiglio) e il generale Enrico Cialdini, non sufficientemente mediata da Vittorio Emanuele II, aveva gravemente nociuto alla conduzione della guerra dopo il modesto scontro presso Custoza: uno scacco (niente affatto sconfitta) peggiorato nella memoria dalle perdite subite dalla flotta nella battaglia di Lissa (inizialmente presentata dal governo come vittoria, come ha documentato Nico Perrone in saggi sull'ammiraglio Carlo Pellion di Persano). Studioso di quel precedente e fautore del principio della “responsabilità”, Cadorna fece sapere che si sarebbe condotto come la carica gli imponeva, senza accettare interferenze. Sono state anche insinuate ruggini tra lui e il sovrano risalenti a quando Cadorna era colonnello a Napoli. Di fatto la questione dell'unità del comando rimase irrisolta.
Essa non si ripresentò a metà settembre del 1911 quando in un incontro segreto nel Castello di Racconigi Vittorio Emanuele III fissò con Giolitti tempi e modi della guerra contro l'impero turco-ottomano per la sovranità sui vilayet di Tripolitania e Cirenaica. L'impresa venne avviata con un grave errore di valutazione degli informatori di Giolitti circa il probabile atteggiamento della popolazione araba. Dopo l'immediata proclamazione della “guerra santa” contro gli infedeli da parte della Sublime Porta, tra turchi e italiani la maggior parte dei nativi “libici”  si riconobbe nell'islam e quindi non diede sostegno all'Italia. Il governo rimase nella tenaglia di una guerra lunga e costosa da condurre senza perdite (come accadde a Sciara-Sciat) per non suscitare critiche nell'opinione pubblica. Il risultato finale, dopo l'occupazione/liberazione di Rodi e delle Sporadi da parte del corpo di spedizione comandato da Giovanni Ameglio e le estenuanti trattative di pace a Ouchy-Losanna (ottobre 1912) con il ricorso a diplomatici “fuori ruolo” quali Giuseppe Volpi e Bernardino Nogara, fu il riconoscimento della sovranità dell'Italia da parte di Istanbul e, al tempo stesso, di quella “religiosa” del Sultano sulla popolazione islamica della Libia da parte di Roma: una pia finzione poiché l'autorità califfale è religiosa e politica al tempo stesso. L'Islam non conosce le separazioni che nell'Occidente risalgono al diritto romano e all'avvento dello stato moderno.  
Giolitti ne concluse che l'Italia non era in condizione di affrontare una guerra grossa e lunga sul teatro europeo e che pertanto il contenzioso aperto con Vienna, il “coronamento del Risorgimento”, andava superato con trattative diplomatiche, in una visione dell'Europa in pace codificata dal Congresso di Vienna del 1815 e sopravvissuta agli scossoni del Quarantotto, della guerra di Crimea, di quella franco-germanica del 1870-1871 e dei conflitti ricorrenti nell'Europa orientale, bilanciati dall'espansione coloniale di tutte le potenze europee rivierasche.
Lo scenario planetario era però in movimento inarrestabile. Nel 1898 gli USA inflissero alla Spagna l'umiliante perdita delle Filippine e di Cuba, malgrado l'invio di ben 200.000 uomini. Madrid si vendicò vendendo le Marianne alla Germania.

La guerra si avvicinava al cuore dell'Europa.
La morte di Pollio spianò la via alla nomina di Luigi Cadorna, quando era quasi rassegnato a chiudere la carriera e la vita in Liguria e già vi stava cercando casa (morì a Bordighera nel 1928).
In risposta alla conflagrazione europea, in linea con i piani approntati da Pollio, Cadorna concepì un intervento a fianco degli Imperi Centrali: una guerra “grossa” ma “breve” sul fronte renano (lo pubblicò egli stesso nel 1925). Era l'unica strada  per chiudere rapidamente il conflitto e spingere i contendenti a trattative di pace.
Dopodiché era necessario costruire lo strumento militare che nei decenni precedenti non era mai stato messo allo studio e soprattutto andava realizzato non per una guerra Oltremare ma per un conflitto tra Stati nazionali fondati su sistemi economici, in specie industriali, di avanguardia. In  una guerra tra popoli, come fu la prima guerra mondiale,  in Italia perdurò e prevalse il dialogo tra sordi: politici da un canto, militari dall'altro e Vittorio Emanuele III a Villa Italia, pazientemente intento a riannodare i sempre esili fili di comunicazione tra “mondi” lontani, come mostrano la caduta del governo Salandra nel giugno 1916 e quello del governo Boselli il 24 ottobre 1917, mentre Roma era del tutto ignara dell'offensiva austro-germanica iniziata quello stesso giorno nella conca di Caporetto.
A conferma che in Italia, a differenza di quanto oggi si crede,  i governi vengono abbattuti anche quando la guerra è in casa.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Luigi Cadorna, Comandante Supremo (1914-1917). Se ne parlerà nel convegno  sulla Grande Guerra  organizzato dal gruppo 11^ Fanteria della Associazione nazionale del Fante nella sala conferenze del Castello di Monferrato, a Casale Monferrato, alle h. 15 di domenica 4 settembre 2022. Dopo i saluto del sindaco, Federico Riboldi, intervengono i generali Mario Righele e Antonio Zerrillo, il colonnello Carlo Cadorna, i saggisti Giovanni Pisano e Maddalena Oneglia e il ten. Ettore Bongiovanni, che ha tempestivamente curato l'elegante  volumetto degli Atti, a disposizione in Sala.
DA LOS CAÍDOS
QUELLA CROCE A BRACCIA TESE SULL'EUROPA


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 21 Agosto 2022 pagg. 1 e 6.

caidos   In principio era la Croce
“Orribil furon li peccata miei./ Ma la bontà infinita ha sì gran braccia/, che prende ciò che si rivolge a lei/, piangendo, a quei che volentier perdona”. Così Dante Alighieri all'inizio del III Canto del Purgatorio evoca la “resa” di Manfredi a Dio padre onnipotente. Mentre sta per cadere nella battaglia di Benevento (1266) travolto dagli uomini di Carlo I d'Angiò, confessa le sue colpe, chiede perdono, scampa le pene dell'Inferno e viene tratto in Purgatorio. Tutto in pochi attimi. La spada nemica sta per calare sul suo volto. Il dramma è racchiuso nella possente immagine che sovrasta la morte sul campo del figlio di Federico II di Svevia, l'imperatore ghibellino che soleva assistere alla Messa avvolto nella dalmatica, libri profani alla mano. Per Dante la “bontà infinita” è la Croce, quella di Costantino il Grande, “invenuta” da sua madre, Elèna, nel 339 d.Cr., elevata a simbolo universale della Cristianità (lo rimane nella Chiesa di Oriente) e ritratta da Piero della Francesca nel celebre ciclo pittorico di Arezzo. “Clemente e misericordiosa” seicento anni prima che Maometto dettasse il Corano e che Leone III l'Isaurico scatenasse l’iconoclastia (726-766) per arginare l'avanzata dell'islam, contrario alla “personificazione di Dio”, e le critiche degli ebrei che accusavano i cattolici di continuare l'idolatria attraverso il culto di santi la Croce rimase indiscussa. Anche nei momenti più bui della sanguinosa “distruzione delle immagini” (nulla a che vedere con la infantile “cancel culture” odierna). Sin dal Cristianesimo delle origini, in Oriente, da dove tutto nasce e ove tutto torna, esso fu la Muraglia insuoerabile tra la fede verace e le eresie che serpeggiarono nei secoli come fiumi carsici: gnostici, pelagiani, bogomili, càtari,...tutti all'insegna del dualismo Bene/Male, che risale all'infelice Mani. La loro croce, lontanissima da quella patriarcale o dalla “latina” innalzata a fondamento della riscossa romanica e che ispirò Jacopone da Todi, tutt'al più era il Tau, riscoperto e indossato qualche decennio addietro da tanti adolescenti inconsapevoli.
  La Croce, dunque, sintesi possente del cristianesimo trinitario, incardinato sulla Rivelazione, sul Mistero del Verbo che si fa carne e si immola per redimere i peccatori, incapaci di comprenderne il Sacrificio. Quest'ultimo sfugge a quanti, celebranti e “fedeli”, a messa continuano a biascicare che l'“Agnello di Dio toglie i peccati dal mondo” anziché dire correttamente che egli li “prende su di sé” e si consegna ai carnefici, capro espiatorio per purificare l'Universo dalla sua colpevolezza, radicata nell'ignoranza e nella beata irresponsabilità, sul rifiuto della scienza. Solo chi ha molto peccato intende appieno il messaggio terrifico della Croce: quella che “ha sì gran braccia” e “volentier perdona”. La sua grandiosità ha trovato espressioni sublimi nelle arti, dal Giudizio Finale di Michelangelo nella Cappella Sistina sino al “Requiem” del massone Wolfgang Mozart, a sua volta “resa” e “invocazione” quando incombe la Grande Visitatrice. La riecheggiò Giosue Carducci, cantore inarrivabile del Sole Invitto, ultimo pagano e primo tra i cristiani.
   La Croce de los Caìdos non è “franchista”   
Massima raffigurazione del suo significato ultimo è la Croce che sormonta il Mausoleo fatto erigere da Francisco Franco y Bahamonde nel Valle de los Caídos, per conciliare almeno da morti i caduti nella nella guerra civile spagnola del 1936-1939, la più feroce dell'Europa occidentale nella prima metà del Novecento: conflitto interno e internazionale, profezia della seconda guerra mondiale, di mezzo secolo di guerra fredda e di quella ora in corso nella sua landa orientale, ove si contrappongono anche due forme di cristianesimo. La storia dirà qual è più vicina all'origine e quale meno. 
   Lo storico inglese Paul Preston (ma non lui solo: tra gli spagnoli meritano memoria María Dolores Gómez Molleda e Fernando García de Cortázar) ha insegnato da decenni che la lotta fratricida non fu tra due ma fra tre Spagne. Inizialmente i “rossi” non erano affatto stalinisti. La Terza internazionale di Mosca impose la sua egemonia sulle sinistre spagnole dopo anni di scontri feroci al suo interno e lo sterminio degli anarchici per mano dei comunisti. Anche i nazionalisti erano variegati. Franco primeggiò perché Jorge Sanjurco ed Emilio Mola, che valevano il triplo di lui, morirono in incidenti aerei. Gli altri generali del suo “bando” si battevano bene (cioè con ferocia spietata) ma poco capivano di “politica” e delle sue spire. Con un fratello massone nelle file dei repubblicani, Ramòn, e un padre che non lo apprezzava affatto, Franco si mosse in Spagna come sull'Atlante marocchino nelle guerre coloniali. Fu paziente. Fece durare la guerra sino a quando le “democrazie” (Gran Bretagna, Francia e persino gli Stati Uniti d'America) lo riconobbero vittorioso, molto prima che entrasse a Madrid per la sfilata narrata da Edgardo Sogno, che si batté a fianco dei nazionalisti perché già gli era chiaro che lì, nella terra di Carlo V e Filippo II, era in corso il conflitto tra l'Occidente e l'Unione Sovietica di Stalin (con seguito di Palmiro Togliatti, Luigi Longo e altri...).
   Fra quanti vennero uccisi dai “rossi” vi fu il fondatore della Falange, José Antonio Primo de Rivera, figlio di Miguel, pioniere della modernizzazione della Spagna dopo la Grande Guerra. Caduto prigioniero, fu preso dalla cella e fucilato, a freddo. Per gli estremisti fanatici non esistono avversari ma solo nemici, da annientare fisicamente, senza processo alcuno. La loro colpa è di esistere. Di essere seme di un futuro possibile.
  Quando fece erigere il mausoleo del Valle de los Caídos Franco volle che al centro venisse tumulata la sua salma. “José Antonio” era stato il profeta. Aveva predicato nel deserto. Lui ne aveva tratta la lezione e creava la Nuova Spagna: antica e proiettata oltre la guerra mondiale, come poi si vide con i tecnocrati dell'Opus Dei e nella Transizione.
Sànchez l'iconoclasta
   A metà luglio del 2022, un mese, fa la “Camera Bassa” a Madrid ha approvato la legge della “memoria storica democratica”, risibile sin dal suo “titolo” perché la “democrazia” cambia a ogni stormir di schede nelle urne e così dovrebbe anche mutare la “memoria”. Essa conferisce la cittadinanza spagnola ai discendenti degli esuli costretti a lasciare la Spagna durante e al termine della guerra civile, riparati in Francia e soprattutto in Venezuela e in Messico. Non riconosce però risarcimenti economici, difficili da quantificare e che potrebbero ammontare a somme astronomiche. È insomma un risarcimento morale a basso costo, ma di grande effetto “di immagine”, come amano fare certe “sinistre” dalle gote perennemente gonfie di retorica. La legge prevede la ricerca delle vittime dei nazionalisti e l'esplorazione delle fosse comuni per identificarne i resti e confrontarli con i discendenti: una “operazione” che prevede una massiccia ricerca del Dna dei morti e dei vivi per accertare il diritto alla memoria personale. Nulla di nuovo nella Spagna profonda che nei luoghi più reconditi conserva reliquie di martiri e di persone che si macerano coi “supplizi” per espiare peccati di pensieri, azioni e omissioni sia propri (o mai commessi) sia di chissà chi altri: a conferma che la Spagna non è divenuta “la tomba della religione”.
  La Spagna di Pedro Sánchez e dei suoi complici di governo condanna la legge “di amnistia” del 1977 perché, a detta sua, si risolse in legge dell'oblio e di perdono dei “crimini franchisti”. Del pari ritiene arretrata la legislazione tanti anni addietro varata dal socialista Zapatero, che si sostanziò nella rimozione di monumenti sfacciatamente franchisti e nella sostituzione dei dedicatari di istituti pubblici, vie, piazze e scuole, ma non andò al dunque. La nuova legge compie il salto in avanti: apre a tutti cittadini la consultazione dei documenti dell'età di Franco (morto nel suo letto il 20 novembre 1975) e chiede di investigare sui crimini commessi dallo Stato (cioè dai governi) anche durante la Transizione e il varo della Costituzione, sino almeno al 1983. Vuol dire, in sostanza, “si scopran le tombe”: essa consentirà di indagare, per esempio, sui “bambini rubati” con la complicità di ecclesiastici e sulle “malefatte” dei pubblici poteri nella lotta contro i terroristi dell'ETA, spesso criminali spietati ma oggi da qualcuno additati quali cavalieri della libertà. In sostanza la legge Sánchez mentre pretende un atto di contrizione generale rimette in circolo gli spiriti maligni della guerra civile.
  Ad andarci di mezzo è ancora una volta la Terza Spagna, né di estrema sinistra né di estrema destra, né Podemos né Vox. La vittima vera della pretesa “memoria democratica” è la Spagna odierna: laboriosa, serena, consapevole della Storia, fiera del passato (senza Isabella la Cattolica e Ferdinando di Aragona l'Almirante Cristoforo Colombo non avrebbe solcato l'Atlantico e non sappiamo come sarebbe stata la storia d'Europa) e contenta di avere un regime istituzionale, la monarchia costituzionale di Felipe VI, indigesto solo per repubblicani fanatici e separatisti (come i catalani, qualche basco, un po' di galleghi...) senza futuro in un'Europa che di tutto ha bisogno tranne che di frantumare gli Stati esistenti. Vale per la Spagna come per l'Italia, la Francia e la stessa Gran Bretagna alle prese con la questione irlandese e con le spinte centrifughe degli scozzesi.
  Culmine della campagna di odio coltivata e propiziata dalla legge sulla memoria democratica sono obiettivi quali la ridenominazione di Valle de los Caídos in Valle de Cuelgamuros, riservata ai soli caduti nella guerra civile, e la conseguente estumulazione e sepoltura chissà dove di José Antonio Primo de Rivera perché non morì in combattimento, ma venne assassinato dei “rojos”. Malgrado la sua pretesa “modernità”, quella ingaggiata in nome della presunta “memoria democratica” è una guerra medievale. Meriterebbe il pennello di El Greco, specialista di mortori.
  Non bastasse, la legge impone di eliminare i simboli “contrari alla memoria democratica” anche in edifici religiosi o privati ma che si proiettino “sullo spazio pubblico”. Pensiamo a quanto potrebbe accadere in Italia ad affreschi, altorilievi, statue ed emblemi che hanno arricchito e decorato l'esterno di edifici storici o anche delle dimore più modeste, con i ritratti di santi impegnati nei secoli a guarire le piaghe e malattie (dalla peste in là, come faceva San Rocco) non per costringerli a quarantene interminabili ma per rimetterli in cammino appena possibile.
Amputare i bracci della Croce
   Ed ecco, infine, il capolavoro della “memoria democratica”: la richiesta imperiosa di mozzare i bracci della croce che si erge sul mausoleo del Valle de los Caídos. Potrà rimanerne in piedi solo un “palo”, come fosse un dito alzato verso il cielo, un anonimo disadorno obelisco, un nulla, ma con braccia mozzate perché “le croci non sono storia ma propaganda” a detta di Miguel Angel del Arco Blanco, uno dei tanti docenti superflui di storia contemporanea. Già. Sennonché, anche se la “renconquista” cristiana terminò solo con l'espugnazione di Granada nel 1492, la Spagna non è poi tanto diversa dagli altri Paesi dell'Europa più o meno cristianizzata. Quando si percorrono chilometri di “campos” e s'intravvede un campanile vuol dire che lì vi è un villaggio o almeno un Cortijo de los Frailes, come lungo il “sendero” che attraversa il Parco naturale di Cabo de Gata. Lì vi è un germe di civiltà. Lo scrisse il già citato Carducci.
   Salvaguardare così come è la Croce del Valle de los Caìdos è non solo della Spagna, ma dell’Europa intera, o di quel che ancora ne rimane, poiché evoca la storia e insegna a rispettarla, come fecero i “reyes católicos” tutelando i monumenti della civiltà islamica a Granada, Siviglia, Cordova.
Quando l'Italia si dette un emblema
   Ma questa Italia di invasati ha poche lezioni da impartire alla Spagna di Rubalcaba, Zapatero e Sánchez, altra cosa rispetto a Felipe González, il socialista oggi esterrefatto dinnanzi a quanto accade nel Paese che egli guidò dall'isolamento all'integrazione nell'Europa, di concerto con re Juan Carlos di Borbone. Nel remoto e vicinissimo 1946 il referendum sulla forma dello Stato eliminò lo scudo sabaudo come emblema dell'Italia. E va bene. Furono cancellati dalla memoria democratico-repubblicana i versi poco satanici di Carducci: “Bianca croce di Savoia/nostra gloria e nostra gioia/ Dio ti salvi e salvi il re”. Poi però lo Stato ebbe bisogno di darsene uno nuovo. Pensa che ti ripensa, dopo due concorsi molto sospetti e dall'esito predefinito, e dopo rimaneggiamenti vari venne sgrossato il bozzetto due volte vincitore, opera del valdese Paolo Paschetto. Se ne cavò l'emblema vigente, che tutto doveva comprendere tranne che una croce, come venne detto nel frettoloso dibattito alla Costituente. E infatti è quel che è: un guazzabuglio di figure geometriche, di arbusti e cartigli dai colori posticci, del tutto estranei alla millenaria Storia d'Italia. Al centro ha una Stella, polivalente (massonica, militare, mariana, sovietica…). La repubblica non volle alcuna croce (lo è essa stessa, pesante, sulle spalle de cittadini, che infatti ora disertano le urne) ma neppure alcun riferimento all'età dei Comuni e delle Signorie, all'“ora et labora” dei Benedettini (ancora presenti e officianti nel Valle de los Caídos) e men che meno a quella dei Cesari, dei Consoli dei primi re di Roma.
  Alcuni dicono che si uscirà dal disastro incombente non con il voto del 25 settembre ma solo quando venisse eletta e messa all'opera una nuova Costituente. Non se ne sente il bisogno perché quando si sta per affogare anziché discutere bisogna nuotare verso la prima riva sicura. Di certo occorrerà ritrovare la cognizione del passato: recuperare le ragioni profonde dell'unificazione nazionale e della costruzione dello Stato, un cantiere sempre aperto: non per tinteggiare i muri ma per erigerli e consolidarli, come raccomandava Giuseppe Garibaldi, che unì “Italia e Vittorio Emanuele” e “Sol dell'Avvenire”. Nel frattempo tocca ai pagani, che hanno subito millenni di persecuzioni, insegnare il valore della tolleranza ai nuovi barbari e tenere in vita quanto rimane della cristianità anche per rendere più splendenti e pedagogici i monumenti delle civiltà precristiane a loro tempo spazzati via in massima parte da chi volle cancellare la città dell'Uomo in nome di quella di Dio, salvo ridurla a sentina  dei velenosi serpenti scatenati nelle guerre di religione.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA : La Croce dominante il Mausoleo di Francisco Franco. La salma del “dittatore” è stata rimossa e trasferita dopo lunga disputa nella cappella mortuaria di famiglia nel cimitero di Mingurrobio-El Pardo, ma il suo nome rimane nella storia. In pochi anni in Spagna sono state distrutte decine di Croci: una nuova furia iconoclastica che non ha alcun vincitore. Va fermata in tempo.

ITALIA AL LAVORO

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 14 Agosto 2022 pagg. 1 e 6.

Giuseppe Zanardelli (Brescia, 1826-Maderno, 1903). Massone, ministro della Giustizia nel governo Crispi (1887-1891), legò il nome al nuovo codice penale che abolì in Italia la pena di morte: un primato civile mondiale. Presidente del Consiglio dei ministri (1901-1903) resse ad interim il ministero di Agricoltura, Industria e Commercio (18 aprile-4 agosto 1901), quando, di concerto con lui, Vittorio Emanuele III istituì l'Ordine dei Cavalieri del Lavoro (9 maggio 1901).   Può sembrare paradossale e persino provocatorio rievocare l'“Italia al Lavoro” proprio mentre sono quasi tutti in vacanza, a parte chi lavora per renderla più gradevole a chi ne beneficia (e a parte chi, benché vecchio, scrive). Però va ricordato che le “ferie” sono tali proprio perché costituiscono meritata pausa non tra due parentesi di vita oziosa ma tra diuturne fatiche. Così nacquero le “Feriae” di Augusto, poi volte in “Ferragosto”, giorno natale di Napoleone I, l'Imperatore che associò la festa in onore suo con quella dell'Assunzione di Maria Santissima in Cielo.
La Conciliazione è antica come il mondo, di quello che vuol durare nel segno della continuità consapevole e va orgoglioso del passato prossimo e remoto, senza cesure né censure e senza la pretesa di “far nuove tutte le cose”: un annuncio, codesto, tipico del Mostro dell'Apocalisse. Non ne sentiamo alcun bisogno.

* * *
Piccolo mondo antico
L'Italia del lavoro è sotto gli occhi di chi in questi giorni ne visiti un qualsivoglia lembo. Per capirlo basta fermare l'occhio su un gradino di una qualunque erta di borgo montano o marino, su qualunque pietra portata lì a fatica nei secoli, sui coppi cotti nel tempo o sulle lose levigate chissà quando e chissà come, sulla fantasmagoria di colori e di profumi che esalano dalla vegetazione curata nei secoli in parchi e giardini od occhieggiante da balconi e  soglie. Molti comuni ancora bandiscono gare per premiare balconi fioriti. Altri se ne sono scordati. Brutto segno di tempi nei quali la retorica sulla tutela dell'ambiente avvolge il degrado galoppante e spiana la strada ad animali selvatici ormai fuori controllo. Per recuperare memoria del buon tempo andato, chi non l'abbia mai fatto legga “La strada di San Giovanni” di Italo Calvino, lo scrittore che andava in cerca di simboli liberomuratòri millenari per saldare l'Italia odierna a millenni di civilizzazione, completa della romanizzazione imposta dal Senatus Populusque Romanus a popoli riluttanti. Ne seppero qualche cosa i Salassi.
   Lavoro, dunque. Lavoro degli Italici. Quello di chi gettò le strade consolari da Roma alle sempre più lontane province dell'Impero. Di chi le ripulì dopo secoli di abbandono e ne fece la base per rimettere insieme l'Europa allargata da Carlomagno, il sacro romano imperatore che, prima e dopo la benedizione dei papi, non esitò a sterminare avari e sassoni. Così avanzava la Storia. Bastava un nonnulla – come accadde con le guerre fratricide tra i suoi discendenti – per riportare all'indietro le lancette della civilizzazione, mentre, invasa e assediata dall'islamizzazione, la poca Europa cristiana rimaneva scissa tra le chiese di Occidente e di Oriente. Lo sono ancora oggi, benché persino più piccole di quanto fossero allora.
   Scritta da Carlo Cipolla, la “storia della fatica” è un libro da aggiornare anno dopo anno perché non è mai finita. Come purtroppo è miope la narrazione dell'età presente, tutta ripiegata su un “oggi” atemporale, afasico, vuoto.
Elogio del Lavoro
   Un richiamo alla percezione del tempo è offerto dal robusto volume “Famiglia e impresa. Storie di Cavalieri del Lavoro” (ed.Marsilio), per dimensioni e peso scomodo da portare sotto l'ombrellone o nello zaino su per le valli, ma da tenere alla vista appena si rimetta piede nella realtà di un Paese che senza la “catena di unione” tra generazioni è condannato a cadere in pezzi, vaso di coccio non solo tra le Grandi Potenze ma anche nella ridda di quel che resta degli Stati nazionali annaspanti in un’Unione Europea invertebrata e irrilevante sotto il profilo politico militare e presto anche economico-finanziario.
   A ottant'anni dal Manifesto di Ventotene redatto da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni (il terzo viene solitamente e ingiustamente obliato), l'Europa continua a essere una speranza, un progetto, un sogno baluginante sull'orizzonte. Un mosaico di sigle, di convenzioni, di accordi e reciproci divieti.
   Perciò, senza indulgere al cosiddetto “sovranismo” giova ripercorrere qualche pagina di un'Italia che nacque ed è europea più di quanto non si comprenda. Da Antonio e Luigi Abete a Riccardo, Augusto e Gianfranco Zoppas il volume “Famiglie e Impresa” passa in rassegna un repertorio selezionato di componenti della Federazione nazionale cavalieri del lavoro: Angelini, Antinori, Auricchio, Averna, Barilla, Benetton, Caltagirone, Carli, Del Vecchio, Ferragamo, Ferruzzi, Frescobaldi, Guzzini, Illy, Molteni, Piaggio, Riello, Spagnoli, Vallarino, Gancia, Zegna... Qui non possiamo ricordarli tutti. Sfogliando il libro, ricco di fotografie, schede storiche curate da Brigida Mascini, e interviste di Cristian Fuschetto e con ampia introduzione di Cecilia Dau Novelli, il lettore li troverà da sé. Avrà dinanzi uno spicchio dell'immenso “mondo del Lavoro” e di chi gli ha dato il dovuto riconoscimento: agli strateghi e ai militi.
Vittorio Emanuele III al timone della Terza Italia 
   Chi lo volle? A Cesare quel che è di Cesare. Contrariamente a quanto molti reputano e viene ripetuto, ad affermare che l'Italia è uno Stato fondato sul lavoro non fu l'Assemblea costituente che ne scrisse nell'articolo primo della costituzione vigente dal 1 gennaio 1948.
   A dirlo a tutto tondo fu Vittorio Emanuele III (1869-1947). Asceso trentunenne al trono perché l'anarchico Gaetano Bresci uccise suo padre Umberto I, mentre ancora durava il lutto il 9 maggio 1901 istituì l'Ordine cavalleresco “Al merito agrario, industriale e commerciale”. L'idea era stata del “Re Buono”, che il 1° maggio 1898, nel cinquantenario della proclamazione dello Statuto albertino, decretò la decorazione “del merito agrario ed industriale” per gli imprenditori e una “medaglia d'onore” per i loro dipendenti. Per Umberto I, oggi quasi completamente dimenticato, gli uni e gli altri erano tutt'uno. Ma quell'anno, mentre a Torino veniva inaugurata l'Esposizione nazionale completa di mostra di Arte Sacra in nome della pacificazione delle coscienze, l'Italia venne messa a soqquadro dall'insurrezione di Milano, da moti in Lunigiana e da altre insidie, culminate appunto col regicidio, che non fu opera di una sola persona ma frutto di un complotto internazionale. Nei suoi ultimi anni di regno, a fine Ottocento, il governo presieduto dal generale Luigi Pelloux varò la previdenza per gli operai vittime di incidenti sul lavoro, le pensioni, la tutela degli emigranti, leggi per la difesa delle acque e il rimboschimento: tutte norme e progetti ripresi e migliorati nei decenni seguenti. Il giovane re volle il Lavoro in prima linea per dare ala alla libertà, a maggiore giustizia sociale in un'Italia avviata al progresso civile anche nel diritto di famiglia, incluso il divorzio, combattuto a testa bassa dai clericali e a suo tempo propugnato da Giuseppe Garibaldi.
  
   L'Ordine cavalleresco “al merito del lavoro” venne istituito d'intesa con il presidente del Consiglio dei ministri, il democratico bresciano Giuseppe Zanardelli, iniziato massone quarant'anni prima nella Loggia “Dante Alighieri” di Torino e dal 1889 membro della “Propaganda massonica” presieduta da Adriano Lemmi, gran maestro del Grande Oriente d'Italia: uno tra i maggiori protagonisti della storia nazionale, curiosamente ancora in attesa di una biografia.
   Con Zanardelli e col ministro dell'Interno Giovanni Giolitti il re guardava avanti: intravvedeva sull'orizzonte l'Italia narrata da Thomas Okay e intravveduta da Luigi Einaudi in “Il principe mercante”: un Paese operoso, nemico della retorica, capace di ideali. Il 6 marzo 1902 vennero creati i primi sei Cavalieri del Lavoro: Vincenzo Boero, Emmidio Mele, Pietro Milesi, Anselmo Oldrini, Giuseppe Savattiere e Antonio Tosi. I loro nomi oggigiorno dicono poco ma erano cari al sovrano che amava mettersi al volante e andare in auto per le campagne a fare improvvisate in aziende di cui aveva notizia, per vederne i macchinari, conoscerne fondatori e “quadri” e scrutare i volti dei “dipendenti”. Il decreto istitutivo previde che l'onorificenza fosse conferita anche agli “operai”. Nel primo anno i decorati furono 104.
Le Stelle d'Italia 
   Vent'anni dopo, nel 1923, l'onorificenza fu riordinata in “Ordine al merito del Lavoro”, riservato agli “imprenditori”. Ma gli “addetti” non furono affatto dimenticati. Venne istituita la decorazione “Stella al merito del Lavoro” per onorare quanti “con la loro capacità, la fatica e l'ingegno avessero concorso a migliorare e a far progredire la società” rimanendo a lungo alle dipendenze di una medesima azienda o comunque al lavoro. Alle spalle vi era la rivendicazione delle maestranze di compartecipare non solo agli utili d'impresa ma anche alla loro conduzione, nel rispetto delle competenze e dei ruoli.
   L'Italia era cambiata e stava cambiando. Il re teneva la barra. Il 18 gennaio 1914, dopo la dichiarazione di sovranità sulla Libia, Vittorio Emanuele III istituì l'Ordine Coloniale della Stella d'Italia, una distinzione particolare che si aggiunse alle onorificenze esistenti, a cominciare dall'Ordine della Corona d'Italia, ripartita nelle cinque classi di cavaliere,  ufficiale, commendatore, grand'ufficiale, cavaliere di gran croce.
   Nel 1952 e nel 1986 l'Ordine dei Cavalieri al merito del Lavoro venne riordinato. La sua decorazione non reca più la sigla VE (=Vittorio Emanuele) ma ricalca l'antico: croce greca smaltata di verde (il colore di un antico Ordine iniziatico) e bordata d'oro, caricata di uno scudetto tondo con l'emblema della Repubblica e la legenda “Al merito del Lavoro”.
   Tra il maggio 1901 e quello del 2022 i Cavalieri del Lavoro sommarono a 2.946.
   Molti di essi ebbero in comune l'appartenenza al Senato del Regno, come documenta il confronto incrociato tra la massima onorificenza del Lavoro e il laticlavio conferito dopo il 1901 a rappresentanti della società italiana per la ventunesima categoria, cioè “le persone che da tre anni pagano tremila lire di imposizione diretta in ragione dei loro beni o della loro industria”. Dall'istituzione della Camera Alta i senatori nominati per quella categoria furono 554: un quarto sul totale di 2004 patres creati dall'aprile 1848 al febbraio 1943. Anch'essi, come i Cavalieri del Lavoro, furono la “vetrina” dell'Italia operosa e, al tempo stesso, un silenzioso fattivo “partito del re”, una sorta di riserva aurea dello Stato. Non per caso negli anni della tempesta, tra il 1944 e il 1947, divennero bersaglio di chi mirava a sminuire le Istituzioni monarchiche, senza comprendere che a quel modo si recidevano le radici stesse dello Stato d'Italia.
   Passare in rassegna almeno un “campionario” dei Cavalieri del Lavoro, auspicando che analoga attenzione venga dedicata alle “Stelle del lavoro” e senza ignorare gli Alfieri del Lavoro, significa ricordare l'identità tra l'Italia e il suo “stellone”, quello che dalla sua origine fregia l'Esercito Italiano e invita a riflettere sulla continuità della storia. Ne è sintesi il presidente della Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro firmatario della prefazione del volume “Famiglia e Impresa”: Maurizio Sella, che perpetua l'indimenticabile Quintino Sella. Ancora e sempre più v’è bisogno del magistero del ministro “della lesina”, mentre l'Italia sprofonda nella voragine di un debito pubblico incontrollato. Trascorse le legittime “ferie” è tempo di chiudere l'età degli sperperi e delle promesse senza costrutto. Impariamo a memoria il comma 4 dell'art. 81 della Costituzione: “Ogni legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte”. Chiaro?
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Giuseppe Zanardelli (Brescia, 1826-Maderno, 1903). Massone, ministro della Giustizia nel governo Crispi (1887-1891), legò il nome al nuovo codice penale che abolì in Italia la pena di morte: un primato civile mondiale. Presidente del Consiglio dei ministri (1901-1903) resse ad interim il ministero di Agricoltura, Industria e Commercio (18 aprile-4 agosto 1901), quando, di concerto con lui, Vittorio Emanuele III istituì l'Ordine dei Cavalieri del Lavoro (9 maggio 1901).


MARCIA PER ROMA?
STORIA E STORIELLE – FACTA GOLPISTA


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 7 Agosto 2022 pagg. 1 e 6.

LUIGI_FACTA,_PNEROLO__1861-1930   Re rigorosamente costituzionale, nell'ottobre 1922 Vittorio Emanuele III sollecitò ripetutamente il presidente del Consiglio dei ministri Luigi Facta a convocare le Camere per “parlamentarizzare” la crisi politica in corso. Facta riluttò .Tramò per dar vita a un suo terzo ministero comprendente Mussolini e qualche fascista in posizioni marginali. Non aveva capito la gravita della crisi. Contro il volere del Re “dimenticò” Giolitti nel lontano Piemonte, a Cavour. Ma i più imputano proprio a Vittorio Emanuele III l'avvento del governo Mussolini. Allo stesso modo dovremmo addebitare a Sergio Mattarella tutti i pasticci dei “partiti”odierni e un eventuale frutto tossico del 25 settembre?

Rivoluzione fascista? Mai stata.
   C'è del vero nella formula “Maestà, vi porto l'Italia di Vittorio Veneto” attribuita a Benito Mussolini quando il 30 ottobre 1922 presentò a Vittorio Emanuele III l'elenco dei ministri. Avuto l'assenso, in via rapida (telefono, telegrafo) Mussolini li convocò al Quirinale per il giuramento di rito alle dieci dell'indomani. Fu il primo a rispettare il protocollo. Salutò senza rancore Luigi Facta, che aveva improvvidamente proposto la proclamazione dello stato d'assedio, l'impiego delle armi contro gli squadristi e l'arresto dei loro dirigenti (Mussolini compreso?), e si recò al Ministero dell'Interno (il cui titolare, Paolino Taddei non si fece trovare) e a quello degli Esteri, tenuti per sé, con la presidenza del Consiglio. Quando inviò ai presidenti delle Camere la composizione del governo, il sottosegretario alla Presidenza Giacomo Acerbo, massone di grado 30° della Gran Loggia d'Italia, evidenziò i meriti patriottici diretti e indiretti dei nuovi ministri. Rappresentavano l'Italia che arrivava dallo sforzo bellico che portò da Caporetto a Vittorio Veneto.
   Senza cedere alla diffusa inclinazione di narrare la storia del “ventennio” mussoliniano come una linea continua, quasi che tutti i suoi “momenti”siano stati inesorabilmente concatenati o dettati dal Fato, a distanza di un secolo dalla crisi dell'ottobre 1922 e dalla sua soluzione va ricordato ciò che effettivamente avvenne e ciò che non avvenne affatto, ma entrò nella leggenda e ancora oggi imperversa nella saggistica. Occorre innanzitutto sfatare il mito, alimentato da Emilio Gentile e altri, secondo cui dal 28 ottobre fu “subito il regime”, frutto della “rivoluzione”. Il primo a moderare le parole fu proprio Mussolini. Nel discorso di insediamento alla Camera dei deputati il 16 novembre 1922 accennò fugacemente alla “rivoluzione delle camicie nere” voluta dal popolo per restaurare l'autorità dello Stato. Nella replica rivendicò il sostegno del proletariato e distinse tra la borghesia parassitica e quella produttiva, che anche Lenin stava ricostruendo nell'Unione sovietica. Al Senato il 27 novembre ribadì che “tutte queste terminologie di destra, di sinistra, di conservatori, di aristocrazia o democrazia sono vacue terminologie scolastiche” e invocò la formula mazziniana “Dio e Popolo”. Sarebbe stato arduo spacciare per Rivoluzione un «governo di coalizione (…) per raccogliere in aiuto della Nazione boccheggiante quanti, al di sopra delle sfumature dei partiti, la stessa Nazione vogliono salvare». Riallacciandosi al discorso del 16 novembre 1922, anche in quello, ben più significativo, del 3 gennaio 1925, nel quale respinse l'addebito di aver fatto aggredire Matteotti e sfidò l'opposizione a denunciarlo al Senato costituito in Alta Corte di giustizia (art. 47 dello Statuto), Mussolini non accennò minimamente a Rivoluzione.
   Il termine divenne comune con la legge 11 dicembre 1928, n. 2693 (pessimamente scritta, poco letta ma molto citata anche da “storici” che gli attribuiscono poteri che non aveva), istitutiva del Gran Consiglio del fascismo quale «organo supremo che coordina e integra tutte le attività del Regime sorto dalla Rivoluzione dell'ottobre1922», dotato di «funzioni deliberative nei casi stabiliti dalla legge» (mai esercitate) e richiesto di «parere su ogni altra questione politica, economica o sociale di interesse nazionale, sulla quale sia interrogato dal Capo del Governo».La Rivoluzione divenne formula canonica con i cinque volumi della “Storia della Rivoluzione fascista” di Giorgio Alberto Chiurco (Vallecchi, 1929) e con la Mostra del Decennale della Rivoluzione fascista (1932) nel 1928 sommessamente proposta da Edoardo Dino Alfieri come semplice “esposizione storico-documentaria del fascismo”.
   Il governo varato da Mussolini il 31 ottobre 1922 non coronò affatto una “Rivoluzione” ma una “insurrezione” (subito sedata) e non si sostanziò nell'avvento di un nuovo regime. Nel 1944 proprio il Duce malinconicamente scrisse: «Premesso che una rivoluzione si ha quando si cambia con la forza non il solo sistema di governo, ma la forma istituzionale dello Stato, bisogna riconoscere che da questo punto di vista il fascismo non fece nell'ottobre 1922 una rivoluzione. C'era una monarchia prima e una monarchia rimase dopo.» Né ci fu la mitizzata “diarchia”. Il 25 luglio fu il re a revocare Mussolini e a sostituirlo con Badoglio.
Ciò che non avvenne
   La crisi dell'ottobre 1922 fu extraparlamentare non per iniziativa di Mussolini ma per la pochezza dei partiti non fascisti, sia antistatutari (comunisti, socialisti, repubblicani), sia “costituzionali”, nazionalisti inclusi, ancora lontani da fondersi nel Partito nazionale fascista, come fecero a metà febbraio 1923 quando rinunciarono alla propria identità in cambio della dichiarazione di incompatibilità tra fasci e logge massoniche da parte del Gran Consiglio.
   A fine luglio 1922 i veti incrociati (don Sturzo contro Giolitti, a sua volta tarpato da altri notabili dell'area liberal-democratica, i socialisti contro tutti e soprattutto contro se stessi) sfociarono nella formazione del secondo governo presieduto da Luigi Facta. A differenza di quanto scrive Mimmo Franzinelli in L'insurrezione fascista. Storia e mito della marcia su Roma (Mondadori, 2022, p. 59), il nuovo ministero non fu affatto «ancor più debole del precedente» e addirittura «subalterno ai fascisti». Infatti ne fecero parte Paolino Taddei all'Interno, Marcello Soleri alla Guerra e Giulio Alessio alla Giustizia: tre ministri chiave, decisi ad affermare l'autorità dello Stato contro l'illegalità. Il 4 agosto Taddei impartì ai prefetti direttive chiarissime: «per impedire consumazione gravi reati contro persone e proprietà, contro poteri pubblici e per impedire o sciogliere concentramenti armati con scopi evidentemente delittuosi», dopo aver «esperito invano ogni altro mezzo», la forza pubblica doveva fare uso delle armi. Identiche misure vennero ripetute per settimane.
   Migliaia di volumi, saggi e articoli hanno insistito sul livello quantitativo e qualitativo del conflitto tra squadristi e “sinistre”, sulle “trame” intessute per dare una soluzione parlamentare alla crisi e sulla sua conclusione: la decisione del governo di proclamare lo stato d'assedio, la sua comunicazione ufficiale senza l'indispensabile firma del re (28 ottobre) e, dopo un giorno di vane consultazioni condotte in prima persona da Vittorio Emanuele III, il conferimento dell'incarico a Mussolini (29 ottobre), senza la pressione delle camicie nere bloccate lontane da Roma ove entrarono solo per la sfilata del 31 ottobre, a governo insediato, per esserne subito allontanate con i treni allestiti alla Stazione Termini il 31 ottobre-1 novembre. Dal 2 novembre Roma fu totalmente tranquilla, come l'Italia intera. Non un cenno di opposizione, né scioperi. Il 4, dopo l'omaggio di Rito all'Altare della Patria, il Re partì per San Rossore e il governo si mise all'opera secondo le direttive dettate da Mussolini il 31 ottobre.
   Il “cambio” avvenne così rapidamente e ordinatamente che ancor oggi le narrazioni ne cercano la genesi nella miriade di scontri tra opposte fazioni e riservano poche lacunose e imprecise righe alle ore centrali: dalla sera del venerdì 27 alla mattina della domenica 29 ottobre. Lo conferma il citato libro di Franzinelli: 304 pagine di testo e 30 di note, con molte utili citazioni di carte conservate all'Archivio Centrale dello Stato. L'autore insiste sulle spedizioni compiute dalle squadre fasciste contro i “rossi” sin dal 1920, spesso – egli asserisce – con la connivenza di forza pubblica e militari, notoriamente vilipesi dalle sinistre.Vengono chiamati in causa Giolitti, il suo successore Ivanoe Bononi e i due governi Facta, complici diretti e indiretti dell'onda reazionaria culminata con l'incarico a Mussolini. Eppure anche Franzinelli deve convenire che nei giorni fatidici le “squadre” vennero fermate dal piano di difesa di Roma predisposto e attuato dal comandante della Divisione militare di Roma, Emanuele Pugliese, che ne scrisse nel documentato volume Io difendo l'Esercito (Napoli, Rispoli, 1946: meritevole di riedizione critica).

   Mentre lascia sotto traccia i nodi istituzionali della crisi e della loro soluzione, Franzinelli si concede qualche svista. Secondo lui Vittorio Emanuele III aveva «una visione politico-esistenziale arida, senza slanci né ideali» e soffriva «la presenza di personaggi più di lui energici: dalla regina madre (Margherita di Savoia N.d.A., da tempo appartata a Bordighera) al duca d'Aosta, notori filofascisti» (p. 150). Peccato però che per lui il duca d'Aosta sia Amedeo di Savoia (all'epoca ventiquattrenne) anziché suo padre, Emanuele Filiberto, cugino primo e coetaneo del re, mai cospiratore contro la Corona.
   Franzinelli evoca il ruolo svolto da Ernesto Civelli per procacciare finanziamenti quale intendente generale della marcia su Roma con Gaetano Postiglione, ma non ricorda che alle 7 e mezzo mattutine del 28 ottobre fu lui ad assicurare al re che la spina dorsale delle “camicie nere” (comandate da Cesare Maria De Vecchi e da Emilio De Bono) era monarchica, come del resto si vide alla “sfilata (non “marcia”) con i generali Luigi Capello, Gustavo Fara e Sante Ceccherini, d'intesa con i maggiorenti nazionalisti e le “camicie azzurre”. Aggiunge, per inciso, che Civelli era massone. Quanto basta per evocare, accanto al duca d'Aosta, l'altro misterioso protagonista occulto della svolta. Franzinelli ci insiste. Ma con affermazioni imbarazzanti. «Al Grande Oriente d'Italia (con sede a Piazza del Gesù) aderiscono – tra gli altri – Giacomo Acerbo, Italo Balbo, Giuseppe Bottai, Sante Ceccherini, Costanzo Ciano, Dino Perrone Compagni, Cesare Rossi, Edmondo Rossoni. Il gran maestro Raoul Palermi ha contatti diretti con Mussolini...». Ma i fatti sono ben altri. Palermi era sovrano gran commendatore della Serenissima Gran Loggia d'Italia, da Franzinelli confusa con il Grande Oriente, cioè con quello che poche righe dopo definisce «l'altra obbedienza massonica (quella di Palazzo Giustiniani)...». Sappiamo che la massoneria è un ginepraio. Ma delle due l'una. In un libro di storia se ne scrive se la si conosce oppure si evita. Franzinelli si concede altre licenze poetiche.  Scrive che i “manifestanti” sfilanti il 31 ottobre 1922 da Piazza del Popolo, «giunti a Piazza Venezia, si tolgono elmetti e fez, sostano dinanzi all'altare della Patria, per riverire il Milite Ignoto (inumato a Roma due anni prima, nell'evento che segnò il passaggio dal biennio rosso al biennio nero». Però la Tumulazione del Milite Ignoto, la manifestazione più imponente nella storia d'Italia dal 1861 a oggi, avvenne il 4 novembre 1921, cioè un anno prima, non due. Segnò la riscossa della Corona contro tutti gli estremismi.
  Aggiungiamo un' ultima citazione da Franzinelli: «Per comprendere come il duce giochi sul tempo gli avversari, basti notare che scegliendo il 28 ottobre per l'azione risolutiva, anticipa e spiazza gli statisti liberali che puntano sulla grande manifestazione del 7 novembre per celebrare il terzo anniversario della Vittoria e lanciare d'Annunzio come alternativa a Mussolini». A parte che il 4 (non 7) novembre 1922 era il quarto (non terzo) anniversario del'armistizio, il tentativo di contrapporre il Vate al Duce fu un'idea bislacca di Facta, non degli “statisti liberali”, meno che meno di Giolitti, la «vecchia volpe di cinque combinazioni ministeriali» che, scrive Franzinelli «convinto che il re lo convocherà per l'investitura governativa, il 28 ottobre si pone in viaggio, ma fuori tempo massimo. Lasciata Dronero per Torino (dove ha prenotato il direttissimo per la capitale), apprende dal prefetto della mobilitazione fascista e delle conseguenti interruzioni ferroviarie; valuta un itinerario via mare, ma l'accelerazione politica rende patetiche le premure del vegliardo, collocato di un colpo tra le anticaglie di un sistema in frantumi».
   Però, come noto (lo si legge in “Giolitti, il senso dello Stato”, RusconiLibri) la sera tra il 27 e il 28 ottobre Giolitti, un po' raffreddato, era nella sua casa a Cavour a festeggiare l'80° compleanno,  a sfogliare le “Memorie della mia vita” e da lì non si mosse affatto. A Roma andò solo per la seduta della Camera del 16 novembre, quando votò a favore del governo Mussolini, come Vittorio Emanuele Orlando e tutti i “costituzionali”. L'alternativa era il caos. Sei anni dopo, il 16 marzo 1928, a schiena dritta Giolitti respinse la riforma della legge elettorale che conferì al Gran Consiglio del fascismo la scelta dei 400 deputati da votare o respingere in blocco per la futura Camera. La storia è storia. Documenti. Non fantasie.
Il “golpe” di Luigi Facta
I punti fondamentali della crisi dell'ottobre 1922 sono semplici e chiari. Il secondo governo Facta tenne dieci sedute nel mese di agosto, sette a settembre e nove a ottobre. Nell'ultima, venerdì 27 ottobre, deliberò le dimissioni, come recita il verbale (senza ora d'inizio e di fine seduta!). Si mise quindi nella condizione di rimanere in carica solo per l'ordinaria amministrazione: dalla quale era esclusa la proclamazione dello stato d'assedio, che comporta l'adozione del codice penale di guerra. Con le dimissioni Facta restrinse il campo d'azione del Re, tenuto a trovare la soluzione entro lunedì 30, prima della riapertura delle borse per scongiurare ripercussioni sulla vacillante condizione finanziaria dell'Italia.
   Dopo un giorno di febbrili consultazioni (documentate anche dal Diario della Casa Militare del sovrano), sentiti i rappresentanti dei partiti costituzionali, degli interessi vitali del Paese e annusata l'altra riva del Tevere, Vittorio Emanuele III affidò l'incarico a Mussolini che formò un esecutivo comprendente nazionalisti, popolari, democratici, demosociali e il giolittiano Rossi di Montelera all'Industria, nel quale sino all'ultimo tentò di inserire socialisti come Gino Baldesi.
   Da tempo il Re aveva chiesto a Facta di convocare le Camere per parlamentarizzare la crisi. Rimase inascoltato perché il presidente, un sedulo notabile di provincia con solenni baffi a manubrio, mirava a succedere a se stesso. Il potere piace. Si sentiva incoraggiato. Il 28 ottobre 1922 nel “Corriere della Sera” Luigi Einaudi scrisse: «Desideriamo ardentemente ci sia un partito, e sia quello il fascista, se altri non sa far meglio, il quale usi mezzi adatti per raggiungere lo scopo che è la grandezza materiale e spirituale della Patria.» La lista dei ministri che Mussolini mostrò al giornalista Luigi Ambrosini nel viaggio in vagone letto da Milano verso Roma comprendeva anche Einaudi. Nel cambio forzato a Civitavecchia (ove la ferrovia era interrotta per le misure adottata dal generale Pugliese) con altri salirono in carrozza Silvio Gay, Gaetano Polverelli e un ex sacerdote massonofago che Mussolini, scaramantico, preferiva non incrociare (e noi non nominiamo). Einaudi fu sostituito con Alberto De Stefani. Anziché al socialista Gino Baldesi il ministero del Lavoro e della previdenza sociale venne assegnato all'emiliano Stefano Cavazzoni, del partito popolare, industriale, ufficiale, partecipe della delegazione italiana alla conferenza economica di Genova e alla costituzione dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro presso la Società delle Nazioni a Ginevra. Nel segno della continuità, dunque, non della “Rivoluzione”.
   In sintesi, il 31 ottobre 1922 non contenne in sé il ventennio seguente. Questo  fu deciso dai parlamentari eletti il 15 maggio 1921 e dai cittadini che tornarono alle urne il 6 aprile 1924, nel marzo 1929 e via continuando. Il patrimonio politico e morale dell'Italia era il prezzo pagato con l'intervento nella Grande Guerra. Pesante. Ma a rivendicarlo, dall'“Inchiesta su Caporetto” (istituita a guerra in corso) agli inconcludenti sei governi succedutisi dal 1918 al 1922, furono solo un’esigua parte dei “costituzionali” e soprattutto i nazionalisti e i fascisti che capitalizzarono Vittorio Veneto contrapponendosi alla pochezza altrui.
Aldo A. Mola


L'Italia di Vittorio Veneto al governo con Mussolini

Il 31 ottobre 1922 il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giacomo Acerbo, massone di grado 30° nella Gran Loggia d'Italia, inviò ai presidenti delle Camere l'elenco dei ministri evidenziandone la partecipazione diretta o indiretta alla Vittoria. Citò nell'ordine Luigi Federzoni (Ministro delle Colonie), volontario in guerra, Medaglia d'Argento al Valor Militare, due croci di guerra; Aldo Oviglio (Giustizia e Affari di Culto), caporale d'onore della Milizia; Alberto De Stefani (Finanze), sottotenente benché riformato, un anno in zona di guerra; Vincenzo Tangorra (Tesoro); Armando Diaz (Guerra), Duca della Vittoria, due ferite, Medaglia d'Argento, Collare della SS. Annunziata; Paolo Thaon di Revel (Marina), Ammiraglio per merito di guerra, Collare della SS.A.;  Giovanni Gentile (Pubblica istruzione), classe 1875, non mobilitato; Gabriello Carnazza (Lavori pubblici) non intervenuto ma padre di un caduto in guerra M.A.V.M.; Giuseppe De Capitani d'Arzago (Agricoltura) Croce di Guerra, presidente degli ospedali chirurgici al fronte; Teofilo Rossi di Montelera, (Industria e Commercio), tre medaglie, una con 4 fascette; Stefano Cavazzoni (Lavoro e Previdenza sociale), sottotenente per meriti speciali, creatore dell'Ufficio Stampa e Propaganda presso il Comando del Corpo di Armata di Bologna; Duca Giovanni Antonio Colonna di Cesarò (Poste e Telegrafi), tenente di artiglieria, croce di guerra; Giovanni Giuriati (Terre Liberate), ferito e mutilato, due M.A.V.M., un nipote morto in guerra M.Oro al V.M.
   Altrettanto valeva per i diciotto sottosegretari, tra i quali Aldo Finzi, i combattenti e pluridecorati Alfredo Rocco, Cesare Maria De Vecchi, Costanzo Ciano, Giovanni Gronchi, Silvio Gay, Michele Terzaghi, Dario Lupi e il generale Giulio Douhet, molti dei quali massoni.

IL PASTROCCHIO
IL PARLAMENTO CHE VERRÀ


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 31 Luglio 2022 pagg. 1 e 6.

 Dalle urne uscirà un quadro politico semplificato o continueranno a prevalere pulsioni particolaristiche? Il fascino delle cattedrali gotiche sta nelle molte navate, nella molteplicità delle cappelle laterali, nella profondità dell'abside a sua volta tentacolare. Ma il governo di un Paese moderno è approvato da un emiciclo che impone chiarezza e rigore. L'alternativa sono la divaricazione tra cittadini e istituzioni e l'aumento ormai preoccupante dell'astensionismo. Non imputiamo a manovre straniere la nostra pochezza.  Tutti i mali vengono per nuocere. Non bastassero la pandemia (sempre in agguato) e le guerre (si sa sempre quando cominciano, mai quando finiscono: non solo l'Europa orientale, ma anche la Libia e il Vicino Oriente sono senza pace), incombono inflazione galoppante e recessione. Pochi anni fa l'armata brancaleone grillina annunciò trionfalmente la vittoria sulla povertà, che però da allora ha subìto un'impennata malgrado i cerotti di provvedimenti una tantum ed elemosine a pioggia. Il peggio però deve ancora arrivare. La siccità. Della “politica”.
Origene e il “costo della politica”
   Alla sua radice vi è il pessimo dei mali: l'imminente elezione di un Parlamento senza regole adeguate. Quello eletto nel 2018 impiegò due mesi a dare al Paese un “contratto di governo” con clausole palesemente incostituzionali. Al suo crollo venne abborracciata una seconda maggioranza. Infine la politica si arrese a subire controvoglia “un nonno a servizio delle istituzioni”, come Mario Draghi ironicamente si definì. Sappiamo com’è finita. Il chiassoso Parlamento ora in scadenza cerca di celare la sua massima colpa: l'incapacità di prevedere le conseguenze delle sue decisioni. Eletto in gran parte da cittadini imboniti da un comico vagante, rimarrà negli annali come il peggiore dal 1948. Pari solo a quelli che nel 1921-1924 spianarono la strada al regime di partito unico, a conferma che il diritto di voto di per sé non è affatto il toccasana della democrazia. Esprime gli umori di elettori che vanno dove li mena il vento dei “media”, niente affatto “indipendenti” ma “indi-pendenti”, pendenti, cioè, da chi direttamente o indirettamente ne è padrone e li orienta. Motivo sufficiente per respingere la proposta di elezione diretta del capo dello Stato. Se nel 1938 gli italioti avessero avuto libertà di scegliere il capo dello Stato avrebbero sicuramente sostituito Vittorio Emanuele III con Benito Mussolini, ormai Hitler-dipendente e completo di leggi razziali. Abbacinati dai “media”, anche oggi sono pronti a riempire le piazze, magari per chiedere un nuovo “capo” a ogni cambio di stagione. Per i più l'importante è che sia famoso e telegenico: sportivo con o senza palla, manubrio, volante; attore di bello o brutto aspetto; cantante con o senza ugola d'oro e presentatore televisivo con o senza chissà cos'altro.
   Ma lo Stato non una televendita. 
   Decisamente al di sotto della sua missione istituzionale, il Parlamento scadente è andato a vento e a vapore per quattro anni, zig-zagando verso l'agognato approdo: la pensione a beneficio dei suoi peones. Frutto in buona parte dell'anti-politica, esso ha perpetrato il parlamenticidio. In libero Stato, ognuno, se proprio lo vuole, può imitare il teologo Origene di Alessandria ma non può imporre alle Istituzioni di fare altrettanto. Esse devono rimanere vigorose oltre la durata delle singole legislature.
   Per questa volta ormai il guaio è fatto. Ne derivano i mali della campagna elettorale in corso, che si annuncia avvelenata e peggiore persino di quella del 2018. Succubo delle leggende sul “costo della politica”, con legge costituzionale 19 ottobre 2020, n. 1 il Parlamento approvò a maggioranza bulgara la riduzione dei seggi della Camera da 630 a 400 e del Senato da 315 a 200. L'approvazione venne salutata da battimani scroscianti e prolungati, come appunto si usa ai funerali. Quella legge sciagurata comportò di ridisegnare i collegi elettorali, stravolgendo rapporti consolidati tra elettori e candidati. Intere regioni avranno un unico senatore. In altre i collegi accorpano plaghe da secoli pressoché prive di relazioni perché incluse in province diverse, cresciute nel tempo in ottica autoreferenziale, in gara per ottenere il minimo di investimenti a proprio beneficio. In un quadro nazionale e regionale sempre più povero di risorse e incline ad attendere miracoli o fate turchine, la loro “classe dirigente” apprese a interpretare, tutelare e promuovere le urgenze dettate da ritardi che risalgono all'Ottocento quando le regioni settentrionali del neonato regno d'Italia, molto più organizzate, presero sulle spalle la plurisecolare arretratezza del Mezzogiorno, ancora poverissimo di infrastrutture malgrado le leggende reiterate in anni recenti. Tante opere pubbliche di importanza strategica rimasero al palo. Alcune vennero completate molti decenni dopo il loro avvio. Per capirlo, basta gettare l'occhio sulla rete autostradale (il Piemonte ha il triste primato dell'incompiuta Asti-Cuneo), stradale (velo pietoso sui collegamenti tra Piemonte e Liguria, a tacere di quelli tra il Piemonte e la Francia) e di quella ferrata, nei tratti fondamentali risalente all'Ottocento, ai geniali “deputati ferroviari” (Sebastiano Grandis, Germano Sommeiller, Severino Grattoni...). Nei primi decenni postbellici i parlamentari riuscirono a individuare e a ottenere il completamento o la riattivazione di opere importanti, ma altre sono state abbandonate al degrado, con pesanti conseguenze di lungo periodo sulle prospettive economiche. Le comunicazioni italo-francesi nel Piemonte sud-occidentale sono oggi più arretrate di quanto lo fossero all'indomani della seconda guerra mondiale.
   Il criterio dominante per disegnare i nuovi collegi elettorali ha ignorato la storia. Ha accorpato territori per sommarne gli elettori sino a raggiungere il quoziente richiesto quale corpo elettorale degli eligendi. È lo stesso criterio usato per riempire le scatole di piselli, fagioli, cipolline: sino al limite della capienza. Ma il rapporto tra votanti e candidati ha (o dovrebbe avere) altre basi, altre motivazioni.
La “casta”...
   Approvato a occhi bendati dalla maggior parte dei deputati e dei senatori oggi in carica, il famigerato “taglio dei parlamentari” fu il punto di arrivo di una pluridecennale campagna di discredito della “politica”, dipinta e svilita come “casta”. La danza macabra cominciò con l'invenzione dello “scandalo P2” di cui il 99.99% dei cittadini non ha mai capito nulla e nulla sa perché non c'era niente da scoprire né da svelare. Dopo anni di indagini, la relazione di maggioranza della commissione parlamentare d'inchiesta si limitò ad asserire che la famosa “loggia segreta” (che misteriosa non era affatto: figurava nell'elenco ufficiale del Grande Oriente d'Italia) era come una clessidra, nota però solo per la parte inferiore, non per quella superiore. Mistero della fede... Dietro (o al di sopra) di Gelli vi era dunque un Superiore Incognito, un Belzebù mai scoperto? L’“inchiesta” ottenne quanto era stato dettato a Tina Anselmi: demonizzare i partiti “centristi” (liberali, socialdemocratici, repubblicani, socialisti e i democristiani non tentati dal catto-comunismo), gli “occidentali”. Il discredito della “partitocrazia” continuò con le mitiche “Mani pulite” demandate a mozzare quelle “Sporche” dei “politici”, esposti in massa al pubblico ludibrio nel Paese che aveva nell'orecchio il celebre “a solo” “La calunnia è un venticello...”.
   Un quotidiano milanese fece immense fortune additando ogni giorno i “politici” come “casta”, a tutto beneficio di chi nel potere vero era e rimase incistato. Quello stesso quotidiano svergognò il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi con la notizia dell'avviso di garanzia proprio quando si accingeva a presiedere una conferenza internazionale. Il suo torto vero era un altro, imperdonabile: scompigliando ogni previsione della vigilia, nel 1994 aveva vinto le elezioni e “scippato” la conquista del potere ai Democratici di sinistra, eredi diretti del Partito comunista italiano, unico sopravvissuto alla mattanza degli antichi “soci fondatori” del Comitato di liberazione in Italia.
   Lo sconquasso delle istituzioni previste dalla Costituzione continuò con l'abolizione dell'elezione popolare dei consigli provinciali e dei loro presidenti, le cui amministrazioni nel corso del tempo avevano accumulato un patrimonio enorme di studi e di esperienze amministrative per molti aspetti esemplari. È significativo il deserto di studi storici sulle Amministrazioni provinciali, mentre abbondano libri che riducono la storie dei Comuni, grandi e piccoli, a guide enogastronomiche.
Prima in Spagna, poi in Italia?
Sic stantibus rebus il confronto politico si riduce a una riffa. Dopo aver svergognato i politici come accozzaglia di profittatori, gli stessi sicofanti hanno decretato la morte delle “ideologie”, che dopotutto sono un tentativo di interpretare razionalmente “il mondo” fattuale. Hanno spiegato che oggi non c'è alcuna differenza tra destra e sinistra, anticaglie del passato remoto. Tutto è ridotto a “presente”. La cancellazione della memoria però non è paritaria. Qualcuno ha più diritto di altri a essere ricordato e insegnato nella manualistica scolastica, nei quotidiani e nei programmi radiotelevisivi. È quanto avviene in Spagna con la “ley de la memoria democrática” ora incombente. In un Paese che ha contato e conta storici di livello non solo europeo ma planetario, come il rimpianto Fernando García de Cortázar, un ventennio addietro la “legge della memoria” si risolse nella denuncia univoca di Francisco Franco e del “franchismo” come feroce dittatura totalitaria. Venne lasciato tra parentesi che la Spagna entrò nell'ONU nel 1955, esattamente come la “repubblica italiana nata dalla resistenza”. Le conseguenze di quella legge sono note. Il suo vero obiettivo non era rimuovere monumenti, cambiare dedicatari di strade e istituti pubblici, espungere la salma di Franco dal Valle de los Caídos, ma incentivare la deflagrazione della Spagna e sostituire la lingua nazionale (che è la seconda del pianeta) con parlate locali (catalano, galiziano, valenziano...). Ora la legge della “memoria democratica” impone di dimenticare i crimini compiuti dall'ETA che per decenni imperversò con finanziamenti esteri e l'ospitalità concessa dalla Francia ai suoi militanti, come accadde per altri terrorismi imbellettati da rivendicazioni sociali. Al tempo stesso essa deplora la “transizione” postfranchista verso il sistema parlamentare che ha consentito alla Spagna di uscire da un secolo di guerre civili e di alternare al governo, senza traumi, socialisti e popolari in uno Stato monarchico costituzionale incarnato nella persona di Juan Carlos di Borbone (anche per lui prima o poi la Storia sarà “galantuoma”). 
   L'invenzione di una “memoria” che distorce e falsifica la storia è sempre stato il cavallo vincente della sinistra stalinista e poststalinista che processa in piazza gli avversari, li costringe a dichiararsi colpevoli di reati mai compiuti, riduce il confronto a due soli contendenti: il Male (la Destra) e il Bene (la Sinistra). È quanto sta avvenendo in Spagna, ove Ciudadanos, unica novità politica di fine Novecento, è ormai evaporata e la contesa imminente si sostanzia nel duello tra il Partito socialista (con codazzo di estremisti e di separatisti) e Partito popolare, tallonato da “Vox”, neodestrismo comodo per una Sinistra che rispolvera antichi fantasmi.
   Il caso spagnolo va studiato con attenzione perché è “di scuola” per il futuro prossimo dell'Italia, alla vigilia di elezioni dall'esito più imprevedibile.
Mummie e diciottenni ai seggi
   Anche in Italia si assiste sgomenti all'improvvisa riesumazione di mummie del passato remotissimo, privo di qualunque concretezza: l'incubo del “fascismo”.
   In articulo mortis il Senato ha varato il regolamento della futura Camera Alta: meno Commissioni parlamentari (scese da 14 a 10), riduzione dei membri per formare un gruppo (ne basteranno 7 anziché 10), scoraggiamento dei “cambi di casacca” che hanno infestato la legislatura ora agli sgoccioli e il riconoscimento del principio che i patres non sono obbligati a far parte di un gruppo, perché, dopotutto, “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato (art. 67 Costituzione).
   Nulla del genere però è avvenuto a Monte Citorio. La prossima Camera dei deputati rischia di trovarsi alle prese con molte incognite, a cominciare dalla compattezza dei futuri gruppi parlamentari. Mentre fa pesca a strascico di partitini e partituzzi nella vana speranza di raccogliere un vagheggiato quanto inutile 25% dei consensi elettorali, Enrico Letta, segretario del Partito democratico (futuro Democratici e Progressisti? DP anziché PD?), svilisce il voto mentre lo chiede. Prima ancora di sottoscriverle, si vergogna di alleanze che è costretto a stipulare per sottrarre seggi ai “nemici”. Nulla di nuovo sotto il sole. Negli Anni Trenta la Terza Internazionale passò disinvoltamente dalla denuncia dei socialisti come social-fascisti a Fronti popolari onnicomprensivi (salvo eliminare fisicamente i riottosi e gli irriducibili avversari del totalitarismo rosso) e, sulla fine, Stalin non esitò ad approvare il patto di non aggressione con la Germania di Hitler. Per saperne di più basti leggere Il libro nero degli italiani nei gulag curato da Francesco Bigazzi (ed. Leg).
   Le “alleanze tecniche” oggi vezzeggiate dai piddini garantiscono la stabilità di un improbabile governo “di sinistra” supportato da fuggiasche dell'ultim'ora? Meno di zero.
   Poiché l'Italia ha bisogno estremo di un governo finalmente politico dopo tante accozzaglie precarie, per scongiurare il rischio che l'astensionismo tracimi e travolga la credibilità delle istituzioni rappresentative i partiti hanno il dovere di mettere fine al gioco delle tre carte e dire chiaramente quali maggioranze intendono formare. I tre partiti del centro-destra lo hanno fatto. A mancare all'appuntamento con la Storia sono proprio i partiti che si ammantano dell'aggettivo “democratico”.
   Un'ultima considerazione si impone alla vigilia della campagna elettorale. Per sua fortuna dal 1848/1861 l'Italia ha un parlamento bicamerale. Il Senato ha spesso corretto le enormità votate dai deputati. Anche se in un raptus è stato conferito ai diciottenni (piddini e altri volevano i sedicenni!) il diritto di eleggere la Camera Alta, il bicameralismo è una garanzia contro l'onda delle “emozioni” che spesso travolge quella dei deputati. Ma, come annotava malinconicamente Lorenzo il Magnifico, “il doman non c'è certezza”.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Dalle urne uscirà un quadro politico semplificato o continueranno a prevalere pulsioni particolaristiche? Il fascino delle cattedrali gotiche sta nelle molte navate, nella molteplicità delle cappelle laterali, nella profondità dell'abside a sua volta tentacolare. Ma il governo di un Paese moderno è approvato da un emiciclo che impone chiarezza e rigore. L'alternativa sono la divaricazione tra cittadini e istituzioni e l'aumento ormai preoccupante dell'astensionismo. Non imputiamo a manovre straniere la nostra pochezza. 
LIBERALI?
TUTTI, UNO, NESSUNO?


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 24 Luglio 2022 pagg. 1 e 6.

 Giovanni Giolitti (1842-1928): “lo stile del potere” come ne scrisse il suo biografo Sergio Romano.    Non uno che oggi non si dichiari “almeno” liberale. E' un aggettivo. Non “depositato” e quindi senza tutela. D'altronde sarebbe poco...liberale negarne l'uso e persino l'abuso. Se da solo non basta, a un aggettivo se ne appiccica un altro. Insieme abbracciano l'Universo mondo. Liberal democratico, liberal socialista, liberal liberista, liberal statalista. Ogni ramo della vasta dinastia vanta i suoi antenati “politici”. I più parchi citano la triade nostrana Einaudi-Giolitti-Cavour. Ma ci sono anche le ascendenze filosofiche. Lì, in carenza di “pensatori” italiani senza macchia e senza paura si ricorre agli inglesi e si sale all'insù sino ad Adamo, che fu il primo vero liberale e perciò venne condannato a guadagnarsi la vita col sudore della fronte come in un gulag. Che male aveva fatto? Girava in costumi adamitici, non fondò un partito, non fece registrare il “marchio”. In un Paese nel quale oggi sono tutti sono più liberali degli altri va ricordato quando in Italia la Libertà era sostantivo. Durò poco.     
La Cometa Giolitti
   Esce in questi giorni Giovanni Giolitti. Liberale, una specie perduta di Sergio Turtulici (LarEditore), siciliano da decenni radicato a Pinerolo, saggista, critico d'arte, “profeta”, a metà strada tra orator e bellator. Già funzionario pubblico con alto senso dello Stato e dal temperamento di artista, a differenza del cosmografo e dello storico, che non assolve né condanna ma documenta, Turtulici si entusiasma e trascina il lettore nel vortice delle sue “visioni”. Perciò merita di essere letto proprio dai più disincantati.
   Giolitti paradigma dell'Italia che non fu? Il massimo statista della Nuova Italia tentò la “grande riforma” sognata dalla generazione precedente, Garibaldi incluso, che, lontano da Mazzini, marciò con l'insegna “Italia e Vittorio Emanuele” per fare dell'Italia un Paese moderno. Giusto un secolo fa fallì l'impresa. Non ebbe eredi politici. Comparve luminoso come cometa e disparve. È in sintesi il ritratto proposto da Turtulici: vigorose pennellate su nascita, adolescenza, giovinezza e precoce avvizzimento del liberalismo all'italiana.
   Dalla cima della Rocca di Cavour Giolitti capiva l'Italia, che studiava attraverso le statistiche e la miriade di “pratiche” passate al suo filtro della Commissione centrale delle imposte dirette, di segretario della Corte dei Conti e di Consigliere di Stato.
   Nel suo primo decennio di vita (1861-1871) il regno d'Italia non era affatto pronto a vivere l'unità. Gli mancavano i prerequisiti indispensabili: alfabetizzazione e condivisione di prospettive politiche interne e internazionali. Tuttavia esso aveva due cardini: la monarchia rappresentativa, istituita nel regno di Sardegna con lo Statuto albertino del 4 marzo 1848, e la communio culturale che l'aveva preceduto, in specie con i Congressi degli scienziati italiani. Tra il 1838 e il 1847 questi avevano creato la vasta rete di collegamento dell'avanguardia civile nazionale con l'Europa e la sponda meridionale del Mediterraneo. Erede della stagione dei moti liberali e delle società segrete, di cui tanti reazionari scrivono a casaccio, lo Statuto fece la differenza tra il “Piemonte” e gli altri Stati pre-unitari. Preceduto dalle regie patenti che nel novembre 1847 decretarono l'elezione alle cariche di migliaia di consiglieri comunali, provinciali, divisionali, la Carta albertina introdusse quella dei deputati alla Camera “bassa” e sancì l'uguaglianza dei cittadini dinnanzi alle leggi e la libertà di professare il culto preferito (e quindi anche di non praticarne alcuno), a differenza di quanto avveniva nella Borbonia felix, a tacere dello Stato pontificio. Il regno di Sardegna era Europa.
Fare lo Stato per poi fare gli italiani
   Il neonato Regno d'Italia prese sulle spalle l'onere immane di “fare lo Stato” per poi fare gli italiani. : anzitutto unificare i codici. Ci arrivò rapidamente. Il codice penale (1889) segnò il primato della Nuova Italia nel mondo grazie all'abolizione della pena di morte, all'epoca vigente in tutti gli altri Stati europei, descritti quali paradisi terrestri da cantori “temporis acti”, ed è tuttora applicata, anche in forme ripugnanti, negli Stati Uniti d'America. 
   Ventenne quando Garibaldi organizzò la sconsiderata spedizione “Roma o morte”, ventottenne quando Raffaele Cadorna irruppe in Roma a cannonate, capovolgendo il pensiero di Camillo Cavour, che aveva sempre escluso il ricorso alla forza e al papa aveva promesso  l'“indipendenza”, Giolitti fu tra quanti concorsero a costruire l'unità effettiva del “volgo disperso”: leggi, decreti attuativi, circolari, corpo diplomatico, esercito nazionale (fondato sulla “leva obbligatoria” ignota e avversata in tante regioni, come ricorda Oreste Bovio nella “Storia dell'esercito italiano”), prefetti, segretari comunali, via via sino alla prima legge sanitaria che, voluta dal siciliano Francesco Crispi e scritta dal cuneese Luigi Pagliani (due massoni), elevò medici e veterinari condotti a ufficiali sanitari, con poteri sovraordinati rispetto alle amministrazioni locali, e impose ai comuni che ancora ne fossero sprovvisti piani regolatori nell'interesse di una popolazione ripetutamente colpita dal colera e ancora povera di acqua potabile.
   All'epoca l'Europa andava dalla Prussia ai Pirenei. Al di là, affacciato sull'Atlantico, il Portogallo era una landa arretrata, col peso di un enorme e infruttuoso impero coloniale. La Spagna era lacerata dal conflitto tra due rami della dinastia dei Borbone. La Francia aveva alle spalle la sconfitta nella guerra del 1870-1871 da parte della Prussia, gli orrori della Commune e della sua spietata repressione. Nazione primogenita della chiesa cattolica, i francesi vantavano l'assassinio di due arcivescovi di Parigi, uno nel 1848, l'altro nel 1871. Spazzato via Napoleone III, la società crebbe pilarizzata, a compartimenti stagni (clericali, reazionari, socialisti, tardo-ugonotti) sino all'affaire Dreyfus che scoperchiò l'antisemitismo latente (estraneo all'Italia di Vincenzo Gioberti e dei Savoia). L'impero di Germania proclamato da Bismarck nel Salone degli Specchi del Castello di Versailles era coacervo di Stati, nessuno dei quali (Baviera, Sassonia e via elencando) rinunciò alla propria sovranità e identità. L'impero austro-ungarico reprimeva le minoranze etniche, linguistiche e religiose che ne mettessero in discussione l'assetto intrinsecamente illiberale (gli italofoni non ottennero mai un’Università a sud del crinale alpino). Lì finiva l'Europa. Il resto erano l'impero russo, che solo da pochi anni aveva cancellato, almeno nominalmente, servitù arcaiche, e quello turco-ottomano. Oltre Manica la Gran Bretagna, ove nell'opinione dominante i cattolici rimanevano cittadini di seconda classe, era impegnata nella costruzione dell'Impero coloniale con metodi spesso brutali.
   Quell'Italia, dunque, aveva motivo di prendere a modello le proprie radici: la romanità classica, universale, antecedente il cristianesimo, “cantata” da Giosue Carducci, commemorato da Giolitti in Parlamento perché, egli spiegò, quel “poeta” aveva costruito la Terza Italia al pari di Vittorio Emanuele II e di Giuseppe Garibaldi.
Sorta da cospirazioni, assemblee costituenti, richiesta di annessione e plebisciti confermativi, la neonata Italia non poté sottrarsi al debito con le potenze che l'avevano propiziata per non dovervi condurre un’anacronistica guerra per l'egemonia.
   Da quei precedenti politico-militari e dalla sua posizione geografica, che detta la storia, con Umberto I la Nuova Italia imboccò la via dell'espansione coloniale. Vittorio Emanuele III proseguì il cammino. Nel 1911 anche Giolitti “l'Africano” la giudicò fatale (e quindi subìta) e/o necessaria (e pertanto voluta) quando, riprendendo la politica estera di Crispi, proclamò la sovranità dell'Italia su Tripolitana e Cirenaica. L'impresa fu il punto di arrivo dell'età vittorioemanuelina-giolittiana posta al centro della riflessione di Turtulici: coronamento del consenso da un canto, rottura dall'altro.
   Nei suoi mesi cruciali scesero in campo molti protagonisti della vita politica italiana dell'interno Novecento. Alcuni “padri della patria” come Teodoro Moneta, premio Nobel per la pace, e il mite esoterista Giovanni Pascoli fecero in tempo a voltare le spalle al pacifismo dottrinale e a schierarsi per la guerra contro l'esecrato dominio turco. I cattolici inneggiarono alla nuova Lepanto. I fautori della talassocrazia videro Oltremare quanto non potevano ancora ottenere nell'Adriatico. Ma in scena vi furono anche l'allora repubblicano Pietro Nenni e Benito Mussolini, socialmassimalista, che divelse i binari per impedire la partenza di un convoglio militare e finì in carcere ove, lontanissimo dall'idea di conciliazione col papato, scrisse Hus il veridico istoriato da Paolo Paschetto, al quale si deve il bozzetto dell'emblema della Repubblica italiana.
Il volto notturno dello Statista
   Come la Luna anche Giolitti ebbe “volti” nascosti, sfuggiti alla generalità dei biografi, attenti agli aspetti più appariscenti della sua figura.
   L'intervento dell'Italia in guerra (24 maggio 1915) fu classificato “colpo di governo” in lettere inedite dello Statista al calabrese Antonio Cefaly, che invece lo bollò “colpo di Stato”. Fu l'occaso della breve parabola del liberalismo all'italiana. Dal Parlamento il timone della “politica” passò alla piazza, che gridava “guerra o rivoluzione”. La “minoranza rumorosa” divenne puntello di quella governativa e impose al Paese la catastrofica fuga in avanti verso la guerra “grossa e lunga” nettamente superiore alle risorse disponibili a giudizio di Luigi Cadorna, unico stratega italiano nella Grande Guerra. A margine di quello snodo fondamentale della vita istituzionale italiana merita constatare che Giolitti ebbe pochi amici leali nell'Italia centro-settentrionale, quasi nessuno in Piemonte (a parte Alfredo Frassati) e nel Lombardo-Veneto di Luigi Luzzatti. Ne contò invece nel Mezzogiorno, con Cefaly, Tommaso Senise, Antonino di San Giuliano, lungimirante ministro degli Esteri, Camillo Corradini, Angelo Majorana, Camillo Finocchiaro Aprile. Napoletano era stato Pietro Rosano che, appena nominato ministro, si uccise per troncare sul nascere una ignobile campagna scandalistica destinata a lambirlo per colpire Giolitti. L'assalto al potere per il potere degenerò in guerra senza prigionieri: una triste vicenda che si ripeté nel tempo. Due volte sconfitto nel collegio elettorale della sua originaria Molfetta l'allora medievista Gaetano Salvemini col supporto del Corriere della Sera mise Giolitti alla gogna come “Ministro della malavita”, un marchio a fuoco che ancora viene ripetuto da pressapochisti. Salandra fece da ponte tra giolittofobi e il giolittofago Francesco Saverio Nitti che nelle Meditazioni, pubblicate nel secondo dopoguerra, confessò che per lui Mussolini era “un avversario” mentre Giolitti era “il nemico”.
   Che cosa poteva attendersi l'Italia da un liberalismo di quella fatta?
   Meglio si comprende il Giolitti “notturno”, accennato da Turtulici che va oltre la generalità dei biografi. Dal 1893 bersaglio di campagne d'opinione tese a demolirlo sul piano della moralità politica, Giolitti si chiuse nelle sue valli ed eresse a suoi giudici gli elettori: gli unici che lo conoscessero intus et in cute e fossero dunque abilitati a valutarne l’onestà. Il suo itinerario fu appunto contraddistinto dalle lunghe stagioni di forzato isolamento, di lontananza dal governo, dalle aule parlamentari, dall'alta burocrazia e dalla Corte. Monarchico per convinzione, non per convenzione, nella certezza che l'unica alternativa a Casa Savoia fosse l'avvento di un partito clericale, forte di quasi trentamila parrocchie e capace di imporre il ritorno al passato remoto, lo statista ripiegò reiteratamente da Roma alla “sua” Città Eterna: gli elettori. Borghese, orgoglioso degli antenati che avevano cospirato per ottenere il passaggio dalla monarchia consultiva a quella rappresentativa, rimase la riserva estrema della Corona: in attesa perpetua di essere chiamato a sciogliere i nodi più intricati ingarbugliati da venturieri della politica, incluso Luigi Facta, che da suo supposto diadoco nell'agosto-ottobre 1922 si erse a maldestro artefice di una coalizione comprendente Mussolini. Per Giolitti si aprì l'ultima stagione di scontroso ripiegamento in difesa della Tradizione, rivendicata nel discorso elettorale del 16 marzo 1924, in cui ammonì che «sopprimere in Piemonte perfino il nome del partito di Cavour, di d'Azeglio, di Rattazzi, di Lanza, di Sella e centinaia di alti grandi patrioti, sarebbe (stato) rinnegare le più pure nostre glorie, e rinnegarle a beneficio dei due partiti che avevano reso impossibile la normale funzione del Parlamento»: i popolari e i socialisti. Sennonché non c'era mai stato un partito liberale nazionale, né v'erano più tempo e risorse per allestirlo, se non in un lembo dell'area liguro-piemontese.
Contemplare il passato per non temere il futuro 
   Autore di saggi di ampio respiro, quali Il libro e il web. 500 anni dalla Riforma protestante (2016) e L'Eurasia e la piazza vuota. Ai greci non si torna (2020), con guizzo di appassionato d'arte (emerge dalle pagine di Dionisio e Apollo, 2015), Turtulici dà un giro al caleidoscopio attraverso il quale conduce alla ricerca di Giolitti, campione di “una specie perduta”, e proietta il “caso Italia” di un secolo addietro nel turbine degli eventi che, dopo la guerra dei trent'anni (1914-1945), condussero alla difficile “ricostruzione” nell'ambito della divisione bipolare del mondo: l'“equilibrio del terrore” oggi spazzato via dal nuovo multilateralismo. Sgominato il Giappone, che per un quarantennio era stata l'incarnazione del “pericolo giallo”, quell'Europa guardò con sufficienza la “Cin-dia”.
   La miopia politica, osserva Turtulici, è riflesso dello smarrimento culturale, dell'eclissi degli ideali che già un secolo addietro fece intravvedere il “tramonto dell'Occidente”, variamente interpretato come disparati furono i rimedi vagheggiati per invertire il corso della storia. Tra i molti, quelli di Arturo Reghini e di Julius Evola erano e rimangono lontani dal ritorno all'età liberale. Come già nel denso saggio L'Eurasia e la piazza vuota anche nella meditazione sulla “specie perduta” dei liberali in Italia Turtulici spazia tra filosofia, letteratura, libri sapienziali, arte e drammaturgia. Ma qual è il teatro che vede in scena l'umanità odierna? Sino a qualche mese addietro, quando portava a termine il libro, sembrava potesse essere almeno l'“Europa”. Ma in breve volgere di tempo non solo non è svanita l'“Eurasia” ma si assiste al repentino crepuscolo di figure apicali (le dimissioni di Mario Draghi sono un altro anello dell'ormai lunga catena iniziata con l'uscita di scena di Angela Merkel e di Romano Prodi).
   La babele delle lingue, delle formule e delle sigle obnubila. I più non sanno distinguere tra Unione Europea (una “formula” sempre più evanescente) ed Europa (questa comprende o no la Gran Bretagna?), tra l'Europa e la Nato (ma la Turchia, che rivendica il Califfato, è Europa?), tra Unione Europea e OCSE e via continuando. Non consola che sia emersa a luce meridiana l'incolmata distanza tra evangelici, riformati, cattolici apostolici romani, cristiani ortodossi, a loro volta frantumati in chiese separate e confliggenti. Sic stantibus rebus, come chi dall'alto guarda immobile la navicella naufragare con la sua piccola scorta, così lo storiografo osserva impassibile il corso degli eventi: non una linea retta verso l'alto (il “progresso”), né un “anno platonico”, ma una serie di segmenti dalla sequenza imprevedibile, separati da spazi bianchi: la casualità.
   Il pessimismo totale serpeggiante nelle pagine di Turtulici trova espressione compiuta nelle pagine finali del libro, che registrano l'irreversibilità del declino a cospetto dell’incompetenza della dirigenza espressa alle urne dal corpo elettorale e dall’inutilità (prospettata dal politologo Gianfranco Pasquino) della libertà riconquistata ad altissimo prezzo e ormai smarrita.
   Senza entrare nel groviglio delle ipotesi incombenti per la nuova guerra europea, scintilla di un possibile conflitto planetario dalle conseguenze irreversibili (a differenza di quelle causate nel passato prossimo e remoto, come ammonisce papa Francesco), proprio l'ultimo Giolitti fa da correttivo alla delusione e alla rassegnata contemplazione della “fine della storia”. In una lettera al nipote Curio, figlio di Enrichetta e di Mario Chiaraviglio, già deputato radicale e massone, il 26 giugno 1926 lo statista scrisse dal suo eremo di Cavour: «Io mi trovo perfettamente bene; qui la politica non giunge che una sola volta al giorno, con fogli che poi non vi è il dovere preciso di leggere con diligenza. Preferisco leggere la storia delle miserie politiche di altri tempi, pensando che se sono finite quelle, finiranno per passare anche quelle che ci allietano». È tempo di contemplazione...
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Giovanni Giolitti (1842-1928): “lo stile del potere” come ne scrisse il suo biografo Sergio Romano.

LA PAROLA AGLI ELETTORI
SARANNO CAVOLI LORO


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 17 Luglio 2022 pagg. 1 e 6.

 La Tomba Plochiù-Giolitti nel cimitero di Cavour (Torino). Giovanni Giolitti (Mondovì, 27 ottobre 1842-Cavour, 17 luglio 1928), “cugino del Re”, vi è sepolto con la moglie, Donna Rosa Sobrero, “Collaressa dell'Annunziata”. Deputato dal 1882, cinque volte presidente del Consiglio, monarchico e liberale, Giolitti insegnò che per conservare le Istituzioni occorre riformare: percepire e assecondare “il flusso della storia” come scrisse Riccardo Bacchelli, suo alto interprete. La politica non è arzigogolo, una diatriba tra  costituzionalisti, né squallida “spartizione della torta” elevata a “dottrina” dal “Manuale Cencelli”, novello algoritmo. È Storia.   Nell'anniversario della sua morte la Associazione di studi storici intitolata a Giolitti e il comitato di Cuneo dell'Istituto per la storia del Risorgimento si uniscono a quanti oggi rendono omaggio allo Statista della Nuova Italia e lo additano modello perpetuo di Buon Governo.  Fare chiarezza
Lo storico ha il dovere di ricordare il Passato, che è magister vitae più di quanto creda chi lo ignora e, a occhi bendati, ripete gli errori del tempo che fu. Lo storico non cede alle “emozioni”. Verifica se le affermazioni prevalenti siano o no fondate e fa pulizia delle “parole” che inondano e intossicano la “comunicazione”. È il caso della crisi di governo in corso e delle sue possibili conseguenze. Qui ne commentiamo tre. Si può o no “votare in autunno”? Un presidente del Consiglio deve rimanere in carica se non è stato sfiduciato dal Parlamento? La “parlamentarizzazione” della crisi, cioè il rinvio del governo alle Camere, è una geniale (o scaltra) invenzione odierna?
Giova una premessa, che non è una divagazione nel bosco incantato del passato remoto, ma un “ritratto di famiglia” della secolare contesa partitico-parlamentare spacciata come“lotta politica”. Ricorrono cento anni dalla crisi del primo governo presieduto dal pinerolese Luigi Facta, messo in minoranza alla Camera dei deputati (103 voti a favore contro 288). Il 19 luglio Giovanni Amendola verbalizzò e Facta sottoscrisse:“In seguito al voto politico della Camera, il Consiglio dei Ministri delibera di presentare a S.M. il Re le dimissioni del Ministero”. Quasi tutti i “liberal-democratici” si attendevano che Vittorio Emanuele III affidasse la formazione del nuovo governo a Giovanni Giolitti, già cinque volte presidente del Consiglio. Lo Statista, che il 27 ottobre 1922 avrebbe compiuto ottant'anni, si trovò la strada sbarrata dal partito popolare di don Luigi Sturzo e dai socialisti capitanati da Filippo Turati e Claudio Treves. Sommati, i due “partiti di massa”, avevano 230 deputati su 535. Bastava l'aggiunta di una manciata di “costituzionali” per dare all'Italia il governo stabile, di cui aveva urgente bisogno dopo averne cambiati cinque in soli due anni. Ma cattolici e socialisti erano inconciliabili.
  Dai socialisti nel gennaio 1921 era sorto il Partito comunista d'Italia di Bordiga, Gramsci, Togliatti e compagni (Pcd'I, più o meno il “nonno” dell'attuale Partito democratico), deciso a “fare come in Russia”. Agli ordini della Terza Internazionale leninista-stalinista, al potere nell'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche, esso fu una sciagura per l'Italia. Il partito socialista residuo (ossessionato dal timore di avere nemici a sinistra) su impulso di Giacinto Menotti Serrati chiese di essere a sua volta ammesso alla Terza Internazionale ma venne respinto: rivoluzionario a parole, non lo era abbastanza nei fatti. Esso cacciò dalle sue file i meno estremisti, guidati da Turati e da Giacomo Matteotti, spesso vociferante e ferocemente antigiolittiano. Nati dall’ennesima scissione in soli dieci anni, questi ultimi si denominarono Partito socialista “unitario”. La diaspora suicida delle sinistre raggiunse l'acme con la proclamazione dell'indipendenza del gruppo parlamentare socialista dal partito, mentre anche le sigle sindacali “di sinistra” si moltiplicavano.
  Se i partiti di massa erano incapaci di dialogare e il Pcd'I prendeva ordini direttamente da Mosca, i maggiorenti dell'area liberaldemocratica (Giolitti, Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti, Ivanoe Bonomi, ex socialriformista...) a loro volta procedevano in ordine sparso. Trattarono alla spicciolata con Gabriele d'Annunzio (politicamente irrilevante) e con Mussolini per formare un governo comprendente il neonato partito nazionale fascista che un anno dopo la nascita (Roma, 7-10 novembre 1921) arrivò a capitanare il ministero di coalizione costituzionale (31 ottobre 1922). A guidarlo era Benito Mussolini, l'ex socialmassimalista che nel 1912 aveva espulso dal partito i socialriformisti Leonida Bissolati, Bonomi e Cabrini.
  Nel suo centenario la vicenda tragicomica dell'estate 1922, col suo stillicidio di morti e feriti tra opposte fazioni, merita di essere ripercorsa e approfondita perché ha molto da insegnare. Chi oggi trova deprimente lo spettacolo della “politica” e, sbagliano, spera che dall'estero qualcuno prema sul presidente dimissionario (forse quel qualcuno non comprende che Draghi ne uscirebbe sminuito) può rileggere con profitto quel che il 24 febbraio 1922 scriveva a Giolitti l'ambasciatore d'Italia a Berlino, Alfredo Frassati, proprietario e già direttore di “La Stampa” di Torino:“Viene una voglia matta di dare un calcio alla politica, al giornalismo, a tutto e andarsene a coltivare cavoli. Scoraggia l'inutilità della nostra opera”. Anche secondo Camillo Corradini, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, la Camera era dominata da “piccole passioni di un mondo ristretto e non sempre chiaroveggente” (17 agosto). Se ne videro le conseguenze nelle settimane successive. Malgrado le insistenze del Re, mentre il Paese era in preda a una guerra civile strisciante, dopo il 10 agosto, quando il suo secondo governo ottenne una striminzita fiducia, Facta non riconvocò più il Parlamento. La Camera si radunò solo il 16 novembre. Venne presa a ceffoni da Mussolini, da due settimane presidente del Consiglio e gli votò la fiducia a larghissima maggioranza, col favore di Alcide De Gasperi, di tutti i maggiorenti liberali presenti in Aula e del teosofo Colonna di Cesarò, ministro di Poste e telegrafi.
  Ben inteso, l'Italia del 1922 non è quella del 2022. Ma la lontananza tra cittadini e istituzioni è nuovamente preoccupante, come mostra l'aumento vertiginoso dell'astensione dalle urne. Essa non è affatto espressione di tacita fiducia nello Stato. All'opposto, è segno di sconforto e di malinconica corsa a  “coltivare i cavoli” propri. Perciò preoccupano le obiezioni affioranti contro l'unico immediato approdo della crisi politica in corso:lo scioglimento immediato delle Camere e l'indizione delle elezioni.
  Ma, obiettano alcuni con le palpebre abbassate: si può o non si può votare in autunno? È lecito e/o opportuno che un presidente del Consiglio si dimetta anche se non è stato sfiduciato in Parlamento, come appunto è accaduto il 14 luglio 2022? Infine, il rinvio del governo dimissionario alle Camere, celebrato come “parlamentarizzazione della crisi” è una geniale invenzione odierna o è secolare prassi del Quirinale sin nda quando c'era il Re?
Perché non votare in autunno? 
In via preliminare occorre distinguere tra elezioni politiche e amministrative, generali e suppletive. Le prime riguardano l'intero Stato. Dall'avvento della Repubblica le seconde furono e sono indette per l'elezione dei consigli comunali, regionali (si iniziò con quelli delle regioni a statuto speciale), provinciali (sino a quando vi fu l'elezione diretta dei presidenti delle Province: poiché funzionavano bene, vennero abolite), comunali e delle circoscrizioni (ove esistano).
Le elezioni amministrative, anche molto importanti, si svolgono nei mesi più disparati. Avvenne anche nel 1946 quando migliaia di comuni furono chiamati alle urne in primavera (marzo-aprile, prima del referendum istituzionale e dell'elezione dell'Assemblea costituente); gli altri in autunno avanzato. In carica dal lontano 1914, nell'autunno 1920 vennero rinnovati i consigli comunali e provinciali di quasi tutta l'Italia. Parecchi finirono sciolti e commissariati. Furono rinnovati nell'autunno del 1922, dopo l'insediamento del governo Mussolini (31 ottobre 1922). Fu il caso di Milano, ove un blocco costituzionale, comprendente i fascisti, sconfisse i socialisti. In sintesi, le elezioni amministrative non sono mai dipese dalle stagioni. Ebbero e hanno luogo quando necessario.
E le “politiche”? Per una panoramica rapida ma esauriente dei precedenti, merita risalire al Regno di Sardegna, unico Stato italiano pre-unitario che ebbe continuità nel tempo nella celebrazione di elezioni, introdotte con lo statuto promulgato da Carlo Alberto di Savoia il 4 marzo 1848. La prima Camera fu eletta il 27 aprile seguente. Gli elettori vennero riconvocati due o tre giorni dopo per scegliere in ballottaggio tra i due candidati che avevano ottenuto il maggior numero di voti. La prima legislatura durò poco. Il 22 gennaio 1849 fu eletta la nuova Camera, gonfia di retorica malgrado la sconfitta nella guerra contro l'impero d'Austria e l'abdicazione di Carlo Alberto. Altrettanto avvenne con la terza legislatura, sciolta dopo pochi mesi. L'elezione della quarta Camera avvenne il 9 dicembre 1849. Poi, grazie a Camillo Cavour e a Urbano Rattazzi, dal rodaggio si passò alla normalità. Le elezioni successive avvennero l'8 dicembre 1853 e il 15 novembre 1857. Nel regno (all'epoca comprendente il Nizzardo e la Savoia) nessuno protestò. Si andava alle urne quando era il momento. Il voto non era obbligatorio, ma esercitarlo era motivo di orgoglio. Per raggiungere i seggi (a piedi, a cavallo, in barroccio) gli elettori a volte impiegavano ore. Però ne valeva la pena. Nei collegi uninominali conoscevano via morte e miracoli dei candidati e generalmente sbagliavano una sola volta.
I deputati all'ottava Camera “subalpina” e prima del regno d'Italia furono eletti il 27 gennaio 1861. Potremmo continuare. Nel 1882, quando gli elettori passarono da 600.000 a 3.000.000 si votò a fine ottobre. Altrettanto avvenne nel 1913, quando i votanti balzarono a 7.500.000. Nel 1919 le urne vennero aperte il 16 novembre. Le elezioni primaverili (che tanti oggi invocano) non hanno lasciato un buon ricordo: 6 aprile 1924 (quando stravinse il Listone fascista), marzo 1929 (ormai in regime di partito unico) e nuovamente nel 1934, per farle coincidere con la fondazione del primo “fascio di combattimento”. 
   Dal 1948 in poi elezioni e referendum sono stati tenuti prevalentemente in primavera. Ubna sola volta a in febbraio, con esito disastroso. Ma non è scritto da nessuna parte che i mesi primaverili debbano essere una regola. Negli USA si vota a inizio novembre e nessuno se ne lamenta. In molti Stati europei si è votato e si vota (talora in giorno feriale: è il caso della Gran Bretagna) tra autunno e inverno. Dunque, dov'è il problema per gli italiani andare alle urne nell'autunno 2022? Se necessario (e ormai lo è) si voti prima possibile per Camere dimidiate e con le leggi elettorali vigenti (nessuno ritiene che questo Parlamento, comunque all'occaso, possa vararne altre).
Dimissionari solo se “sfiduciati”?
La storia d'Italia, che non inizia nel 1946 come alcuni pretenderebbero ma dal 1848/1861, insegna che i presidenti del Consiglio si dimisero quando furono costretti o dalla sfiducia in una delle Camere o perché percepirono di non avere più il sostegno politico indispensabile. Gli annali documentano che nella maggior parte dei casi i presidenti lo fecero proprio per evitare il voto di sfiducia che li avrebbero messi in cattiva luce e preclusi dal ritorno al potere. L'elenco è lunghissimo, da Alfonso Lamarmora e Agostino Depretis – otto governi in appena dieci anni – sino alla Repubblica nelle sue varie fasi. La prima volta Crispi si dimise non per un voto ma per l'accusa di bigamia in piena Camera. Zanardelli per ragioni di salute. Altrettanto fece Giolitti nel 1905 (sovraffaticato), nel 1909 e nel 1914. Anche nel 1921 si dimise malgrado avesse ancora un'ampia maggioranza a suo favore. Avvertì che la coalizione si stava sfaldando. Si dimise per motivi “politici”, non di conteggio notarile dei voti. Staccò la spina orgoglioso del lavoro fatto, esattamente come Mario Draghi si è dichiarato della sua. Va aggiunto che l'11 novembre 2011 Silvio Berlusconi rassegnò le dimissioni non per un voto del Parlamento ma per una “manovra di palazzo” col supporto di qualche centinaio di pupazzi schiamazzanti in piazza. Mentre leggiamo “La fine della prima repubblica negli archivi segreti americani” di Andrea Spiri (Baldini & Castoldi) attendiamo lumi sulla prima fase del disastro dell'Italia contemporanea: l'invenzione, a freddo, del falso “scandalo P2”, “Tangentopoli/Mani pulite” e via continuando.
  Ma nell'Italia di Cola di Rienzo, Savonarola, Masaniello ecc. chi di piazza ferisce spesso di piazza perisce. La galassia dei “Cinque Stelle” si perde nello spazio. Grattandosi, il grilletto frinisce. Terzo governo dalle formule del tutto diverse in soli quattro anni, la coalizione ora al collasso visse solo nell'apparenza. Ogni accanimento per farla sopravvivere risulta controproducente. Nell'Italia degli sperperi, dei bonus, dei superbonus, degli una tantum, delle regalie varie, onerosi cataplasmi su inflazione, svalutazione dei risparmi, tassazione feroce dei beni mobili e immobili, se proprio ve n'è bisogno si assegni per decreto legge (verrebbe convertito in un battibaleno) la pensione “a futura memoria” ai parlamentari alla prima legislatura (non solo ai pentastellati, di ormai ardua identificazione) e si vada alle urne.
Parlamentarizzazione della crisi? Ovvio
   Dallo Statuto albertino del 1848 in poi tutte le crisi di governo hanno avuto certificazione in Parlamento. Sono state “parlamentarizzate”. Lo fece anche Vittorio Emanuele III a fine ottobre 1922. Quando si vocifera che l'Italia odierna non può fronteggiare una crisi anticipata perché nell'Europa orientale è in corso un conflitto dalle conseguenze devastanti va ricordato che durante la Grande Guerra il Parlamento italiano nel giugno 1916 sfiduciò il governo Salandra che aveva voluto l'intervento e nel 1917 silurò il governo Boselli proprio in coincidenza con l'offensiva austro-germanica nella conca di Caporetto senza che a Roma se ne sapesse alcunché, come al generale Angelo Gatti ricordò Ugo Brusati, aiutante di campo di Vittorio Emanuele III. E va aggiunto che c'è una guerra ma l'Italia (almeno formalmente) non è in guerra.
   Anziché lenire le ferite causate da una lunga serie di strappi, dispetti, polemiche a viso aperto e sotto traccia, la “parlamentarizzazione” gioverà o finirà per esasperare i contrasti e rendere ancor più improbabili future convergenze, motivate da calcoli opportunistici o da stato di necessità? E davvero una grande idea costringere Draghi a correre il rischio di essere sfiduciato in Aula? Ne uscirebbe più forte o definitivamente bruciato? La siccità ha inaridito i campi compromettendo i raccolti. Ha fatto altrettanto con l'humus della politica, ormai pieno di crepe difficilmente sanabili. Esasperarle è nocivo. Vi è un solo modo per restituirgli fecondità: tornare subito al voto. Tanto si invoca “responsabilità”. Siano dunque i cittadini a farsi carico della propria. Se poi votassero a casaccio non potranno addebitare ad altri la propria pochezza. Per dirla con Alfredo Frassati, saranno... “cavoli” loro.
Aldo A. Mola

Didascalia: La Tomba Plochiù-Giolitti nel cimitero di Cavour (Torino). Giovanni Giolitti (Mondovì, 27 ottobre 1842-Cavour, 17 luglio 1928), “cugino del Re”, vi è sepolto con la moglie, Donna Rosa Sobrero, “Collaressa dell'Annunziata”. Deputato dal 1882, cinque volte presidente del Consiglio, monarchico e liberale, Giolitti insegnò che per conservare le Istituzioni occorre riformare: percepire e assecondare “il flusso della storia” come scrisse Riccardo Bacchelli, suo alto interprete. La politica non è arzigogolo, una diatriba tra  costituzionalisti, né squallida “spartizione della torta” elevata a “dottrina” dal “Manuale Cencelli”, novello algoritmo. È Storia.   Nell'anniversario della sua morte la Associazione di studi storici intitolata a Giolitti e il comitato di Cuneo dell'Istituto per la storia del Risorgimento si uniscono a quanti oggi rendono omaggio allo Statista della Nuova Italia e lo additano modello perpetuo di Buon Governo.

L'ITALIA IN LIBIA (1912-1943)
LA LUNGA LOTTA PER LA QUARTA SPONDA


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 10 Luglio 2022 pagg. 1 e 6.

 DIDASCALIA: Una veduta dell'Hammada, Acquerello di Ernesto Heyn (da A. Ghisleri, “Tripolitania e Cirenaica”, cit.). Gli Italiani in Libia sono stati ieri al centro del convegno organizzato dal sindaco di Levice (Cuneo), Francesca Rovello, con la regia del gen. Antonio Zerrillo, storico e sagace animatore di cultura patriottica. Presenti reparti militari, rappresentanze del Corpo della Croce Rossa Italiana, di associazione combattentistiche e d'arma, Medaglieri e Gonfaloni, sono stati ricordati padre Giovanni Blengio (Levice, 1912 - Pamplona Baja, Perù, 2002), cappellano militare dell'eroico Presidio di Giarabub tra il 1940 e il 1941, M.B. al Valor Militare, il medico albese Ferruccio Della Valle, M.A. al Valor Militare, e il colonnello Salvatore Castagna, comandante del Presidio di Giarabub. Con la collaborazione di numerosi enti e istituti, a Palazzo Scarampi è stata allestita una suggestiva mostra documentaria che rimarrà aperta sino a domenica 10 luglio. Le direttive che Vittorio Emanuele III, il “Re Soldato”, inviò costantemente a Giolitti e ai comandanti sul campo vengono del tutto ignorate da Claudio Pavone nel vol. III di “Quarant'anni di politica italiana”; esse sono invece ampiamente documentate nei 2 volumi del Carteggio giolittiano curato da Aldo A. Mola e Aldo G Ricci di concerto con Giovanni Rabbia, benemerito presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo (Ed. Bastogi, Foggia, 2010).  Quando l'Italia era uno Stato indipendente...
   L'ultima dimostrazione di piena sovranità dell'Italia risale a 110 anni addietro con l'“impresa di Libia” iniziata il 29 settembre 1911 e conclusa con la pace di Losanna il 18 ottobre 1912. Il Re, Vittorio Emanuele III, e il governo, presieduto dallo statista piemontese Giovanni Giolitti affiancato agli Esteri dal siciliano Antonino Paternò Castello marchese di San Giuliano, decisero in piena autonomia tempi e modi della guerra contro l'impero turco-ottomano, da secoli nominalmente sovrano su Tripolitania e Cirenaica. Nel corso del conflitto, per costringere il nemico ad arrendersi, il 4 maggio 1912, il generale Giovanni Ameglio (Palermo, 1854 - Roma, 1921), massone, intraprese la liberazione di Rodi e del Dodecaneso dal secolare dominio turco. Quell’operazione speciale, deliberata dal governo senza avallo preventivo di alcuno Stato, fu tra i più importanti successi dell'Italia e ne fece, a tutti gli effetti, una potenza nel Mediterraneo.
   La guerra venne decisa da Vittorio Emanuele III in un incontro segreto con Giolitti nel Castello di Racconigi (Cuneo) il 16 settembre 1911. Alla partenza da Roma per il Piemonte, per garantire la massima riservatezza al colloquio, Giolitti fece credere alla moglie, Rosa Sobrero, che sarebbe andato a Bardonecchia, ove da anni affittava un villino per le vacanze estive (ne ha scritto Antonella Filippi in Giolitti a Bardonecchia, 2021). Invece da Torino si recò in incognito nella sua villa di Cavour, ove venne riservatamente prelevato in auto dal generale Ugo Brusati, aiutante di campo del Re, e recato a Racconigi per definire le“cose da fare”, a cominciare dalla dichiarazione di guerra, a Camere chiuse.
  Fu un azzardo?
  Gli studi di storia coloniale costituiscono una sorta di orto separato dalla storia politico-militare generale e risultano spesso ispirati da pregiudizi e/o “principi” giuridici, ideali e morali maturati dopo la sconfitta dell'Italia nella seconda guerra mondiale e l'azzeramento del suo impero coloniale, risalente in massima parte all'età pre-fascista. In molti casi si sostanziano nella deplorazione della colonizzazione e in narrazioni anacronistiche, culturalmente più dannose che inutili. Il centenario dell'impresa di Libia coincise con il crollo e l'orrendo linciaggio di Gheddafi (20 ottobre 1911), con l'emarginazione dell'Italia dall'“altra sponda” e la ripresa  della tratta di “migranti” tuttora in corso: ingredienti che sconsigliarono la sua rivisitazione storiografica. Lo osservò anche Nicola Labanca in “La guerra italiana per la Libia, 1911-1931” (il Mulino, 2012, p. 7). Nel 2022, il 75° del trattato di pace che il 10 febbraio 1947 calò la saracinesca sulle aspirazioni dell'Italia a continuare la sua “missione civile” nelle colonie ha registrato pochi studi innovatori sulle colonie italiane. Tra le eccezioni vanno menzionati il saggio di Roberto Alpozzi “Bugie coloniali. Leggende, fantasie e fake news sul colonialismo italiano” (ed. Eclettica) e “Mogadiscio 1938. Un eccidio di italiani fra decolonizzazione e guerra fredda” di Annalisa Urbano e Antonio Varsori (ed. il Mulino). Motivo in più per tornare a riflettere sulla lunga lotta dell'Italia “per” e “nella” Quarta Sponda, come emblematicamente fu detta la Libia. L'espansione coloniale è parte integrante della storia generale dell'Italia, al pari di quella degli altri Stati europei, anche territorialmente minuscoli come il Belgio e l'Olanda, che ebbero vasti imperi, ne trassero immense ricchezze e trattarono gli “indigeni” con metodi infami.
La “missione” dell'Italia tra errori e successi
   Tre lustri dopo la sua proclamazione (1861), con l'ascesa della Sinistra storica al governo (1876) il regno d'Italia imboccò la via delle conquiste coloniali, comune a tutti gli Stati rivieraschi europei, con la sola eccezione dell'impero d'Austria-Ungheria, forte di porti bene attrezzati (Trieste e Fiume) e di una politica commerciale tra le più solide del Vecchio Continente. Sin dagli albori del Risorgimento il teologo neoguelfo Vincenzo Gioberti e il repubblicano Giuseppe Mazzini rivendicarono la missione civile dell'Italia “oltremare”. Profondamente delusa e allarmata dall'imposizione del protettorato francese su Tunisi (1881), il giovane regno cercò nel Mar Rosso “le chiavi del Mediterraneo”, come argomentato da Pasquale Stanislao Mancini: dall'acquisto della baia di Assab allo sbarco a Massaua (1882-1885), dall'annessione dell'Eritrea alla prima guerra contro l'Etiopia di Menelik (1894-1896), chiusa con la sconfitta degli italiani presso Adua. A parte l'elevazione della Somalia a colonia (1907), di espansione non si parlò più. Però con gli accordi italo-francesi del 1902 Roma si premurò di ottenere la prelazione sulla costa libica: un progetto accelerato dopo la conferenza di Algeciras e il trattato italo-russo di Racconigi (1909). A cospetto del protagonismo coloniale dell'impero di Germania e dell'accordo franco-spagnolo per la spartizione del Marocco, a prescindere dalle pressioni dei nascenti nazionalisti italiani e delle mene del vaticanesco Banco di Roma, il re ritenne che la monarchia sarebbe stata screditata se la Libia fosse stata occupata da un'altra potenza. Bisognava dunque averla, per quanto povera fosse.
   Benché San Giuliano temesse che la sconfitta dei Giovani Turchi al potere a Istanbul potesse scatenare conflitti nei Balcani, Giolitti volle la rottura diplomatica con l'impero turco per dichiarare guerra (29 settembre) e ordinare lo sbarco a Tripoli (5 ottobre, cui seguirono Bengasi, Derna, ecc.). Come poi spiegò, fu una “fatalità”, che comportò la “necessità” di ricorrere alle armi. La “mobilitazione speciale” (sic!) e l'invio di un corpo di 35.000 uomini risultò inferiore al bisogno. Malgrado le informazioni fornite da Enrico Insabato, a contatto con gli islamisti ortodossi della Senussia, Roma compì due errori clamorosi. Contò sulla precipitosa fuga della guarnigione nemica (appena 5.000 militari) e, peggio ancora, sulla solidarietà degli arabi contro i turchi. Invece molti libici aderirono alla “guerra santa” indetta dal Sultano turco contro gli invasori, “infedeli”. Il 23 ottobre truppe turche e volontari libici assalirono gli italiani a Sciara Sciat e massacrarono 370 soldati e 8 ufficiali. Una noticina a pagina 161 della relazione in cinque volumi sulla “Campagna di Libia” pubblicata dal Ministero della Guerra nel 1922 sintetizza i «supplizi inenarrabili cui furono sottoposti i nostri soldati caduti nelle loro mani: mutilazioni, acciecamenti, crocifissioni, evirazioni, sepolture di vivi, strazio di cadaveri». Atrocità di cui «rimase vittima anche personale sanitario intento alla sua pietosa missione». La risposta fu violentissima: in pochi giorni si susseguirono fucilazioni e impiccagioni (almeno 2.000 persone, compresi donne e ragazzi) e la deportazione di “ribelli” in isole italiane (Tremiti, Favignana, Ponza, Ustica...). La proclamazione della sovranità italiana su Tripolitania e Cirenaica venne bollata come nuova crociata, anche per la confusione tra la croce dello scudo sabaudo e l'Italia, Stato non solo laico ma all'epoca persino “scomunicato”.
  Gli “Alleati” (Germania e Austria-Ungheria) non osteggiarono scopertamente l'Italia ma non la aiutarono affatto; la Francia tramò ai danni di Roma; Londra “prese atto”, come gli USA, già intenti a studiare le risorse della Libia. I turchi organizzarono la guerriglia con ufficiali di elevate capacità, come Enver Bey e Mustafà Kemal, futuro Ataturk. Per prevalere gli italiani spostarono la guerra dalla costa libica a quella della Turchia stessa. Dopo l'occupazione di Rodi e del Dodecaneso arrivarono a tranciare i cavi telegrafici sottomarini (ne venne mandato uno spezzone a Giolitti) e si spinsero nei Dardanelli. Memore delle osservazioni compiute di persona in navigazione nell'Egeo, nell'ottobre 1912 Vittorio Emanuele III dettò a Giolitti i punti della Turchia europea da bombardare.  
   In un anno l'Italia destinò alla Libia circa 200.000 uomini. Lamentò 2.000 morti e 4.200 feriti. Al termine di lunghi preliminari a Ouchy (per parte italiana ai ministri Pietro Bertolini e Guido Fusinato si aggiunsero Giuseppe Volpi e Bernardino Nogara) la pace di Losanna riconobbe l'autorità califfale del Sultano dell'impero turco in Tripolitania e Cirenaica: un equivoco perché per gli islamici non vi è separazione tra potere religioso e politico-militare. La Libia ebbe governatori militari. I propositi di conciliazione con la popolazione araba coltivati da generali lungimiranti come Ameglio cozzarono con errori marchiani, come il cannoneggiamento della tomba di Sidi Rafi, venerato come santo dagli islamici.
   I progetti di valorizzazione economica dello “scatolone di sabbia” (come la Libia venne polemicamente detta da Gaetano Salvemini) vennero vanificati dalla sproporzione tra investimenti e profitti. Anche il geografo Arcangelo Ghisleri, massone, nell'imponente opera “Tripolitania e Cirenaica dal Mediterraneo al Sahara” (dicembre 1911) convenne che i requisiti geofisici e climatici non facevano bene sperare nel futuro. Altrettanto concluse la Commissione presieduta da Leopoldo Franchetti.
   L'impresa ebbe un costo esorbitante per l'erario, ma risultò vincente sotto il profilo politico internazionale e interno. Il governo ebbe il sostegno di cattolici, socialisti riformisti, parte dei repubblicani e persino di Teodoro Moneta, premio Nobel per la pace. Per valorizzare la Quarta Sponda, in massima parte ignota, l'Italia aveva bisogno di tempo, denaro e investimenti internazionali. Ma due anni dopo, a fine luglio 1914, la Grande Guerra sconvolse tutti i piani.
Durante la Grande Guerra
  L' arrangement (= accomodamento, non trattato né “patto”) di Londra del 26 aprile 1915 promise all’Italia sovranità piena e definitiva su Rodi e il Dodecaneso. Messa all’incasso l’adesione dell’Italia all’intervento, appena dieci giorni dopo il presidente del governo francese offrì segretamente lo stesso “bottino” al principe Giorgio di Grecia in cambio dell’intervento ellenico a fianco dell’Intesa. L’Italia aveva firmato in gran segreto. E in gran segreto la si poteva defraudare. I franco-britannici violavano i patti poco prima sottoscritti. Lo stesso però fece il governo italiano che dichiarò guerra alla Germania solo il 28 agosto 1916 anziché il 24 maggio 1915, come chiesto dall'accordo di Londra. Con la sua firma il governo italiano, presieduto da Antonio Salandra con Sidney Sonnino agli Esteri, si ritenne libero dai vincoli contemplati dalla pace di Losanna.
   Le colonie posero gravi problemi ancor prima della conflagrazione europea vera e propria. Sin dal novembre 1914 il nuovo ministro delle colonie Ferdinando Martini presentò al collega degli Esteri, Sidney Sonnino, le “memorie” approntate da Giacomo Agnesa, che premeva per l’acquisizione di Gibuti e della costa somala francese per rendere sicura la presenza italiana in quella regione. Sonnino non se ne occupò minimamente. Puntava a una base in Albania per controllare l'Adriatico.
   Il 12 novembre il califfo di Istanbul ordinò la guerra santa per la liberazione di tutte le terre islamiche dagli infedeli. Le ripercussioni non si fecero attendere. In Somalia la guerriglia contro gli italiani venne guidata dal mullah in armi da quasi vent’anni. Quel conflitto terminò solo nel 1919  per intervento convergente italo-britannico, che costrinse il mullah ad arroccarsi in un’ansa del fiume Uebi-Scebeli, ove morì nel 1921.
   In Eritrea gl’italiani dovettero fare i conti con l’irrequietezza dell’Impero d’Etiopia dopo la morte di Menelik: teatro della contrapposizione fra Ligg Jasu, figlio del ras Michael, tardivamente convertitosi dall’islamismo al cristianesimo, e l’abuna Matteo. Caduto sotto l’influenza turco-tedesca, Ligg Jasu alimentò l’odio dei musulmani contro gl’italiani, puntando ad assalire Somalia ed Eritrea con l’aiuto di Berlino e Istanbul. A sua volta nel febbraio 1915 il negus Michael ammassò 150.000 uomini sul confine con l’Eritrea, senza però assalirla. Il 27 settembre 1916 un colpo di stato acclamò imperatrice la uizero Zeuiditù, terzogenita di Menelik, mise al bando Ligg Jasu e proclamò erede al trono e capo del governo il ventiseienne degiacc Tafari (futuro Hailé Selassié) , figlio di ras Maconnen. L’anno seguente, costretto Ligg Jasu a riparare in Dancalia e vinto sul campo il deposto Michael, Tafari si liberò dalle interferenze turco-germaniche. Il commercio dall’interno alla costa eritrea favorì gli approvvigionamenti per l’Italia.
   Le conseguenze più gravi della “guerra santa” proclamata dal califfo di Istanbul si registrarono in Libia. Alla vigilia della Grande Guerra la presenza italiana rimaneva circoscritta alle principali città costiere e a centri dell’entroterra comunicanti con una rete di carovaniere sempre insidiate dalla guerriglia turco-ottomana. Su impulso del Sultano turco,nil Gran Senusso Sidi Ahmed esh Sherif chiamò alla guerra contro l’occupazione italiana. Il colonnello Giovanni Miani ritenne pertanto necessario colpirlo nel suo stesso territorio, il Fezzan, occupando Nufilia, a 150 km dalla costa. Cozzò tuttavia contro una resistenza invincibile e dovette lasciare in mano avversaria l’intera Sirte orientale, dalla Cirenaica al Fezzan. Quel successo indusse quasi tutti i capi tribù a schierarsi contro l’“occupazione” italiana. Una seconda offensiva di Miani nel novembre 1914 non ebbe maggior successo. Nei mesi seguenti Gadames venne più volte occupata e perduta. Il comando generale di Tripoli deliberò quindi un’offensiva generale per riprendere il controllo delle vie carovaniere. Allo scopo furono lanciate due colonne, una agli ordini del tenente colonnello Gianninazzi, l’altra di Miani. La prima fu costretta a ripiegare, dopo ripetuti attacchi di forze preponderanti. Gianninazzi stesso rimase ferito. Peggio andò a Miani, che si diresse su Kasr (o Gasr) bu Adi. Quando iniziò il combattimento, Ramadan Sceteui, già nemico aperto degl’italiani, poi loro fiancheggiatore nella spedizione, volse le armi contro la colonna di Miani, che rimase annientata e lasciò in preda al nemico 5.000 fucili, milioni di cartucce, mitragliatrici, artiglieria da campagna, copiosi viveri e la cassa militare. A differenza di quanto scrisse Angelo Del Boca, non costituì «il più grande disastro  dell’Italia coloniale». Nondimeno fu una sconfitta che indusse il governatore generale Giulio Cesare Tassone a tirare i remi in barca. Archiviate le speranze di rapida vittoria sull’Austria-Ungheria, il comandante supremo Luigi Cadorna chiese che tutte le risorse belliche fossero destinate “alla fronte”, come poi scrisse nelle “Memorie” recentemente ristampate (BastogiLibri, 2019). A suo meditato giudizio, l'Italia avrebbe riconquistato la Libia vincendo sul Carso. Le colonie facessero da sé. Anche in Libia molte basi e distaccamenti furono abbandonati a sé stessi. Fu il caso di Tahruna, ove nel maggio 1915, poco prima dell’intervento dell’Italia in guerra, si distinsero il tenente colonnello Cesare Billia (ferito continuò a dirigere la difesa sino a quando morì) e Maria Brighenti, moglie del maggiore Costantino Brighenti, assediato a Beni Ulid. Nel corso dell’estrema sortita anche ella venne martirizzata. Fu la prima donna insignita di Medaglia d’Oro al Valor Militare. La notizia della sua morte fu data dagli assassini stessi al marito che, dopo altri giorni di vana resistenza in Beni Ulid, si tolse la vita.
   Nei mesi seguenti, sotto l’incalzare della guerra condotta con mezzi crescenti dai libici foraggiati da turchi e tedeschi, la presenza italiana in Libia si restrinse a pochi lembi costieri. L’ex deputato di Tripoli, Suleiman el Barhuni, sbarcò infine da un sottomarino tedesco e si proclamò governatore della Tripolitania. Anche Misurata divenne base della guerra sottomarina germanica nel Mediterraneo. Quando dovettero arrendersi gl’Imperi ottomano e germanico passarono la mano a una pretesa “repubblica della Tripolitania”, con due reggenze militari e quattro capi, fra i quali il sempre infido Ramadan Sceteui, forte del bottino sottratto agl’italiani.
   Dopo la Grande Guerra la riaffermazione della sovranità italiana sulla Libia fu lunga e sofferta. Il primo a ottenere risultati sicuri fu Giolitti nel corso del suo quinto governo (1920-1921), nel quale ministro delle colonie fu Giovanni Amendola. A beneficiarne fu comunque una parte della popolazione indigena che apprese che cos’è lo Stato, fondato sull'uguaglianza dei cittadini dinnanzi alle leggi, senza interferenze delle religioni nella loro vita pubblica, nei diritti civili e nelle libertà personali.
   Il cammino della“ Libia italiana” era però ancora impervio. Dopo la riconquista, che conobbe pagine drammatiche, si concluse con la sconfitta del 1942-1943 degli italo-germanici da parte degli inglesi di Montgomery nella seconda guerra mondiale: un percorso che merita narrazione apposita.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Una veduta dell'Hammada, Acquerello di Ernesto Heyn (da A. Ghisleri, “Tripolitania e Cirenaica”, cit.). Gli Italiani in Libia sono stati ieri al centro del convegno organizzato dal sindaco di Levice (Cuneo), Francesca Rovello, con la regia del gen. Antonio Zerrillo, storico e sagace animatore di cultura patriottica. Presenti reparti militari, rappresentanze del Corpo della Croce Rossa Italiana, di associazione combattentistiche e d'arma, Medaglieri e Gonfaloni, sono stati ricordati padre Giovanni Blengio (Levice, 1912 - Pamplona Baja, Perù, 2002), cappellano militare dell'eroico Presidio di Giarabub tra il 1940 e il 1941, M.B. al Valor Militare, il medico albese Ferruccio Della Valle, M.A. al Valor Militare, e il colonnello Salvatore Castagna, comandante del Presidio di Giarabub. Con la collaborazione di numerosi enti e istituti, a Palazzo Scarampi è stata allestita una suggestiva mostra documentaria che rimarrà aperta sino a domenica 10 luglio. Le direttive che Vittorio Emanuele III, il “Re Soldato”, inviò costantemente a Giolitti e ai comandanti sul campo vengono del tutto ignorate da Claudio Pavone nel vol. III di “Quarant'anni di politica italiana”; esse sono invece ampiamente documentate nei 2 volumi del Carteggio giolittiano curato da Aldo A. Mola e Aldo G Ricci di concerto con Giovanni Rabbia, benemerito presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo (Ed. Bastogi, Foggia, 2010).

L'ITALIA IN LIBIA (1912-1943)
LA LUNGA LOTTA PER LA QUARTA SPONDA


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 3 Luglio 2022 pagg. 1 e 6.

   DIDASCALIA: Una veduta dell'Hammada, Acquerello di Ernesto Heyn (da A. Ghisleri, “Tripolitania e Cirenaica”, cit.). Gli Italiani in Libia sono stati ieri al centro del convegno organizzato dal sindaco di Levice (Cuneo), Francesca Rovello, con la regia del gen. Antonio Zerrillo, storico e sagace animatore di cultura patriottica. Presenti reparti militari, rappresentanze del Corpo della Croce Rossa Italiana, di associazione combattentistiche e d'arma, Medaglieri e Gonfaloni, sono stati ricordati padre Giovanni Blengio (Levice, 1912 - Pamplona Baja, Perù, 2002), cappellano militare dell'eroico Presidio di Giarabub tra il 1940 e il 1941, M.B. al Valor Militare, il medico albese Ferruccio Della Valle, M.A. al Valor Militare, e il colonnello Salvatore Castagna, comandante del Presidio di Giarabub. Con la collaborazione di numerosi enti e istituti, a Palazzo Scarampi è stata allestita una suggestiva mostra documentaria che rimarrà aperta sino a domenica 10 luglio. Le direttive che Vittorio Emanuele III, il “Re Soldato”, inviò costantemente a Giolitti e ai comandanti sul campo vengono del tutto ignorate da Claudio Pavone nel vol. III di “Quarant'anni di politica italiana”; esse sono invece ampiamente documentate nei 2 volumi del Carteggio giolittiano curato da Aldo A. Mola e Aldo G Ricci di concerto con Giovanni Rabbia, benemerito presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo (Ed. Bastogi, Foggia, 2010).Quando l'Italia era uno Stato indipendente...
   L'ultima dimostrazione di piena sovranità dell'Italia risale a 110 anni addietro con l'“impresa di Libia” iniziata il 29 settembre 1911 e conclusa con la pace di Losanna il 18 ottobre 1912. Il Re, Vittorio Emanuele III, e il governo, presieduto dallo statista piemontese Giovanni Giolitti affiancato agli Esteri dal siciliano Antonino Paternò Castello marchese di San Giuliano, decisero in piena autonomia tempi e modi della guerra contro l'impero turco-ottomano, da secoli nominalmente sovrano su Tripolitania e Cirenaica. Nel corso del conflitto, per costringere il nemico ad arrendersi, il 4 maggio 1912, il generale Giovanni Ameglio (Palermo, 1854 - Roma, 1921), massone, intraprese la liberazione di Rodi e del Dodecaneso dal secolare dominio turco. Quell’operazione speciale, deliberata dal governo senza avallo preventivo di alcuno Stato, fu tra i più importanti successi dell'Italia e ne fece, a tutti gli effetti, una potenza nel Mediterraneo.
   La guerra venne decisa da Vittorio Emanuele III in un incontro segreto con Giolitti nel Castello di Racconigi (Cuneo) il 16 settembre 1911. Alla partenza da Roma per il Piemonte, per garantire la massima riservatezza al colloquio, Giolitti fece credere alla moglie, Rosa Sobrero, che sarebbe andato a Bardonecchia, ove da anni affittava un villino per le vacanze estive (ne ha scritto Antonella Filippi in Giolitti a Bardonecchia, 2021). Invece da Torino si recò in incognito nella sua villa di Cavour, ove venne riservatamente prelevato in auto dal generale Ugo Brusati, aiutante di campo del Re, e recato a Racconigi per definire le“cose da fare”, a cominciare dalla dichiarazione di guerra, a Camere chiuse.
  Fu un azzardo?
  Gli studi di storia coloniale costituiscono una sorta di orto separato dalla storia politico-militare generale e risultano spesso ispirati da pregiudizi e/o “principi” giuridici, ideali e morali maturati dopo la sconfitta dell'Italia nella seconda guerra mondiale e l'azzeramento del suo impero coloniale, risalente in massima parte all'età pre-fascista. In molti casi si sostanziano nella deplorazione della colonizzazione e in narrazioni anacronistiche, culturalmente più dannose che inutili. Il centenario dell'impresa di Libia coincise con il crollo e l'orrendo linciaggio di Gheddafi (20 ottobre 1911), con l'emarginazione dell'Italia dall'“altra sponda” e la ripresa  della tratta di “migranti” tuttora in corso: ingredienti che sconsigliarono la sua rivisitazione storiografica. Lo osservò anche Nicola Labanca in “La guerra italiana per la Libia, 1911-1931” (il Mulino, 2012, p. 7). Nel 2022, il 75° del trattato di pace che il 10 febbraio 1947 calò la saracinesca sulle aspirazioni dell'Italia a continuare la sua “missione civile” nelle colonie ha registrato pochi studi innovatori sulle colonie italiane. Tra le eccezioni vanno menzionati il saggio di Roberto Alpozzi “Bugie coloniali. Leggende, fantasie e fake news sul colonialismo italiano” (ed. Eclettica) e “Mogadiscio 1938. Un eccidio di italiani fra decolonizzazione e guerra fredda” di Annalisa Urbano e Antonio Varsori (ed. il Mulino). Motivo in più per tornare a riflettere sulla lunga lotta dell'Italia “per” e “nella” Quarta Sponda, come emblematicamente fu detta la Libia. L'espansione coloniale è parte integrante della storia generale dell'Italia, al pari di quella degli altri Stati europei, anche territorialmente minuscoli come il Belgio e l'Olanda, che ebbero vasti imperi, ne trassero immense ricchezze e trattarono gli “indigeni” con metodi infami.
La “missione” dell'Italia tra errori e successi
   Tre lustri dopo la sua proclamazione (1861), con l'ascesa della Sinistra storica al governo (1876) il regno d'Italia imboccò la via delle conquiste coloniali, comune a tutti gli Stati rivieraschi europei, con la sola eccezione dell'impero d'Austria-Ungheria, forte di porti bene attrezzati (Trieste e Fiume) e di una politica commerciale tra le più solide del Vecchio Continente. Sin dagli albori del Risorgimento il teologo neoguelfo Vincenzo Gioberti e il repubblicano Giuseppe Mazzini rivendicarono la missione civile dell'Italia “oltremare”. Profondamente delusa e allarmata dall'imposizione del protettorato francese su Tunisi (1881), il giovane regno cercò nel Mar Rosso “le chiavi del Mediterraneo”, come argomentato da Pasquale Stanislao Mancini: dall'acquisto della baia di Assab allo sbarco a Massaua (1882-1885), dall'annessione dell'Eritrea alla prima guerra contro l'Etiopia di Menelik (1894-1896), chiusa con la sconfitta degli italiani presso Adua. A parte l'elevazione della Somalia a colonia (1907), di espansione non si parlò più. Però con gli accordi italo-francesi del 1902 Roma si premurò di ottenere la prelazione sulla costa libica: un progetto accelerato dopo la conferenza di Algeciras e il trattato italo-russo di Racconigi (1909). A cospetto del protagonismo coloniale dell'impero di Germania e dell'accordo franco-spagnolo per la spartizione del Marocco, a prescindere dalle pressioni dei nascenti nazionalisti italiani e delle mene del vaticanesco Banco di Roma, il re ritenne che la monarchia sarebbe stata screditata se la Libia fosse stata occupata da un'altra potenza. Bisognava dunque averla, per quanto povera fosse.
   Benché San Giuliano temesse che la sconfitta dei Giovani Turchi al potere a Istanbul potesse scatenare conflitti nei Balcani, Giolitti volle la rottura diplomatica con l'impero turco per dichiarare guerra (29 settembre) e ordinare lo sbarco a Tripoli (5 ottobre, cui seguirono Bengasi, Derna, ecc.). Come poi spiegò, fu una “fatalità”, che comportò la “necessità” di ricorrere alle armi. La “mobilitazione speciale” (sic!) e l'invio di un corpo di 35.000 uomini risultò inferiore al bisogno. Malgrado le informazioni fornite da Enrico Insabato, a contatto con gli islamisti ortodossi della Senussia, Roma compì due errori clamorosi. Contò sulla precipitosa fuga della guarnigione nemica (appena 5.000 militari) e, peggio ancora, sulla solidarietà degli arabi contro i turchi. Invece molti libici aderirono alla “guerra santa” indetta dal Sultano turco contro gli invasori, “infedeli”. Il 23 ottobre truppe turche e volontari libici assalirono gli italiani a Sciara Sciat e massacrarono 370 soldati e 8 ufficiali. Una noticina a pagina 161 della relazione in cinque volumi sulla “Campagna di Libia” pubblicata dal Ministero della Guerra nel 1922 sintetizza i «supplizi inenarrabili cui furono sottoposti i nostri soldati caduti nelle loro mani: mutilazioni, acciecamenti, crocifissioni, evirazioni, sepolture di vivi, strazio di cadaveri». Atrocità di cui «rimase vittima anche personale sanitario intento alla sua pietosa missione». La risposta fu violentissima: in pochi giorni si susseguirono fucilazioni e impiccagioni (almeno 2.000 persone, compresi donne e ragazzi) e la deportazione di “ribelli” in isole italiane (Tremiti, Favignana, Ponza, Ustica...). La proclamazione della sovranità italiana su Tripolitania e Cirenaica venne bollata come nuova crociata, anche per la confusione tra la croce dello scudo sabaudo e l'Italia, Stato non solo laico ma all'epoca persino “scomunicato”.
  Gli “Alleati” (Germania e Austria-Ungheria) non osteggiarono scopertamente l'Italia ma non la aiutarono affatto; la Francia tramò ai danni di Roma; Londra “prese atto”, come gli USA, già intenti a studiare le risorse della Libia. I turchi organizzarono la guerriglia con ufficiali di elevate capacità, come Enver Bey e Mustafà Kemal, futuro Ataturk. Per prevalere gli italiani spostarono la guerra dalla costa libica a quella della Turchia stessa. Dopo l'occupazione di Rodi e del Dodecaneso arrivarono a tranciare i cavi telegrafici sottomarini (ne venne mandato uno spezzone a Giolitti) e si spinsero nei Dardanelli. Memore delle osservazioni compiute di persona in navigazione nell'Egeo, nell'ottobre 1912 Vittorio Emanuele III dettò a Giolitti i punti della Turchia europea da bombardare.  
   In un anno l'Italia destinò alla Libia circa 200.000 uomini. Lamentò 2.000 morti e 4.200 feriti. Al termine di lunghi preliminari a Ouchy (per parte italiana ai ministri Pietro Bertolini e Guido Fusinato si aggiunsero Giuseppe Volpi e Bernardino Nogara) la pace di Losanna riconobbe l'autorità califfale del Sultano dell'impero turco in Tripolitania e Cirenaica: un equivoco perché per gli islamici non vi è separazione tra potere religioso e politico-militare. La Libia ebbe governatori militari. I propositi di conciliazione con la popolazione araba coltivati da generali lungimiranti come Ameglio cozzarono con errori marchiani, come il cannoneggiamento della tomba di Sidi Rafi, venerato come santo dagli islamici.
   I progetti di valorizzazione economica dello “scatolone di sabbia” (come la Libia venne polemicamente detta da Gaetano Salvemini) vennero vanificati dalla sproporzione tra investimenti e profitti. Anche il geografo Arcangelo Ghisleri, massone, nell'imponente opera “Tripolitania e Cirenaica dal Mediterraneo al Sahara” (dicembre 1911) convenne che i requisiti geofisici e climatici non facevano bene sperare nel futuro. Altrettanto concluse la Commissione presieduta da Leopoldo Franchetti.
   L'impresa ebbe un costo esorbitante per l'erario, ma risultò vincente sotto il profilo politico internazionale e interno. Il governo ebbe il sostegno di cattolici, socialisti riformisti, parte dei repubblicani e persino di Teodoro Moneta, premio Nobel per la pace. Per valorizzare la Quarta Sponda, in massima parte ignota, l'Italia aveva bisogno di tempo, denaro e investimenti internazionali. Ma due anni dopo, a fine luglio 1914, la Grande Guerra sconvolse tutti i piani.
Durante la Grande Guerra
  L' arrangement (= accomodamento, non trattato né “patto”) di Londra del 26 aprile 1915 promise all’Italia sovranità piena e definitiva su Rodi e il Dodecaneso. Messa all’incasso l’adesione dell’Italia all’intervento, appena dieci giorni dopo il presidente del governo francese offrì segretamente lo stesso “bottino” al principe Giorgio di Grecia in cambio dell’intervento ellenico a fianco dell’Intesa. L’Italia aveva firmato in gran segreto. E in gran segreto la si poteva defraudare. I franco-britannici violavano i patti poco prima sottoscritti. Lo stesso però fece il governo italiano che dichiarò guerra alla Germania solo il 28 agosto 1916 anziché il 24 maggio 1915, come chiesto dall'accordo di Londra. Con la sua firma il governo italiano, presieduto da Antonio Salandra con Sidney Sonnino agli Esteri, si ritenne libero dai vincoli contemplati dalla pace di Losanna.
   Le colonie posero gravi problemi ancor prima della conflagrazione europea vera e propria. Sin dal novembre 1914 il nuovo ministro delle colonie Ferdinando Martini presentò al collega degli Esteri, Sidney Sonnino, le “memorie” approntate da Giacomo Agnesa, che premeva per l’acquisizione di Gibuti e della costa somala francese per rendere sicura la presenza italiana in quella regione. Sonnino non se ne occupò minimamente. Puntava a una base in Albania per controllare l'Adriatico.
   Il 12 novembre il califfo di Istanbul ordinò la guerra santa per la liberazione di tutte le terre islamiche dagli infedeli. Le ripercussioni non si fecero attendere. In Somalia la guerriglia contro gli italiani venne guidata dal mullah in armi da quasi vent’anni. Quel conflitto terminò solo nel 1919  per intervento convergente italo-britannico, che costrinse il mullah ad arroccarsi in un’ansa del fiume Uebi-Scebeli, ove morì nel 1921.
   In Eritrea gl’italiani dovettero fare i conti con l’irrequietezza dell’Impero d’Etiopia dopo la morte di Menelik: teatro della contrapposizione fra Ligg Jasu, figlio del ras Michael, tardivamente convertitosi dall’islamismo al cristianesimo, e l’abuna Matteo. Caduto sotto l’influenza turco-tedesca, Ligg Jasu alimentò l’odio dei musulmani contro gl’italiani, puntando ad assalire Somalia ed Eritrea con l’aiuto di Berlino e Istanbul. A sua volta nel febbraio 1915 il negus Michael ammassò 150.000 uomini sul confine con l’Eritrea, senza però assalirla. Il 27 settembre 1916 un colpo di stato acclamò imperatrice la uizero Zeuiditù, terzogenita di Menelik, mise al bando Ligg Jasu e proclamò erede al trono e capo del governo il ventiseienne degiacc Tafari (futuro Hailé Selassié) , figlio di ras Maconnen. L’anno seguente, costretto Ligg Jasu a riparare in Dancalia e vinto sul campo il deposto Michael, Tafari si liberò dalle interferenze turco-germaniche. Il commercio dall’interno alla costa eritrea favorì gli approvvigionamenti per l’Italia.
   Le conseguenze più gravi della “guerra santa” proclamata dal califfo di Istanbul si registrarono in Libia. Alla vigilia della Grande Guerra la presenza italiana rimaneva circoscritta alle principali città costiere e a centri dell’entroterra comunicanti con una rete di carovaniere sempre insidiate dalla guerriglia turco-ottomana. Su impulso del Sultano turco,nil Gran Senusso Sidi Ahmed esh Sherif chiamò alla guerra contro l’occupazione italiana. Il colonnello Giovanni Miani ritenne pertanto necessario colpirlo nel suo stesso territorio, il Fezzan, occupando Nufilia, a 150 km dalla costa. Cozzò tuttavia contro una resistenza invincibile e dovette lasciare in mano avversaria l’intera Sirte orientale, dalla Cirenaica al Fezzan. Quel successo indusse quasi tutti i capi tribù a schierarsi contro l’“occupazione” italiana. Una seconda offensiva di Miani nel novembre 1914 non ebbe maggior successo. Nei mesi seguenti Gadames venne più volte occupata e perduta. Il comando generale di Tripoli deliberò quindi un’offensiva generale per riprendere il controllo delle vie carovaniere. Allo scopo furono lanciate due colonne, una agli ordini del tenente colonnello Gianninazzi, l’altra di Miani. La prima fu costretta a ripiegare, dopo ripetuti attacchi di forze preponderanti. Gianninazzi stesso rimase ferito. Peggio andò a Miani, che si diresse su Kasr (o Gasr) bu Adi. Quando iniziò il combattimento, Ramadan Sceteui, già nemico aperto degl’italiani, poi loro fiancheggiatore nella spedizione, volse le armi contro la colonna di Miani, che rimase annientata e lasciò in preda al nemico 5.000 fucili, milioni di cartucce, mitragliatrici, artiglieria da campagna, copiosi viveri e la cassa militare. A differenza di quanto scrisse Angelo Del Boca, non costituì «il più grande disastro  dell’Italia coloniale». Nondimeno fu una sconfitta che indusse il governatore generale Giulio Cesare Tassone a tirare i remi in barca. Archiviate le speranze di rapida vittoria sull’Austria-Ungheria, il comandante supremo Luigi Cadorna chiese che tutte le risorse belliche fossero destinate “alla fronte”, come poi scrisse nelle “Memorie” recentemente ristampate (BastogiLibri, 2019). A suo meditato giudizio, l'Italia avrebbe riconquistato la Libia vincendo sul Carso. Le colonie facessero da sé. Anche in Libia molte basi e distaccamenti furono abbandonati a sé stessi. Fu il caso di Tahruna, ove nel maggio 1915, poco prima dell’intervento dell’Italia in guerra, si distinsero il tenente colonnello Cesare Billia (ferito continuò a dirigere la difesa sino a quando morì) e Maria Brighenti, moglie del maggiore Costantino Brighenti, assediato a Beni Ulid. Nel corso dell’estrema sortita anche ella venne martirizzata. Fu la prima donna insignita di Medaglia d’Oro al Valor Militare. La notizia della sua morte fu data dagli assassini stessi al marito che, dopo altri giorni di vana resistenza in Beni Ulid, si tolse la vita.
   Nei mesi seguenti, sotto l’incalzare della guerra condotta con mezzi crescenti dai libici foraggiati da turchi e tedeschi, la presenza italiana in Libia si restrinse a pochi lembi costieri. L’ex deputato di Tripoli, Suleiman el Barhuni, sbarcò infine da un sottomarino tedesco e si proclamò governatore della Tripolitania. Anche Misurata divenne base della guerra sottomarina germanica nel Mediterraneo. Quando dovettero arrendersi gl’Imperi ottomano e germanico passarono la mano a una pretesa “repubblica della Tripolitania”, con due reggenze militari e quattro capi, fra i quali il sempre infido Ramadan Sceteui, forte del bottino sottratto agl’italiani.
   Dopo la Grande Guerra la riaffermazione della sovranità italiana sulla Libia fu lunga e sofferta. Il primo a ottenere risultati sicuri fu Giolitti nel corso del suo quinto governo (1920-1921), nel quale ministro delle colonie fu Giovanni Amendola. A beneficiarne fu comunque una parte della popolazione indigena che apprese che cos’è lo Stato, fondato sull'uguaglianza dei cittadini dinnanzi alle leggi, senza interferenze delle religioni nella loro vita pubblica, nei diritti civili e nelle libertà personali.
   Il cammino della“ Libia italiana” era però ancora impervio. Dopo la riconquista, che conobbe pagine drammatiche, si concluse con la sconfitta del 1942-1943 degli italo-germanici da parte degli inglesi di Montgomery nella seconda guerra mondiale: un percorso che merita narrazione apposita.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Una veduta dell'Hammada, Acquerello di Ernesto Heyn (da A. Ghisleri, “Tripolitania e Cirenaica”, cit.). Gli Italiani in Libia sono stati ieri al centro del convegno organizzato dal sindaco di Levice (Cuneo), Francesca Rovello, con la regia del gen. Antonio Zerrillo, storico e sagace animatore di cultura patriottica. Presenti reparti militari, rappresentanze del Corpo della Croce Rossa Italiana, di associazione combattentistiche e d'arma, Medaglieri e Gonfaloni, sono stati ricordati padre Giovanni Blengio (Levice, 1912 - Pamplona Baja, Perù, 2002), cappellano militare dell'eroico Presidio di Giarabub tra il 1940 e il 1941, M.B. al Valor Militare, il medico albese Ferruccio Della Valle, M.A. al Valor Militare, e il colonnello Salvatore Castagna, comandante del Presidio di Giarabub. Con la collaborazione di numerosi enti e istituti, a Palazzo Scarampi è stata allestita una suggestiva mostra documentaria che rimarrà aperta sino a domenica 10 luglio. Le direttive che Vittorio Emanuele III, il “Re Soldato”, inviò costantemente a Giolitti e ai comandanti sul campo vengono del tutto ignorate da Claudio Pavone nel vol. III di “Quarant'anni di politica italiana”; esse sono invece ampiamente documentate nei 2 volumi del Carteggio giolittiano curato da Aldo A. Mola e Aldo G Ricci di concerto con Giovanni Rabbia, benemerito presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo (Ed. Bastogi, Foggia, 2010).

NON CANCELLIAMO LA STORIA D'ITALIA
IL DUCA AMEDEO D'AOSTA 
DAL 1941 DEDICATARIO DEL LICEO SCIENTIFICO DI PISTOIA


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 26 Giugno 2022 pagg. 1 e 6.


 Il Principe Aimone di Savoia Aosta, Capo della Real Casa di Savoia, ospite della Federazione del Nastro Azzurro a Bologna (5 giugno 2022) per l’intitolazione della Rotonda al principe Luigi Amedeo di Savoia Aosta e per la rievocazione del Viceré d'Etiopia, Amedeo di Savoia, III Duca d'Aosta. Alla sua destra lo Mariano Torre, autore di un robusti saggi storici, e il relatore, presidente della Consulta; alla sua sinistra Andrea Spettoli, presidente del Club Reale Italiano di Bologna.    Su Amedeo d'Aosta, viceré d'Etiopia, oltre a Gigi Sperone I Savoia scomodi. La saga degli Aosta (Bompiani 2003), segnaliamo il volume di Giuseppe Catenacci, Presidente della Associazione Nazionale ex Allievi della Nunziatella, Amedeo d'Aosta e la Nunziatella (1993), che pubblica la motivazione della Medaglia d'Oro al Valor Militare: “Comandante Superiore delle Forze Armate dell'Africa Orientale Italiana, durante undici mesi di asperrima lotta, isolato dalla Madre Patria, circondato da un nemico soverchiante per mezzi e per forze, confermava la sua sperimentata capacità di condottiero sagace ed eroico (...)”. “Fedele continuatore delle tradizioni guerriere della stirpe Sabauda”, quando rimase “assediato nel ristretto ridotto dell'Amba Alagi alla testa di una schiera di prodi, resisteva oltre i limiti delle umane possibilità, in un titanico sforzo che si imponeva all'ammirazione dello stesso nemico”. Alla inevitabile resa, gli inglesi gli tributarono l'onore delle armi, come documenta Dino Ramella in Il Duca d'Aosta e gli Italiani in Africa Orientale (ed. Torino, Daniela Piazza, 2017). Su di lui v. anche Federica Saini Fasanotti, Etiopia 1936-1940. Le operazioni di polizia coloniale nelle fonti dell'Esercito Italiano, Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito, 2010.      Nell'Europa orientale, a pochi minuti di missile da noi, è in corso una guerra feroce. Trattati, convenzioni e regole, violati per decenni in tanti Paesi, ora sono calpestati anche nel Vecchio Continente, persino a ridosso della città ove nacque Immanuel Kant, il filosofo della Ragion pratica e di Per la Pace perpetua. Un “errore umano” (eventuale, possibile, voluto) potrebbe scatenare l'inferno sulla terra, causare il danno irreversibile per milioni di persone e spazzare via secoli di incivilimento.
    Anziché occuparsi di quanto incombe, c'è chi fa la guerriglia sui nomi delle scuole e vorrebbe cancellare il nome del Duca Amedeo di Savoia Aosta (Torino, 1898-Nairobi, 1941), Medaglia d'Oro al Valor Militare, da dedicatario del Liceo Scientifico di Pistoia. Solo per distrarre? La falsificazione della Storia esige risposte chiare. La Consulta dei senatori del regno si oppone fermamente e invita a farlo, scrivendo al sindaco della città e al prefetto di Pistoia.


Il vizio antico della damnatio memoriae
   Anche in Italia imperversa da anni la stolida corsa a cambiare i nomi di strade, piazze, edifici e pubblici istituti. È una mania speculare a quella divampata tempo addietro, quando a quelli in uso furono aggiunti i precedenti. Un vezzo bizzarro: se venisse rispettato sino in fondo, agli angoli delle strade dovrebbero essere collocate non le solite targhe, spesso sbiadite, ma lapidi che rechino scolpite tutte le diverse denominazioni succedutesi nel tempo. Così sono sempre andate le cose nella civiltà latina, usa a intitolare le Opere ai rispettivi promotori e/o artefici, salvo sostituirli con altri quando risultavano “superati”. Ricordiamo, in sintesi, che già gli antichi Romani presero a cancellare ogni ricordo dei predecessori “scomodi”. Fu un effetto del Cesarismo. La Res publica (genus mixtum secondo Cicerone: equilibrio tra comizi tributi, senato e consolato) aveva celebrato tutti gli Ottimati meritevoli di gloria imperitura. Invece dai Giulio-Claudi in poi (che dopo Augusto inanellarono Caligola e Nerone...), ogni dinastia spazzò via la memoria del passato e pretese che la storia iniziasse con se stessa, come facevano i Faraoni in Egitto. Dilagò la damnatio memoriae, che non è triste invenzione recente ma rigurgito del malcostume politico-culturale introdotto dalla tirannide. Altrettanto avvenne nei secoli seguenti, sia per il potere civile (imperatori, re, principi, “liberi comuni”...), sia per quello ecclesiastico. Alcuni papi non esitarono a demonizzare e persino a processare e condannare post mortem (presente cadavere!) il predecessore. Poiché la sapevano lunga, i consoli romani reduci da vittorie smaglianti sul cocchio avevano alle spalle chi li ammoniva: “guardati dal giorno della lode”.
   Questa premessa non è una divagazione. Ci ricorda che nulla è nuovo sotto il sole. Chi conquistava una terra esigeva che i vinti dimenticassero la propria identità. Molto cristianamente, imponeva persino il culto dei propri santi al posto di quelli venerati dalle popolazioni soggiogate, inducendo a battezzare i neonati con nomi usuali nella dinastia vittoriosa. Con l'avvento degli Aragonesi, nel regno di Napoli gli Alfonso, Fernando e Ferdinando sostituirono i Carlo, Roberto e altri nomi tipici degli spodestati Angioini. Però, poiché i più ricorrenti nell'Europa centro-occidentale erano e rimasero una manciata, alla stretta finale le diverse dinastie si trovarono ad avere Carli, Filippi, Ferdinandi, Giuseppi, Franceschi, Enrichi, Guglielmi, Giorgi e loro composti. Basti, a conferma, scorrere i nomi dei sovrani in carica alla conflagrazione europea del luglio-agosto 1914, scatenata dall'assassinio di Francesco Ferdinando d'Asburgo, arciduca e principe ereditario dell'impero d'Austria e del Regno di Ungheria. Erano come salmi responsori.

L'eccezione sabauda in Italia
    A quell’epoca unica eccezione era il re d'Italia, Vittorio Emanuele III, che aveva un nome quasi esclusivo della Casa di Savoia. Originariamente associato ad altri nomi, come Emanuele Filiberto, restauratore del Ducato, e Carlo Emanuele (due dei quali re), il primo “Vittorio Emanuele” tout court (1759-1825), restauratore del regno di Sardegna, sommò insieme il “Vittorio” di Amedeo II, duca incoronato re, e l'“Emanuele” di “Testa di Ferro”. Il principe Carlo Alberto di Savoia Carignano (1798-1849), suo lontano parente ed erede al al trono, ebbe la lungimirante prontezza di far battezzare Vittorio Emanuele il primogenito (14 marzo 1820-9 gennaio 1878): futuro re di Sardegna, primo re d'Italia e indiscutibile Padre della Patria. Terzo di quel nome, Vittorio Emanuele (Napoli, 11 novembre 1869-Alessandria d'Egitto, 28 dicembre 1847) fu il sovrano che regnò più a lungo in Italia (dal 29 luglio 1900 al 9 maggio 1946), ne portò i confini politici a coincidere con quelli geografici (ad abundantiam anzi, giacché comprese anche Fiume, Zara, ecc.) e alle colonie conquistate prima della Grande Guerra (Eritrea e Somalia) aggiunse la Concessione di Tien-Tsin in Cina, Libia, Rodi e Dodecanneso, oltre all'impero d'Etiopia e la corona di Albania.
  Fu vera gloria la sua? Se n'è discusso e se ne discuterà ancora. Di sicuro il re ebbe il sostegno del Paese e per decenni venne stimato dai capi di Stato (anche di grandi potenze come USA, URSS, Gran Bretagna e Francia), sino alla fase agonica della Guerra dei Trent'anni che imperversò nella prima metà del secolo scorso (1914-1945). Dopo quasi vent'anni di regime di partito unico, approvato dagli elettori nel 1929, 1934, 1939 e votato dalle Camere quasi unanimi, nell'estate del 1943 in poche settimane fu lui a revocare Benito Mussolini da capo del governo, a smantellare il Partito nazionale fascista e ad ottenere dagli anglo-americani la resa senza condizioni, premessa indispensabile per risalire la china, come documenta il denso saggio 1943-1945. Dai Gruppi di Combattimento al nuovo Esercito Italiano, curato da Pier Carlo Sommo e Alberto Turinetti di Priero a corredo della Mostra di esemplare rigore storiografico allestita all Cittadella di Torino lo scorso aprile.
   Malgrado i suoi indiscutibili meriti, dopo anni di scaramucce (subite in silenzio da chi avrebbe dovuto replicare subito colpo su colpo), in tempi recenti contro la sua memoria è stata scatenata un'offensiva volta a farne tabula rasa. Appellato, via via, Re borghese, socialista, soldato, fascista, razzista, fuggiasco, fellone..., secondo alcuni Vittorio Emanuele III andrebbe cancellato per sempre. Nel 2019 una senatrice a vita della repubblica invitò i sindaci di tutta l'Italia a eliminarne il nome da piazze, vie e istituti pubblici. Leoluca Orlando, all'epoca sindaco di Palermo, sollecitò le scuole siciliane a dare il buon esempio. Per scongiurare il caotico “fai da te” dominante dal famigerato Sessantotto, il 18 febbraio 2021 il dirigente scolastico regionale richiamò la normativa vigente sull'intitolazione di scuole, aule e locali interni agli istituti nonché sull'erezione di monumenti e la posa di lapidi (circolare Ministeriale 12 novembre 1980, n. 313). Con ovvi aggiornamenti (all'epoca non esistevano i consigli d'Istituto nei quali siedono docenti, personale amministrativo, tecnico e ausiliario, studenti e genitori, mentre i “dirigenti”, senza diritto di voto, fanno le belle statuine), essa ricalca la legge 23 giugno 1927, n. 1188, emanata, vedi caso, proprio da Vittorio Emanuele III.
   Il dedicatario di scuole, ecc., deve essere morto da dieci anni: un tempo minimo per separare il grano dal loglio, vagliare il merito durevole, senza cedere né alle emozioni né ai cambi dei sempre più volatili “gusti” ideologici. L'intitolazione, decisione di alta responsabilità e di portata storica, è proposta dal consiglio d'istituto, sentito il collegio docenti, con delibera da sottoporre all'approvazione del Provveditore agli studi dopo aver acquisito le valutazioni vincolanti del prefetto e della Giunta comunale. Essa è dunque un atto complesso, che unisce cultura, politica e certezza del diritto, proprio perché, con buona pace di Luigi Einaudi, il prefetto è quel che resta dello Stato d'Italia.
   La normativa dovrebbe dunque scongiurare intitolazioni dettate da pulsioni estemporanee e da spiriti faziosi, estranei alla Pubblica istruzione e, più in generale, dovrebbe concorrere alla costruzione e alla salvaguardia della Memoria. Chi è meritevole di speciale ricordo, lo è “a prescindere” da pregiudizi privi di consistenza, come quelli accampati per cancellare il nome di Vittorio Emanuele III dagli Istituti che se ne fregiano. È il caso, recentissimo, della proposta ventilata a Napoli di sostituire il nome del sovrano con quello di Benedetto Croce quale dedicatario della celeberrima Biblioteca Nazionale di Napoli, arricchita nel dopoguerra dalla biblioteca della duchessa Elena di Savoia Aosta.
   A quanti accusano il Re di collusione con il fascismo, contrapponendogli artificiosamente Croce, va ricordato che il sommo filosofo e storico napoletano votò a favore dell'insediamento del governo presieduto da Benito Mussolini, così come Vittorio Emanuele Orlando, “presidente della Vittoria” ed Enrico De Nicola, futuro presidente provvisorio della Repubblica, entrambi nell'aprile 1924 candidati nella Lista Nazionale “fascista”, nonché Alcide De Gasperi capogruppo dei popolari alla Camera, Giovanni Giolitti, maggiorente dei demoliberali, e un lungo elenco di parlamentari di varia ascrizione (democratici, demosociali, riformisti...). A differenza di quei politici, grandi industriali, banchieri, agrari, ecc., “monarchisti” di passo e a noleggio anziché veramente “monarchici”, Vittorio Emanuele III ovviamente non votava. Sovrano costituzionale, egli promulgava le leggi approvate dalle Camere. Non aveva neppure la possibilità di rinviarle al Parlamento con parere motivato, come è oggi facoltà del presidente della Repubblica (il quale deve comunque “trangugiarle” se le Camere le confermano: art.74 Cost.).

Il “caso” del Duca d'Aosta Viceré d'Etiopia
Ora accade che qualche insegnante del liceo scientifico “Amedeo di Savoia Duca di Aosta” di Pistoia chieda che il nome distintivo della scuola sia cancellato. In alternativa vengono prospettate Rita Levi Montalcini, già senatrice a vita, e Margherita Hacks. I loro nomi sono di prestigio assoluto e meritano l'omaggio degli italiani. Ma perché mai mortificarli in una disputa artificiosa contro quello di Amedeo di Savoia Aosta, Medaglia d'Oro al Valor Militare, ammirato in Italia e all'estero per la sua capacità di conciliare senso dello Stato e visione universale della Storia?
   Non ne ripercorriamo qui la figura e l'opera. Venne fatto il 5 giugno scorso a Bologna per iniziativa del Nastro Azzurro presieduto da Davide Nanni, in occasione dell'intitolazione di una rotonda al principe Luigi Amedeo di Savoia Aosta, Duca degli Abruzzi, con partecipe intervento dell'Assessore ai Lavori pubblici e alla toponomastica, Simone Borsari, delegato dal sindaco Lepore, presenti il principe Aimone di Savoia Aosta, duca di Savoia e Capo della Real Casa, e autorità civili e militari. “Amedeo d'Aosta” (come il viceré d'Etiopia viene ricordato non per diminutio ma per sincera ammirazione e affetto da quanti lo conobbero o ne sentirono parlare o ne lessero), al pari di suo padre Emanuele Filiberto fu Artigliere a Venaria Reale: quella era infatti l'“arma dotta”, di avanguardia. Lì lo volle Vittorio Emanuele III, perché, memore della legge salica e dei novecento anni della Casa, riteneva che i “cugini” Savoia Aosta fossero la riserva aurea della Monarchia. I governi passano, lo Stato rimane. Di vocazione “marinaio”, Amedeo d'Aosta fu Artigliere (lo ha ricordato l'Associazione Nazionale Artiglieri d'Italia a Venaria Reale il 18-19 giugno con i generali Pierluigi Genta e Luigi Cinaglia, promotore della suggestiva Mostra  “Strappi, tra violenza e indifferenza”, completa di catalogo) e pilota nella nascente aeronautica, “proiezione” della cavalleria sin dalla Grande Guerra. Militare come tutti i principi della Casa Savoia Carignano, nipote dell'omonimo Aosta per breve tempo re di Spagna (1870-1873), da generale di aviazione di stanza a Gorizia e dimora nell'infausto Castello di Miramare a Trieste, nel 1937 Amedeo venne nominato viceré d'Etiopia per rimediare ai guai del predecessore, Rodolfo Graziani. Si era laureato molti anni prima a Palermo con una tesi proprio sui “Rapporti giuridici fra gli Stati moderni e le popolazioni indigene delle loro colonie”, da lui conosciuti e studiati sulle orme dello zio Luigi Amedeo.
   Fu egli “fascista”? Fu “governativo”, come erano e dovevano essere i principi della Casa, i militari e tutti i pubblici impiegati entrati come lui “in servizio” prima dell'imposizione del giuramento aggiuntivo di fedeltà al “regime”. Dopo il quale Benedetto Croce consigliò che era meglio prestare quel tributo “formale” piuttosto che essere sostituiti da manutengoli del fascismo. Quando venne chiesto il dono dell'“oro alla Patria” anche il filosofo fece la sua parte. Perché così sono i Patrioti, sull'esempio degli Inglesi per i quali, sia nel diritto o no, la Patria è “il mio Paese”. Essi hanno alle spalle la guerra delle Due Rose, la decapitazione di Maria Stuarda e di Carlo I, il lord protettore Cromwell, la cacciata dell'ultimo Stuart, la ricerca di un sovrano “di passo”, debitamente domesticato. E anche un po' di venturieri come Drake, Raleigh e ugole d'oro elevate a baronetti perché “pecunia non olet”. Rappresentano la continuità della storia, incarnata nella monarchia.

Patriam recuperare
  Stato ancora giovane, con tanti, troppi, nostalgici di fiabe pre-unitarie, l'Italia odierna ha bisogno di tutto tranne che di cancellare la memoria storica della propria identità, che risale ai Latini, ai Cesari, agli Illuministi, ai patrioti del Risorgimento e ai Savoia re d'Italia. Lo ha insegnato proprio il Presidente Sergio Mattarella che nel dicembre 2017 propiziò la traslazione delle salme di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena da Alessandria d'Egitto e da Montpellier al Santuario di Vicoforte, nel Vecchio Piemonte, “per ricomporre la memoria storica”, come scrisse la Principessa Maria Gabriella di Savoia di concerto con la Consulta dei senatori del regno. Per stare in Europa e nel mondo attuale e venturo, quello delle massime potenze continentali (la tetragona ma declinante Federazione Russa e soprattutto la Repubblica popolare cinese, mentre gli Usa sono sulla soglia della deflagrazione) l'Italia deve mettere tra parentesi le fazioni e riscoprire la propria identità. Dopo i quattro re susseguitisi dal 1861 al 1946, nei successivi 74 anni essa contò quattordici elezioni di presidenti della Repubblica, non tutti saldamente presenti nel ricordo dei cittadini. 
  Cancellare il nome di una Medaglia d'Oro al valor Militare da insegna di un Liceo è quanto di peggio si potrebbe fare in un Paese che ha urgenza di riscoprire storia, valori, motivazioni civili. Per fermare la corsa verso l'oblio della storia vera bisogna confidare in un guizzo di orgoglio civile di cittadini, docenti, insegnanti e allievi e, come la la Consulta dei senatori del regno, sollecitare il parere negativo vincolante del sindaco di Pistoia, Alessandro Tomasi, sorretto da Fratelli d'Italia, Forza Italia, Lega e affini, e del Prefetto di Pistoia, dott.ssa Licia Donatella Messina, cioè dello Stato d'Italia, che non è nato con il referendum del 2-3 giugno 1946 ma dal Risorgimento.
Aldo A. Mola  

DIDASCALIA: Il Principe Aimone di Savoia Aosta, Capo della Real Casa di Savoia, ospite della Federazione del Nastro Azzurro a Bologna (5 giugno 2022) per l’intitolazione della Rotonda al principe Luigi Amedeo di Savoia Aosta e per la rievocazione del Viceré d'Etiopia, Amedeo di Savoia, III Duca d'Aosta. Alla sua destra lo Mariano Torre, autore di un robusti saggi storici, e il relatore, presidente della Consulta; alla sua sinistra Andrea Spettoli, presidente del Club Reale Italiano di Bologna.
   Su Amedeo d'Aosta, viceré d'Etiopia, oltre a Gigi Sperone I Savoia scomodi. La saga degli Aosta (Bompiani 2003), segnaliamo il volume di Giuseppe Catenacci, Presidente della Associazione Nazionale ex Allievi della Nunziatella, Amedeo d'Aosta e la Nunziatella (1993), che pubblica la motivazione della Medaglia d'Oro al Valor Militare: “Comandante Superiore delle Forze Armate dell'Africa Orientale Italiana, durante undici mesi di asperrima lotta, isolato dalla Madre Patria, circondato da un nemico soverchiante per mezzi e per forze, confermava la sua sperimentata capacità di condottiero sagace ed eroico (...)”. “Fedele continuatore delle tradizioni guerriere della stirpe Sabauda”, quando rimase “assediato nel ristretto ridotto dell'Amba Alagi alla testa di una schiera di prodi, resisteva oltre i limiti delle umane possibilità, in un titanico sforzo che si imponeva all'ammirazione dello stesso nemico”. Alla inevitabile resa, gli inglesi gli tributarono l'onore delle armi, come documenta Dino Ramella in Il Duca d'Aosta e gli Italiani in Africa Orientale (ed. Torino, Daniela Piazza, 2017). Su di lui v. anche Federica Saini Fasanotti, Etiopia 1936-1940. Le operazioni di polizia coloniale nelle fonti dell'Esercito Italiano, Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito, 2010.

D'ANNUNZIO MASSONE?
INIZIATO A SE STESSO


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 19 Giugno 2022 pagg. 1 e 6.

Gabriele d'Annunzio in una pubblicazione del massone torinese Giacomo Treves, che fece da tramite fra il Poeta e Domizio Torrigiani, gran maestro del Grande Oriente d'Italia. Tra quanti sottoscrissero a sostegno delle iniziative di Treves “pro-Fiume” vi fu anche il ventenne Enrico Togliatti, fratello minore del più noto Palmiro.Tra le molte leggende su Gabriele d'Annunzio (politico, stratega, occultista, profeta...) perdura quella della sua affiliazione alla Massoneria. Ne ha scritto Raffaella Canovi in L'Iniziato. D'Annunzio e la Massoneria (ed. Ianieri). Quali novità propone?

Candidato della Bellezza...
  Dopo aver documentato in un corposo saggio del 2019 l'incolmabile distanza tra d'Annunzio e il fascismo, in un nuovo robusto libro Raffaella Canovi spazza via la litania di avocazioni di Gabriele d'Annunzio alla politica, alla condotta d'armi e infine alla massoneria. Gabriele (Ariel) fu se stesso: divertito e divertente con chi lo divertiva. Scostante per tutti gli altri. Spesso anche con sé, benché incline all'autocontemplazione. Cent'anni dopo l'“impresa” che nel settembre del 1919 lo pose al centro dell'attenzione internazionale vanno fatti i conti tra il Principe di Monte Nevoso e la storia.
  Una prima considerazione s'impone. D'Annunzio influì sulla vita politica. Ma fu un “politico”? Canovi richiama all'attenzione la gracilità propositiva della sua discesa in campo nel 1897, “candidato della Bellezza” in contrapposizione al radicaleggiante e poi socialisteggiante Carlo Altobelli (San Vito Chietino, 1857-Napoli, 1917) nelle elezioni suppletive di Ortona a Mare, uno dei collegi elettorali “a noleggio” degli Abruzzi. D'Annunzio accettò la candidatura, sorretto da fautori decisi a farsene bandiera per moralizzare la lotta politica. Prevalso su Altobelli, il futuro Vate fu convalidato a fine dicembre e prestò giuramento il 28 aprile 1898. Secondo Filippo Tommaso Marinetti trasformò la fama letteraria in influenza politica, la celebrità in potere parlamentare.
  Il successo, però, gli arrise per motivi non propriamente “politici”. La maggior parte dei notabili locali era orgogliosa di poter essere rappresentata a Roma da chi anni prima aveva, sì, stigmatizzato la Bestia elettorale e non mancava occasione per esprimere disprezzo per le aule parlamentari, ma contava su una fitta rete di contatti coltivati in “salotti” influenti. Le attese in lui riposte non vennero affatto ripagate. Solo il 24 marzo 1900 l'“Eletto” intervenne alla Camera per annunciare teatralmente il suo passaggio dall'estrema destra (che non sapeva di averlo nelle sue file) alla sinistra: “uomo d'intelletto” che andava “verso la vita”. Successivamente gli elettori di Ortona a Mare ripiegarono sull'avellinese Francesco Tedesco (1853-1821), già deputato da due legislature per il collegio di Mirabella Eclano, poi giolittiano: quanto di meno dannunziano si potesse immaginare nel primo Novecento.
  A stupire non sono solo i funambolismi di un esteta “a-politico” ancor più che antiparlamentare ma gli inni e canti che gli vennero tributati dai socialisti quando il futuro Vate nelle elezioni politiche del 3 giugno 1900 si candidò a Firenze contro Tommaso Cambray-Digny, da lui irriso per il “duplice nome francioso” ma nettamente vincitore alle urne. Non furono solo i socialisti a scommettere sul poeta vagante. Lo fece anche Ettore Ferrari, repubblicano, alto dignitario del Grande Oriente d'Italia: scultore accademico, ignaro di politica.
...Oracolo conteso tra le Massonerie d'Italia
  Quei precedenti aiutano a cogliere le molte novità documentate da Canovi sullo sconcertante tiro alla fune tra le maggiori comunità massoniche nazionali (il Grande Oriente d'Italia, GOI, e la Gran Loggia d'Italia, GLI), che nel 1919-1922 gareggiarono per avere o almeno vantare d'Annunzio tra i propri affiliati.
  A rinviare le attenzioni sin dal 1900 riservategli da Ettore Ferrari il Poeta provvide con il suo volontario allontanamento dall'Italia. Poco prima di quella decisione e negli anni immediatamente seguenti, la “questione massonica” esplose al centro della vita politica italiana per intricate vicende parlamentari e culturali: la mozione presentata da Leonida Bissolati per vietare l'insegnamento della religione cattolica nella scuola elementare pubblica (febbraio 1908: con esito catastrofico per i suoi promotori); il processo massonico voluto da Ferrari a carico dei deputati massoni che non l'avevano sorretta; la lacerazione del Supremo consiglio del Rito scozzese antico e accettato in due tronconi contrapposti in Italia e all'estero; la fondazione della Gran Loggia d'Italia; la dichiarazione di incompatibilità tra iscrizione al Partito socialista italiano e militanza massonica (culminata con l'espulsione dei massoni dal partito,voluta da Benito Mussolini e approvata a larghissima maggioranza nel congresso di Ancona, il 26 aprile 1914); la drastica liquidazione della “cultura massonica” (ottima per “commercianti, maestri elementari, mediconzoli...”) da parte di Benedetto Croce e la mortificante esclusione del GOI dalle feste nel Cinquantenario del regno (marzo-ottobre 1911). Il tardivo plauso all'impresa di Tripoli, le interpellanze in Parlamento sulle interferenze dei gradi massonici con quelli militari e l'inchiesta sulla massoneria avviata dall'“Idea Nazionale”, dagli esiti molto più devastanti rispetto alle lunghe polemiche dei clericali e dei libelli antimassonici di Léo Taxil e Domenico Margiotta, inaridirono il possibile terreno di reciproca ricerca fra i litigiosi vertici massonici e il Vate.
  Nel primo Novecento e ancor più negli anni del suo “soggiorno” in Francia d'Annunzio svettò in cima alla vita letteraria italiana perché la Grande Visitatrice falciò Giosue Carducci e Giovanni Pascoli. La “triade” si ridusse a un puntino in cielo straniero.
  Con quale legna tenere accesa la fiaccola (con o senza moggio, come scrisse l'irridente Guido da Verona) della Terza Italia e rivendicarne politica estera e militare? Mentre potenziava la flotta con le corazze prodotte a Terni (vulnerabili, come poi accertato da apposite inchieste: decenni addietro ne scrisse Fabio Andriola) non si poteva certo puntare sul crepuscolare Sergio Corazzini o sul mite Guido Gozzano. Non rimaneva che Gabriele d'Annunzio, ovunque fosse, quali fossero i suoi trascorsi e le sue difficoltà a tenere a bada i creditori, spintisi a pignorarne la “Capponcina”. Il Vate parve l'unica “risorsa” nazionale, soccorsa da Luigi Albertini che ne compensava lautamente le “Canzoni” per il “Corriere della Sera”.
  A d'Annunzio venne conferito ruolo non solo metapolitico ma oracolare all'indomani dell'arrangement di Londra con il quale il 26 aprile 1915 il governo aderì alla Triplice Intesa anglo-franco-russa senza conoscerne i patti fondativi. Il presidente del Consiglio dei ministri Antonio Salandra, il ministro degli Esteri Sidney Costantino Sonnino, i loro conniventi e l'ala più fervorosa dell'interventismo ricorsero a una personalità estranea al Parlamento per sferrare l'offensiva finale contro i fautori della neutralità condizionata ed escludere dal gioco Giovanni Giolitti, capo riconosciuto della maggioranza costituzionale. Con prudenti omissis ne scrisse Ettore Cozzani che si recò a Parigi per ottenere l'impegno del Poeta a pronunciare a Quarto di Genova il discorso per lo scoprimento del monumento ai Mille garibaldini e a consegnargliene il testo per il nihil obstat del governo. Troppo sbilanciato contro l'Austria-Ungheria, risultò incompatibile con la presenza di Vittorio Emanuele III. A Salandra, del resto, il re già aveva dichiarato che se mai fosse andato alla cerimonia non avrebbe preso la parola. «Chiacchierassero» altri...
  Secondo Gino Bandini, Grande Oratore del GOI, a Quarto affluirono cinquecento labari massonici. Furono ignorati dal governo, contrario a cedere il “marchio” dell'interventismo, e dalle cronache dei giornali e delle riviste che facevano opinione, ma non passarono inosservati a d'Annunzio, attento ai messaggi cifrati. Tuttavia non vi è traccia di contatti tra il Vate e il Grande Oriente nella settimana decisiva, dall'arrivo di Giolitti a Roma (9 maggio) alle dimissioni del governo il 13, alla mancata formazione di un ministero diverso, alla conferma di Salandra il 16 e alla precipitosa partenza dello statista alla volta del Piemonte, “ben custodito e sorvegliato” da casa alla stazione Termini, nel timore che cadesse vittima dell'attentato mortale, deliberato e giurato “in società segrete” come Salvatore Barzilai riferì al confratello Ferdinando Martini, che lo annotò nel Diario il 26 maggio: «Tutto dunque era pronto e si stava per eseguire. Erano le quattro: ci fu tempo a provvedere e Giolitti partì due ore dopo.»
  Era stato d'Annunzio, appena reduce da Parigi, a incitare la folla ad appiccare il “fuoco purificatore” per liberare Roma dal «boia labbrone le cui calcagna di fuggiasco sanno le vie di Berlino». Venne saldato in un'area extraparlamentare il durevole legame tra il GOI, da dieci mesi avanguardia della cospirazione interventistica, e l'ex deputato della Bellezza?
Quanti “fratelli” nell'Impresa di Fiume
  Su quello stesso terreno si registrò la convergenza del settembre-ottobre 1919, perlustrata nei dettagli da Raffaella Canovi. La “marcia di Ronchi” ebbe lunga genesi e molti padri ma alla stretta finale d'Annunzio non contò sull'esplicito sostegno di alcun partito o gruppo parlamentare, né dei quotidiani che per anni lo avevano vezzeggiato. Le “cordate” che lo decisero a capitanare il colpo di mano si ridussero a tre: i sette granatieri di Sardegna che gli assicurarono il sostegno del loro volitivo ma esiguo reparto e i “portavoce” delle due comunità massoniche preminenti in Italia, il GOI, nella persona di Giacomo Treves, e la Gran Loggia d'Italia (GLI), tramite Attilio Prodam. Il primo ne scrisse in una Relazione da lui mai pubblicata e non priva di lapsus poetici. Il secondo vantò il suo protagonismo nel sontuoso memoriale Gli Argonauti del Carnaro, pubblicato pochi mesi dopo la morte di d'Annunzio.
  Dalle carte d'archivio studiate da Canovi emerge l'aspra contesa tra le due comunità massoniche per rivendicare la primogenitura dell'impresa, in specie nella sua fase iniziale, nell'errata illusione che il governo avrebbe risolto la crisi proclamando l'annessione della città. Questa, invece, venne esclusa all'unanimità dal “consiglio della Corona” appositamente convocato da Vittorio Emanuele III il 25 settembre 1919, rappresentativo di tutti i gruppi parlamentari, nazionalisti inclusi (i socialisti lo disertarono col pretestuoso motivo che quel consulto non era previsto dallo Statuto). Per conseguire l'intento il GOI e la GLI imboccarono la via più breve: “iniziare” d'Annunzio, per subordinarlo alle proprie direttive. Il progetto fallì perché il Vate era stato e sarebbe rimasto all'obbedienza esclusiva di se stesso. Accettò di buon grado sostegni politici, militari e finanziari sia per i legionari sia per la città e anche un po' per la sua vita dispendiosa, constatò la modestia dei denari inviati da logge italiane e italofone anche dal di là dell'Atlantico e apprezzò l'opera svolta in Fiume da dignitari della loggia “Sirius” (a cominciare dal suo venerabile, Antonio Vio), originariamente all'obbedienza della Gran Loggia Simbolica di Ungheria e poi ricostituita nell'ambito del GOI, e della “XXX Ottobre” della GLI, ma fece parte per se stesso.
  Lo provano i documenti, per chi li sa leggere. Nell'ampio carteggio con il Vate il massone torinese Giacomo Treves, fondatore della loggia “Oberdan” di Trieste e a lungo tramite fra lui e il gran maestro Domizio Torrigiani, a d'Annunzio si rivolse sempre in terza persona. Altrettanto vale per gli scambi epistolari tra Torrigiani e d'Annunzio e Alceste De Ambris, che abbozzò la Carta del Carnaro. Non compare mai il fraterno “tu”, usato (tanto per esemplificare) tra Carducci, Crispi, Lemmi e una miriade di “fratelli” veri.
Quanti  Maestri per tanti Apprendisti?
  L'opera di Canovi sollecita riflessioni che vanno oltre la mancata iniziazione del Vate e investono la storia della massoneria in Italia tra l'immediato dopoguerra e il forzato autoscioglimento delle due comunità più note. La prima concerne l'elevato numero dei “fratelli” coinvolti nella “questione di Fiume”. Tale affollamento va inquadrato nell'ambito dell'andamento delle iniziazioni. Dopo la pesante flessione registrata nel 1915-1918 per via della guerra che mobilitò cinque milioni e mezzo di maschi, i nuovi ingressi in loggia conobbero un'impennata: 16.000 ingressi nel GOI in soli quattro anni. Altrettanto avvenne nella Gran Loggia d'Italia. Però le porte dei templi erano girevoli. La politicizzazione prevalse nettamente sull'iniziatismo. Molti “fratelli” risultarono presto così assenti e/o indifferenti ai richiami a regolarizzare il dovuto da essere radiati per morosità. Fu il caso di Giuseppe Bottai (semel abbas?...). Parecchi passarono con una certa disinvoltura dall'una all'altra Obbedienza, contando sulla mancanza di informazioni tra le logge delle contrapposte comunità, avvolte nel “segreto” e quindi più infiltrabili di quanto si proponessero. Assonnamenti, espulsioni e abbruciamenti tra le colonne si moltiplicarono. Riguardarono anche dannunziani/fiumani eminenti come Eugenio Coselschi, da anni radiato dal GOI ma incline a utilizzare cifrari criptici.
  La seconda considerazione riguarda il “programma” delle due comunità massoniche. Il GOI arrivò a mettere in discussione non solo l'ideario politico-partitico soggiacente all'Istituzione originaria e la sua stessa storia in Italia, ove venne riorganizzata nel 1859-1860 per fiancheggiare la monarchia sabauda da Torino a Marsala e oltre, ma anche la forma dello Stato; sicché non deve stupire la sua mancata difesa da parte di Vittorio Emanuele III nel 1923-1925. Perché mai il re avrebbe dovuto spendersi per chi si schierava per la repubblica? Non solo. Mentre predicava la “democrazia del lavoro”, particolarmente cara a Torrigiani, il GOI fece ampio credito a “riforme sociali” dando per scontato il crepuscolo della “borghesia” e persino l'abolizione del suo cardine, il “diritto di proprietà”.
  Non sorprende che per difendersi i conservatori abbiano quindi dato spazio non ai fiancheggiatori dell'eversione (squadristi senz'arte né parte) ma direttamente al suo “duce”, politicamente più affidabile e pragmatico del Vate. Canovi conferma inoltre quanto sia stato caotico e ondivago il percorso di Torrigiani, ora preoccupato dalla “competizione” con la GLI, ora di organizzare a Roma un congresso mondiale massonico il 20 settembre 1920 (naufragato per la coincidenza con l'occupazione delle fabbriche), ora aperto alla pressante sollecitazione ad accogliere l'iniziazione femminile (propugnata dal futuro gran maestro Alessandro Tedeschi), che avrebbe precluso il suo riconoscimento da parte della Gran Loggia Unita d'Inghilterra.
  A sua volta il sovrano gran commendatore e gran maestro della GLI Raoul Palermi alternava intricati passi rituali nelle Terre Liberate e in Fiume alla coltivazione del riconoscimento della sua comunità da parte del Supremo convento mondiale scozzesista convocato in Svizzera, pago di aver fatto consegnare a d'Annunzio sciarpa e rituali dell'Ordine e di averlo fatto sapere: un omaggio ininfluente sul Vate, replicato il 24 ottobre 1922 alla Stazione Termini ove si recò di persona a “massonizzare” (invano) Mussolini, in transito dal convegno fascista di Napoli a Milano. 
  Le due comunità, va aggiunto, erano impegnate nella defatigante trattativa per una riunificazione che non avvenne né allora né poi. Chi era consapevole del proprio ruolo nazionale e universale non poteva ignorare la vaghezza di quei certami e tenersene lontano, come appunto fece il Vate. A quel modo però le Massonerie lo sopravvalutarono e lo sovraesposero quando a fine ottobre 1922 venne l'ora di schierarsi. Invocato da Luigi Facta, d'Annunzio rimase “suso in bell'Italia”. Il rivoluzionario Mussolini andò invece da Milano all'Hotel Savoia in Roma a indossare l'abito di circostanza per presentare al Re l'Italia di Vittorio Veneto. Vittorio Emanuele III lo mandò a farsi... “bene-dire” dalle Camere, col viatico delle comunità massoniche che dopo appena tre mesi e mezzo furono messe al bando dal partito.
  Certo anche il Vate qualche cosa sapeva di cifrari esoterici. Come ne masticavano massonofagi che non meritano di essere ricordati. I padri della Compagnia di Gesù ne sapevano più di tutti i martinisti.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Gabriele d'Annunzio in una pubblicazione del massone torinese Giacomo Treves, che fece da tramite fra il Poeta e Domizio Torrigiani, gran maestro del Grande Oriente d'Italia. Tra quanti sottoscrissero a sostegno delle iniziative di Treves “pro-Fiume” vi fu anche il ventenne Enrico Togliatti, fratello minore del più noto Palmiro.


AMEDEO DI SAVOIA DUCA DI AOSTA
NELLA STORIA D'ITALIA


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 5 Giugno 2022 pagg. 1 e 6.


Amedeo di Savoia, Duca di Savoia e di Aosta, e la Duchessa Silvia. Per approfondirne la figura e le opere v. Danila Satta e Amedeo di Savoia, Cifra Reale, La Compagnia del Libro, 2014 e Amedeo di Savoia, Proposta per l'Italia, pref. di Marcello Veneziani, Roma, Il Minotauro, 2002. “Vivant”, diretto da Fabrizio Antonielli d'Oulx, pubblica un denso volume a più voci sulla vita del Duca.Memoria del Principe Amedeo di Savoia
Sabato 4 giugno 2022 il Principe Amedeo di Savoia, Duca di Savoia e di Aosta, è stato ricordato nella Basilica di Superga ove riposa tra gli Avi e i Re di Sardegna. Il feretro vi giunse un mese dopo i funerali, celebrati il 4 giugno 2021 nella fiorentina Basilica di San Miniato al Monte alla presenza del successore, Principe Aimone di Savoia, Duca di Savoia e di Aosta, che ne ha ereditato e assunto rango e titoli.

Qual è la “lezione” del Duca?
La morte improvvisa del Principe Amedeo di Savoia il 1° giugno 2021 ha riportato al centro dell'attenzione alcune questioni di interesse ampio e meritevole di riflessione: i legami di parentela tra i Savoia e le altre Case europee; la successione dinastica al proprio interno e il suo nesso con la storia generale d'Italia, prima e dopo la Costituzione della Repubblica in vigore dal 1° gennaio 1948.
   Per comprendere i molteplici aspetti di ciascuno di questi temi è utile ripercorrere rapidamente il profilo del Principe Amedeo. Egli fu un patriota italiano di formazione e cultura universale, per destino e per scelta. Nacque da Irene di Grecia il 27 settembre 1943 a Villa Cisterna, presso Firenze, poco dopo un pesante bombardamento “alleato”. Il padre, Aimone di Savoia (1900-1948, designato re Croazia nel 1941: ne ha scritto Giulio Vignoli), era forzatamente lontano. Esercitava il comando militare ricoperto per la riscossa dell'Italia dopo l'armistizio del 3/29 settembre 1943. Da tre settimane il governo presieduto dal Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio, nominato al posto di Benito Mussolini il 25 luglio precedente su iniziativa personale di Vittorio Emanuele III (al quale si deve la fine del “regime”), si era trasferito da Roma a Brindisi con il re, la regina Elena, il principe ereditario Umberto di Piemonte, alcuni ministri e i vertici militari delle Forze Armate. Per gli anglo-americani, che operavano a nome delle Nazioni Unite in guerra contro la Germania e i suoi alleati, Vittorio Emanuele III rappresentava la continuità dello Stato. L'Italia era il Re, con i suoi ambasciatori, generali, alti funzionari; e con il fitto reticolo di trattati, accordi, convenzioni, frutto di secoli di storia, da “aggiornare” nel quadro politico-militare della guerra in corso. Londra, Washington e l'Unione sovietica avevano quale unico referente il Regno d'Italia, non i partiti appena affioranti né le loro dispute. Il re era il garante dell'applicazione della “resa senza condizioni”. Per quanto dura, questa aveva riconosciuto la Corona quale interlocutore dei vincitori. Da lì, pur tra enormi difficoltà, era iniziata la riorganizzazione dell'Italia, impresa gigantesca incardinata sui Corpi dello Stato: le Forze Armate, i diplomatici, i funzionari legati al giuramento di fedeltà al Re e ai suoi legittimi successori, ovvero all'Italia nata dal Risorgimento.

Regalità di un Patriota 
Appena nato, Amedeo divenne una preda. Per prudenza (come si legge in Cifra Reale di Danila Satta e Amedeo di Savoia, ed. La Compagnia del libro), la madre ne fece subito rilevare le impronte digitali. Costituita la Repubblica sociale italiana (il cui governo, dopo un passaggio alla mussoliniana Rocca delle Caminate, tenne la sua prima riunione nella sede dell'Ambasciata tedesca a Roma, in modo che fosse chiaro chi davvero ne reggeva le briglie), Mussolini non osò nulla nei suoi confronti. Il neonato Aimone era il nipote di Amedeo di Savoia, III duca di Aosta, viceré di Etiopia, morto prigioniero degli inglesi: un mito per tutti gli italiani legati nel culto della Patria.
  Però il vendicativo Adolf Hitler, che considerava l'Italia uno stato vassallo, non essendo riuscito a impadronirsi della Famiglia Reale, lo teneva sotto osservazione. Il 26 luglio 1944 Heinrich Himmler ordinò la sua traduzione con la madre da Firenze a Hirschegg, presso Gratz, in Austria, ove erano stipati centinaia di uomini politici e militari deportati da vari Paesi e tedeschi invisi al regime nazionalsocialista. I nazisti volevano solo tenerlo ostaggio tra i molti o farne un'alternativa al Re e al principe ereditario? 
   Dopo il crollo della Germania e varie vicissitudini, il 7 luglio 1945 la Principessa rientrò in Italia con il piccolo Amedeo e si stabilì a Fiesole con il Consorte, Aimone, IV duca d'Aosta, ingiustamente rimosso per livore “politico” dal ruolo che gli competeva.

  Come gli altri membri di Casa Savoia, il duca Aimone lasciò l'Italia di concerto con Umberto II, che all'indomani del discusso referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946 e dell'arbitrario conferimento dell'esercizio dei poteri di capo dello Stato al democristiano Alcide De Gasperi, il 13 giugno partì per il Portogallo protestando contro il “gesto rivoluzionario”. In realtà fu un vero e proprio colpo di Stato, poiché l'esito della votazione non era ancora definitivo. I risultati del referendum, infatti, vennero comunicati solo il 18 giugno nel corso della seconda adunanza della Corte Suprema di Cassazione, preceduta dalla paradossale udienza nella quale dodici giudici su diciotto stabilirono che per “votante” deve intendersi non già chi vota, bensì chi esprime un voto valido: un colpo di stato contro la lingua italiana.
  Il Duca Aimone di Aosta si trasferì in Argentina. Vi morì due anni dopo. Quando le sinistre monarcofaghe lamentarono che il principino suo figlio rimaneva in Italia, come la nonna, Elena di Orléans, vedova di Emanuele Filiberto, mai mossasi dalla Reggia napoletana di Capodimonte, Alcide De Gasperi osservò sommessamente che l'Italia non poteva averne paura. Forse un poco arrossì per quanto egli stesso e il suo partito avevano fatto ai danni della Casa che aveva fondato l'Italia.  
   La XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione in vigore dal 1° gennaio 1948 vietò il rientro e il soggiorno in Italia agli ex re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai discendenti maschi. A quel modo, la Costituente avallò la legge salica (successione di maschio in maschio), vigente da nove secoli in Casa Savoia, ma, ignorando le regie patenti di Vittorio Amedeo III (13 settembre 1782), confuse “discendente” con “erede al trono”. Il primo è un figlio (che può essere diseredato), l'altro è chi “automaticamente” succede al sovrano in forza delle regole interne alla Casa: norme immodificabili, proprio come la legge salica.
  Aimone di Aosta era pronipote di Amedeo, primo Duca di Aosta. Figlio di Vittorio Emanuele II e di Adelaide d'Asburgo e fratello minore di Umberto I, re d'Italia dal 1878 al 1900, poco più che ventenne Amedeo di Savoia sulla fine del 1870 assunse la corona di Spagna su designazione delle Cortes di Madrid. Il suo regno non nacque sotto i migliori auspici. Il valoroso generale Prim y Pratz, suo principale fautore, vittima di un attentato, morì in circostanze tuttora misteriose. “Don Amadeo Primero” depose la corona dopo vari attentati alla sua vita (una volta mentre era in compagnia della consorte, la principessa Maria Vittoria della Cisterna) e rientrò nella linea di successione al trono d'Italia, mentre la Spagna precipitava nel caos della prima delle due sue disastrose repubbliche, chiusa con il ritorno di un Borbone: Alfonso XII.

   Il primogenito di Amedeo, l'aitante Emanuele Filiberto, fu comandante invitto della III Armata durante la Grande Guerra ed è sepolto con centomila compagni d'arme a Redipuglia. Fantasie e pettegolezzi ricamarono intorno alla sua contrapposizione al cugino e coetaneo Vittorio Emanuele III. In realtà, asceso al trono perché suo padre, Umberto I, era stato assassinato a Monza nel 1900, il Re considerò sempre lui e i suoi fratelli (Vittorio Emanuele, conte di Torino, Luigi Amedeo, duca degli Abruzzi, e Umberto, conte di Salemi)  riserva preziosa della Casa. Durante la Grande Guerra, all'indomani della ritirata dall'Isonzo al Piave (24 ottobre-8 novembre 1917) il Re non conferì a Emanuele Filiberto il comando supremo in successione a Luigi Cadorna proprio perché, in caso di ulteriore sconfitta e di sua eventuale abdicazione (sul modello di Carlo Alberto dopo Novara: 23 marzo 1849), il cugino avrebbe dovuto assumere la Reggenza e vegliare su Umberto di Piemonte (1904-1983), che solo nel 1922 raggiunse l'età per assumere la corona.
   Altrettanto fantasiosa è l'insinuazione che nell'ottobre 1922 il Duca di Aosta abbia tramato con i quadrumviri del partito fascista in vista della rimozione di Vittorio Emanuele III, il re del 24 maggio e di Peschiera. Per i vertici delle Forze Armate e i partiti costituzionali l'Italia non era un paese “balcanico”: si fondava sullo Statuto, che dal 1848 aveva minutamente previsto e regolamentato quanto necessario.

   Patriota per destino, Amedeo d’Aosta lo fu anche per propria scelta, quale cittadino dello Stato d'Italia. “Governato” dall'Ammiraglio Giulio Cerrina Feroni, studente al Collegio delle Querce di Firenze, allievo del Collegio Navale Morosini a Venezia e dell'Accademia Navale di Livorno (il cui motto è “Onore e Patria”, come ricorda nelle Memorie l'Ammiraglio Antonino Cocco, indimenticabile presidente dell'Istituto nazionale per la Guardia d'Onore alle Reali Tombe del Pantheon), ufficiale di complemento nella Marina Militare in missione nel Mediterraneo e nell'Atlantico, il Principe si laureò in scienze politiche all'Università di Firenze. 
   Dopo il cambio della forma dello Stato rappresentò ripetutamente l'esule Umberto II in cerimonie e manifestazioni che coniugavano nostalgia della Tradizione monarchica e culto dell'Italia unita. Viaggiatore instancabile, raffinato studioso di botanica (in specie di piante esotiche, in particolare delle “succulente”), raggiunse prestigio internazionale e per nomina governativa fu presidente del comitato di gestione della Riserva naturale dell'isola di Vivara. 
Come si è veduto anche in occasione delle sue esequie a Firenze, della sua sepoltura a Superga un anno addietro e della rievocazione memoriale del 4 giugno 2022, egli divenne ed è punto di riferimento non solo di monarchici ma dei cultori dell'unità nazionale, al di fuori e al di sopra delle fazioni, all'insegna del motto “Italia innanzi tutto” ripetuto da Vittorio Emanuele III e da Umberto II.

Casa Savoia e l'Italia: unite nella e dalla Storia
Nel corso dei secoli la Casa di Savoia ha contratto legami matrimoniali con tutte le Case regnanti d'Europa: un percorso che divenne ancora più articolato e mirato quando il Duca di Savoia fu insignito del titolo di Vicario del Sacro Romano Impero in Italia. L'intreccio risultò fondamentale nell'età delle guerre franco-ispane per l'egemonia sull'Italia. Il Ducato di Savoia rimase l'unico Stato indipendente, mentre gli altri erano direttamente o indirettamente dipendenti dagli Asburgo o dai Borbone. I sovrani sabaudi si unirono sia agli Asburgo di Spagna, quando sul dominio di Madrid non tramontava mai il sole, sia del ramo d'Austria, che conservò il titolo imperiale; sia con i Borbone di Francia. Ne nacque una geometria variabile, più volte narrata negli aspetti meno politicamente rilevanti e quindi meritevole di nuovi approfondimenti in una visione più alta della storia. Con l'ascesa di Vittorio Amedeo II al trono di Sicilia nel 1713 (poi commutato con quello di Sardegna) e l'incoronazione di Carlo Alberto di Savoia-Carignano nel 1831 (dopo l'estinzione dell'ultimo suo discendente diretto del ramo precedente), la Casa si mosse in linea con i nuovi scenari di un’Europa che in un secolo creò imperi coloniali immensi negli spazi afro-asiatici e nell'Oceania. Ancora “imparentati” con gli Asburgo, i Borbone, i Braganza e i Saxe-Coburgo-Gotha, con le nozze di Carlo Gerolamo Bonaparte e Clotilde, figlia di Vittorio Emanuele II, i Savoia sancirono il legame anche con i “discendenti” di Napoleone I. La strategia matrimoniale continuò con le nozze di Vittorio Emanuele III e di Umberto II: sponsali anche con principesse e principi di confessione ortodossa o riformata (la Regina Elena di Montenegro, il principe Filippo d'Assia, lo zar dei Bulgari...). Bene si comprende dunque che Vittorio Emanuele III fece il possibile per scongiurare l'assurdità approvata dalle Camere nel dicembre 1938 con le leggi per la “difesa della stirpe”, unite a una campagna d'opinione incardinata sul mito di una “razza italiana” priva di qualsiasi base scientifica, culturale, costumale e storiografica. Proprio la sua Casa dimostrava l'opposto; ma già lo aveva detto Vittorio Emanuele II, che nel primo discorso da Re si rivolse ai “popoli d'Italia”. Altrettanto hanno mostrato nel tempo i componenti della Casa di Savoia Aosta.

  Il passaggio del rango di Capo della Real Casa dal principe Amedeo a suo figlio Aimone conduce a riflettere sul fatto che le leggi domestiche dei Savoia, come di tutte le altre dinastie reali, sono interne e non soggette a interferenze né da parte di poteri terzi (per esempio governi stranieri o di chi pro tempore esercita le funzioni sovrane in Italia), né da parte di chi, pur appartenendo alla famiglia, non ha ruoli dinastici di governo nella e sulla Casa.

  Va infine ricordato che il legame tra la Casa di Savoia e la storia d'Italia non si riduce alla recente posticcia cartellonistica che promuove la visita a luoghi sabaudi come fossero nati per germinazione spontanea o tartufi scoperti casualmente dai “Beni Culturali”. La storia è Memoria. È consapevolezza dei tempi lunghi, della collocazione del Paese nelle sempre mutevoli relazioni tra le grandi potenze, nel cui novero l'Italia figurò di pieno diritto nell’età vittorioemanuelina (1900-1946). Motivo in più per accogliere l'esortazione a conoscere la storia vera, al tempo suo lanciata da Ugo Foscolo, il “veneziano” nativo di Zante, contro la tentazione dell'oblio e la sua deformazione per interessi di parte.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Amedeo di Savoia, Duca di Savoia e di Aosta, e la Duchessa Silvia. Per approfondirne la figura e le opere v. Danila Satta e Amedeo di Savoia, Cifra Reale, La Compagnia del Libro, 2014 e Amedeo di Savoia, Proposta per l'Italia, pref. di Marcello Veneziani, Roma, Il Minotauro, 2002. “Vivant”, diretto da Fabrizio Antonielli d'Oulx, pubblica un denso volume a più voci sulla vita del Duca.


Vite Parallele
NUNZIO NASI/GIOVANNI GIOLITTI


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 29 Maggio 2022 pagg. 1 e 6.

Nunzio Nasi ritratto da Giacomo Balla. Giolitti è stato rievocato al Museo regionale Pepoli di Trapani per iniziava della Libera Università “Tito Marrone”, animata da Antonino (Nuccio) Tobia (autore di “La storia presa per la gola”, ed. Peppe Giuffrè: delizioso intreccio di storia e gastronomia) e dall'infaticabile Vincenzo Vitrano. Il Piemonte non ha mai organizzato su Giolitti una Mostra paragonabile a quella diretta da Roberto Garufi a Trapani su Nasi. L'unica rassegna meritevole di memoria rimane quella di vent'anni addietro, “Giolitti nella satira”, curata da Dino Aloi.Il Grande ritorno di Nunzio Nasi e la ferocia di Giolitti
   Ha sorriso per mesi sotto i baffi Nunzio Nasi, ritratto nei dipinti e nei busti esposti alla Mostra coordinata da Roberto Garufi, di concerto con Vincenzo Cerami e studiosi di classe (Angela Morabito, Daniela Scandariato...), nelle sontuose sale del Museo regionale di Trapani intitolato ad Agostino Pepoli. Ieratico e ironico, richiamato in vita da carte d'archivio, mobilio tratto dalla sua villa Lo Scoglio, uniforme di Ministro, un oceano di fotografie e dalle rigorose didascalie che accompagnarono i visitatori, Nasi ha visto sfilare cittadini, scolaresche e insegnanti saliti lungo il secentesco “Scalone magnifico” alla scoperta dell'uomo, del politico e dei suoi gusti di raffinato collezionista d'arte, per decenni al centro dell'attenzione europea. 
   Dal 1904 lo “scandalo Nasi” squassò per una decina d’anni l'agone della “politica” italiana: una goccia d'acqua nel mare delle guerre tribali tra parlamentari in lotta per il potere supremo. In questo dopoguerra, sommerso da decenni di polemiche e da antiche condanne, benché a lungo sia stato il deputato più votato della Trinacria, poco a poco Nasi scivolò nell'oblio. Eppure, a ragion veduta, fu la bandiera non solo della “sicilianità” ma della democrazia meridionale contrapposta al governo romano-centrico manovrato dal piemontese Giovanni Giolitti (Mondovì, 1842-Cavour, 1928).
    A detta del generale Arturo Cittadini, aiutante di campo di Vittorio Emanuele III, l'“uomo di Dronero” (come Giolitti venne detto dal suo collegio elettorale) somigliava all'imperatore romano Tiberio (27-37 d.Cr.): «aveva la sua grandiosa statura, il disprezzo degli uomini, la conoscenza dei loro vizi, la durezza del cuore, una certa onestà personale, il disdegno delle lodi palesi, la facoltà di governare da lontano (Tiberio lo fece da Capri, NdA), il rifuggire la folla. Ma la sua facoltà principale, come conduttore di uomini parlamentari, era sempre quella di sentirsi padrone. Era in questo aiutato dalla bassezza degli altri, che si sentivano servi. Uomo di passioni, ma in minima parte di passioni generose, inesorabile contro i nemici e fedelissimo con gli amici.»
   Per comprendere la ferocia del conflitto tra Giolitti e Nasi occorre tracciare un breve profilo del politico siciliano. Nunzio Nasi (Trapani, 2 aprile 1850- Erice, 17 settembre 1935), avvocato, docente di filosofia del diritto, consigliere comunale dal 1883, provinciale due anni dopo e deputato dal 1886, militò inizialmente su sponda radicale legalitaria sulle orme del conterraneo Francesco Crispi, capofila della Sinistra storica, presidente della Camera dei deputati, ministro dell'Interno con Agostino Depretis e presidente del Consiglio dal 1887 al 1891 e nuovamente dal 1893 al 1896, quando il negus Menelik sbaragliò presso Adua il corpo di spedizione italiano comandato da Oreste Baratieri. 
   Di otto anni più anziano, Giolitti, laureato in legge nel 1861, in servizio al ministero della Giustizia, “prestato” a quello delle Finanze quando titolare ne era Quintino Sella, segretario generale della Corte dei conti nel 1877, consigliere di Stato e deputato dal 1882, ministro del Tesoro con Crispi dal 1890, nel 1892 presidente del Consiglio in successione al palermitano Antonio di Rudinì (avversato da Nasi), l'anno dopo fu travolto dall'aggrovigliato “scandalo della Banca Romana”, vero e proprio verminaio di meschinità. Costretto alle dimissioni, isolato e schivato da tutti, al culmine delle polemiche Giolitti riparò prudentemente a Berlino nel timore di essere arrestato, con conseguenze “irreversibili” come era accaduto ad altri. Rientrò in Italia quando a suo carico venne spiccato un mandato di comparizione senza neppure capo d'imputazione. Così all'epoca funzionava la giustizia. Non per caso Giolitti propugnò la separazione della magistratura inquirente, non di rado succuba dei “politici”, e giudicante, di cui ancor oggi tanto e invano si discute.
Insieme per la riscossa liberaldemocratica
Contrario alla dura repressione dei fasci siciliani nel 1893-1894 attuata da  Crispi (che li riteneva sobillati dalla Francia), nel luglio 1899 con Giuseppe Zanardelli, il venerando Michele Coppino, il gran maestro del Grande Oriente d'Italia Ernesto Nathan e lo stesso Giolitti, anche Nasi (già ministro di Poste e telegrafi nel primo governo Pelloux, dal giugno 1898 al  maggio 1899) partecipò alla riunione di cinquanta deputati di area liberaldemocratica decisi a difendere le prerogative del Parlamento contro il presidente del Consiglio, Luigi Pelloux. 
   Dopo il governo presieduto dall'ottantenne energico Giuseppe Saracco, Vittorio Emanuele III, asceso al trono all'assassinio del padre Umberto I, affidò la formazione del governo al bresciano Zanardelli con un programma di democrazia avanzata. Presidente mancato (secondo alcune voci), Nasi fu nominato ministro della Pubblica istruzione anziché dell'Interno, dicastero affidato a Giolitti. Il governo nacque all'insegna del rinnovamento liberaldemocratico: libertà di scioperi “economici”, mediati dai pubblici poteri a favore della parte più debole (braccianti e operai), ma  severo divieto di interruzione dei pubblici servizi, anche con la loro militarizzazione (ferrovie, poste, segretari comunali, docenti...).Tra i ministri più lungimiranti, il 3 agosto 1901 Leone Wollemborg (Padova, 1859-Camposampiero, Padova, 1932) propose in consiglio dei ministri un piano di innovative riforme fiscali. Non venne accettato. Politico nel senso alto e vero della parola (attento cioè a studiare e a risolvere problemi anziché a occupare poltrone), si dimise e tornò a dedicarsi al credito rurale, di cui era e rimase pioniere pugnace, in competizione con le banche cooperative, che riteneva (non a torto) volte al profitto e quindi simili a quelle ordinarie. 
  Uscito di scena Wollemborg, iniziò la guerra per la successione all'anziano Zanardelli. Essa divenne più incalzante quando il presidente ventilò l'introduzione del divorzio su proposta del deputato sardo Francesco Cocco Ortu (1842-1929). Ebbe l'assenso del re, ma gli ecclesiastici insorsero e in poche settimane raccolsero tre milioni di firme contrarie. Il 21 giugno 1903 Giolitti si dimise dall'Interno. Riteneva imprudente sfidare i cattolici nel timore che si organizzassero in partito, ma respingeva interferenze della Chiesa nella vita pubblica.
Un massone dalla Minerva alla condanna 
  Iniziato massone nel 1893 (lo stesso anno del catanese Antonino Paternò Castello, marchese di San Giuliano: il miglior ministro degli Esteri a giudizio di Vittorio Emanuele III), venerabile della loggia “Roma” insediata nella capitale e presidente del Rito Simbolico Italiano, Nasi contava su una rete di consensi che andava molto oltre i confini nazionali, forte della fratellanza massonica, con speciali sponde in Francia, Spagna e nelle Americhe, zeppe di logge italofone nell'età della grande emigrazione.
   Politico accorto, egli ebbe piena consapevolezza della centralità civile di quella carica. Non si sentiva affatto “ministro dei bidelli” (come di sé mi confidò un parlamentare democristiano assegnato contro le sue attese a Viale Trastevere). Era anzi strategico. Varò riforme di vasta risonanza a vantaggio dei maestri elementari, istituì i direttori didattici, mostrò simpatie per le organizzazioni studentesche, come la “Corda Fratres”, federazione universitaria internazionale d'impronta massonica, e le rivendicazioni patriottiche, molto vivaci nel 1903, quando si registrarono scontri all'Università di Innsbruck tra vetero asburgici e studenti che rivendicavano l'istituzione di una Università italofona al di qua delle Alpi. Nell'esercizio delle sue funzioni percorse instancabilmente l'Italia, anche per ispezioni e convegni di docenti e, come documentato dalla ricca Mostra al Museo Pepoli, promosse la propria immagine con tutti i mezzi atti a formare un'opinione.    
   Ritratto dallo scultore Ettore Ximenes, autore del famoso “Garibaldi a cavallo” scoperto al Gianicolo il XX Settembre 1895, e dal pittore divisionista Giacomo Balla (Torino, 1871-Roma,1958), che lo immortalò alla scrivania di ministro e poi ritrasse Nathan, Nasi mirò a creare un vasto seguito di insegnanti, docenti, studiosi e “patrioti” destinati a divenire i “quadri” di un partito demo-popolare. Ebbe il plauso del “fratello” Giosue Carducci, maestro e vate della Nuova Italia. Profuse oratoria faconda e vigore giovanile, lontano dalla compassata austerità di “Palamidone”, uomo delle istituzioni. Mentre per Giolitti lo Stato era il volano per l'emancipazione dei derelitti, per Nasi la società stessa doveva ergersi a Stato. 
   Alla fine del 1903, in coincidenza con le dimissioni di Zanardelli e il ritorno di Giolitti alla presidenza del Consiglio, Nasi divenne bersaglio dell'accusa di malversazioni, propalate dal “Corriere della Sera” in responsorio con socialisti (Leonida Bissolati, lo stesso Filippo Turati) e radicali (Ettore Sacchi), preoccupati dalla competizione dei democratici di matrice risorgimentale, patriottica e autenticamente “laica”, alternativa alla lotta di classe, al materialismo strisciante e al rifiuto delle istituzioni che avevano guidato l'unificazione nazionale, monarchia sabauda alla testa. Travolto dalla violenta campagna scandalistica, il 22 marzo 1904 Nasi fu inchiodato dall'“inchiesta” condotta dal deputato conterraneo e suo antagonista Vincenzo Saporito. La Relazione elencò sprechi e insinuò scorrettezze: nulla di veramente clamoroso. Qualche rimborso spesa non abbastanza certificato o per missioni “politiche” spacciate per ministeriali. Come fosse oggi, la Relazione arrivò ai giornali prima che in Aula. A maggio il magistrato ottenne dalla Camera l'autorizzazione ad arrestare Nasi. Trasferitosi prudentemente a Parigi, dopo un iniziale comprensibile scoramento organizzò la difesa, orchestrata da suo figlio, Virgilio, ma cozzò contro l'ormai invincibile onnipotenza di Giolitti, il 20 settembre 1916 creato Cavaliere della Santissima Annunziata, comportante il rango di “cugino del Re”. 
  Nella sostanza l'addebito nei confronti di Nasi si ridusse a un “ammanco” (da accertare analiticamente) di 1.158 lire. Ma con la Relazione Saporito Giolitti non si sbarazzò solo di Nasi. Impallinò un altro possibile contendente, il conterraneo Tancredi Galimberti, deputato di Cuneo, già ministro di Poste e telegrafi nel governo Zanardelli, originariamente radicaleggiante, cognato di Carlo Schanzer, rampollo di un alto dignitario massonico. “Deplorato” per alcune irregolarità e sospettato di aver utilizzato fondi ministeriali addirittura per il viaggio di nozze, Galimberti s’incamminò dalla sponda anticlericale a quella dei cattolici moderati, sino al 1913 quando venne sconfitto alle elezioni dal trentunenne Marcello Soleri, nuovo “delfino” di Giolitti e futuro ministro della Guerra nel 1922 e del Tesoro nel 1944-1945. Finì fiancheggiatore del fascismo e senatore. Suo figlio, Olimpio Tancredi (“Duccio”), apprezzato da Ferrucci Parri, fu comandante delle formazioni “Giustizia e Libertà” in Piemonte e venne trucidato il 3 dicembre 1944 da scagnozzi dell'Ufficio investigativo repubblichino.
   Nasi, invece, continuò a contare sulla compatta fedeltà dell'elettorato di Trapani e di larga parte della Sicilia. Eletto e rieletto, malgrado gli annullamenti pronunciati dalla Camera, supina al suo demiurgo, il 15 luglio 1907 fu condannato dal Senato costituito in Alta Corte di giustizia e presieduto dal giolittiano Tancredi Canonico. Arrestato, detenuto pochi giorni a Regina Coeli e assegnato ai domiciliari, fu ulteriormente condannato in Corte d'assise a 11 mesi e 20 giorni di detenzione e all'interdizione dai pubblici uffici per 4 anni. Ancora una volta dichiarato decaduto da deputato il 24 marzo, il 22 luglio 1908 tornò in nave da Napoli a Trapani, ove fu accolto da una folla strabocchevole che in lui vedeva il campione della democrazia meridionale. 
  Eletto nuovamente nel 1909 e nel 1913 Nasi ripeteva che “l'Italia incomincia da Trapani”. I suoi fedelissimi gli fecero dono della Villa detta Lo Scoglio, proprio dove mugghia l'incontro tra il Tirreno e il Canale di Sicilia. Lì lo statista si raccoglieva in meditazione. Parte della sua biblioteca è stata esposta alla Mostra del Museo di Palazzo Pepoli; parte è nella villa, dagli infissi cadenti e dalle iscrizioni votive illeggibili.   
  Nel corso della Grande Guerra Nasi intervenne nella seduta della Camera in “comitato segreto” (giugno 1917). All'indomani del conflitto fu rieletto deputato. Mentre il settantenne Giolitti, annoiato dalle dispute parlamentari (come scriveva alla moglie Rosa Sobrero), lasciò Roma per il “vecchio Piemonte”, lo statista siciliano rimase sulla breccia contro l'introduzione del riparto proporzionale dei seggi sulla base dei voti ottenuti dai partiti, voluta dal siciliano don Sturzo e dai socialisti. Solo anni dopo Giolitti bollò la “maledetta proporzionale” quale causa del tramonto dell'intera dirigenza liberale, anzi dell'Italia nata dal Risorgimento. Con la consueta acuta prontezza, Nasi lo comprese prima di lui. Già fondatore dell'Unione Democratica, dopo l'avvento del governo di coalizione nazionale dal 31 ottobre 1922 presieduto da Mussolini con il giolittiano Teofilo di Montelera ministro dell'Industria (approvato alla Camera anche da Giolitti e al Senato da Luigi Einaudi), Nasi aderì alla Democrazia Sociale capitanata dal duca Giovanni Antonio Colonna di Cesarò, massone, teosofo e bastione contro la fascistizzazione della Sicilia.
Post fata resurgit...    
    Più affini di quanto sia stato colto da molti studiosi (pregevoli le opere di Salvatore Costanza, che ebbe a disposizione l'archivio di Nasi) i due statisti ebbero in comune la scelta politica fondamentale: nell'ora della sventura elessero a propri unici veri giudici i loro elettori, che li conoscevano intus et in cute, non si facevano imbeccare da quotidiani d'opinione corrivi a manovre scandalistiche (come il “Corriere della Sera”) e se ne fidavano. Vennero premiati con suffragi larghissimi e ripetuti. Nel 1924 il listino liberale giolittiano, alternativo al “listone” nazionale fascista nel quale figurarono anche Orlando e De Nicola, in Piemonte ottenne tre seggi. In Sicilia la Democrazia sociale resse molto meglio. Venne poi stroncata con la violenza, i brogli e l'azione congiunta del prefetto Cesare Mori, dei tribunali e dello squadrismo locale. Alla morte del padre, Virgilio Nasi ne pubblicò le Memorie, ormai introvabili e meritevoli di un'edizione critica.
  L'altra affinità è evidenziata da una “storia” a due facce. Né Giolitti né Nasi pervennero a dar vita a un autentico Partito liberale italiano. Questo nacque nell'ottobre 1922, fuori tempo massimo e non li ebbe nelle loro file. Mentre il genero di Giolitti, Mario Chiaraviglio, massone di rito simbolico e già deputato, rinunciò alla carriera politica e si trasferì in Argentina, suo nipote Antonio raggiunse Giorgio Amendola nel Partito comunista italiano dominato da Palmiro Togliatti. Ne uscì solo molto dopo la repressione dell'insurrezione ungherese per mano dei carri armati mandati da Kruscev.
Virgilio Nasi fu eletto alla Costituente e alla prima legislatura repubblicana nel Fronte popolare socialcomunista nelle cui file confluirono anche ex militanti del Partito d'azione contrariati dalla deriva moderata ma al tempo stesso costretti a trangugiare l'inclusione dei Patti lateranensi nella Costituzione repubblicana per l'accordo tra democristiani e comunisti (contro i soli Concetto Marchese e Teresa Noce). Pur così diversi Nasi e Giolitti sono due volti di una storia politica meritevole di essere riproposta. Trapani ha fatto bene la sua parte con la Mostra al Museo Pepoli, con soddisfazione postuma di Nasi e della sua gente.
Aldo A. Mola       
        
DIDASCALIA: Nunzio Nasi ritratto da Giacomo Balla. Giolitti è stato rievocato al Museo regionale Pepoli di Trapani per iniziava della Libera Università “Tito Marrone”, animata da Antonino (Nuccio) Tobia (autore di “La storia presa per la gola”, ed. Peppe Giuffrè: delizioso intreccio di storia e gastronomia) e dall'infaticabile Vincenzo Vitrano. Il Piemonte non ha mai organizzato su Giolitti una Mostra paragonabile a quella diretta da Roberto Garufi a Trapani su Nasi. L'unica rassegna meritevole di memoria rimane quella di vent'anni addietro, “Giolitti nella satira”, curata da Dino Aloi.

ALLA RICERCA DELLA MONARCHIA PERDUTA
Continuità della storia d'Italia


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 22 Maggio 2022 pagg. 1 e 6.
 
 La Corona Ferrea, emblema della regalità in Italia. Fu “calcata” da Napoleone I nell'incoronazione del 1805 a Milano e venne recata dietro le bare di Vittorio Emanuele II (1878) e di Umberto I (1900). Alle 16.30 di martedì 24 maggio (data evocativa) ne parleranno al Teatro del Casinò di Sanremo Marzia Taruffi, responsabile dei Martedì letterari, e il saggista Matteo Moraglio, che presentano il libro di Aldo A. Mola “Vittorio  Emanuele III. Il Re discusso”, edito nella Biblioteca Storica di “il Giornale”, collana “I Protagonisti”.  Arduino episcopicida
   Nel 1002 Arduino, marchese di Ivrea, si fece incoronare re d'Italia. Non fu il primo né l'ultimo nei secoli a tentare l'impresa. Tornò celebre perché a metà Ottocento fu elevato a precursore logico-cronologico del regno d'Italia, costituito il 14/17 marzo 1861. Venne lasciato sotto traccia che aveva ucciso il vescovo di Ivrea. Era fatalità (o necessità?) che la Corona d'Italia dovesse fare i conti con il potere ecclesiastico.
  La Monarchia. Un Soggetto eluso. Senza un re, Vittorio Emanuele II di Savoia, l'Italia non sarebbe mai divenuta uno Stato unitario. Tuttavia la monarchia non ha mai avuto “buona stampa”, anzi a lungo, anche in età monarchica non ne ebbe alcuna. Chi rimpiangeva l'Impero, chi la repubblica, chi la protezione di questa o quella potenza straniera, meglio se lontana, perché così i notabili locali avevano briglie sciolte, come mezzadri.
  La narrazione ha appiattito la storia e l'identità stessa della “monarchia”. Dalla manualistica e dai “media” i più sono stati indotti a credere che il Re della Nuova Italia fosse un tiranno circondato dal (mai esistito) “partito di Corte”. Non si distinse tra Corona, Casa Reale, persona del Re, governo e parlamento, tra lo Stato e chi pro tempore ne regge le sorti.Fare chiarezza sull'argomento non vuol dire affatto essere cortigiani o “nostalgici”. Significa capire come funziona lo Stato, qule ne sia la forma.
  La labilità del concetto di monarchia, di cui scrisse anche Julius Evola, molto dipende dalla modestia culturale dei “monarchisti”. Al referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946 quasi 10.700.00 italiani votarono per la monarchia. Che fine fecero i loro “voti”? Non parliamo delle “schede”, date subito per scomparse, ma delle loro idee. Ne avevano? Quali? Quanto le coltivarono? Il vuoto di memoria e di dottrina politica non dipende da malanimo di “repubblicani” che poco o nulla sanno di Giuseppe Mazzini, Carlo Cattaneo ecc. ma anche dall'incapacità di tanti “monarchisti” (come venivano bollati da Luigi Federzoni i “professionisti”del voto pro-monarchia, distinti dai “monarchici”) di deporre i panni di cortigiani e di organizzare la Memoria dell'Istituzione.
   L'Italia abbonda di Fondazioni intitolate a partiti (anche estinti) o a loro “campioni” (da Antonio Gramsci a don Luigi Sturzo e via elencando). Invece non esiste alcuna Fondazione intestata a un Re d'Italia e meno ancora alla Monarchia quale soggetto di storia. A giudizio del rimpianto Giovanni Semerano, presidente e storico dell'Unione Monarchica Italiana, di Domenico Giglio, Argenio Ferrari e altri, la convergenza di quanto rimaneva dei partiti e movimenti monarchici col (ma meglio andrebbe detto “nel” o “sotto il”) Movimento sociale italiano, per motivi di opportunismo elettorale, sancì l'ammaina bandiera della Tradizione sabauda.Fu un'operazione “in perdita”. In assenza di un Istituto o Fondazione o Centro studi, una moltitudine di memorie, carteggi e biblioteche personali accumulate nei tempi andarono e andranno fatalmente perdute. A chi giova questa ecatombe della Memoria? Lo Stato d'Italia ha faticosamente costruito la propria identità tra il 1861 e il 1946. Dopo il cambio istituzionale la storia è stata amputata: da una parte i buoni (i “valori repubblicani” tante volte evocati anche dall'attuale presidente del Consiglio dei ministri, quasi Cavour, Giolitti, Einaudi fossero privi di “senso dello Stato”), dall'altra i cattivi, ai quali rimane vietato per legge esporre il tricolore con lo scudo sabaudo che li aveva visti in armi e nella vita quotidiana per l'Italia degli italiani, come ricorda lo storico militare gen. Oreste Bovio.
  Il richiamo alla storia è destinato a cadere nel vuoto. Se la monarchia (non parliamo di “pretendenti” o “aspiranti” ma dell'”idea”) è ormai relegata nel passato remoto, la repubblica non se la passa benissimo. Quali sono le sue fondamenta? Un emblema di difficile interpretazione? Un inno nazionale ispirato dal neoguelfismo? Un francobollo? Mentre quelli coi re duravano una vita, il più famoso di quelli repubblicani è il “Gronchi Rosa”. V'è motivo di riflessione.                                    
diritto di darsi istituzioni confacenti
«Una generazione non può assoggettare alle sue leggi le generazioni future. Un popolo ha sempre diritto di rivedere, riformare e cangiare la sua costituzione.» Lo scrisse Gian Domenico Romagnosi (Salsomaggiore, 1761- Milano, 1835) nella Scienza delle Costituzioni . Filosofo, giurista, oratore della loggia massonica milanese “Gioseffina Reale”, sospettato di legami con la Carboneria ma presto scagionato, visse a schiena diritta. Ebbe chiaro che il Potere si fonda su miti e si esprime attraverso simboli: colori, suoni, segni. Ogni “cangiamento” comporta adozione di archetipi, elaborazione e insegnamento di nuove narrazioni. Durano i regimi che si armano di princìpi arcaici e universali. L' Ordine Nuovo s’impone se si fregia del passato remoto più “con-vincente”.
  Tra i discepoli Romagnosi ebbe Carlo Cattaneo (Milano, 1801-Lugano, 1869), massimo esponente del pensiero democratico italiano dell'Ottocento, federalista, fondatore e direttore di “Il Politecnico” (1839-1844), storico delle Cinque Giornate di Milano (18-23 marzo 1848), strenuo avversario del processo di unificazione nazionale sotto le insegne della Casa di Savoia, da lui ritenuta illiberale e retriva. Sennonché il federalismo rimase un'utopia. Nel 1861 fu il quarantenne Vittorio Emanuele II di Savoia (1820-1878), politico più sagace dei suoi migliori ministri, a farsi proclamare re d'Italia.
  Benché raccogliticce le due Camere erano una sorta di “sospensione” della storia. Bastò un tocco per precipitare l'infuso in cristalli. Durevoli nel tempo o fragili?
Una “leva culturale” per risollevare l'Italia
  La Nuova Italia faticò a darsi un codice identitario, a dichiarare il suo “dna”. Negli anni dalla Restaurazione al Quarantotto le principali correnti politiche favorevoli all'“unione” nazionale oscillarono tra confederazione e federazione. Nell'Europa intirizzita dal Congresso di Vienna e dalla Santa Alleanza (1815) l'obiettivo di uno Stato unitario italiano rimaneva molto basso sull'orizzonte. Il Paese era controllato da due dinastie straniere di peso continentale: gli Asburgo d'Austria e i Borbone, al potere in Francia, Spagna, regno delle Due Sicilie e ducato di Parma-Piacenza. Le due Case non avevano alcun interesse allo scontro diretto per spostare i confini della loro egemonia in un teatro secondario qual era l'Italia. Nel secolo dell'espansione europea negli Oceani,vl'Austria doveva guardarsi sul fianco sud-orientale: Russia e impero turco. La Francia viveva i postumi dello sfascio dell'impero coloniale perduto dai Borbone di Spagna nell'America Latina (notiamo, di passaggio, che il bicentenario della “dottrina Monroe”, madre dell'egemonia transatlantica degli USA, non sta suscitando speciali attenzioni).
  L'“idea di Italia” mancava di un punto di riferimento istituzionale e fisico percepito e riconosciuto a livello nazionale e internazionale. I repubblicani giocavano di rimessa. Lo fece anche Mazzini con gli appelli-mòniti a Carlo Alberto (1831) e a Pio IX (1847). A ostacolare la soluzione della questione nazionale pesava come macigno la sorte di Roma. Tra i suoi più fervidi profeti, il teologo torinese Vincenzo Gioberti ebbe il merito di proporla in armonia con la rappresentatività universale del papa, Vicario di Cristo, ma la annegò nella fantasiose origini pelasgiche degli italiani: un mito destinato a suscitare più confusione che consensi.
  Contrariamente a quanto solitamente creduto, alla diffusione dell'“idea di Italia” le scienze concorsero molto più rispetto che il linguaggio politico, la letteratura, la poesia. Lo si vide con i Congressi degli scienziati italiani ideati da Carlo Luciano Bonaparte principe di Canino. Neppure essi però giunsero a formulare con chiarezza i simboli dell'Italia mentre fervevano i progetti di un canale che evitasse di circumnavigare l'Africa per andare da Londra a Calcutta. 
  Nel “Quarantotto” anche le avanguardie politiche italiane risultarono impreparate a cospetto degli eventi. La sconfessione da parte di Pio IX dell'alleanza “nazionale” contro l'Austria, usbergo della chiesa cattolica e garante del ritorno all'equilibrio tra le potenze europee, la proclamazione della repubblica a Venezia e a Roma (dopo quella in Francia, effimera e subito macchiata dal sangue dell'arcivescovo di Parigi), la catastrofe delle assemblee elettive e la revoca delle costituzioni, con la sola eccezione di quella albertina nel regno di Sardegna, evidenziarono la perdurante assenza di un caposaldo sicuro per la riscossa dei fautori dell'unione-unificazione italiana. La Società Nazionale capitanata da Daniele Manin prese corpo quando fu chiaro che per riprendere la navigazione non rimaneva che una zattera: il “Piemonte” di Vittorio Emanuele II, la monarchia costituzionale. La svolta avvenne in un'Europa del tutto mutata rispetto al Quarantotto: il Secondo Impero con Napoleone III in Francia e la coalizione anglo-franco-turca (con adesione del “Piemonte”) contro l'impero russo. L'imperatore d'Austria rimase alla finestra: saggezza o debolezza? Vienna percepì che Londra e Parigi puntellavano a tempo indeterminato Istanbul e che il Mediterraneo era ormai un lago anglo-francese, ma della Francia di un Bonaparte, ai danni dei Borbone, retrocessi a dinastia periferica tanto a Madrid quanto a Napoli. La soluzione della questione italiana stava nelle sorti venture del regno delle Due Sicilie, con un sovrano chiuso in se stesso, pago dell'isolamento e dell'apparente opulenza di alcune città e di una cerchia ristretta di notabili. Per Ferdinando II di Borbone la questione italiana non esisteva. Nel 1848 represse quella siciliana facendo bombardare Messina. Poi soffocò le pulsioni liberali con arresti arbitrari e carcere senza processo, con buona pace dei neo-borbonici. Va aggiunto che Napoleone III non decise affatto l'intervento in Italia attratto dalla sottogonna dell'“inviata” di Cavour. “Fosco figlio di Ortensia” irruppe nella pianura padana mentre occupava la Cocincina.
Antiquaria per lo Stato nuovo?
  Nei primi decenni di vita il neonato regno d'Italia affastellò la Roma dei consoli e dei Cesari, le capitali degli Stati pre-unitari, le “cento città”, la lingua, le parlate, i dialetti, gli annali, le memorie e le fiabe. Il canto fece la sua parte, non solo con Giuseppe Verdi. Come la nòttola di Minerva, la storia arrivò per ultima, quasi al tramonto. Solo a fine Ottocento ebbe le prime sistemazioni con Giosue Carducci e il braidese Beniamino Manzone, massone, chiamato a Roma a dirigere la prima rivista del “Risorgimento Italiano”, alba del futuro Istituto per la storia del Risorgimento Italiano, che tanto deve ai suoi presidenti Alberto Maria Ghisalberti, Emilia Morelli e Romano Ugolini.
  L'Italia del 1861 aveva un eccesso di passato prossimo e remoto e un deficit di coscienza del suo presente e di visione del futuro. Per di più, come ancora regnasse Arduino, nacque scomunicata. Vittorio Emanuele II e i suoi generali e ministri avanzarono come rullo compressore dalla pianura padana alla Sicilia. Di conquista in conquista ecclesiastici compiacenti celebrarono “Te Deum” di ringraziamento, come aveva fatto Caprara, arcivescovo di Milano, che il 26 maggio 1805 benedisse l'“incoronazione” di Napoleone a Re d'Italia. Ma il nuovo Regno non ebbe mai la benedizione che conta: quella del pontefice, spogliato dei suoi domini e convinto di essere vittima di un complotto internazionale ereticale (anglicani, presbiteriani, evangelici...) o, perché no?, ordito dalla massoneria marchiata come “Sinagoga di Satana”.
  La monarchia italiana pertanto non poté mai inalberare la croce di Costantino. Dovette contentarsi di quella sabauda, che risaliva ai conti e ai duchi di Savoia giunti a vicari dei Sacri Romani Imperatori e poi a re, ma con titolo su isole (Sicilia, Sardegna), non sulla “terraferma”. Avevano brillato di luce riflessa sino a quando il tormentato Carlo Alberto (1798-1849, re di Sardegna dal 1831) nel 1838 decise di spogliarsi dell'ingombrante titolo di vicario di un imperatore che non era più sacro da quando Napoleone I gli aveva imposto di rinunciarvi e si rivendicò “italiano”. Rullarono i tamburi della Deputazione di Storia Patria insediata da Carlo Alberto per organizzare una narrazione completamente nuova dell'Italia e del ruolo della Casa di Savoia.
  La visione e la rappresentazione della monarchia tuttavia tardarono a prendere forma, a passare da intuizione a immagine, da nebulosa a simbolo di comunicazione immediata ai regnicoli. È sempre rischioso voltare pagina con la Tradizione. Tuttavia il re varcò il Rubicone. L'articolo 77 dello Statuto del 4 marzo 1848 recitò: «Lo Stato conserva la sua bandiera: e la coccarda azzurra è la sola nazionale.» Ma nella guerra contro l'Austria il “Piemonte” avrebbe fatto poca strada se fosse avanzato solo “con l'azzurra coccarda sul petto”. Perciò il 23 marzo, quando mosse verso Milano vittoriosamente insorta contro il “bastone tedesco”, «per viemmeglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell'unione italiana» Carlo Alberto sovrappose lo scudo di Savoia alla “bandiera tricolore italiana”. Scattò avanti a tutti. Anche se sconfitto, avrebbe messo all'attivo il giobertiano primato morale e civile degli italiani e tutti i sogni di indipendenza, unità e ampliamento dei diritti civili o, come si diceva, “libertà”.
La monarchia: da soggetto di storia a oggetto di storiografia
  La Monarchia divenne il soggetto trainante della storia. Nell'Italia degli Asburgo, dei Borbone e del papa-re si erse quella sabauda. Lo scrisse Giosue Carducci (1835-1907), giovine dai trascorsi burrascosi, un po' mazziniano, poi garibaldino, ferocemente anticlericale, pragmatico e libero da languori “poetici”. I suoi versi erano programma politico. Prosa a ritmo cadenzato, più facile da memorizzare, come i versi famosi del 13-21 ottobre 1859 “Alla croce di Savoia”, suggellati dall'invocazione «Dio ti salvi, o cara insegna,/nostro amore e nostra gioia!/ Bianca Croce di Savoia,/Dio ti salvi! E salvi il re». (Edizione Nazionale, vol. II, p. 210).
  Vittorio Emanuele II andava salvato dagli Asburgo, dai Borbone, dall'abbraccio troppo stretto di Napoleone III e soprattutto dai “monarchisti”, che lo confiscavano per sé mentre egli voleva e doveva ergersi a spada dell'Italia intera, di una società nazionale in cerca di Stato.
  Nell'immediato il regno non ebbe né tempo né modo di forgiare una propria immagine popolare “con-vincente”. Visse a ritmo di battaglia, sempre con l'arma al piede. A parte la dura repressione del Grande brigantaggio sobillato dall'estero, come ha ricordato Aldo G. Ricci in “Obbedisco”, contò la spedizione garibaldina “Roma o Morte” (1862), il trasferimento della capitale da Torino a Firenze (1864-1865), ove ebbe tiepida accoglienza, la terza guerra per l'indipendenza (1866), la fallimentare campagna garibaldina nell'Agro Romano (1867), il braccio di ferro tra Concilio Ecumenico Vaticano e Anticoncilio di Napoli (1869), l'espugnazione di Roma e la sua annessione al regno (settembre 1870).
  Come si raffigurava il re e come era raffigurato?
  Morti prematuramente Vittorio Emanuele II e Umberto I (provvisoriamente sepolti al Pantheon), l'ideario monarchico si restrinse alla “bianca croce di Savoia” sino a quando le feste per il Cinquantenario furono celebrate all'Altare della Patria, ancora incompleto, pensato come summa dell'“itala gente da le molte vite” e mausoleo dei Re, con molti spunti rivoluzionari e neopagani ma nessun simbolo cristiano (1911).
  Altrettanto avvenne per il monumento supremo voluto per suggellare Corona e Parlamento: l'altorilievo in bronzo di Davide Calandra per il banco della presidenza della Camera elettiva, ove la Monarchia statutaria campeggia tra Forza e Diplomazia in un tripudio di principi sabaudi, da Umberto Biancamano a Vittorio Emanuele III. Dopo il cambio istituzionale del giugno 1946 nessuno osò smurare Casa Savoia dall'Aula di Monte Citorio. Ma a chi parla oggi il bronzo di Calandra? La maggior parte di quanti lo guardano non lo vedono affatto, né lo capiscono. Non dialogano con il proprio passato. Annaspano in un presente che riduce la “politica” a moto perpetuo, come le giostre.
  Su impulso di Francesco Crispi (che decretò l'erezione del monumento nazionale in suo onore) e poi del trapanese Nunzio Nasi, ministro della Pubblica istruzione nel governo presieduto dal democratico bresciano Zanardelli, 120 anni fa la monarchia di Vittorio Emanuele III rese omaggio a Mazzini. Nella dispersione e nell'inerzia dei “monarchisti” tocca ancora una volta allo Stato d'Italia ricomporre i segmenti della storia nazionale, a indicarne  la continuità, e a proporre nelle debite forme lo studio del ruolo della monarchia, in specie nella nascita dell'Italia quale Soggetto storico indipendente, unito e libero. Prima che esso si sfarini...
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: La Corona Ferrea, emblema della regalità in Italia. Fu “calcata” da Napoleone I nell'incoronazione del 1805 a Milano e venne recata dietro le bare di Vittorio Emanuele II (1878) e di Umberto I (1900). Alle 16.30 di martedì 24 maggio (data evocativa) ne parleranno al Teatro del Casinò di Sanremo Marzia Taruffi, responsabile dei Martedì letterari, e il saggista Matteo Moraglio, che presentano il libro di Aldo A. Mola “Vittorio  Emanuele III. Il Re discusso”, edito nella Biblioteca Storica di “il Giornale”, collana “I Protagonisti”.   

IL POTERE DEL RE

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 1 Maggio 2022 pagg. 1 e 6.

Sabato 14 maggio con “Il Giornale” è distribuito il libro di Aldo A. Mola, Vittorio Emanuele III. Il Re discusso, nella collana “I Protagonisti”. Frutto di ampie ricerche d'archivio è la storia dei 46 anni di Re Vittorio. Anticipiamo qui la “riduzione” parziale di uno dei capitoli iniziali. I Poteri del Re costituzionale non erano molto diversi da quelli dell'attuale presidente della Repubblica. Il libro di Mola evidenzia la continuità dello Stato d'Italia, giunto all'unità grazie alla Monarchia di Savoia. Non essa sola, ma non senza di essa. Il Re nominò i senatori e, fons honorum,  conferì le onorificenze degli Ordini cavallereschi, come oggi fa il Presidente della Repubblica: temi che meritano approfondimento.Quale petrolio olet di meno?
   Chi e come comanda in Italia? Un paio di anni fa uscì Io sono il potere. Confessioni di un capogabinetto, raccolte da Giuseppe Salvaggiulo (Feltrinelli). Due edizioni in un mese. Mise a nudo l'onnipotenza dell'alta burocrazia, in specie i capigabinetto ministeriali. Ministri e sottosegretari passano. Essi restano. Indispensabili. Rievocò il leggendario Cencelli (“Max” per gli amici) e il suo celebre Manuale per la spartizione della torta del potere in correlazione al peso delle correnti di partito: proporzionale puro, caro a don Luigi Sturzo. Se ne avvantaggiarono i “pontieri” Taviani, detto Pet, Francesco Cossiga e Adolfo Sarti.  Quasi in controcanto al ritratto esilarante e tragico del funzionamento della “politica” degna delle Cronache bizantine, un mese dopo Sabino Cassese  pubblicò Il buon governo. L'età dei doveri (Mondadori), affresco di un'“altra Italia”. Quella delle “belle speranze”, che, come noto, sono sempre le ultime a morire. Il covid-19 prima, l'operazione militare speciale russa in Ucraina poi, la scoperta, infine, che anche la pacifica Italia ha armi non solo da vendere ma anche da regalare (senza però dire quali) e che, in alternativa alla Sarmazia, la madrepatria di poeti, santi e navigatori può procacciarsi petrolio e gas dall'Iran e da altri paesi democratici come Algeria, Angola, Congo e via continuando hanno calato la saracinesca sull'esercizio del Potere in Italia. Chi lo detiene lo usa. Gli altri stanno a guardare. Al più parlano. Donde il “parlamento”: due Camere che aspettano il gong dello “sciogliete le file” anziché dell'ennesimo apericena. In attesa che un giorno o l'altro vengano indette nuove elezioni politiche, continua a circolare la bizzarra leggenda secondo cui il capo-partito che otterrà più voti verrà automaticamente incaricato di formare il governo: asserzione, questa, che non compare né nella Costituzione né nella prassi. La nomina del presidente del Consiglio è prerogativa del Capo dello Stato, senza vincolo alcuno (art. 93 comma 2), esattamente come lo era in età monarchica.
  Motivo in più per domandarsi come funzionasse il Potere secondo lo Statuto concesso da Carlo Alberto di Sardegna il 4 marzo 1848 e rimasto in vigore sino al 31 dicembre 1947. Durato  immutato per un secolo era la costituzione più bella del mondo? Merita una panoramica, che è anche rapida sintesi della storia di un'Italia che in pochi decenni dal nulla che era divenne quasi una grande potenza.
Un Capo di Stato golpista?
   Più di settant'anni fa lo storico Luigi Salvatorelli affermò che la dichiarazione di guerra dell'Italia contro l'impero austro-ungarico (23 maggio 1915) fu il primo dei tre colpi di stato messi a segno da Vittorio Emanuele III. «Il potere monarchico nelle mani di Vittorio Emanuele III, egli scrisse, ha funzionato come potere determinante, in modo e misura tali che si può ben parlare di tre colpi di Stato; se non in un rigoroso senso giuridico della parola – senso che non è facilmente precisabile – per lo meno in riferimento alla prassi consuetudinaria e nel significato politico-morale, che è quello più importante». Secondo Salvatorelli il re abusò tre volte della potestà statutaria: con l'avallo del “patto di Londra” del 26 aprile 1915 e il conseguente intervento dell'Italia nella Grande Guerra; poi con l'incarico a Benito Mussolini di formare il governo (30 ottobre 1922); e infine il 25 luglio 1943, quando impose a Mussolini le dimissioni e nominò Pietro Badoglio capo del governo per salvare la monarchia anche a costo di affondare il Paese: tesi, quest'ultima, da diverso osservatorio condivisa da Elio Lodolini in La illegittimità del governo Badoglio (Milano Gastaldi, 1953).
  Senza entrare nel merito delle motivazioni “politico-morali” evocate da Salvatorelli, estranee al metodo storiografico, per comprendere l'azione del re nell'arco dei mesi dall'assassinio di Francesco Ferdinando d'Asburgo a Sarajevo all'ingresso in guerra (28 giugno 1914 - 23 maggio 1915), come nelle altre “date cruciali” da lui bollate come “colpi di stato”, occorre “tornare allo Statuto”, cioè ricordare quali fossero i poteri del sovrano e accertare quale uso Vittorio Emanuele III ne abbia fatto e per quali fini (suoi propri o del Paese?), fermi restando l'intreccio ma anche la distinzione (statutaria e normativa) tra monarchia, Casa reale e persona del sovrano.
   La storiografia al riguardo ha oscillato tra l'imputazione al sovrano di abuso di potere nei confronti del governo e del Parlamento e la sottovalutazione del suo ruolo. Secondo Antonino Repaci il re fu il principale “colpevole” dell'ingresso dell'Italia nella Grande Guerra e dell'avvento di Mussolini. Forse per attenuarne le supposte  “responsabilità” alcuni hanno enfatizzato le “voci” di una “malattia” (raccolte da Angelo Gatti nel “Diario” pubblicato nel 1964 a cura di Alberto Monticone e condivise da biografi non documentati) che avrebbe reso il sovrano indeciso, abulico, preda persino di pulsioni suicide o deciso ad abdicare e partire per l'estero.
   Per approfondimento e una corretta visione del liberalismo in Italia, messo alla prova dalla “settimana rossa” del giugno 1914 e, poco dopo, dalla conflagrazione europea, è necessario ripercorrere sinteticamente il contesto nel quale Vittorio Emanuele III operò durante i mesi di acuta tensione internazionale, presto precipitata nella sequenza di mobilitazioni (a cominciare da quella russa, che precedette ogni altra), ultimatum (l'Impero austro-ungarico alla Serbia) e dichiarazioni di guerra. Il 2 agosto 1914 il governo deliberò la neutralità dell'Italia, che il re annotò a pag 106 dell’Itinerario generale dopo il 1° giugno 1896: «Luglio, 28. Roma (minacce di guerra); 29 per St. Anna di Valdieri; Agosto 1° Roma (Quirinale) (Neutralità); 6, Roma (Villa Savoia)»: appunti seguiti da tre sole note sino a «Dicembre, 26 (nasce Maria)».
   Esercitato in studi severi (storia, geografia, araldica, numismatica...), da depositario unico della memoria di quanto egli stesso e il governo avevano fatto dalla sua ascesa al trono a quel momento, il re sentì su di sé il “brut fardèl” dello Stato con un’intensità e una continuità di gran lunga superiore a quella di ogni presidente del Consiglio (Giolitti incluso), ministro degli Esteri e titolare di qualsivoglia dicastero.
   Per comprenderlo occorre ricordare, sia pur brevemente, la cornice entro la quale agì il sovrano: i poteri della Corona.
I poteri statutari del re 
   La proclamazione di Vittorio Emanuele II a re d'Italia con la legge istitutiva del regno approvata dalla Camera dei deputati il 14 marzo 1861 e pubblicata nella “Gazzetta Ufficiale” il 17 seguente confermò al sovrano quanto già era suo e non modificò le norme che regolavano la Casa, cioè le Regie patenti del 17 settembre 1780 e del 17 luglio 1782, concernenti anche i matrimoni dei principi del sangue.
   Il Regio Decreto 2 luglio 1890, n. 6917, “Disposizioni sullo stato delle persone della Famiglia Reale”, a sua volta configurò con maggior chiarezza la potestà del sovrano, il quale è “capo supremo dello Stato; comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra; fa i trattati di pace, d'alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere tosto che l'interesse e la sicurezza dello Stato il permettano, ed unendovi le comunicazioni opportune”, con la riserva fondamentale: «I trattati che importassero un onere alle finanze, o variazioni di territorio dello Stato, non avranno effetto se non dopo ottenuto l'assenso delle Camere.» Nella prassi la titolarità del comando delle forze armate non comportò il suo esercizio. Esso poté essere delegato a un comandante effettivo, incaricato della strategia e delle operazioni conseguenti (la “somma delle cose della guerra” addossate al gen. Chrzanowski nel marzo 1849), anche se la responsabilità istituzionale e politica ultima rimase in capo al sovrano, come certificò l'abdicazione di Carlo Alberto la sera della sconfitta a Novara il 23 marzo 1849. Del pari, la potestà di deliberare la guerra venne distinta da quella di dichiararla e proclamarla. Conscio del peso che esso avrebbe comportato per il regno, nel 1855 Cavour volle che il trattato comprendente la dichiarazione di guerra all'impero di Russia a fianco di Gran Bretagna, Francia e impero turco fosse approvato dal Parlamento e nel 1859 cercò di far sì che al re rimanesse solo “l'apparence du commandement”, senza pregiudicare la forma statutaria che, nel caso, era anche sostanza.
   Dalla politica estera e, conseguentemente, da quella militare, derivavano gli impegni del Tesoro e delle Finanze e l'intera vita pubblica del Paese. Come ricordò Luigi Einaudi, per Vittorio Emanuele III Esteri e Guerra erano la “testa” dello Stato; il resto (Interni, Tesoro, Finanze, Istruzione, Lavori Pubblici, Agricoltura, industria e commercio, ecc.) erano i visceri. Elaboravano e fornivano le energie necessarie per alimentare l'attuazione delle decisioni vitali.
I “cugini del re”
Il re parlava attraverso atti di valore emblematico e di sua esclusiva potestà. Ne ricordiamo alcuni, per evidenziare lo spazio di suo riservato dominio. Fu il caso del conferimento del Collare dell'Ordine della Santissima Annunziata, classe unica a differenza degli altri Ordini dinastici, che comportava il rango di “cugino del re”. I cavalieri della SS. Annunziata nei ricevimenti di corte avanzavano subito dopo i principi della Casa e i cardinali della Chiesa cattolica.
   Dall'ascesa al trono Vittorio Emanuele III impresse all'Ordine una valenza completamente nuova rispetto ai precedenti 39 anni del regno d'Italia. Con il conferimento dei collari fece trasparire le linee venture della politica estera. Il 10 aprile 1901, dopo soli otto mesi di regno, il re conferì il Collare al presidente della Repubblica francese, Emile Loubet, notoriamente anticlericale, nel quadro del riavvicinamento italo-francese scandito dagli “accordi Prinetti-Barrère” (1902) e dal suo viaggio di Stato a Parigi (13-18 ottobre), ricambiato dalla visita di Loubet a Roma nell'aprile 1904. Quel conferimento fu un passo di portata storica, perché conteneva politica estera e politica interna. Esso mostrò la duttilità della Monarchia. La direzione di marcia innovativa venne poi confermata con l'assegnazione del Collare al nuovo presidente della Repubblica francese, Armand Fallières (25 aprile 1909), pochi mesi prima della visita dello zar Nicola II al re a Racconigi (24 ottobre).
  I collari conferiti da Vittorio Emanuele III nei primi quattordici anni di regno paiono dunque altrettanti lumini posti sui sentieri che l'Italia aveva seguito e, più vividi, su quelli che avrebbe deciso di percorrere in un'Europa le cui maggiori potenze (Germania, Austria-Ungheria, Russia, Gran Bretagna e Francia) stavano investendo immense risorse nelle armi di terra e di mare. Essi costituirono una sorta di ammiccamento allusivo alle intenzioni del re in una visione di lungo periodo.Valgano d'esempio il Collare conferito allo zar dei Bulgari e quello ad Alberto I del Belgio.
  Per completezza, va aggiunto che il 23 giugno 1915, esattamente un mese dopo la dichiarazione di guerra contro l'impero austro-ungarico, Vittorio Emanuele III conferì il Collare ad Edoardo Alberto, principe di Galles, futuro Edoardo VIII, e scelse il 14 luglio, festa della Rivoluzione francese, per fregiarne Raymond Poincaré, terzo presidente della “sorella latina” che egli creò “cugino del re” nel corso di un quindicennio. In quello stesso arco di tempo il sovrano non conferì alcun Collare a presidenti di Stati con i quali l'Italia aveva relazioni anche intense. Fu il caso degli Stati Uniti e delle repubbliche dall'America centro-meridionale.
  Il re suggellò il 1915 conferendo il Collare a Paolo Boselli, primo segretario dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro: una decisione lungimirante, quando si osservi che l'anziano deputato e ministro liguro-subalpino, successore di Salandra, a sua volta Collare dal 30 dicembre 1914, quando l'opzione a favore dell'Intesa anglo-franco-russa era ancora tra le ipotesi, mentre era una certezza che l'Italia non sarebbe scesa in guerra a fianco degli Imperi Centrali.
Il corpo diplomatico 
Il corpo diplomatico e i vertici delle Forze Armate erano due altri pilastri della Corona. Lo Statuto, le leggi e i decreti legge al riguardo non ne intaccarono mai il nesso.
Le “Memorie” di Giuseppe Salvago Raggi, scritte con penna talora intinta in pregiudizi antimassonici, e il “Diario” di Guglielmo Imperiali di Altavilla offrono un panorama suggestivo del corpo diplomatico italiano. Esso era radicato nell'aristocrazia di alto censo, anche per la disparità fra il modesto trattamento economico del personale e il gravame dell'esercizio delle cariche di ambasciatore, ministro, console...: una “carriera” che veniva intrapresa con anni di volontariato senza stipendio alcuno e il dimostrato possesso di prerequisiti comportanti anni di studi e di esperienze all'estero. Anche se in misura meno gravosa, analoga fu la condizione dei prefetti nei primi decenni postunitari, quando molti rappresentanti del Governo nelle province provennero a loro volta da aristocrazia o alta borghesia, il cui stipendio era del tutto inferiore agli obblighi che derivavano dall'esercizio della carica.
I vertici delle Forze Armate 
Ancora più rilevante fu la nomina del Capo di Stato Maggiore dell'Esercito.
Come accennato, l'esercizio del comando effettivo delle forze armate, attribuito al re dall'art. 5 dello Statuto del 4 marzo 1848, costituì una tra le questioni più spinose del regno.
  Il 29 dicembre 1907 per la prima volta dal 1848 ministro della Guerra fu nominato un civile, Severino Casana, nobile e senatore. Il 27 giugno 1908 il capo di Stato Maggiore dell'Esercito, il sessantottenne generale Tancredi Saletta (Torino, 1840 - Roma, 1909) fu collocato in posizione ausiliaria per motivi di età. Per la tacita regola in forza della quale l'anzianità di servizio costituiva motivo di precedenza, candidato alla successione era il cinquantottenne Luigi Cadorna (1850-1928). Con la massima discrezione Giolitti gli fece domandare come si sarebbe condotto in caso di guerra. Studioso della terza guerra d’indipendenza (1866) Cadorna rispose che non avrebbe consentito interferenze nella decisione del piano strategico. Per lui valeva il principio dell'unità di comando e della connessa responsabilità. Si profilò il potenziale conflitto di competenze Corona-governo-ministro della Guerra-Capo di Stato Maggiore. Gli venne preferito il napoletano Alberto Pollio, di due anni più giovane, antico allievo del Collegio Militare “Nunziatella.
  Mentre l'annessione di Bosnia ed Erzegovina da parte di Francesco Giuseppe d'Asburgo (1908, formalizzata l'anno seguente) faceva soffiare più impetuosi i venti di guerra, il re non intendeva venisse intaccato il suo comando delle forze di terra e di mare. La politica estera e, di conseguenza, quella militare generarono frizioni tra il sovrano e il “suo” presidente del Consiglio, Giolitti, come per la destituzione del generale Asinari di Bernezzo, colpevole di un discorso “irredentista”.
  L'equilibrio (statutario, politico e fattuale) tra il sovrano, il presidente del Consiglio, il ministro della Guerra e il capo di stato maggiore dell'esercito raggiunse la quasi perfezione nel 1911-1914 con il Quadrilatero Vittorio Emanuele III, Giovanni Giolitti (Collare dal 20 settembre 1904), Paolo Spingardi (a sua volta “cugino del re”) e Alberto Pollio. Esso si resse sull'armonia tra i titolari delle cariche apicali e conseguì il massimo successo nella politica internazionale proprio mentre, su impulso del presidente Giolitti, venne quasi triplicata la base elettorale della Camera dei deputati, a tutto vantaggio del consenso del Paese verso le istituzioni.

DIDASCALIA: Sabato 14 maggio con “Il Giornale” è distribuito il libro di Aldo A. Mola, Vittorio Emanuele III. Il Re discusso, nella collana “I Protagonisti”. Frutto di ampie ricerche d'archivio è la storia dei 46 anni di Re Vittorio. Anticipiamo qui la “riduzione” parziale di uno dei capitoli iniziali. I Poteri del Re costituzionale non erano molto diversi da quelli dell'attuale presidente della Repubblica. Il libro di Mola evidenzia la continuità dello Stato d'Italia, giunto all'unità grazie alla Monarchia di Savoia. Non essa sola, ma non senza di essa. Il Re nominò i senatori e, fons honorum,  conferì le onorificenze degli Ordini cavallereschi, come oggi fa il Presidente della Repubblica: temi che meritano approfondimento.

PIÙ ITALIA

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 24 aprile 2022 pagg. 1 e 6.

 Il 25 aprile 1945 vinse anche il Regno d'Italia
   Forse è il caso di ricordare, anche “in alto”, che il 25 aprile 1945 per le Nazioni Unite (anglo-americani, Unione sovietica e loro alleati) l'Italia aveva una precisa identità: era il Regno d'Italia. Il capo dello Stato era Vittorio Emanuele III che il 5 maggio 1944 aveva trasmesso tutti i suoi poteri al principe ereditario, Umberto di Piemonte, Luogotenente del regno, ma aveva mantenuto la corona perché poteva guardare negli occhi, senza abbassarli, tutti i capi di Stato dei Paesi vincitori, a cominciare dagli inglesi. L'Italia intratteneva rapporti con la Comunità internazionale tramite gli ambasciatori del Re. Le sentenze venivano pronunciate “in nome del Re”. Altrettanto valeva per tutti gli atti pubblici e di valore legale. L'Italia era una monarchia, impegnata dal 25 giugno 1944 a sottoporre a “verifica” la forma dello Stato da parte dei cittadini: un’assemblea elettiva o un plebiscito, come proposto dal Comitato di Liberazione Nazionale sin dall'ottobre 1943. Il presidente del Consiglio, già alla guida del governo dal giugno 1921 al febbraio 1922, era stato incaricato dal Luogotenente, non dal CLN. Come Benedetto Croce ruvidamente ricordò in polemica con Ferruccio Parri, l'Italia pre-fascista era stata una democrazia. Va sottolineato anche oggi poiché troppi, a digiuno di storia, credono che l'Italia sia divenuta un Paese democratico solo il 25 aprile 1945 (data del tutto convenzionale, come il 2 giugno 1946). E se è vero che la libertà fu (ri)conquistata “con le armi”, non si deve dimenticare che la “liberazione” dell'Italia fu dovuta agli anglo-americani e ai Gruppi di Combattimento allestiti dal regio governo, che per bandiera avevano il tricolore con scudo sabaudo nel bianco.
  Questi sono “fatti”. La narrazione di comodo, chiunque la proponga, è retorica spicciola, fastidiosa per quanti hanno ormai compreso che non gliela raccontano giusta e sono sempre meno disposta a berla.
Che cosa il contribuente si attende dallo Stato
  Con buona pace dei “sondaggi”, alla stragrande maggioranza degli italiani pochissimo importa di chi venga eletto presidente della repubblica francese e di come vada a finire l'assedio dell'acciaieria nell'Ucraina meridionale. Non sono né populisti né sovranisti, etichette di comodo appiccicate per separare i cittadini in “buoni” (genuflessi al pulpito dei “narratori”) e “cattivi” (refrattari alla parola d'ordine “credere, obbedire, combattere”). Sono persone che si interrogano sul presente, riflettono in autonomia e sospettano che tanti racconti siano specchietto per le allodole.
  Ai cittadini importa altro. Non hanno affatto bisogno di sentirsi dire come sono. Lo vedono. Qualche cosa sanno e la dicono: ma a persone fidate, non ai media, che divulgano solo le opinioni gradite ai propri mandanti. “Taci, il nemico ti ascolta” era la direttiva imposta quando ancora non si sapeva che tutto, ma proprio tutto, era (come è) intercettato, registrato, archiviato a futura memoria di chissà chi, chissà quando e chissà perché. L'Italia era il Paese nel quale anche un certo Benito Mussolini, da agitatore con gli occhi roteanti asceso a presidente del Consiglio, “duce del fascismo” e Primo Maresciallo dell'Impero, auscultava tutti ma, lo sapesse o meno, aveva il suo stesso telefono sotto controllo anche quando chiamava affannosamente la petulante Claretta Petacci o ne veniva chiamato: conversazioni da rotocalco rosa, se non fosse che avvenivano mentre l'Italia era nei guai e aveva urgenza di ben altro che dello zuccheroso “Ben mio”. A liberarla da quella gabbia non furono i “partiti” ma il Re.
  Ordunque, i cittadini vorrebbero che le sempre più cavillose Poste e Telegrafi funzionassero, che i treni non fossero solo costosissime freccerosse e/o bianche ma servissero decentemente l'intero territorio nazionale, che le voraci autostrade, costruite coi quattrini degli italiani, non fossero esose quali sono e non sempre intasate da “lavori in corso” che i “cantieri” non chiudono mai. Si attenderebbero di non essere perseguitati dall’Agenzia delle entrate per inezie mentre l'evasione naviga maestosa come Bucintoro plaudito da popolo estasiato. I cittadini si aspettano parole chiare sulle epidemie antiche, nuove e venture, non da ventriloqui di ormai disciolti commissariati e comitati vari ma dal governo: cioè dal presidente del Consiglio, che ha la responsabilità della conferma in carica del lugubre ministro Roberto Speranza. Potremmo allungare all'infinito la litania delle legittime attese di cittadini oberati da un il prelievo fiscale che ha superato il 51%, dediti al risparmio ma sempre più impoveriti da ricorrenti ondate di inflazione annunciate con formule magiche, come fossero misteriose piaghe d'Egitto mentre derivano da incapacità di programmazione di lungo periodo (un miraggio, quest'ultima, in un Paese fondato sull'instabilità dei governi e quindi sulla inconsistenza dei “piani pluriennali”).
Ciò che ci si attende dal Presidente Mattarella
  In sintesi, la stragrande maggioranza degli italiani chiede venga emanata una legge costituzionale di un articolo solo di poche parole: “Vivi e lascia vivere”. Lo Stato deve funzionare e rispettare i cittadini.
  Lo chiede al presidente della repubblica Sergio Mattarella, confermato in carica dopo mesi di suoi fermi, ripetuti e apparentemente insuperabili rifiuti di rimanere dove è. Lo chiede alle due Camere, indecise a tutto se non a trascinarsi agonizzanti in attesa che chissà quale portento (manca solo un altro Diluvio universale) le conservi in vita, benché sia ormai chiaro che non sanno partorire né una legge elettorale a misura della riduzione dei loro “membri” (nome comune per indicarne i componenti maschi e femmine), né gli urgentissimi regolamenti che ne dovrebbero derivare. Sull'esito del voto prossimo venturo nessuno scommette un centesimo.
  In questa eclissi delle istituzioni, ormai inconsistenti, la chiacchiera quotidiana rimane inchiodata alla traduzione in vernacolo italiano di quanto accade nell'universo mondo. Sino alla scorsa estate faceva notizia l'Afghanistan. Chi più se ne occupa da quando l’“Occidente” se ne dileguò nottetempo, lasciando nelle mani dei talebani baracca e burattini (munizioni da fuoco, da bocca e da altro: a cominciare dalla tragica sorte riservata alle afgane) e perdendo ogni credibilità a cospetto della ormai obliata popolazione menata per il naso da quella che altro non fu se non una “operazione militare speciale”? Lo stesso vale per la miriade di conflitti armati o sotto traccia in corso nei sette continenti del pianeta e di quelli che si preparano con i più sofisticati artifizi della guerra cibernetica.
   “The man in the street” non ha più voglia di farsi carico del “male che ci circonda” (parola d'ordine del sessantottismo che in Italia dura da mezzo secolo e ancora sopravvive in certi salotti televisivi ove s'affacciano cariatidi lottacontinuiste e loro succedanei e imitatori) e nemmeno di “pulire il mondo”. Il cittadino comune non solca l'oceano in catamarano e non viene accolto all'approdo in mondovisione. Non pretende di farsi ricevere dal papa, né di parlare alle Nazioni Unite: lì già bastano i rappresentanti di 193 “Stati”, in massima parte del tutto irrilevanti (anche dittature feroci ma “buone” se gas-disponibili), al pari delle sue “missioni di pace” (valide solo dove non vi sono conflitti veri) e del suo stesso Statuto. Il cittadino “normale” chiede solo di vivere in pace.
Nell'Italia politicamente sfarinata il primo partito è il PAI 
  Ma non è facile in un Paese come l’Italia, sospinta nella e dalla narrazione alla rissa quotidiana in nome di non si capisce bene quali ideali o principi o valori. Da decenni si ripete che destra e sinistra sono categorie e/o classificazioni “politico-partitiche” superate dai fatti. Però basta un nulla a far scattare il richiamo della foresta del manicheismo: la richiesta di esibizione di “patente e libretto” di virtù democratica. Ma chi ha titolo per vidimare e vagliare? Con argomenti settari si mette persino in discussione l'evento scelto dall'Associazione Nazionale Alpini per festeggiare se stessa. Ma chi ha diritto di interferire? I Bersaglieri festeggiano Porta Pia con cappellani al seguito e senza scandalo alcuno. Unicuique suum.
   Poiché le “feste civili” (come è il 25 aprile) sono occasione non solo di fiaccolate, grigliate, pizze, cannoli e cassate varie ma anche per riflessioni sullo stato della democrazia parlamentare e sulle sue prospettive, vanno ricordati alcuni “fondamentali” del quadro politico. Innanzitutto, il primo partito italiano è il PAI: Partito degli Astenuti d'Italia. I “paisti” non sono cittadini disertori o fedifraghi. In maggior parte sono “apoti”: non la bevono più. Assistono sconcertati e disgustati alla gara tra capibastone di partiti medi, piccoli e minimi per piazzare loro esponenti nelle cariche che contano. E se ne  tengono fuori. Non salgono sulla giostra. Già pagano involontariamente il biglietto perché essa continui a girare; ma almeno si astengono dall'applaudire. Non si fanno più abbindolare neppure dal motto di Indro Montanelli: turarsi il naso e votare diccì. All'epoca del bipolarismo la scelta era chiara: tra l'Italia e l'anti-Italia. Ma oggi? Oggi occorre più Italia. Ma la strada è scoscesa.
   Secondo i sondaggi ormai da tempo ripetitivi e quindi abbastanza attendibili, a lunga distanza dal PAI si collocano un paio di partiti (FdI e PD) che contano circa il 20% dei consensi dei probabili votanti. Un paio di altri (Lega e M5S) pare abbiano circa il 15% . Segue un quinto partito (FI) che veleggia tra l'8 e il 10%. Poi si affolla la pletora di chi annaspa al di sotto del 4%, soglia di accesso alla spartizione dei seggi secondo i fautori del riparto proporzionale dei parlamentari sulla base dei voti ottenuti.
   In concreto, anche il partito (o movimento) più votato è una debolezza. Deve fare i conti con l'altro 80% dei votanti: con cittadini in carne e ossa (come diceva Antonio Gramsci) sempre meno inclini a riconoscersi in parlamentari ondivaghi. In tale scenario, poiché la propensione alla rissa prevale su ogni ragionevolezza, alcuni da tempo accampano il diritto di essere incaricati di formare il governo se avranno un voto in più rispetto ad altre forze della stessa area. Ma al momento l'“area” è… aerea: non c'è. E più passa il tempo più diviene labile, perché, come insegnava Giulio Andreotti, il potere logora chi non ce l'ha. E la “destra” non l'ha dalla caduta del Governo Berlusconi, quando a Giorgia Meloni venne affidato il ministero delle politiche giovanili (più o meno quello dell'attuale pentastellata Fabiana Dadone).
   Poiché per ora vige la Costituzione del 1°gennaio 1948 (baluardo contro rovinose derive) va ricordato che “il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri”. Non è scritto da nessuna parte che debba nominare chi ha un voto più di un altro partito. Nel 1981 il dottor Alessandro (Sandro) Pertini, socialista, nominò presidente del Consiglio il professore senatore Giovanni Spadolini, segretario del Partito repubblicano italiano, che all'epoca contava 16 deputati su 630: meno dei socialdemocratici (20 seggi), un quarto dei socialisti (62) e un'inezia rispetto ai 263 democristiani. Un po' più dei liberali (9 deputati e un paio di senatori), che entrarono nel governo di pentapartito. Non è in alcun libro del destino né della Carta costituzionale che un bel dì il capo dello Stato debba “investire” presidente del Consiglio il capo del partito che ottiene più voti. Anche per questo motivo hanno ragione di ritenersi in corsa i segretari o presidenti di partiti piccoli e minimi. Chissà mai che cosa riserva il futuro? La storia ha più fantasia di chi crede di dominarla o degli storiografi, profeti del passato remoto.
   Sic stantibus rebus anziché perseverare diabolicamente nella ricerca di motivi di divisione in fazioni corrive a innalzare insegne straniere gioverebbe “vestire all'italiana”, recuperare i colori dell’identità nazionale. Ciò non significa essere populisti, sovranisti né, meno ancora, nazionalisti, bensì unicamente consci del significato autentico dell'unità d'Italia, nata appena 170 anni fa (o 100, se la datiamo dalla fine della prima guerra mondiale), delle sue radici profonde, della sua vocazione europea e, ricordiamolo, universale grazie alla romanità che venne assunta a fondamento della Terza Italia. Sconfitto nella guerra del 1940-1943 ma non disfatto, il Regno d'Italia intraprese la riscossa e avviò la ricostruzione: un'opera immane da ricordare non un giorno all'anno ma ogni giorno dell'anno per motivare i cittadini a confidare nelle istituzioni e a esprimere il proprio voto nelle urne, quando finalmente lo potranno fare. Se poi, come già è accaduto, essi voteranno a casaccio non potranno poi lamentarsi delle conseguenze (come tardivamente fanno). “Chi causa il suo mal pianga se stesso”. È quanto avvenne nel 1919, nel 1921, nel 1924… e nel 2018. 
   Non fu il Re a spingere l'Italia verso il regime fascista. Furono le Camere a votare le stupide leggi che anno dopo anno condussero il Paese dalla democrazia parlamentare al partito unico, anticamera della credulità popolare. Il sovrano costituzionale firmò ed emanò, come fa oggi il Presidente della Repubblica.
  Perciò vi è motivo di riscoprire il ruolo della monarchia costituzionale nella storia d'Italia: di quel regno d'Italia che il 25 aprile 1945 aveva comandante del Corpo Volontari della Libertà il generale Raffaele Cadorna e Capo di stato maggiore generale il Maresciallo Giovanni Messe, in  carica sino al 1° maggio 1945. Chissà se e come verranno ricordati nell'anniversario della Liberazione?
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Per posizione geografica l'Italia fu terra di approdo, a volte benefiche (la Magna Grecia) a volte meno (i Fenici); poi, dopo la decadenza e il crollo dell'Impero romano, fu teatro di scorrerie e di invasioni. A lungo devastata dalle guerre per l'egemonia sull'Europa e dominata per secoli da Case regnanti a Madrid o a Vienna, volte a privilegiare i loro interessi dinastici, con l'unificazione nazionale del 1861-1870 (nata dai Congressi degli scienziati italiani molto più che da cospirazioni) l'Italia si dette ordinamenti di avanguardia. 
  Lo storico Alessandro Mella ne documenta aspetti poco noti ma nondimeno fondamentali nel saggio “Il problema del Sistema Soccorso nell'Italia postunitaria e giolittiana “(ed. Marvia): rassegna, ricca di illustrazioni, dell'opera svolta da Regio Esercito, Carabinieri, Croce Rossa, Civici Pompieri nella quotidiana sfida opposta da calamità naturali (inondazioni, valanghe, movimenti tellurici,..) e incidenti (anzitutto ferrovieri) di vaste dimensioni. La Protezione civile arriva da lontano. Vittorio Emanuele III e la Regina Elena accorsero a lenire lutti e ferite del terremoto di Messina-Reggio Calabria (1908): una catastrofe affrontata con slancio di unità nazionale. 

I GESUITI
HANNO FATTO ANCHE COSE BUONE


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 17 aprile 2022 pagg. 1 e 6.

Il gesuita padre Giovanni Caprile (1917-1993),  componente del Collegio degli Scrittori di “La Civiltà Cattolica”, con i confratelli Valerio Alberton e José Antonio Ferrer Benimeli, il paolino Rosario F. Esposito e don Vincenzo Miano mezzo secolo fa propugnò la compatibilità tra il Vangelo e le Costituzioni di Anderson (1723). “Il vento soffia dove vuole” insegnava Giordano Gamberini citando Giovanni Evangelista.  Dare voce ai cittadini “comuni”
“The man in the street”. La “voce dell'“uomo della strada” fu il bastione e la riscossa del buon senso, del “sentire comune” negli anni bui dell'Europa totalitaria/autoritaria chiusa nella tenaglia rovente del nazismo hitleriano e del comunismo sovietico. All'epoca i dittatori si affacciavano al balcone per comunicare le proprie decisioni, destinate a segnare la sorte dei cittadini retrocessi a “sudditi”. In tutte le costituzioni postbelliche che già lo prevedessero vennero solennemente enunciati due principi inviolabili: “Tutti anno diritto di manifestare liberamente  il proprio  pensiero con la parola, lo scritto e ogni  altro mezzo di diffusione” (art. 21 della Carta dell'Italia) e “Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari”. Tutti gli interventi “in armi” comportati da alleanze devono passare al vaglio del Parlamento nazionale, come è avvenuto per le varie “missioni di pace: Parlamento sul quale ricadranno le ripercussioni delle sue decisioni, come avvenne sui re quando erano i titolari esclusivi del potere di dichiarare guerra, atto complesso includente  deliberazione e proclamazione. Ma già Cavour, benché lo Statuto albertino non lo prevedesse ma non immemore che sconfitto a Novara Carlo Alberto aveva abdicato al trono (23 marzo 1849), per intervenire nella guerra di Crimea volle e ottenne l'esplicito assenso delle Camere. 
   E ora? Tanti, troppi “media” usano brandelli di esternazioni occasionali di questo o quel personaggio più o meno famoso per estremizzare e imbalsamare il “giudizio” su quello che occorre o non occorre fare, mentre incombe una catastrofe che potrebbe essere senza ritorno. Decisa da chi? Per quali obiettivi e/o tornaconti?
L'“informazione” mediatica sull'andamento della fase attuale di un conflitto ormai quasi decennale si disperde nella narrazione di dettagli macabri e/pietosi che possono suscitare qualche emozione la prima volta; ma poi risultano ripetitivi e scontati agli occhi di chi sa come sono sempre andate e vanno le guerre nel mondo e si domanda che cosa potrebbe avvenire se a qualcuno scappasse il dito per passare dalle scaramucce, dal “corpo a corpo” all'Apocalisse.
Volutamente o no? Al momento viene insinuato che Vladimir Putin, presidente della Federazione russa, sarebbe in difficoltà all'interno della sua cerchia di potere, di cui poco si sa. Ma come se la passa Joe Biden, presidente degli Stati Uniti d'America? A suo riguardo la certezza è conclamata: ampia sfiducia da parte di un’“opinione pubblica” ondivaga, divisa su questioni interne (inflazione, ordine pubblico assicurato a volte con metodi barbari, che suscitano emulazioni anche nel “Paese dei Limoni”) e l'interrogativo di sempre: chi comanda davvero là? Sa che cosa dice? Per chi parla a nome di chi?
  Altrettanto avviene nello spazio detto “Europa”, labile, a fisarmonica. C'erano e, per ora, ancora ci sono l'Unione Europea, i Paesi europei inglobati nella OTAN (Organizzazione del Trattato dell'Atlantico del Nord), estesa sino alla Turchia), gli “altri” e poi lo spazio che nella “famiglia europea”, piaccia o meno  a chi confonde la cronaca con la storia millenaria, comprende la Russia, come gli ugro-finnici, i magiari e altre etnie (ci riferiamo ai baschi, per evitare cattive interpretazioni, ma altre molte potremmo citarne).
   Constatato che l'Unione Europea non ha né una politica estera unitaria, né una forza militare e neppure una moneta unica (alcuni suoi membri usano l'euro, altri no), non ha insomma un governo effettivo ma solo competenze circoscritte  e vincolate all'approvazione degli Stati aderenti (tanto che è prevista l'unanimità sulle decisioni vincolanti), almeno una volta all'anno è doveroso domandarsi chi in questa babele di idiomi parli “con lingua diritta”. Pasqua è il giorno giusto per fare pulizia e sgomberare il campo da ambiguità ed eequivoci.  
Il papa: Vox clamantis in deserto?
L'Uomo della Strada da decenni ha trovato un'unica voce limpida e coerente: quella dei papi di Roma, da Giovanni XXIII a Paolo VI, da Giovanni Paolo II (che confutò radicalmente il concetto di “guerra giusta”) a Benedetto XVI (lapidato, almeno a parole, perché avanzò pacate riserve sulla compatibilità tra islamismo e “diritti dell'uomo”, comprendenti quelli delle donne) e all'attuale Francesco. Per l'eterogenesi dei fini, le Dichiarazioni dei diritti dell'uomo e del cittadino hanno fatto da supporto agli imperi coloniali. La Dottrina Monroe (1823) ha consentito agli USA (all'epoca una piccolezza: dieci anni prima gli inglesi avevano saccheggiato e incendiato Washington) di soggiogare gli imperi ispano-portoghesi dal Messico alla Terra del Fuoco. La Lega delle Nazioni dal 1919 è stata la pedana per l’ulteriore spartizione degli spazi afro-asiatici a beneficio di “mandatari”. Eccetera eccetera.Tutti quei solenni documenti sono rimasti parole e l'Organizazione delle Nazioni Unite non hanno mai impedito lo scoppio di guerre dalla genesi non del tutto chiara, dagli obiettivi taciuti e dalle prospettive peggio che fosche.
Perciò nella confusione dilagante emerge l'appello del papa alla pace, che vuol dire semplicemente un “alt” immediato e prepettuo alle operazioni belliche, alla gara a chi fa più danni al nemico (e pazienza per quelli “collaterali” sia sui nemici sia sugli amici) e gioiosamente sperimenta armi novissime sempre più sofisticate e micidiali, proprio come nell'Apocalisse. Senza quell'“alt”, la guerra ora in corso (ormai poco conta chi, quando, come l'ha preparata e iniziata) può andare avanti a tempo indeterminato, perché non è conflitto tra “popoli”, ideologie, principi o valori, ma tra sistemi di produzione bellica: conferisce corpo e volto definitivo alla Terza Guerra Mondiale “a pezzi”, paventata da papa Francesco nel memorabile Discorso di Redipuglia. E' un pontefice che non si nasconde dietro giri di parole. Le pubblica con sobri commenti p.Antonio Spadaro S.J. direttore di “La Civiltà Cattolica”, il quindicinale della Compagnia di Gesù, “la più antica rivista in lingua italiana”, come orgogliosamente riporta la sua copertina.
A conferma basti ricordare alcune conversazioni svolte “a braccio” dal papa con i confratelli della Compagnia. Il 12 settembre 2021 Francesco invitò i 53 gesuiti della Provincia slovacca (non sapeva fossero tanti: vuole dire che “la peste si espande dappertutto”, osservò suscitando una risata) a “buttare il pallone al portiere”. Alla prima domanda, su come stesse, rispose: “Ancora vivo. Nonostante alcuni mi volessero morto. So che ci sono stati persino incontri tra i prelati, i quali pensavano che il Papa fosse più grave di quel che veniva detto, preparavano il conclave. Pazienza (…) Gli infermieri a volte capiscono la situazione più dei medici perché sono in contatto diretto con i pazienti”. Aggiunse: “A me fa male quando sia voi sia altri sacerdoti si 'spellano' tra loro. E questo ci blocca, non fa andare avanti. Ma questi problemi c'erano stati sin dall'inizio della Compagnia… È vero ci sono vescovi che non ci vogliono, è una verità...”. Suscitando scalpore enorme all'”esterno”, ricordò il lavoro svolto dal Sinodo sulla famiglia “per far capire che le coppie in seconda unione non sono già condannate all'inferno”; esortò al discernimento e con molta serenità osservò che “ci sono anche chierici che fanno commenti cattivi sul mio conto”. Tanto da fagli perdere la pazienza, a volte. Avvenne a Cristo quando cacciò i mercanti dal Tempio; può accadere al suo Vicario, persino nelle poco ovattate stanze di Santa Marta. Si riferiva ai propugnatori della celebrazione della messa con il vetus ordo. 
   Il 4 dicembre 2021 nel colloquio con i confratelli alla nunziatura di Atene toccò il tasto dolente della riduzione numerica della Compagnia: “Quando sono entrato in noviziato, ricordò, eravamo 33.000. Ora quanti siamo? Più o meno la metà. E continueremo a diminuire di numero. (…) La vocazione non dipende da noi. La vocazione la manda il Signore. Se non viene, non dipende da noi”. Un precetto, questo, che vale per tutti gli Ordini “sacri” se non si voglia confondere l'iniziazione con il proselitismo tramite videomessaggi o promozione telefonica. Lo Spirito Santo, come la veglia d'armi e l'investitura del Cavaliere, non è un Soggetto da sconti tariffari. Francesco distinse tra la stanchezza “brutta, nevrotica, che non aiuta” e quella “buona”: la “grande stanchezza di un uomo che ha dato la vita” e non perde il sorriso.
Parlava e parla nella perfetta consapevolezza che la Storia è irta di cadute.
La missione...
Come appunto è avvenuto alla Compagnia. Fondata da Ignazio di Loyola a Parigi il 15 agosto 1534 col proposito di predicare il Vangelo in Terra Santa nel solco di Francesco di Assisi, elevata a Ordine da papa Paolo III (Alessandro Farnese) con la bolla Regimini militantis il 27 settembre 1540, essa raggiunse l'apogeo sulla metà del Settecento. Arrivò a contare quarantanove province, seicentosessantanove collegi, trecento quaranta residenze e un esercito di ventiquattromila “religiosi” organizzati nelle cinque classi: novizi, studenti, fratelli laici o coadiutori temporali, sacerdoti e professi. Una milizia votata all'obbedienza al pontefice perinde ac cadaver. Lo aveva mostrato con l'evangelizzazione di genti lontane, sino al Giappone e alla Cina, terre di martirii e di trionfi, istoriate in innumerevoli opere d'arte e in chiese dai colori sanguigni dette “della Missione”. Come sempre accade nella storia, nel secolo dei lumi e della secolarizzazione sfrenata la potenza spirituale venne fraintesa all'esterno della Compagnia, suscitò invidia e demonizzazioni, sino alla callida invenzione dei Monita del polemico Girolamo Zaharovsky. Già sospettati di complotti contro la vita di sovrani anti-papisti, come Elisabetta I d'Inghilterra, che non esitò a far torturare a morte i gesuiti caduti nelle sue grinfie di Vergine Astrea (come era cantata da chi poco ne conosceva o molto apprezzava la spregiudicatezza politica), i membri della Compagnia divennero bersaglio di campagne d'opinione sempre più crude. Paradossalmente ebbero una sorte speculare a quella dei Cavalieri Templari giunti nel Duecento al massimo della loro espansione e forza economica e in pochi anni precipitati nell'abisso sotto la persecuzione di Filippo IV il Bello di Francia con la connivenza succuba di papa Clemente V (Bertrand de Got), che nel 1312 lo sciolse e non deplorò che il gran maestro Jacques de Molay e il suo “vice” venissero arsi vivi: una vicenda fosca, destinata a suscitare l'indignazione di contemporanei, come Dante Alighieri (a sua volta dai fiorentini condannato al rogo), e di un fiume di poeti e romanzieri che li elevarono a paradigma del ricorrente ricorso del Potere a inventare complotti e ad additare al ludibrio, alla condanna e allo sterminio i loro supposti artefici.
Quanto a metà Settecento nel volgere di pochi anni avvenne a danno dei Gesuiti ha dell’incredibile e deve far riflettere ancora oggi. Nel 1759, all'indomani dell'elezione di Lorenzo Ricci a Generale della Compagnia, i padri furono  espulsi dal Portogallo, vittime della macchinazione ordita da chi li colpiva nel continente europeo per punirli di quanto avevano fatto nell'America meridionale e avrebbero quindi potuto attuare anche “in patria”, cioè nel Vecchio Continente ormai avviato al predominio del potere secolare su quello spirituale. E poi via via dagli altri Stati legati alla Casa di Borbone nel “patto di famiglia”. In pochi anni, dinnanzi alla ferma resistenza del Generale della Compagnia (sint ut sunt aut non sint), un altro papa di nome Clemente, il XIV, arrivò a decretare lo scioglimento della Compagnia. I suoi componenti trovarono rifugio e accoglienza nella Russia di Caterina e nella Prussia del “fratello” Federico II. 
Le Riduzioni gesuite nell'opera di Gianpaolo Romanato
L'antefatto di quella fosca stagione è narrato da Gianpaolo Romanato in Le Riduzioni gesuite del Paraguay. Missione, politica, confronti (ed. Morcelliana, fresco di stampa). “Cattolico adulto”, docente nelle Università di Trieste-Gorizia e di Padova e componente del fattivo Pontificio comitato di scienze storiche, Romanato ha alle spalle volumi di lungo impegno su Daniele Comboni (L'Africa Nera fra Cristianesimo e Islam, ed. Corbaccio, presentato vent'anni  orsono all'ISPI di Milano da Sergio Romano), la biografia di Giacomo Matteotti, Un italiano diverso (Longanesi, 2010: confidiamo venga aggiornata in vista del centenario, anche perché l’Autore dirige la Casa Museo Matteotti a Fratta Polesine), L'Italia della vergogna nelle cronache di Adolfo Rossi: 1857-1921 (ed. Longo) e Pio X. Alle origini del cattolicesimo contemporaneo (Lindau, 2014, Premio Acqui Storia, tradotto anche in spagnolo (e quindi accessibile a una platea di lettori dieci volte più numerosa degli italofoni).
L'Opera su Le Riduzioni gesuite ha richiesto a Romanato decenni di viaggi nei luoghi, anche oggi non facilmente accessibili, ove i padri “ridussero” cioè raccolsero i nativi (niente affatto “in cattività” come il vocabolo potrebbe far intendere) avviandoli a una vita comunitaria, realizzando il “cristianesimo felice” di cui scrisse, su relazioni altrui, Ludovico Antonio Muratori, che ebbe il merito di richiamare l'attenzione degli studiosi non prevenuti.
Dopo importanti saggi preliminari su gesuiti, guaranì ed emigranti nelle Riduzioni del Paraguay (all'epoca molto più vasti di come lo conosciamo oggi), sulla scorta di vastissima letteratura in varie lingue, fonti archivistiche e l'esplorazione di quanto rimane dell'“oggetto materiale” e della sua ricerca sul “soggetto spirituale”, in duecento e più pagine di “testo” e altrettante di fonti con sapiente ricamo Romanato intreccia le biografie dei pionieri e dei bandeirantes che lentamente, senza mai scoraggiarsi, in quasi due secoli di missione condussero gli indigeni dallo stato quasi ferino a comunità con regole chiare e certe, valorizzando le loro qualità anche in territori che ancor oggi sorprendono, compresi la musica e, perché no?, il gioco del calcio.
L'Europa “civile” però non poteva consentire che “alla fine del mondo” (come di sé disse l'“argentino” José Mario Bergoglio alla sua elezione sul Sacro Soglio) nascesse una società opposta a quella consentita dalle ferree regole vigenti in Stati che avevano combattuto le autonomie tradizionali, i “fueros”, gli statuti comunali, col loro rullo compressore. Nell'Europa del barocco, del rococò, di chi volteggiava da una all'altra corte tra motti di spirito e indifferenza nei confronti delle plebi, il comunitarismo delle Riduzioni risultava indigesto, anacronistico, inaccettabile, tanto più e peggio da quando i padri della Compagnia dovettero organizzarne la difesa contro le irruzioni di masnade di pochi scrupoli in caccia di schiavi. La grande tratta di negri dall'Africa verso le Americhe era ancora di là da venire. Ma il disprezzo dei mercanti di carne umana nei confronti degli indios era rimasto come ai tempi di Bartolomé de Las Casas che aveva sostenuto con forza che anche essi possedevano l'anima e andavano rispettati come esseri umani, fratelli in Cristo.
La Quaresima è alle spalle, ma tutto lascia presagire che primavera non brillerà nell'aria e maggio non sarà affatto radioso. La Pasqua è motivo di raccoglimento. Ancora una volta è papa Francesco, ad ammonire, come ha fatto nel colloquio con i padri della Provincia euromediterranea (Malta, Italia, Albania e Romania) ai quali ha detto che la Chiesa di Roma diventerà più piccola, perderà molti privilegi, sarà più umile e autentica e troverà energia per l'essenziale. “Sarà una chiesa più spirituale, più povera e meno politica: una chiesa dei piccoli”, come aveva già annunciato Benedetto XVI, libera da ipocrisia e da “atteggiamenti cortigiani”.
Heri dicebamus, oggi dimentichiamo?
Anziché storcere il naso, i non cattolici, giustamente pronti a rivendicare i diritto all'eresia e la libertà di pensiero, hanno motivo di riflettere su un Magistero che ha attraversato i secoli e si è liberato dalle scorie della secolarità.
Hanno motivo di domandarsi che cosa abbiano appreso e che cosa oggi sentano di dover ripetere nel solco di Immanuel Kant. Il pacifismo (che non è ping-pong tra neutralità pelose, come quella svizzera, e alleanze militari) era solo un'utopia o una scelta fondata sulla consapevolezza che dal 6 agosto 1945 tutto è cambiato e che in ogni istante l'umanità rischia la propria autodistruzione, magari per distrazione?
È tempo di tornare all'iniziatismo autentico, vestibolo della fratellanza universale, antitetica all'anarchia planetaria oggi dilagante. Un Ordine iniziatico che dall'origine professò i principi oggi in gran parte condivisi da papa Francesco, così diverso da suoi precursori corrivi alla “scomunica”, e in Italia visse quasi sempre in clandestinità ha motivo di consolazione constatando l'abissale diversità tra le Chiesa di Roma e culti ancora immersi nel fondamentalismo e nell'intolleranza.    
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Il gesuita padre Giovanni Caprile (1917-1993),  componente del Collegio degli Scrittori di “La Civiltà Cattolica”, con i confratelli Valerio Alberton e José Antonio Ferrer Benimeli, il paolino Rosario F. Esposito e don Vincenzo Miano mezzo secolo fa propugnò la compatibilità tra il Vangelo e le Costituzioni di Anderson (1723). “Il vento soffia dove vuole” insegnava Giordano Gamberini citando Giovanni Evangelista.

IN PRINCIPIO ERA L'ITALIA
1943-1945 CONTINUITÀ E RISCOSSA


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 10 Aprile 2022 pagg. 1 e 6.

DIDASCALIA: Il colonnello Giuseppe Lanza Cordero di Montezemolo (Roma, 26  maggio 1901-24 marzo 1943), fedelissimo a Vittorio Emanuele III e alla Casa di Savoia, si pose alla guida del Centro (poi Fronte) militare clandestino, che dette un contributo di prim'ordine alla cobelligeranza italiana contro la Germania. Arrestato nei modi narrati dalla sua biografa Sabrina Sguegli della Marra (Ufficio storico SME, 2008, Premio Acqui Storia, con prefazioni del col. Antonino Zarcone e del prof. Giovanni Sabbatucci) venne atrocemente torturato a Via Tasso, incarcerato al Regina Coeli e suppliziato alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944, come tanti altri militari, militanti di “Bandiera Rossa”, politici e profeti dell'Italia libera, come il “fratello” Placido Martini.  La resa non fu una “disfatta”
Dopo ottant'anni i drammatici eventi dell'estate 1943 suscitano ancora oggi sentimenti contrastanti, spesso di indignazione e di condanna morale di molti loro protagonisti. Quei fatti, però, non vanno estrapolati dalla storia d'Italia, quasi fossero punta di iceberg in un oceano inesplorato. Essi viceversa furono conseguenza dell'assetto dei poteri del regno nato nel 1861 sulla base dello Statuto albertino del 4 marzo 1848: un triangolo scaleno segnato dalla sproporzione tra il capo dello Stato, l'esecutivo (di sua nomina) e il legislativo.
In Come muore un regime. Il fascismo verso il 25 luglio (il Mulino, 2021) Paolo Cacace conferma che la revoca di Benito Mussolini da capo del governo e la sua sostituzione con il maresciallo Pietro Badoglio furono iniziativa personale di Vittorio Emanuele III, assecondato dal ministro della Real Casa Pietro d'Acquarone e dalla ristretta cerchia di militari di sua assoluta fiducia. Il 25 luglio il Gran Consiglio del fascismo a maggioranza “esortò” il re a esercitare i poteri statutari, senza però mettere in discussione il regime. Perciò Mussolini chiese udienza al re e nel pomeriggio si recò a Villa Savoia convinto che quasi nulla sarebbe cambiato. Nei disegni del re quel voto, intorno al quale tanto è stato scritto, era invece un eccipiente secondario rispetto al suo piano, curato nei dettagli in grande segretezza. I nuclei antifascisti albeggianti e le romanzesche trame cospirative di cui ancora recentemente si è fabulato, a loro volta risultarono irrilevanti. Fu la Corona a decidere tempi e modi della “svolta”, anche sbrigativi, come il “fermo” del duce, che si premurò di dichiararsi pronto a collaborare con Badoglio. Come osservò Luigi Einaudi, citato dal presidente Sergio Mattarella a Dogliani il 12 maggio 2018, chi detiene la somma dei poteri, può lasciarli apparentemente dormienti per vent'anni, salvo valersene quando percepisce che sia venuto il momento. Così fece il re.
Di seguito fu lui ad autorizzare la ricerca inevitabilmente lenta del contatto con il Comando nemico per ottenere che all'Italia, ormai in un tunnel dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia, fosse concessa la “resa senza condizione”, deliberata dagli anglo-americani a carico dei vinti nella Conferenza di Casablanca su richiesta ultimativa di Stalin. Anche per conseguire questo scopo Corona e capo del governo si valsero di militari, unici interlocutori affidabili perché per lo Statuto il re aveva il comando delle forze armate, mentre sin dal regio decreto del 14 novembre 1901 il referente obbligato di tutti i ministri, Esteri incluso, era il capo dell'esecutivo.
L'obiettivo fu raggiunto in meno di un mese con la firma a Cassibile della resa (surrender, non, come poi si edulcorò, “armistizio”, che è frutto di stipula tra le parti). Lo strumento sottoscritto dal generale Giuseppe Castellano, datato “Sicilia, 3 settembre 1943” è esplicito: segnò la “sconfitta” ma, a differenza di quanto è stato talvolta affermato, non determinò la “disfatta” dello Stato d'Italia, perché la resa fu concessa (o imposta) al “governo del Re”, ovvero a Vittorio Emanuele stesso. Il “Comandante in capo” dei vincitori si riservò di stabilire “un Governo militare alleato in quelle parti del territorio italiano ove egli lo riterrà necessario nell'interesse militare delle Nazioni alleate” e di dettare “altre condizioni di carattere politico, economico e finanziario che l'Italia dovrà impegnarsi ad eseguire”, analiticamente contenute nel secondo strumento di resa consegnato dal generale Dwight Eisenhower a Badoglio a Malta il 29 settembre 1943: così duro e mortificante da essere tenuto segreto. Però con la resa la monarchia ottenne tre vantaggi preziosi: lo Stato non fu debellato ma chiamato a rispondere da vinto quando fosse giunto il momento; a differenza della sorta poi toccata alla Germania, non ne venne previsto in alcun modo lo smembramento; e la sua forma istituzionale non venne messa in discussione. Anzi, per gli inglesi, più lungimiranti degli americani, la monarchia costituiva una garanzia.
Il verbale del colloquio svolto il 29 settembre a margine della firma precisò la cornice degli eventi successivi. Il Comandante vincitore incitò il vinto a dichiarare guerra alla Germania, a “immettere nuovi elementi nel suo governo”, previo il placet del generale Mason Mac Farlane e, “parlando da soldato”, a destinare alla lotta contro la Germania le “divisioni migliori”. Badoglio precisò che “per la legge italiana solo il re  può dichiarare guerra” e scegliere i nuovi membri del governo. Assicurò la massima collaborazione anche in vista dell'ingresso in Roma (da Eisenhower dato per imminente: avvenne otto mesi dopo), accolse con freddezza l'annuncio del ritorno in Italia del “conte” Carlo Sforza, gran collare della SS. Annunziata e senatore ma accesamente repubblicano, auspicò di essere considerato “un collaboratore completo” e chiese di “prendere contatto col maresciallo Messe, ora prigioniero di guerra in Inghilterra”.
I punti di debolezza: il CLN contro la monarchia
Lo scenario istituzionale e politico italiano era però profondamente diverso da quello ventilato dal Comandante alleato. Il Comitato dei partiti antifascisti operante clandestinamente in Roma da metà agosto 1943, contrario a condividere il “passivo” della guerra e deciso a scaricarne la peso esclusivamente sulla Corona, assunto il nome di Comitato (Centrale) di liberazione nazionale tra fine settembre e inizio ottobre, rifiutò ogni collaborazione con il governo Badoglio, riservando gelida accoglienza alla proposta di collaborazione avanzata dal colonnello Giuseppe Lanza Cordero di Montezemolo, capo del Fronte militare clandestino. Lo ricorda Ivanoe Bonomi in Diario di un anno, 2 giugno 1943-10 giugno 1944. Il CLN propugnò l'immediata abdicazione del re, la rinuncia del principe Umberto alla successione e il conferimento della Corona al principe di Napoli, Vittorio Emanuele, di appena sette anni, sotto tutela di un reggente di nomina politica, contro la lettera dello Statuto. Anche molti liberali si accodarono e per bocca di Carandini fecero sapere di essere per “assemblea costituente più abdicazione”.
A vulnerare la continuità istituzionale aveva concorso proprio Badoglio che a inizio agosto, cancellati per decreto il Partito nazionale fascista, la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, il Gran consiglio e tutte le organizzazioni del passato regime, aveva sciolto la Camera dei fasci e delle corporazioni in vista dell’elezione di una nuova Camera dei deputati entro quattro mesi dalla fine della guerra. Pertanto, data la natura bicamerale del Parlamento, il Senato fu paralizzato e il re risultò politicamente sovraesposto. La “monarchia rappresentativa” fu sospesa sotto il profilo formale e sostanziale. Il triangolo Corona, Governo, Parlamento fino a quel momento scaleno venne spezzato.
Sotto il profilo politico la parola passò dalle istituzioni vigenti a forze autoconvocate, come il congresso dei CLN, radunatosi a Bari il 28-29 gennaio 1944. Nel suo corso venne ribadita la richiesta di immediata abdicazione di Vittorio Emanuele III, da alcuni liberali liquidato addirittura come “cencio sporco”.
Per gli anglo-americani, pur diversi nella loro grammatica politico-istituzionale, lo Stato d'Italia era quello impersonato dal re e dal governo di sua nomina. Se mai avessero avuto motivo di dubitarne (ma non ne esistono documenti probanti) a rafforzarli nella loro posizione fu la costituzione della Repubblica sociale italiana incardinata su Mussolini e succuba della Germania. Malgrado tutto, all'indomani della resa e del trasferimento del re, del principe ereditario e del governo da Roma a Brindisi, nei modi che tante polemiche hanno suscitato e ancora sollevano, i vertici delle Forze Armate furono a fianco del sovrano. Il 26 settembre 1943 Vittorio Emanuele III ordinò l'organizzazione del Raggruppamento “Savoia”: un primo nucleo di circa 5.000 uomini. Cinque giorni dopo la dichiarazione di guerra alla Germania (13 ottobre), lo passò in rassegna nei pressi di Manduria. La riorganizzazione dell'Esercito molto deve alla tenacia di Giovanni Messe, ultimo Maresciallo d'Italia, biografato dal generale Antonio Zerrillo e da Luigi Emilio Longo nel volume pubblicato dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito (2006).
Il 15 novembre il Raggruppamento “Savoia” fu autorizzato a muovere verso la linea del fronte di combattimento. Sulle fiancate degli automezzi il colonnello Valfrè di Bonzo fece istoriare lo scudo sabaudo. A inizio dicembre venne aggregato alla 36^ divisione statunitense del II corpo d'armata e (come scrisse Gabrio Lombardi) fu incaricato di espugnare il “dosso allungato, scoperto e roccioso, spezzato in una lunga serie di ondulazioni di altezza crescente”: Montelungo. Lì, l'8 e il 16 dicembre 1944, ebbero luogo le sue prime prove con attacchi ripetuti a reparti della divisione “Goering”. Subì pesanti perdite. Il primo giorno perse 4 dei 5 ufficiali in linea. Mostrò che “l'antiquo valore/ne l'italici cor non [era] ancor morto”. Lo stesso principe ereditario, che si levò in volo di ricognizione per fornire precise informazioni sul nemico meritò la prima delle due onorificenze conferitegli dagli anglo-americani: la Silver Star e la Legion of Merit.
La riorganizzazione delle Forze Armate, a cominciare dal Regio Esercito, avvenne in quei mesi difficili per tutti. Il motto del Re e del principe ereditario Umberto di Piemonte, dal 5 giugno 1944 Luogotenente del Regno, fu “Viva l'Italia”. Continuò a garrire il tricolore che dal 1848 ne aveva guidato la lunga marcia verso l'indipendenza e l'unità nazionale con “in alto la Bandiera”, come ha scritto lo storico militare gen. Oreste Bovio.

Gli uomini che fecero l'impresa (1943-1945) in una Mostra a Torino
Dal rovesciamento del regime fascista all’instaurazione dalla Repubblica (19 giugno 1946) si susseguirono sei diversi governi. Nell'ordine, il maresciallo Pietro Badoglio ne presiedette tre diversi dal 25 luglio 1943 al 18 giugno 1944; Ivanoe Bonomi (ex socialista riformista, democratico, esponente della Democrazia del lavoro) ne guidò due sino al 21 giugno 1945. A lui segui il breve governo presieduto da Ferruccio Parri, comandante delle formazioni partigiane “Giustizia e libertà”, esponente del Partito d'azione, dal quale si separò nel congresso del febbraio 1946. Il 10 dicembre gli subentrò il democristiano Alcide De Gasperi, a capo di un governo formato da ministri dei sei partiti del Comitato di Liberazione Nazionale (comunisti, socialisti, azionisti, democratici del lavoro, democristiani, liberali), con esclusione del Partito repubblicano italiano capitanato da Randolfo Pacciardi.
Al ministero della Guerra si susseguirono nell'ordine i generali Antonio Sorice e Taddeo Orlando con Badoglio; il liberale Alessandro Casati con Bonomi, il democristiano Stefano Jacini con Parri e il repubblicano e massone Cipriano Facchinetti con De Gasperi.
Nello stesso arco di tempo si susseguirono due soli Capi di Stato Maggiore Generale: il maresciallo d'Italia Giovanni Messe dal 18 novembre 1943 al 1° maggio 1945, quando gli subentrò il generale designato d'armata Claudio Trezzani. L'opera di Messe (massone, già aiutante di campo di Vittorio Emanuele III) è stata al centro di convegni e delle biografie scritte da Emilio Longo (Ufficio Storico dello SME, 2006) e dal generale Zerrillo in Il Regno di Vittorio Emanuele III 1938-1946 (BastogiLibri, 2021).
Capi di stato maggiore dell'Esercito furono i generali Mario Roatta sino al 18 novembre 1943; Paolo Berardi fino al 10 febbraio 1945, quando assunse il comando delle Forze Armate in Sicilia per contrastare l'Esercito volontario per l'indipendenza dell'isola, Ercole Ronco e infine il generale di divisione Raffaele Cadorna, già comandante del Corpo Volontari della Libertà, figlio di Luigi Cadorna, comandante supremo durante la Grande Guerra (su cui fa luce il volume Luigi e Carlo Cadorna, Caporetto? Risponde Cadorna, BastogiLibri, 2021).
Capo di Stato Maggiore della Marina (carica abbinata a quella di sottosegretario della Marina) fu l'ammiraglio Raffaele De Courten; a Capo di Stato Maggiore dell'Areonautica si susseguirono i generali Pietro Piacentini e Mario Aymone Cat. Quattro furono i comandati generali dei Carabinieri: i generali Angelo Cerica fino al 9 settembre 1943, Giuseppe Pièche dal 15 novembre 1943 al 20 luglio 1944, Taddeo Orlando e dal 7 marzo 1945 Brunetto Brunetti.
La loro opera si coniugò a quella dei comandanti del Corpo Italiano di Liberazione e, di seguito, dei Gruppi di Combattimento “Cremona” (generale Clemente Primieri), “Friuli” (gen. Arturo Scattini), “Folgore” (Giorgio Morigi), “Legnano”, “Mantova”, “Piceno (gen. Emanuele Beraudo di Pralormo), impegnati nell'avanzata verso il Nord.
“Nel decennale della Resistenza e del ritorno alla democrazia” il loro fondamentale contributo alla ricostruzione dell'Italia è stato documentato dal gen. Primieri in Il Secondo Risorgimento (Roma, Poligrafico dello Stato, 1955, con contributi di Aldo Garosci, Raffaele Cadorna, Costantino Mortati e altri) e, sulla scorta di ampia documentazione, dal generale Pierluigi Bertinaria nel convegno internazionale di studi (Milano 17-19-maggio 1984) La cobelligeranza italiana nella lotta di Liberazione dell'Europa, i cui atti sono stati pubblicati dal Ministero della Difesa-Comitato storico “Forze Armate e Guerra di Liberazione” (a cura di A.A.M, Roma, 1986).

   La complessa evoluzione dal Raggruppamento “Savoia” al CIL e ai Gruppi di Combattimento è documentata dalla Mostra al Mastio della Cittadella di Torino (C.so Galileo Ferraris), allestita dal 22 al 30 aprile per iniziativa di illustri personalità (i generali Pastorello, Cinaglia, Uzzo, Puliatti e altri) di concerto con il Museo Storico Nazionale di Artiglieria e l'Associazione Nazionale Artiglieri d'Italia. La Mostra (i cui catalogo è in stampa) è aperta il 22 da una conferenza con interventi di Gianni Oliva e Pierfranco Quaglieni e viene conclusa il 30 con relazioni dei generali Antonio Zerrillo e Giorgio Blais. Entrambi gli incontri sono presieduti da Pier Carlo Sommo.
   L'importante iniziativa scientifica e didattica evidenzia la continuità dell'Esercito italiano dalla sua costituzione (1861) a oggi e percorre il ruolo svolto per 19 mesi dalle forze armate italiane riorganizzate, giunte a contare 450.000 uomini tra reparti combattenti e ausiliari, senza dimenticare gli 80.000 militari che operarono nelle formazioni partigiane sorte nell'Italia centro-settentrionale, non solo di ispirazione dichiaratamente monarchica ma anche nelle file di Garibaldini, Giustizia e libertà, Matteotti e nelle brigate “bianche”, cioè di ispirazione democristiana o genericamente “cattolica”. Il panorama del contributo dato dai militari alla “Riscossa” (come Raffaele Cadorna intitolò le sue Memorie) non sarebbe completo se non venisse tenuto conto anche degli Internati Militari Italiani (la loro storia è stata recentemente documentata da Avagliano e Palmieri, ed. Mondadori) e dei prigionieri italiani negli USA e Gran Bretagna.
A quasi ottant'anni dai fatti, la svolta voluta e attuata da Vittorio Emanuele III nell'estate 1943 viene ricomposta alla luce meridiana la verità storica.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Il colonnello Giuseppe Lanza Cordero di Montezemolo (Roma, 26  maggio 1901-24 marzo 1943), fedelissimo a Vittorio Emanuele III e alla Casa di Savoia, si pose alla guida del Centro (poi Fronte) militare clandestino, che dette un contributo di prim'ordine alla cobelligeranza italiana contro la Germania. Arrestato nei modi narrati dalla sua biografa Sabrina Sguegli della Marra (Ufficio storico SME, 2008, Premio Acqui Storia, con prefazioni del col. Antonino Zarcone e del prof. Giovanni Sabbatucci) venne atrocemente torturato a Via Tasso, incarcerato al Regina Coeli e suppliziato alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944, come tanti altri militari, militanti di “Bandiera Rossa”, politici e profeti dell'Italia libera, come il “fratello” Placido Martini.

UBI REX 
NELLA MACCHINA DELLO STATO


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 3 Aprile pagg. 1 e 6.

 La “foto ricordo” della visita dello zar Nicola II a Vittorio Emanuele III, che lo ospitò nel Castello di Racconigi (23-25 ottobre 1909). A una Dama scappò un sorriso... Era l'Europa dei buoni sentimenti. Al ricevimento partecipò Ernesto Nathan, sindaco di Roma ed ex gran maestro del Grande Oriente d'Italia. Ma Putin è malato? Allora è malata la Russia? Il figlio di Joe Biden è corrotto? Suo babbo lo sapeva? Chi ha davvero il comando degli Stati che dominano il mondo? Il “Capo” o chi lo ha issato al potere? Boiardi? Pretoriani? L'interrogativo assillante oggi è: per quale“Idea” si possono impoverire i cittadini e imporre“sacrifici” anche irreversibili? Nel Novecento l'Italia ha già dato. Aveva una macchina efficiente, un solo autista, un'Officina di prima qualità e una propria inconfondibile identità: lo Stato.

Due chiacchiere in carrozza per fare un po' d'Italia
  Con il trattato del 24 marzo 1860 il regno di Sardegna approvò la “riunione” (una “piccola bugia”) della Savoia e della contea di Nizza Marittima all'impero di Francia, in linea con quanto verbalmente concordato tra Camillo Cavour e Napoleone III sin dalla chiacchierata in carrozza a Plombières il 21 luglio 1858. Poco prima, l'11-12 marzo i plebisciti avevano confermato l'“annessione” dell'Emilia e l'“unione” della Toscana al regno di Sardegna, che già aveva ottenuto la Lombardia (tranne Mantova) senza farvi ripetere il plebiscito che l'8 giugno 1848 ne aveva approvato l'“unione immediata” al “Piemonte” di Carlo Alberto. Mentre la demarcazione del nuovo confine italo-francese a nord fu semplice (il crinale alpino) quello nelle Marittime risultò molto laborioso. Come insegna lo storico Oreste Bovio, il generale Manfredo Fanti, ministro della Guerra, si dimise per non sottoscrivere una linea militarmente svantaggiosa. A trattato firmato, riprese le funzioni. Vittorio Emanuele II rinunciò obtorto collo alla terra dei suoi avi, confidando nella comprensione di Giuseppe Garibaldi, divenuto “straniero all'Italia”. Era nato a Nizza il 4 luglio 1807, cittadino dell'impero di Napoleone I, che aveva debellato Pio VII, ben altra cosa dal “papalino” Napoleone III.
  Nella complicata trattativa il sovrano sabaudo riuscì a strappare a suo vantaggio almeno alcune aree montane irrinunciabili per lui che ci andava a caccia da ragazzo, “pensando al regno”.
  Dopo l'annessione di quasi tutta l'Italia centro-meridionale e il trasferimento della capitale del regno da Torino a Firenze (1864-1865), passaggio doloroso non solo per lui ma anche per la Augusta Taurinorum e quanti vi gravitavano, Vittorio Emanuele II continuò a privilegiare il Vecchio Piemonte per le sue “vacanze”. Lì era “a casa”. Suo figlio Umberto I, perennemente in visita con la consorte Margherita di Savoia alle Cento città dell'Italia quasi unificata nel 1866 e nel 1870, privilegiò invece la Villa Reale nella fatale Monza. I suoi spostamenti, sempre di breve durata, non comportarono la dislocazione degli “uffici” di Corte, ancora in corso di organizzazione nei “palazzi del governo”, in massima parte allocati nei più sontuosi edifici romani, a cominciare dal Quirinale. I sovrani passano, gli immobili restano.
Da principe esploratore a re d'Italia
Principe di Napoli ed erede a un trono che non ambiva, Vittorio Emanuele neppure dopo il matrimonio con Elena di Montenegro ebbe tempo per “vacanze”. Di concerto con suo padre, fu continuamente assorbito da viaggi ufficiali in Italia e all'estero. Nel 1897 visitò, nell’ordine, Firenze, Roma, Venezia, Napoli, Parigi, Londra, Amsterdam, Lucerna, Roma, le Baleari, la Spagna sino a Gibilterra, Ceuta, Tangeri e poi Malta, la Sicilia, Amalfi, Napoli (appena in tempo per le grandi manovre presso Benevento), Monza, Stresa, Milano, Roma, Napoli. Andò a caccia a Castel Porziano prima di festeggiare Capodanno a Napoli. A Torino arrivò il 30 aprile 1898 per l'inaugurazione dell'Esposizione Nazionale nel cinquantenario dello Statuto, poco prima che in Lombardia e in Toscana scoppiassero sospette proteste contro il carovita. Nell'estate visitò Danimarca, Norvegia, Scozia, Londra, Anversa, Rotterdam. Dopo una pausa a Napoli fu a Vienna per i funerali della sfortunata imperatrice “Sisi” e poi ancora in viaggio da un capo all'altro dell'Italia. Nell'aprile 1899 iniziò l'esplorazione dell'Egeo; in giugno tornò in Norvegia; passò agosto metà in Montenegro per le nozze del cognato Danilo e pochi giorni all'isola di Montecristo, per riprendere poi la peregrinazione da un capo all'altro d'Italia, passando anche per Pescasseroli.
  Allo stesso modo iniziò il tragico 1900: Napoli, Montecristo, Napoli, Berlino, Napoli, Gaeta, Montecristo, Napoli, Roma (per l'inaugurazione della XXI legislatura), Napoli e poi la crociera con Elena alla volta della Grecia, di Costantinopoli, della Palestina e ancora la Grecia. Venne “chiamato dal mare”. Approdò a Reggio di Calabria e accorse a Monza.
  Asceso al trono, voltò le spalle alla Villa Reale di Monza, evocativa del regicidio.
“Scoprì” il Castello di Racconigi, salì a Sant'Anna di Valdieri ove era stato tante volte a caccia con il padre e predilesse infine la quieta Provincia Granda per le lunghe vacanze.
La pax operosa dello Stato anche dalla Granda
  Racconigi divenne una sorta di seconda capitale.  Il re vi aveva quanto riteneva indispensabile. Nel novero figuravano anche gli “Uffici” della Corte. 
  La Monarchia era una macchina molto complessa. Doveva esserlo in un regno giovane qual era l'Italia, unificata da poco e segnata dalle molte “gare” tra antiche capitali di Stati un tempo opulenti o almeno prestigiosi: da Napoli a Venezia, da Firenze a Milano, da Palermo a Parma e Modena, via via sino alla dogale Genova.
  Il Calendario Reale elencava ogni anno cariche e nomi dei componenti delle Corti del re, della regina Elena e della regina madre: poco più di 250 persone a inizio Novecento. A parte erano le corti delle Case sabaude di Aosta e di Genova, nonché le “corti antiche”, cioè dei sovrani, regine e principi defunti, inclusi il Padre della Patria e Umberto I.
  La Casa di Vittorio Emanuele III era ripartita in Casa Militare (comprensiva di quella Onoraria, molto più affollata) e Casa Civile, Corte della regina, Corte del principe di Piemonte (quando venne istituita) e degli altri principi, inclusa la principessa Maria Laetitia, seconda moglie del duca Amedeo d'Aosta, re di Spagna da fine 1870 all'inizio del 1873, morto giovane a Palazzo Cisterna in Torino tra le braccia del fratello Umberto.
  La Casa Militare del re comprendeva il primo aiutante di campo, aiutanti di campo generali e aiutanti di campo: un numero ristretto di alti ufficiali di sicura fiducia del sovrano. Vittorio Emanuele III confermò nella carica apicale il generale Ugo Brusati (1847-1936), che lo era della sua Casa di principe dal 1898 e lo rimase sino al compimento del 70° anno (il triste ottobre 1917). Il primo aiutante accompagnava il sovrano ovunque, vacanze comprese, e normalmente pranzava con la famiglia reale: una “colazione di lavoro” per chi non poteva perdere di vista la “grande politica” (estera e militare) e le turbolenze di quella interna. Gli aiutanti di campo generali e quelli per così dire “semplici” si alternavano di mese in mese o ogni quindici giorni. Turni necessari per le pesanti incombenze che li gravavano: essere costantemente a giorno e filtrare tutte le “novità”, soprattutto quelle allarmanti, comunicate dalla rete dei “servizi”, inclusi gli addetti militari presso le ambasciate e gli informatori a contatto con ogni genere di rappresentanza sensibile anche all'estero, dai consolati a sedi commerciali e istituti culturali. A volte i carabinieri comunicavano direttamente con il capo dello Stato.
  Nell'insieme la Casa Militare era di piccole dimensioni, perché aveva alle spalle la piramide delle forze di terra e di mare al cui comando era il re stesso. A lui facevano riferimento anche i ministri della Guerra e della Marina, indicati dal sovrano ai presidenti del Consiglio. Nulla era lasciato al caso. Tra altri Vittorio Emanuele III volle ministro della Guerra Paolo Spingardi, nato a Spigno Monferrato, già comandante generale dei carabinieri.
  La Casa Civile era molto più articolata e complessa. Era imperniata sul ministro della Real Casa: una figura che ai tempi di Vittorio Emanuele II aveva generato  tensioni tra il sovrano e il governo, per frizioni su minutaglie. Pressoché onnipotente lo era stato Urbano Rattazzi jr, nipote di Urbano Rattazzi, esponente della sinistra democratica nel decennio cavouriano, ministro dell'Interno nel governo presieduto da Alfonso La Marmora dopo l'armistizio di Villafranca (luglio 1859), sfortunato presidente del Consiglio nel 1862 e nel 1867, quando dovette reprimere tardivamente le spedizioni di Garibaldi. Patrono della nomina dell'appena cinquantenne Giovanni Giolitti a capo del governo (1892-1893), Urbano jr si dimise mentre aleggiavano inchieste su speculazioni edilizie nella Roma umbertina e si favoleggiava dei profitti diretti o procacciati da “sub-Urbano”, come veniva etichettato dalla satira. Suo successore fu il rupestre Emilio Giuseppe Ponzio Vaglia, già primo aiutante di campo di Umberto I. Vittorio Emanuele III lo ereditò dal padre, lo creò conte il 20 settembre 1904, durante i festeggiamenti per la nascita del principe ereditario Umberto di Piemonte. Suo successore nel 1909 fu Alessandro Mattioli Pasqualini, in carica sino al gennaio 1939 quando venne sostituito dal conte Pietro d'Acquarone, poi elevato a duca da Vittorio Emanuele III per i suoi molti meriti di saggio amministratore, duttilità, intuito politico e capacità di ascolto degli umori serpeggianti nell'Italia da Mussolini avviata sui funesti binari del Patto d'Acciaio con la Germania di Adolf Hitler.
  Altro ufficio apicali della Corte era il prefetto di Palazzo e gran mastro delle cerimonie. La carica fu a lungo ricoperta dal duca Gian Battista (Bacicìn) Borea d'Olmo il cui avo, Orazio, era stato maire di Sanremo e Legion d'Onore quando la Liguria venne annessa all'Impero di Francia: massone, personaggio bizzarro al quale si ispirò Italo Calvino per ritrarre il Visconte dimezzato, come narra il suo biografo Luca Fucini. Nominato ottantaduenne in successione a Cesare Federico Gianotti (combattente che in tutte le guerre per l'indipendenza compresa la battaglia di Custoza del 1866), Borea d'Olmo morì in carica a 105 anni. Le sue funzioni erano così impegnative da richiedere un Prefetto di Palazzo aggiunto. Seguivano il Grande scudiero (lo fu a lungo Alberto Solaro del Borgo dei marchesi di Borgo San Dalmazzo), il Gran cacciatore e il Primo mastro delle cerimonie di corte, affiancato da una pleiade di altri Mastri e da alcuni Mastri delle cerimonie di corte aggiunti. Tanti ne occorrevano nelle molte residenze secondarie e nelle città da visitare ed era saggio disporre di varie “antenne” in un'Europa in subbuglio.
  Tra gli Uffici vi erano infine il Medico di corte e il Cappellano Maggiore. Quest'ultimo ricopriva un ruolo particolarmente delicato mentre durava il conflitto tra Stato e Chiesa e il re rimaneva “scomunicato” dal papa. A norma dell'articolo 1 dello Statuto la religione cattolica apostolica romana era la sola religione dello Stato, ma in Italia erano ammessi tutti i culti. Agnostico con istintivi guizzi anticlericali, quando necessario Vittorio Emanuele III assisteva alle cerimonie ecclesiastiche ma su tutto per lui prevaleva l'articolo 24 dello Statuto albertino: «Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo e grado, sono eguali dinanzi alla legge». Dopo monsignor Vittorio Anzino, che aveva amministrato l'eucarestia al morente Vittorio Emanuele II, come ha narrato Aldo G. Ricci, e Giovanni Lanza, Cappellano maggiore fu nominato il canonico Giuseppe Beccaria, che rimase in carica per un quarantennio. Nel ghiotto volume Il clero Palatino tra Dio e Cesare (1995) Tito Lucrezio Rizzo ripercorre le complesse origini e le articolate vicende di una “carica” che sopravvisse sino alla revisione del Concordato siglata nel 1984 da Bettino Craxi per l'Italia e dal cardinale Agostino Casaroli per la Santa Sede.
Tutti per uno, uno per tutti: l'Italia
  Quando dalla Città Eterna si trasferiva a estivare per lungo periodo nella Provincia Granda Vittorio Emanuele III traeva al seguito un numero rilevante dei primi ufficiali della monarchia. “Piccola capitale transitoria” la Real Città di Racconigi veniva attrezzata di conseguenza per accogliere nella maniera più degna il seguito del sovrano, in parte allogato nel Castello stesso, celermente ammodernato, in parte dove possibile. Spartano qual era, il re riteneva che altrettanto dovessero esserlo gli Uomini nominati alle cariche supreme della Corte e così pure le Dame della Corte della Regina Elena. I quotidiani dell'epoca (da Torino, Milano, Roma, ma persino in una città di 30.000 abitanti come Cuneo se ne contavano tre) avevano i loro corrispondenti in loco, tanto informati quanto garbati, anche perché la vita del re e della regina non prestava il fianco a pettegolezzi.
  Vista con la lente d’ingrandimento la Corte della Casa Reale era composta da personalità cresciute per e nel servizio dello Stato: militari, diplomatici, dirigenti e funzionari di uffici pubblici, professionalmente preparati, adeguatamente selezionati e devoti alla missione. All'ingresso nel servizio il pubblico impiegato giurava di «essere fedele a sua maestà il Re ed ai suoi reali successori, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato e di adempiere  tutti i doveri del [suo] stato, con il sol scopo del bene inseparabile del Re e della Patria».
  Qualcuno ha ventilato che i Savoia re d'Italia siano stati “una dinastia senza sacralità” perché non praticarono la cerimonia d’incoronazione del sovrano e la Corona Ferrea, emblema della regalità in e sull'Italia, rivendicata da Vittorio Emanuele II e restituita da Francesco Giuseppe d'Asburgo nel 1866, venne recata a Roma solo per i funerali del Re Galantuomo e di suo figlio Umberto.
  A ben vedere, però, la vera sacralità della Terza Italia non stava in una celebrazione una tantum ma nella somma di quanti facevano quadrato attorno alla regalità: diplomazia, forze armate e, all'occorrenza, volontari. La Corona non metalli e gioielli: era fusa nello Statuto, “legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della monarchia” e sul suo sobrio articolo 22: «Il Re, salendo al trono, presta in presenza delle Camere riunite il giuramento di osservare lealmente il presente Statuto». La “sacralità” era l'identità tra il re e i popoli d'Italia incamminati a divenire “nazione”: il “plebiscito quotidiano” tra Stato e i cittadini.
  A Racconigi Vittorio Emanuele riceveva lo zar di Russia, gli ambasciatori dei Paesi più remoti, ministri, parlamentari, scienziati, artisti e la miriade di sindaci di grandi e piccoli comuni della “sua” terra, elettivi come li aveva voluti Carlo Alberto, espressione genuina di una civiltà politica fondata sulla libera scelta dei propri rappresentanti. Lì Vittorio Emanuele e la Regina Elena si sentivano “a casa”. E con piccola scorta salivano a San Giacomo di Entraque o a Sant'Anna di Valdieri ove gareggiavano a chi abbattesse più camosci spinti dagli “scaccioni” o a chi pescava più trote e di maggiore stazza: tutto puntualmente registrato dall'apposito addetto, che poi inviava le prede alle “mense” di chi ne aveva bisogno.
  La vita “del re” non era una visita “da re”. Era quella di Capo dello Stato, ovunque fosse. Ubi rex… Depositario e garante dell'Idea di Italia, una, indipendente e sino alla Grande Guerra libera di decidere le proprie sorti.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: La “foto ricordo” della visita dello zar Nicola II a Vittorio Emanuele III, che lo ospitò nel Castello di Racconigi (23-25 ottobre 1909). A una Dama scappò un sorriso... Era l'Europa dei buoni sentimenti. Al ricevimento partecipò Ernesto Nathan, sindaco di Roma ed ex gran maestro del Grande Oriente d'Italia.

ITALIA UNITA 
CENTRALITÀ DEL PARLAMENTO 


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 27 Marzo pagg. 1 e 6.

Imparare a guardare “oltre”
«Noi italiani ricominciamo la grama vita dei secoli passati, parteggiando per paesi stranieri anziché pensare unicamente al nostro paese». Lo scrisse lo statista piemontese Giovanni Giolitti al suo amico Antonio Cefaly, calabrese, vicepresidente del Senato. Era il 5 aprile 1915. Mancavano venti giorni alla firma dell'accordo segreto di Londra che precipitò l'Italia nella fornace della Grande Guerra. Aveva appena compiuto mezzo secolo. All'unità era arrivata con la diplomazia e con la spada: esercito regio e volontari. E anche con “operazioni militari speciali”. Nel settembre 1860 Vittorio Emanuele II invase lo Stato pontificio con un pretesto. Poco dopo irruppe nel regno delle Due Sicilie senza dichiarazione di guerra. Altrettanto fece il 20 settembre 1870 per impedire che nella Roma di Pio IX scoppiasse un’immaginaria rivoluzione repubblicana o garibaldina.
È la storia. Un impasto di atti (irreversibili per quanti ci lasciano la vita) e di piaghe malamente cucite da stipule tra i contendenti. Il conflitto tra il regno d'Italia e la Santa Sede richiese quasi sessant'anni. Si compose con i Patti Lateranensi dell'11 febbraio 1929, inseriti nella Costituzione della Repubblica col voto favorevole del Partito comunista di Togliatti e il no di socialisti, repubblicani, azionisti e liberali. I Patti sono eterni? Anche quelli fra Stato e Chiesa furono revisionati e sono in attesa di aggiornamento. Nulla nella storia è immutabile. I trattati non sono “chiffons de papier” come pare abbia detto la Germania nell'agosto 1914 in procinto di invadere il Belgio, che si considerava al riparo per il trattato che ne garantiva l'immunità. Però non sono eterni. Nascono e muoiono come tutto ciò che è umano. Vincolano gli Stati o i governi che li hanno sottoscritti? Prendiamo il caso dell'adesione dell'Italia alla Nato, un trattato difensivo concepito in una situazione storica circostanziata: la contrapposizione in blocchi, il potenziale conflitto armato tra alcuni Stati “occidentali” e l'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche nel 1948-1949, circondata dai Paesi satelliti. Il governo italiano (ricorda Nico Perrone in Il realismo politico di De Gasperi, BastogiLibri) decise di farne parte l'11 marzo 1949 senza neppure conoscerne lo statuto. Il presidente del Consiglio, il democristiano Alcide De Gasperi, lesse un testo approssimativo. I cittadini non ne sapevano nulla. Il governo, però, aveva le spalle al sicuro perché nelle elezioni del 18 aprile 1948 la Democrazia cristiana aveva vinto molto oltre le sue più rosee speranze (assorbì i voti dei monarchici, orfani dopo la “sconfitta” nel referendum del 2-3 giugno 1946) mentre il Fronte popolare socialcomunista, incorporata un'ala del partito d'azione, subì una durissima sconfitta.
Un'ampia parte dell'elettorato “moderato” era del tutto contraria a vincolare l'Italia a blocco militare. Alla fine della guerra la Democrazia cristiana era per la neutralità. Molti pensatori cattolici distinguevano anzi fra pacifismo e neutralità, in linea con Pio X, che (ricorda il suo biografo Gianpaolo Romanato) morì con l'incubo del “Guerrone” incombente, e con Benedetto XV, ancora sottovalutato dalla storiografia, predicò il pacifismo. Era la missione della Chiesa di Roma in un'epoca che vide i cristiani schierarsi e dilaniarsi in subordine ai governi dei Paesi nei quali vivevano. Accadde per evangelici, riformati e anche per i cattolici. Quelli del Belgio e della Francia si attendevano la condanna pontificia della tracotanza germanica, mentre i bavaresi e gli austro-ungheresi erano ansiosi di ottenere la benedizione del papa per la loro vittoria su gallicani, anglicani e Russia ortodossa. Lo documenta il poderoso volume Santa Sede e cattolici nel mondo posbellico (1918-1922), atti di un convegno promosso dal Pontificio comitato di scienze storiche (Libreria Editrice Vaticana). La guerra divise anche pacifisti, liberi pensatori e massoni, come ha documentato Yves Hivert-Messeca nella poderosa storia dell'Europa sotto l'Acacia (ed. Dervy): un arbusto con poche foglie squassate dai venti di governi che da decenni vivevano per la vendetta.
Non da oggi, dunque, i Trattati sono da un canto e le buone intenzioni dall'altro. Dichiarare (come fa la senatrice Liliana Segre) che dinnanzi al conflitto attuale è impossibile rimanere “equidistanti” e che “non ci si può voltare dall'altra parte” (lo sostiene, fra altri, anche Mario Draghi) e bisogna dunque schierarsi, anche con le armi, è comprensibile nell'ottica dei buoni sentimenti. Ma è retorico sul piano della storia, perché, se davvero così fosse, gli aspiranti “custodi del bene” e della “democrazia” dovrebbero accorrere a raddrizzare i torti quotidianamente perpetrati in tutti i continenti da grandi, medie e talvolta piccole ma bene armate potenze, nonché da pseudostati come l'Isis e da movimenti terroristici vari, contro nemici esterni, veri o supposti, o minoranze interne, in taluni casi realmente presenti, in altri del tutto inventate da chi per rimanere al potere ha bisogno di additare un “nemico”.
Anziché voltarsi verso uno dei fronti in lotta, a cospetto di un conflitto potenzialmente devastante occorre guardare oltre per disinnescare il terreno dalle mine seminate per decenni e così diffuse da rendere difficile il dialogo.
Da qualche settimana le operazioni belliche in corso nell'Europa orientale hanno catapultato la generalità dei cittadini dalla pressoché completa indifferenza (o magari anche ignoranza) della “grande politica” (cioè quella estera e militare e la lotta per il controllo delle indispensabili “materie prime”: anzitutto i metalli rari) alla visione quotidiana dei combattimenti: file chilometriche di carri armati, scie dei missili, edifici sventrati, persone chiuse nei rifugi o in fuga, donne, bambini, lacrime. La “guerra”, che dal 1945 non aveva mai cessato di serpeggiare nel pianeta come gramigna inestirpabile, è divenuta un soggetto ordinario. Aveva suscitato qualche apprensione quando divampò nel Vicino e Medio Oriente e persino in Libia, di cui si ricorda il truce supplizio inflitto a Gheddafi ma della cui condizione effettiva odierna si sono perse le tracce. Così come nulla si dice sistematicamente dei feroci conflitti in corso in tanti paesi dell'Africa subsahariana, che fanno notizia solo quando vi cade un cittadino italiano, come avvenne in Congo. Lo stesso vale per vaste aree dell'Asia, già teatro di guerre mai dichiarate e nondimeno atroci, come Vietnam, Cambogia, Laos. Se non fosse per la titolare di un discusso premio Nobel per la pace (venne conferito ante litteram anche a Barak Obama, non proprio una crocerossina), la Birmania sarebbe a sua volta nel cono d'ombra che avvolge lo Yemen, uno tra i più generosi spacci di morte con armi importate da paesi che proclamano di “rifiutare la guerra” ma la fanno fare agli altri.
L'abbondanza di “immagini” sul conflitto soffoca la ricerca delle “spiegazioni”. La “storia”, si sa, è noiosa, perché comporta di colmare il vuoto di informazioni che ha caratterizzato i media (anche in Italia) da quando, ormai da anni, fu chiaro che la Nato si sarebbe ritirata dall'Afghanistan, fallimento strategico di una costosissima “operazione” troppo a lungo narrata come doverosa “esportazione della democrazia”: quasi che principi e costumi che hanno richiesto secoli per affermarsi possano essere “trapiantati”. È la litania anche oggi ripetuta: con l'attenuante che non si parla più di prodotto da esportazione ma di tutela del marchio e del suo uso anche da parte di Paesi, come l'Ucraina, che non ne sono affatto specchio e la cui storia è (o dovrebbe essere) nota a quanti oggi si avvolgono nei suoi colori senza conoscerla.
Sommersi da ripetitivi e infine stucchevoli primi piani dell'orrore (poco o nulla al confronto di quelli che si vedono in film e fiction anche in prima serata), anziché auspicare una rapida composizione diplomatica del confronto militare in corso forse troppi sono ansiosi di vedere il secondo e il terzo tempo (dopo il lancio degli ipersonici Kinzhal, chi sgancerà per primo testate nucleari?), come se i contendenti fossero squadre di calcio o una lotta tra galli o cani da combattimento.
Si è così imboccata una china pericolosa perché la “visione” genera assuefazione e condivisione non delle motivazioni dell'uno o dell'altro contendente ma della guerra in sé: uno “spettacolo” che alterna mestizia e tracotanza, vittime inconsapevoli e armigeri burbanzosi come l'Europa (e non essa sola) ha veduto nel corso dei secoli, in specie nella rovinosa Guerra dei Trent'anni di cui fu matrice nel 1914-1945 e dalla quale uscì prostrata ma non abbastanza morigerata.
Perciò è opportuno riflettere su alcuni concetti ritornati in auge con la tragedia in corso. Tra i suoi ingredienti domina l'endiade confini-autodeterminazione dei popoli.
Autodeterminazione
L'autodeterminazione fu tra gli ingredienti delle lotte per l'indipendenza nazionale in risposta all'espansione della Repubblica francese del 1792 e del suo maggiore beneficiario, Napoleone I, che  ne trasse i fondamenti ideologici per affermare l'Impero. Per l'eterogenesi dei fini, l’espansionismo napoleonico, sorretto dai marescialli dell'impero (precursori degli oligarchi odierni: non solo russi...) e il blocco continentale suscitarono la rivolta antifrancese in Spagna, mai tanto unita come nella guerra per l'indipendenza da Parigi, in Germania e in Italia, a cominciare dalla solitamente quieta Milano. L'autodeterminazione ebbe poi enunciazione solenne l'8 gennaio 1918 nei Quattordici punti del presidente degli USA, Wilson, al Congresso americano quale base per la futura pace mondiale. A parte asserzioni che ne mettono a nudo la completa disinformazione (è il caso dell'accoglienza della Russia nella Lega delle Nazioni “sotto un governo che essa stessa avrà scelto”: Lenin era già al potere), Wilson affermò che “i popoli e le province non devono costituire oggetto di mercato e passare di sovranità in sovranità, come fossero semplici oggetti o semplici pedine di giuoco, sia pure del grande gioco, ora screditato per sempre, dell'equilibrio delle forze”. Le aspirazioni nazionali andavano soddisfatte senza suscitare nuovi elementi di discordia suscettibili col tempo di rompere la pace dell'Europa e di conseguenza del mondo.
I confini
Ma l'autodeterminazione in Europa avrebbe portato alla deflagrazione di ogni forma di Stato, sia recente sia antico. Gli Stati si formarono con l'imposizione del centralismo sulla variegata molteplicità delle realtà etniche, linguistiche, religiose e costumali preesistenti. Nacquero dai conflitti interstatuali che favorirono la sovrapposizione delle monarchie sui popoli riottosi al loro interno. Ma le differenze rimasero, pronte sempre a riaffiorare con i pretesti più vari. I casi dell’Irlanda del Nord, dei Paesi Baschi, della Corsica e della Catalogna sono solo i più clamorosi. L'Italia ha temperato le spinte antiunitarie concedendo statuti “speciali”, ormai anacronistici, o larghe autonomie regionali che hanno favorito i potentati locali e paralizzato le istituzioni centrali.
La contraddizione drammatica tra autodeterminazione e certezza dei confini è insita nella labilità dell'identità nazionale nelle terre mistilingue, croce (molto sofferta) e delizia (poca) dell'Europa del Novecento, che registrò continui spostamenti di confini e conseguenti micro pulizie etniche, spesso feroci ma tenuti ai margini dell'attenzione perché “così facevan tutti”. Il caso del confine italo-jugoslavo, italo-austriaco e della valle d'Aosta (ma altro si potrebbe aggiungere sulla scorta del robusto volume di Luigi Iperti Storie di frontiera. Il secondo dopoguerra ai confini occidentali (ed. De Ferrari). Il garbuglio era chiaro a Wilson il cui punto 9 recitò: “Una rettifica delle frontiere italiane dovrà essere effettuata secondo le linee di nazionalità chiaramente riconoscibili”. Un'operazione impossibile senza ricorso alla separazione forzata degli italofoni da germanofoni e slavofoni. Non per caso nelle “terre liberate” l'annessione avvenne sulla base dei trattati di pace, senza plebisciti confermativi. Lo stesso e peggio accadde ripetutamente nell'Europa orientale, in specie ai danni della Germania e con l'invenzione di Stati multietnici che non hanno retto al tempo (come la Cecoslovacchia). Alla luce di questi dati sommari risulta curiosa la proposta di risolvere il caso odierno con una soluzione “alla Cipro”: ovvero l'irrigidimento perpetuo delle diversità, fomite di conflitti permanenti.
La bilancia dei poteri istituzionali in Italia dalla proclamazione del regno alla Costituzione del 1948 apparve quale un triangolo scaleno: tre lati di diversa lunghezza. Il maggiore era costituito dal re, capo dello Stato e comandante delle forze armate, dominus della politica estera. Poi veniva il lato minore: il governo, formato da ministri nominati e revocati dal sovrano (art. 65 dello Statuto). Infine il lato ancora più corto, la base del triangolo, costituita dal parlamento, composto di due camere: il senato, di nomina regia, e la camera dei deputati, elettiva. L'ampliamento dell'elettorato parve allungare la base del triangolo e, di conseguenza, la rappresentatività dell'esecutivo, che doveva contare sulla fiducia del parlamento. Se i poteri fossero stati meglio bilanciati, il triangolo sarebbe divenuto isoscele, tendente a trasformarsi in equilatero. Invece il loro rapporto formale e sostanziale continuò a essere squilibrato a vantaggio della Corona e del governo, espressione diretta del sovrano. La Camera dei deputati poté invero ostacolare l'esecutivo e costringerlo alle dimissioni. Lo fece più volte dall'inizio del regno di Vittorio Emanuele III e anche nel corso della Grande Guerra, nel giugno 1916 e nell'ottobre 1917. Però, a Statuto immutato, fu sempre il re a incaricare via via il presidente del consiglio, a nominare ministri e sottosegretari e a decidere il corso della vita politica. Il triangolo rimase dunque scaleno, qual era nel regno di Sardegna dal 1848 e in quello d'Italia dal 1861.
Ma dal 1948 la sovranità risiede nel Parlamento. Lì debbono essere discusse le decisioni supreme di un Paese che sin dalla resa senza condizioni del settembre 1943 e dal Trattato di pace del 1947 ha subìto pesanti limitazioni della propria sovranità e altrettante si è autoimposto. Pacta servanda? Sì. Il patto tra i cittadini e le istituzioni, e viceversa.
A cospetto della crisi in corso emerge una considerazione finale. Se invece di Camere che si trascinano sino all'estenuazione gli italiani avessero oggi un Parlamento fresco di elezione, sulla base della riforma che il medesimo ha (sconsideratamente) approvato, essi disporrebbero di una maggioranza certamente più rappresentativa di quella che a fine gennaio del 2022, in uno snodo politico-istituzionale cruciale, ha rieletto capo dello Stato il presidente uscente, implicitamente confermando presidente del governo quello in Ferdinando Martinicarica. Tutto è accaduto mentre “l'operazione militare speciale” bolliva già in pentola e in Italia vigoreggiava una campagna elettorale strisciante, ma sempre più accanita, tra partiti che, nel migliore dei casi, contano più o meno il 20% dei consensi del 60% di chi ancora va alle urne. Cioè poco più di niente. Pertanto, se il conflitto in corso nell'Europa orientale dovesse perdurare, esso si ripercuoterebbe pesantemente all'interno del Paese, mettendone in luce le debolezze intrinseche. Nel 1939 l'Italia si guardò dall'entrare in guerra a fianco della Germania e presentò a Berlino la lista di quanto le sarebbe occorso per scendere in campo, compreso il molibdeno, indispensabile come il vanadio e il volframio. Piccole cose rispetto ai bisogni odierni... Ecco perché urge guardare “oltre”.
Aldo A. Mola

Il 28 luglio 1914 Ferdinando Martini (1841-1928), deputato dal 1876, già ministro dell’Istruzione nel primo governo Giolitti (1892-1893), governatore dell’Eritrea (1897-1907) e ministro delle Colonie nel primo governo Salandra, decise di tenere un “Diario” per ricordare «ciò che ho detto ed ho fatto, ciò che fu detto o fu fatto da altri e da me insieme». «Siamo sotto la minaccia di avvenimenti gravissimi. L’Europa rischia di divenire un compiacente morto alla mercé dell’America e dei popoli dell’Estremo Oriente. In sostanza il problema è questo e pare, e forse è, insolubile; l’Italia non può fare la guerra e non può non la fare [...] Salus patriae suprema lex».
Il 24 aprile Martini annotò: «Il Re ha il difetto d’esser troppo... come debbo dire? moderno. Non crede egli stesso alla Monarchia o almeno all’avvenire delle monarchie; nato borghese, sarebbe stato repubblicano e forse socialista. È intelligente e colto; ma a furia di non credere nella propria forza ha finito col perderla. [...] Oggi nessuno si occupa di lui, di sapere, in momenti così gravi, quale sia la sua opinione, a quale meta egli miri, quale via sia per battere: se alcuno pensa a lui è per lagnarsi ch’egli non si faccia valere, che si nasconda anzi...».

AGOSTO 1917. PERCHÈ GUERRA ALLA GERMANIA?

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 20 Marzo pagg. 1 e 6.

Sidney Costantino Sonnino (Pisa, 11 marzo 1847-Roma, 24 novembre 1922), di padre israelita e madre inglese, di confessione anglicana, si laureò in giurisprudenza a 18 anni. Lasciata l'attività forense e la carriera diplomatica, si dedicò a studi economici, politici e letterari. Deputato dal 1880 al 1919 (nei collegi di San Casciano e poi di Firenze IV), ministro nel governo Crispi (1893-1896), due volte per pochi mesi presidente del Consiglio (febbraio-maggio 1906 e dicembre 1909-marzo 1910) fu ininterrottamente ministro degli Esteri dal novembre 1914 al giugno 1919. Dantista insigne, si ritrasse dalla politica attiva. Nominato senatore il 3 dicembre 1920 su indicazione del suo avversario Giolitti, prestò giuramento il 19 dicembre mentre la politica italiana era ormai dominata dal cattolico Partito popolare e dai socialisti che aveva sempre considerato nemici dell'unità nazionale. Nel centenario della morte meriterà di essere ricordato.  Si discuterà molto e a lungo sulle radici prossime e remote del conflitto in corso nell'Europa Orientale. Vanno ricordate alcune premesse: 1) l'Impero di Russia (comprendente l'Ucraina) e il Regno di Prussia, che all'epoca si spartivano la Polonia insieme all'Impero d'Austria, nel luglio 1862 furono tra i primi Stati a riconoscere il neonato Regno d'Italia; 2) La Russia è parte integrante dell'Europa; 3) Le dichiarazioni di guerra furono spesso pretestuose (come quella dell'Italia contro la Germania nella Prima Guerra Mondiale).
Non fare agli altri...
Alle 13.30 del 26 agosto 1916 il ministro degli Esteri del governo italiano, barone Sidney Sonnino, inviò al marchese Raniero Paulucci de’ Calboli, ministro plenipotenziario a Berna, il telegramma 1193/30, con l’avvertenza: Riservatissimo per Lei solo. Decifri Ella stesso. Conteneva le motivazioni della guerra dell'Italia all'Impero di Germania con effetto dal 28 seguente.
Sin dall’agosto 1914, con l’approvazione di Vittorio Emanuele III, il suo predecessore marchese di San Giuliano aveva autorizzato l'ambasciatore  Londra Guglielmo Imperiali a continuare le «conversazioni» con il ministro degli Esteri britannico Grey, che sollecitava il governo italiano a cambiare alleanze, informando che la Gran Bretagna si sarebbe battuta sino alla vittoria piena contro l’egemonia degli Junkers tedeschi e mettendo in guardia dall’«impressione disastrosa» che avrebbe suscitato in Inghilterra l’eventuale intervento dell’Italia a fianco delle Potenze centrali in una guerra ormai incardinata su una questione «morale»: la lotta contro il militarismo teutonico.
Anche quando nel marzo 1915 ripresero le «conversazioni» con i rappresentanti dell’Intesa a Londra, Roma eluse l'argomento, benché la guerra contro la Germania fosse implicita nella sua adesione alla Triplice anglo-franco-russa. La complessa trattativa seguente fu condotta con la riserva mentale di disattendere l'applicazione dell’accordo finale. Nella primavera 1915 non vi erano fondati motivi di ostilità contro l’Impero germanico. Il 4 aprile Giacomo Rattazzi scrisse a Giovanni Giolitti: “Ma la Germania? La frase in voga è che noi chiuderemo le nostre guerre d’indipendenza nazionale: potrà darsi. Ma apriremo un conto con il popolo tedesco, il quale non dimentica; e il saldo, se anche si farà aspettare, verrà certamente. Perché non è ammissibile che una razza, la quale numericamente s’avvicina ai cento milioni di individui, una razza colossale per grado di coltura e per capacità d’espansione si lasci precludere stabilmente ogni via verso il sud. Ma l’odio sarà anche più profondo e più travolgente della voce di qualsiasi interesse: i tedeschi – Ella li conosce quanto me e meglio di me – non vivranno che per trarre vendetta del nostro tradimento. E quando questa scenderà – favorita dal risorgere con l’eventuale occupazione di Costantinopoli, dell’antico e permanente antagonismo anglo-russo – sarà feroce, sarà spietata, sarà gigantesca. E se un esercito tedesco entrerà nell’Alta Italia, si può star certi che non vi lascerà in piedi né un opificio, né un molino, né un fattoria”.
   Il 26 aprile 1915 il governo sottoscrisse l’arrangement di Londra nell’illusoria previsione che le ostilità sarebbero durate pochi mesi, sicché non vi sarebbe stato motivo di dichiarare guerra alla Germania. Tale certezza non fu intaccata nemmeno dall’ingresso dell’Impero turco-ottomano nel conflitto. Lo scenario mutò drasticamente nel giugno 1916, dopo la cosiddetta “spedizione punitiva” austriaca. Il suo iniziale successo venne attribuito all’aiuto germanico diretto (non documentato). L’avanzata nemica verso Vicenza fece temere il peggio: la frantumazione dell’esercito italiano in due tronconi, l’avvolgimento alle spalle delle sue armate sul fronte orientale e il conseguente crollo del Paese. Essa mise in evidenza l’assenza di coordinamento politico-militare tra gli Stati dell’Intesa, più volte ma invano auspicato dal Comandante Supremo, Luigi Cadorna. Gli Alleati avevano però buon gioco a rispondere che l’Italia doveva onorare l’impegno del 26 aprile 1915. Il 20 giugno 1916 Ferdinando Martini annotò nel Diario che alla Conferenza economica di Parigi il ministro delle Finanze Edoardo Daneo aveva trovato molta cordialità nei delegati francesi, ma profonda diffidenza negli inglesi proprio perché l’Italia non aveva ancora dichiarato guerra alla Germania.
Il 7 luglio 1916 Sonnino annotò nel Diario: “Eventualità dichiarazione nostra guerra con la Germania. Suppongasi che Rumenia mettesse per condizione per entrare lei. Si potrebbe anche suggestionarla a ciò”. La Romania era orientata a dichiarare guerra al solo Impero austro-ungarico, mentre la Russia ne chiedeva «come minimum eguale dichiarazione di guerra alla Bulgaria e alla Turchia». In quello scenario il 6 luglio Cadorna, l'unico dotato di una visione strategica del conflitto, aggiunse il timore che l’esercito svizzero si unisse agli austro-germanici: un pericolo «gravissimo». Chiedeva pertanto di essere “costantemente informato sulla situazione politica”. Ma venne ripetutamente tenuto all'oscuro. L’11 seguente Imperiali riferì a Sonnino che gli Alleati avrebbero comunicato i loro progetti generali solo quando l’Italia avesse dichiarato guerra alla Germania.
Il fallimento dell’offensiva russa contro l’Austria-Ungheria, deliberata su richiesta personale di Vittorio Emanuele III a Nicola II, non incoraggiò Roma a compiere il passo ormai difficilmente rinviabile, come Sonnino scrisse a Salandra il 10 agosto: “Già più volte si è tentato di chiarire cogli alleati la questione cui accenni [la posizione dell’Italia nella ventilata spartizione dell’impero turco, N.d.A.], ma si è sempre avuto per sola risposta, sotto forme diverse: Ne parleremo quando si sarà chiarita la vostra posizione con la Germania”.La pressione degli Alleati salì di tono. Di rientro da Londra il generale Alfredo Dallolio lo riferì a Boselli. Anche in banchetti ufficiali era stato assillato da domande e da raccomandazioni ormai simili a intimazioni: «Perché non dichiarate la guerra alla Germania? Sbrigatevi a dichiarare la guerra alla Germania». «Se non dichiarate la guerra alla Germania ve ne pentirete».
A metà luglio la decisione parve matura, ma fu ancora rinviata. Il 6-9 agosto Cadorna mise a segno la vittoriosa avanzata del generale Luigi Capello su Gorizia. Dopo un anno di “spallate” in pochi giorni furono espugnati i Monti Sabotino (successo personale di Pietro Badoglio) e San Michele e venne liberata la città. Preparata con ampia, rapida e accurata manovra, l’offensiva però si esaurì dinnanzi alla tenace resistenza degli austro-ungarici arroccati sui monti sovrastanti Gorizia. La ripresa dell’offensiva da parte dell’Italia avrebbe richiesto mesi per rincalzare truppe e mezzi. Proprio quella vittoria mostrò i limiti della capacità bellica complessiva delle forze armate e, più ancora, del Paese, chiamato a sorreggere e ad alimentare l’opera dell’esercito. Dieci giorni dopo l’ambasciatore a Parigi, Tommaso Tittoni, riferì a Sonnino che, parlandogli non come ministro ma come amico, Aristide Briand gli aveva detto che gli avvenimenti conducevano necessariamente «nell’interesse dell’Italia e non per far piacere ad altri, alla dichiarazione di guerra e che quindi fosse per l’Italia giunto il momento se non di fare tale dichiarazione per lo meno di considerarne eventualità».
In cerca del pretesto
Dopo la pausa ferragostana il dado fu tratto. La guerra alla Germania venne deliberata nel corso dell’ottava seduta del governo Boselli, il 24 agosto 1916. Il suo verbale (inedito) recita: «Si approva un ordine del giorno – che rimane presso la Presidenza – per far entrare nel patrimonio dello Stato il palazzo di Venezia. Su proposta del Presidente del Consiglio si delibera di assecondare le proposte del gen. Cadorna per aumentare di quattro divisioni formazioni dell’esercito […]. Il Consiglio, udita la relazione del Ministro degli Esteri, delibera in conformità degli impegni assunti con gli alleati, di proporre a Sua Maestà la dichiarazione di guerra alla Germania, e autorizza il Presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri di determinare il momento opportuno per dare seguito alla deliberazione presa». Il governo andò al centro della questione: la «conformità degli impegni assunti con gli alleati» aveva poco da vedere con le motivazioni addotte nel telegramma di Sonnino a Paulucci de’ Calboli, nella quale invano si cercherebbe un «fatto» circostanziato: la prova inoppugnabile che la Germania era “andata in aiuto” dell’Austria-Ungheria con uomini e mezzi tali da creare il casus belli e da giustificare la guerra. Gli «atti di ostilità» tedeschi lamentati da Roma (come la consegna agli austriaci dei prigionieri di guerra italiani evasi dai campi di concentramento asburgici e rifugiatisi in Germania) rientravano nel novero delle questioni da rimettersi ad arbitrati, al pari del contenzioso sulle pensioni dovute ai lavoratori italiani e a quello su questioni bancarie e finanziarie: vertenze che non giustificavano certo una guerra. Destituita di fondamento era infine l’imputazione principale: il sostegno tedesco al «vaste effort» austro-ungarico nel maggio-giugno precedente. Preparata per mesi, la “spedizione punitiva” aveva mirato a far crollare l'Italia prima che, non ancora entrata a pieno titolo nella guerra europea, essa ricevesse adeguato concorso militare e finanziario da parte dei suoi avari e sospettosi alleati e divenisse quindi più pericolosa.
Alle 13.40 del 27 agosto Sonnino telegrafò agli ambasciatori d’Italia a Londra, Parigi, San Pietroburgo e a Bucarest: «In seguito agli atti sistematicamente ostili succedentisi con crescente frequenza ed esplicantisi con effettiva partecipazione bellica e con provvedimenti economici d’ogni forma a danno dell’Italia da parte della Germania, il R. Governo non ritenendo tollerabile uno stato di cose che aggrava lo stridente contrasto tra situazione di fatto e di diritto già risultante dalla alleanza dell’Italia e della Germania con due gruppi di Stati in guerra tra loro, ha notificato al Governo germanico, a mezzo del governo svizzero che, a datare al giorno 28 corrente, l’Italia si considera in stato di guerra con la Germania». La dichiarazione del 25 agosto non fece dunque che dare atto di quanto già deliberato sedici mesi prima.
Lo stesso 28 agosto la Romania entrò in guerra a fianco dell’Intesa, con quindici mesi di ritardo rispetto alla decisione lasciata intravvedere nella primavera 1915. Il suo intervento all’epoca forse sarebbe stato risolutivo. Nel 1916, invece, si tradusse in vantaggio per la Germania, che non tardò a vincerla, a soggiogarla e a utilizzarne le risorse.
Il 28 agosto 1916 Salandra sollecitò Sonnino: «Adesso che la guerra alla Germania è dichiarata e che quindi non ci si può opporre i soliti fin de non recevoir io insisto [...] che ci occorre conoscere i patti interceduti fra gli alleati circa la sorte eventuale dell’Impero turco: Costantinopoli, gli Stretti, l’Asia minore. […] Scusami se insisto, non per ragioni subiettive di amor proprio e di responsabilità, ma perché mi pare che le accennate questioni siano di primaria importanza per la preparazione della pace, a cui bisogna pure pensare quando non ci è altra guerra da dichiarare». 
Sonnino rispose vari giorni dopo, molto elusivamente. Il 17 settembre affidò la sua amarezza al Diario. Dopo la dichiarazione di guerra all'impero turco-ottomano (19 agosto 1915) aveva chiesto di essere messo a parte degli accordi tra le potenze dell'Intesa sugli Stretti e sull'Asia Minore, ma per un mese venne “rimandato da Erode a Pilato” con pretesti e la promessa di comunicazione di un loro sunto: «Ora a tutto questo io mi ribello [...] Noi volevamo essere alleati, volevano essere leali e cordiali amici dei nostri compagni d’arme; ma l’Italia non si sarebbe mai rassegnata a fare la parte di cliente, o di protetta di questa o di quella potenza o gruppo di potenze. Mille volte meglio restare soli ed isolati. [...] Io non posso accettare per conto del mio paese la parte che ci si vorrebbe far rappresentare d’inferiorità e di pupillaggio. Me ne vado piuttosto dal posto che occupo dicendo ai miei concittadini che condannino pure me perché ho mancato di prudenza e di accorgimento fidandomi nella lealtà, nella buona fede, nel senso di equità, e anche nella chiarezza e larghezza di vedute dei governi alleati». In realtà i suoi obiettivi (sostituire la declinante Austria-Ungheria nell’egemonia sull’Adriatico e tenerne lontana la Serbia con l'occupazione della costa dalmatica e di Valona) erano del tutto contrastanti con quelli degli jugoslavi e dell'impero russo, loro potente alleato e tutore.
Nell’anno seguente il governo di Roma poté ritenersi ancor più libero per il crollo dello zar e per il successivo collasso istituzionale, politico, militare e sociale della Russia; ma tra l’ottobre e il novembre del 1917 dovette fare i conti con il peso dell’intervento germanico sul fronte italiano anche con i Cacciatori Alpini, un corpo scelto, tra i cui ufficiali si segnalò il giovane Erwin Rommel. Per quanto paradossale, Sonnino rimase sino all’ultimo fautore della sopravvivenza dell’impero austro-ungarico. Come tanti “politici” europei non capì la svolta segnata dai Quattordici punti del presidente degli Stati Uniti d’America, Wilson, niente affatto collimanti con i propositi dell’Intesa né con quelli dell’Italia. 
Il 30 agosto 1916, commentando nel Diario l’«inevitabile avvenuto», Ferdinando Martini ricordò che da presidente del Consiglio Salandra era sempre stato prudentemente avverso a rompere con l’Impero tedesco, trattenuto “dal pensiero che il paese questa dichiarazione di guerra alla Germania non la voleva”.
Il ritorno della “questione romana”
I pochi ministri informati del testo del Memorandum del 26 aprile 1915 non potevano nascondersi le possibili ripercussioni della dichiarazione di guerra all’Impero germanico sotto un profilo tanto delicato quanto eluso dai quotidiani e in Parlamento: il sostegno che il regno di Baviera (che faceva parte dell’Impero germanico) avrebbe recato alla Santa Sede, affiancando gli altri Stati che, prevalentemente cattolici o meno, avevano propri ambasciatori presso il papa o si accingevano ad accreditarvi rappresentanti diplomatici: non solo la Spagna, dunque, ma anche la Gran Bretagna, che non poteva certo ignorare né sottovalutare il peso dei cattolici nel proprio seno, mentre la questione irlandese viveva pagine tragiche. Non per caso proprio nel gennaio 1917 la «Rivista Massonica», mensile ufficioso del Grande Oriente d’Italia inopinatamente denunciò le “mene temporalistiche del Vaticano” e sollevò irosamente la questione della partecipazione del Papa al futuro congresso di pace, così mostrandosi ignara dell’art. XV dell’accordo di Londra, che la escludeva.
Il governo Boselli-Sonnino si guardò dal chiarire che secondo l'accordo di Londra la “questione” era al sicuro. Non lo fece sino a quando i bolscevichi rinvennero il documento nel Palazzo d'Inverno e lo pubblicarono, suscitando enorme imbarazzo al governo di Roma, che per fronteggiare l'impero austro-ungarico, bastione della Santa Sede, aveva bisogno di non urtare i cattolici italiani. La polemica esplose su impulso di Ernesto Nathan, rieletto Gran maestro dopo le dimissioni di Ettore Ferrari, travolto dalle polemiche sulla condotta della delegazione italiana al Congresso di Parigi delle massonerie dei Paesi dell’Intesa o neutrali (28-30 giugno 1917). A quel punto neutralisti e pacifisti vennero additati quali nemici da schiacciare come serpi. Il fanatismo contro la Germania, alimentato dal governo e da chi lo sorreggeva, raggiunse toni esasperati destinati a invelenire gli animi e a pesare nel tempo. Per l'eterogenesi dei fini vent'anni, dopo l'Italia strinse il patto di acciaio con la Germania di Hitler. Sappiamo come finì.
E il Re? Come noto, il «Diario» di Vittorio Emanuele III (posto che sia esistito) non ci è pervenuto. Il suo Itinerario generale dopo il 1° giugno 1896 comprende poche asciutte righe: «1915 [...]. Maggio 24. Guerra all’Austria. Agosto 19. Guerra alla Turchia. Ottobre 19. Guerra alla Bulgaria. Ottobre 21. Attacco fallito al Sabotino. Viva sempre l’Italia!!» e «1916. Agosto 8. Presa di Gorizia. 28. Guerra alla Germania […]. Ora più che mai Viva l’Italia!!».
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Sidney Costantino Sonnino (Pisa, 11 marzo 1847-Roma, 24 novembre 1922), di padre israelita e madre inglese, di confessione anglicana, si laureò in giurisprudenza a 18 anni. Lasciata l'attività forense e la carriera diplomatica, si dedicò a studi economici, politici e letterari. Deputato dal 1880 al 1919 (nei collegi di San Casciano e poi di Firenze IV), ministro nel governo Crispi (1893-1896), due volte per pochi mesi presidente del Consiglio (febbraio-maggio 1906 e dicembre 1909-marzo 1910) fu ininterrottamente ministro degli Esteri dal novembre 1914 al giugno 1919. Dantista insigne, si ritrasse dalla politica attiva. Nominato senatore il 3 dicembre 1920 su indicazione del suo avversario Giolitti, prestò giuramento il 19 dicembre mentre la politica italiana era ormai dominata dal cattolico Partito popolare e dai socialisti che aveva sempre considerato nemici dell'unità nazionale. Nel centenario della morte meriterà di essere ricordato.

GIOSUE CARDUCCI
LA SOFFERTA INIZIAZIONE ALLA VITA 


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 13 Marzo pagg. 1 e 6.

 GIOSUE CARDUCCI, Ritratto da Alessandro Milesi (Casa Carducci, Bologna). Il 5 marzo Carducci è stato rievocato a Firenze per iniziativa della professoressa Valeria Succi in occasione del 52° anniversario dalla Officina massonica che ne porta il nome distintivo: la numero 1206 della Gran Loggia d'Italia degli ALAM (Palazzo Vitelleschi). Nel centenario della morte di Carducci, la Gran Loggia organizzò a Riva degli Etruschi un memorabile convegno (31 marzo-1° aprile 2007) con relatori, fra altri, il generale Oreste Bovio e i professori Marco Bertoncini, Valerio Perna, Luigi Pruneti, Giovanni Rabbia e Aldo G. Ricci, presente Anna Giacomini. Frainteso e da sempre scomodo, Carducci fu e rimane un gigante. Alla sua morte ne pubblicò un  profilo pacato la “Civiltà Cattolica”, che gli presentò l'onore delle armi, come fanno le logge orgogliose di portarne il nome. Venne iniziato massone nella loggia “Felsinea” di Bologna il 1° marzo 1866 pagando lire 30 di entrata e 5 in acconto. Vi funse da segretario. Nel 1867 la loggia venne demolita da Ludovico Frapolli che, in violazione delle norme più elementari, spiattellò i nomi dei suoi componenti (docenti universitari e alti ufficiali), così esposti a “indagini”. Dal 1886 fu “risvegliato” da Adriano Lemmi, Gran Maestro e venerabile della loggia “Propaganda massonica”.  Sommersi dal diluvio di agenzie su eventi bellici, prospettive catastrofiche, speranze di mediazioni fra i contendenti e interrogativi sulle origini prossime e remote del conflitto esploso nell'Europa orientale, registriamo l'avvento della putinologia. I suoi specialisti estraggono i ferri del mestiere non dalla storia e dalla vastissima congerie di fatti e di documenti ma dalla cassetta di “discipline” poco utili se applicate a un “fantasma” qual è, allo stato, Vladimir Putin. Poiché non l'hanno “sul “lettino” i negromanti scavano su dettagli biografici a caccia di spiegazioni plausibili sulla condotta di chi ha il domino politico-militare della Federazione delle repubbliche russe. In mancanza di certezze fantasticano sui suoi possibili malanni e sui medicinali di cui farebbe uso. La geo-strategia, la politologia e le altre dottrine sussidiarie della Storia lasciano il passo allo spiritismo. Come nell'Europa della Belle Epoque, precipitata nell’abisso della Grande Guerra per insipienza di statisti e pochezza degli “intellettuali”.
   Le esperienze giovanili pesano sulla formazione di ogni persona. Ma sono come il Tema vitale degli astrologi: non sono predittive, bensì orientative. Possono essere dominate. È quanto seppe fare Giosue Carducci (Valdicastello, Pietrasanta, 27 luglio 1835-Bologna, 16 febbraio 1907): un gigante della letteratura e dell'organizzazione culturale della Nuova Italia, oggi purtroppo pressoché dimenticato.
Carducci lugubre: perché?
“Passa la nave mia, sola, tra il pianto/...Volgono al lido, omai perduto, in tanto/ le memorie la faccia lacrimosa.../ Voghiam, voghiamo, o disperate scorte/, al nubiloso porto dell'oblio,/ a la scogliera bianca de la morte”. Quando scrisse questo “sonetto”  Giosue Carducci aveva 16 anni. Lo datò “estate 1851”. Perché così lugubre?  La spiegazione va cercata frugando in carte d'archivio che meritano riflessione.
Primo e insuperato italiano premio Nobel per la letteratura, deliberato l'8 novembre 1906 dall'Accademia di Svezia, il 26 luglio 1850, alla vigilia del quindicesimo compleanno, il futuro Maestro e Vate della Terza Italia fu arrestato a Firenze col fratello minore, Dante, di due anni più giovane. A denunciarlo fu suo padre, Michele, chirurgo, all’epoca a Firenze con la moglie, Ildegonda Celli, e i tre figli (Giosue, Dante e Valfredo), dopo varie peregrinazioni e la rinuncia alle condotte di Bolgheri e Castagneto, privo di impiego pubblico e preoccupato che, fallita la prima guerra contro l'Austria, il governo granducale accendesse i fari sui suoi trascorsi settari.
Da un rapporto segreto della gendarmeria risulta che i due ragazzi avevano maltrattato il genitore “perché contrario alle lor massime repubblicane”. La relazione giornaliera della delegazione di governo del quartiere di Santo Spirito al Ministero dell’Interno lascia pochi dubbi sul fatto. Michele aveva dovuto “salvare in casa la propria vita”, perché il figlio maggiore “con un Ferro Chirurgico gli era improvvisamente andato a dosso” (sic). Tradotto dinanzi al tribunale, Giosuè Alessandro Giuseppe Carducci si mostrò arrogante. Interrogato, rispose ghignando che la legge non consentiva di punire i figli “che non avevano altra pecca di non amare il proprio padre”. Venne chiuso in “stanza di sequestro” o, come si legge in altro documento, in “camera di forza”.Tutto lascia credere che non se la sia passata benissimo, e non solo per il calore e l’umidità di Firenze in quello scorcio d’estate.
Carducci aveva appena terminato il primo anno di studi nel collegio dei padri scolopi a San Giovannino, in Firenze. Aveva alle spalle una geremiade di travagli, comprese le fucilate che avevano costretto suo padre a fuggire da Bolgheri e i contrasti con la popolazione di Castagneto. Rifugiato a Firenze, Michele voleva evitare fastidi dal governo del Granduca Leopoldo II d’Asburgo-Lorena, che dieci anni prima, quando ancora era studente all’Università di Pisa, lo aveva condannato al confino a Volterra perché sospetto di iniziazione alla Carboneria, l’associazione segreta alla quale aderì anche Giuseppe Mazzini, primo della classe quanto a settarismo (ma oggi non se ne parla). Da Pietrasanta, ove aveva casa e nacque il primogenito (a Valdicastello, oggi Valdicastello Carducci: piccolo borgo sotto il monte Gabberi), Michele Carducci aveva vagato in tanti piccoli centri, con scarso stipendio e molte amarezze. Nel 1849 si trasferì a Firenze, ove, dopo il breve triumvirato Guerrazzi-Montanelli-Mazzoni, il Granduca Leopoldo II d'Asburgo-Lorena aveva ripreso le briglie dello Stato. Cadute la Repubblica romana e quella di Venezia l’unità d'Italia sembrava una causa persa, comunque lontanissima sull'orizzonte. Se non si poteva vivere secondo le proprie convinzioni, almeno bisognava sopravvivere. I contrasti politici e umorali tra Giosue e suo padre erano continui. In una lettera ad Angelo De Gubernatis nel 1871 Giosue scrisse che quando era adolescente suo padre lo vessava in molti modi, lo “chiudeva in prigione” e, non bastasse, gli faceva leggere le opere di devozione di Alessandro Manzoni e di Silvio Pellico... Si pensava fosse una metafora. Invece è una cruda realtà.
Compleanno in “camera di forza”
Dopo l’arresto, la sera del 26 luglio 1850, su richiesta di Michele i gendarmi rilasciarono il tredicenne Dante, ritenuto dal padre “meno colpevole”. Giosue invece rimase in carcere. Proprio alla vigilia del suo 15° compleanno. Fu la prima delle tristi vicende che ne segnarono la vita. Essa aiuta a comprenderne l’opera di poeta e scrittore politico: all’insegna della ribellione da una parte e, dall’altra, della ricerca di ordine interiore, di disciplina, di devozione a un Ideale superiore: la Libertà. Il padre voleva trattenerlo da imboccare una via pericolosa. Il ragazzo, precocissimo, scriveva versi di fuoco contro i ‘tedeschi’ che occupavano Firenze e l’Italia...
Rilasciato e tornato studente modello al San Giovannino (alla scuola di padri scolopi geniali quali Geremia Barsottini, Eugenio Barsanti e Francesco Donati, “Cecco Frate”), dall’ottobre 1850  Giosue scrisse i versi A la sventura, Il delirio del Trovatore e La mia vita. Cantò la madre, unica sua “amica”, la sola che nei giorni tristi seppe capirne il dolore. Da quel dramma il quindicenne Carducci comprese quanto sia breve il passo tra il Bene e il Male, tra la buona e la cattiva sorte. Il ribelle, spinto dalla passione politica sino allo scontro fisico col padre, venne messo a tacere dallo studioso, ma non cessò di ruggire. Lo ritroveremo negli anni di Giambi ed Epodi, percorsi da umori che possono essere riassunti nel Carducci “nero”, fosco, volgente alla malinconia e da questa alla rivoluzione sociale e politica che costituisce il tema conduttore della sua opera sino ai dodici sonetti di Ça ira, scritti un lustro dopo l’incontro con la Regina Margherita di Savoia e con Umberto I e la sua migrazione dalle sponde garibaldine, con venature mazziniane, alla difesa della monarchia, bastione del neonato Stato d'Italia.
Sette anni dopo l’arresto, il 4 novembre 1857 Giosue visse il secondo dei tanti drammi della sua giovinezza: la morte del fratello Dante durante un alterco col padre a Santa Maria a Monte. Suicidio? Un colpo di bisturi involontario? Mistero. Non venne fatta alcuna autopsia. Da San Miniato al Tedesco, a soli otto chilometri dalla tragedia, Giosue si presentò solo sei giorni dopo, a funerali avvenuti. Perché impiegò tanto tempo? Aveva intuito e doveva metabolizzare la tragedia di casa? Nascondeva a se stesso la verità? In un’accorata lettera a un amico narrò di aver chiesto informazioni sulla morte del fratello: il dramma, però, non ebbe testimoni, a parte il padre che (si disse) chiamò aiuto affacciandosi sulla via, sconvolto e con un occhio tumefatto come dopo una colluttazione. Si sapeva che era malato. Morì pochi mesi dopo, sul ferragosto del 1858. Quando sentì approssimarsi la Grande Visitatrice fece chiamare al capezzale suo figlio. Giosue però giunse quando il padre era già spirato. Subito dopo i funerali, si affrettò a vendere per pochi paoli i ferri chirurgici paterni, la cui vista tanta angoscia gli dava.
Quanto alla morte di Dante, l’autorità giudiziaria optò per la versione meno traumatica: un suicidio. Per delusione amorosa, si fabulò. Anche il parroco avallò, pur confidando i suoi dubbi al registro dei morti, ove parlò di un “mistero” pieno di “alto spavento”. I funerali religiosi (solitamente interdetti ai suicidi) chiusero ufficialmente il caso. Giosue scrisse cinque sonetti per la morte del fratello, prima di raggiungerne la salma. Poetò poi sulla sua tragedia quando morì il suo secondo maschio, Dante, quattro anni dopo la perdita del primo figlio, battezzato Francesco perché stava studiando Petrarca (solitamente ignorato dalle sue biografie).
La lapide che a Santa Maria a Monte (Pisa) ricorda la tragedia di Casa Carducci indica una data sbagliata: 5 anziché 4 novembre 1857. Ma persino la data di nascita del grande poeta rimane incerta: generalmente è fissata al 27 luglio, ma sulla casa natale di Valdicastello una lapide dice che nacque il 28, come del resto si ricava dal registro parrocchiale.
Molti anni dopo la morte di Dante un illustre letterato allobrogo, Onorato Roux, cercò di ottenere da Carducci ricordi giovanili per un’opera antologica di largo successo sui trascorsi dei personaggi famosi. Dopo molte tergiversazioni il poeta rispose con un secco “No!”. Non intendeva scavare nel passato né aveva piacere che altri lo facesse per lui. Aveva la morte nel cuore. Ma era sua.  All'esterno ostentava sicurezza, vitalità: “voghiam, voghiamo...” per un'Italia migliore, non verso “la scogliera bianca de la morte”.
Solitudine di un iniziato all'Italia
A Valdicastello-Pietrasanta tornò solo molto avanti negli anni, in compagnia delle sue amiche e ispiratrici, Carolina Cristofori Piva (Lina, Lidia, Lydia...) e la fantastica Annie Vivanti, il “fantino” in sella a “Giosue Cavallo” tra il 1890 e il secondo più grave ictus del 1899, che gli causò paresi del braccio e della mano destra e perdita della favella, dolorosa per un docente e conversatore appassionato qual era. Un viaggio a Civitavecchia per incontrare clandestinamente Lina (1874) lo riavvicinò a Bolgheri e a Castagneto, che poi frequentò per condividere banchetti di selvaggina e grandi libagioni (“ribotte”) con gli amici di un tempo. Celebri furono quelle del 1885-1886, connesse alla sua candidatura a deputato alla camera per il collegio di Pisa. Non rimise però piede nei borghi che suscitavano malinconici ricordi: Celle, Pian Castagnaio e soprattutto Santa Maria a Monte, ove prese sempre più credito la voce che Dante non fosse affatto morto suicida ma per mano del padre.
Carducci ebbe due personalità: quella ufficiale di professore illustre, di poeta celebre nel mondo, e quella nascosta: il massone, il “satanico”. Alla luce dei documenti inediti la sua tragedia interiore risulta più decifrabile e si comprende meglio anche l’Inno a Satana (1863), nel quale celebrò la scienza che plasma la “seconda natura”, la modernità conciliata con la natura originaria dei luoghi cari al Poeta: la Versilia, la Maremma, le Alpi. Le due nature, la bellezza del creato e quella forgiata dall’uomo, lo aiutarono a superare la morte dei due figli maschi, Francesco e  Dante.
Dopo il fallimento della spedizione di Garibaldi dalla Sicilia verso Roma (agosto 1862), ancor sempre capitale dello Stato Pontificio con Pio IX papa-re, da quattro anni docente di eloquenza all’Università di Bologna Carducci si immergeva negli studi di letteratura, filologia, linguistica e di storia, ma coltivava anche la passione politica. Non si può neppur dire che la nascondesse. Il 1° agosto 1864, quand’aveva da poco compiuto 29 anni, firmò la squillante convocazione di un’assemblea popolare e la pubblicò nel giornale politico “Il Progresso”, espressione dei democratici vicini al partito d’azione. Il suo nome si aggiunse a quelli di Francesco Domenico Guerrazzi, Lorenzo Niccolini, Giuseppe Dolfi, Antonio Martinati, Odoardo De Montel..., tutti massoni. Lo stile e i contenuti fanno attribuire a Carducci l’articolo di fondo del giornale che, senza titolo, sotto la data Firenze 9 agosto, si apre con l’appello: “Fuori i ladri! Ecco il grido o, se volete, la formola colla quale può rendersi nettamente il pensiero” del comitato promotore dell’assemblea convocata per deliberare “intorno alle supreme necessità della patria”. “Si: fuora i ladri, e tutti, o manifesti o nascosti! Fuori i ladri d’ogni colore...”: un vero e proprio incitamento alla ribellione immediata, a far piazza pulita della dirigenza corrotta e inetta. Era, si è detto, il 1864: quattordici anni dopo l’arresto a Firenze e quattordici anni prima dell’incontro a Bologna con la Regina Margherita, che ne accelerò la svolta a fianco della monarchia non perché attratto dall'“Eterno femminino regale” ma in nome dell’unità nazionale e della difesa del Risorgimento. L'alternativa alla Corona erano le tonache. A suo tempo lo capirono Antonio Gramsci e Concetto Marchesi, che votò contro l'inclusione dei Patti Lateranensi nella Costituzione della Repubblica italiana. A quel punto aveva un motivo in più per cancellare ogni traccia del ribellismo giovanile e liquidare l’Inno a Satana come una “chitarronata”.
Carducci concorse dunque a “ri-velare” sia il suo passato sia la sua vita quotidiana. Consegnò se stesso a pochi memorabili versi per il fratello, il figlio, la nonna, le emozioni giovanili, la sfortunata Lina e l'indomabile Annie Vivanti. Sotto il profilo umano Carducci rimase irrisolto, incompiuto, persino scostante e quindi indecifrabile. I versi e i discorsi famosi erano la scorza sotto la quale scorreva altra linfa. Motivo in più per riprenderne lo studio. Va però sottratto a letterati e accademici e restituito alla sua genuina grandezza di scrittore, politico, massone, stratega della cultura della Terza Italia ed espressione di tutte le contraddizioni della sua epoca, campione dei patrioti che unificarono l'“itala gente da le molte vite”.
Aldo Mola

DIDASCALIA
GIOSUE CARDUCCI, Ritratto da Alessandro Milesi (Casa Carducci, Bologna). Il 5 marzo Carducci è stato rievocato a Firenze per iniziativa della professoressa Valeria Succi in occasione del 52° anniversario dalla Officina massonica che ne porta il nome distintivo: la numero 1206 della Gran Loggia d'Italia degli ALAM (Palazzo Vitelleschi). Nel centenario della morte di Carducci, la Gran Loggia organizzò a Riva degli Etruschi un memorabile convegno (31 marzo-1° aprile 2007) con relatori, fra altri, il generale Oreste Bovio e i professori Marco Bertoncini, Valerio Perna, Luigi Pruneti, Giovanni Rabbia e Aldo G. Ricci, presente Anna Giacomini.
Frainteso e da sempre scomodo, Carducci fu e rimane un gigante. Alla sua morte ne pubblicò un  profilo pacato la “Civiltà Cattolica”, che gli presentò l'onore delle armi, come fanno le logge orgogliose di portarne il nome. Venne iniziato massone nella loggia “Felsinea” di Bologna il 1° marzo 1866 pagando lire 30 di entrata e 5 in acconto. Vi funse da segretario. Nel 1867 la loggia venne demolita da Ludovico Frapolli che, in violazione delle norme più elementari, spiattellò i nomi dei suoi componenti (docenti universitari e alti ufficiali), così esposti a “indagini”. Dal 1886 fu “risvegliato” da Adriano Lemmi, Gran Maestro e venerabile della loggia “Propaganda massonica”. 

150° DI GIUSEPPE MAZZINI
UOMO-SIMBOLO DELLA NUOVA ITALIA


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 6 Marzo pagg. 1 e 6.

DIDASCALIA: Ritratto di Giuseppe Mazzini giovane, di G. Isola, 1830. Da G.Mazzini, Scritti politici, a cura di Terenzio Grandi e Augusto Comba, Torino, Utet, 1972. Grandi fece parte della Commissione per l'Edizione Nazionale degli scritti di Mazzini con il Vittorio Parmentola, Bianca Montale, Franco Della Peruta e altri.Quando i Re celebrarono Mazzini 
Il 13 marzo 1904, in vista del 1° Centenario della nascita di Giuseppe Mazzini (22 giugno 1905), Vittorio Emanuele III decretò l'Edizione Nazionale di tutti i suoi scritti, “solenne attestazione di riverenza e gratitudine dell'Italia risorta verso l'apostolo dell'unità”, al pari del suo monumento deliberato quindici anni prima, scoperto all'Aventino in Roma nel 1949. Presidente del Consiglio era l'austero Giovanni Giolitti. Controfirmarono Vittorio Emanuele Orlando, ministro della Pubblica istruzione, e Scipione Ronchetti (Grazia a Giustizia), antico iniziato nella loggia “La Ragione” di Milano. Nel 1961 i volumi, editi da Galeati di Imola a cura di Mario Menghini, erano già cento. Altri seguirono.
      L’affermazione dell’uomo come soggetto di libertà nello Stato trionfò con le rivoluzioni di fine Settecento in America e in Europa, con l’avvento dell’idea di nazione e il nuovo cristianesimo, socialità fondata su fratellanza universale, dignità degli uomini ed emancipazione delle donne, rimaste in seconda fila col Codice napoleonico del 1804. La rivoluzione industriale fece sprizzare Energie nuove. Già Wolfgang Goethe aveva insegnato: “Grigia è la teoria”. L'idea va attuata o non vale. Hegel ribadì l’identità tra reale e razionale e viceversa. Se non si avvera, l’utopia ostacola il corso degli eventi e i suoi chierici vengono travolti dal tempo come “povera foglia frale”.
    In quella cornice si collocò il dramma di Mazzini, cioè la sua presenza sulla scena storica. Per molti egli è il patriota che dedicò la vita all’Italia una, indipendente e repubblicana. Mazzini però volle essere molto di più. La Nuova Italia sarebbe sorta davvero con l'educazione del cittadino. Non solo. Indipendenza e unificazione nazionale per lui non si restringevano al caso italiano ma dovevano essere norma di un ordine universale, fondato su autodeterminazione delle nazioni ed emancipazione da ogni oppressione; avvento di fratellanza universale e spiritualità liberata dalle gerarchie ecclesiastiche, fatalmente volte a inaridire la fede in pratiche burocratiche. Mazzini credeva fermamente nell’immortalità dell’“anima”, nella reincarnazione, vagante nei Tempi, e nella comunione tra i viventi e gli angeli.
  Concepì gradualmente il suo “credo”. Pubblicò Note autobiografiche ma non scrisse vere e proprie Memorie. La sua vita fondeva quotidianamente pensiero e azione al calor bianco di cospirazione, apostolato, reticolo fittissimo di rapporti segreti e iniziative alla luce del sole. La sua opera più famosa, I doveri dell’uomo, non è né un trattato né esposizione organica di un progetto politico. È il manifesto di una nuova umanità. Comprende pagine di alta letteratura, spiritualità e talvolta di perorazione e preghiera più che di dottrina politica. Perciò nel 1902 fu diffusa nelle scuole italiane su proposta del ministro della Pubblica istruzione, Nunzio Nasi, e per decreto di Vittorio Emanuele III. Omesse alcune frasi scomode, i Doveri sono incitamento al patriottismo e al civismo. Contrappongono l’idealismo al materialismo, la fratellanza agli interessi di classe, il sacrificio all'opportunismo.
Sull'esile corda della Storia
La vita di Mazzini fu scandita in diverse stagioni, fatte anche di dubbi e sconforti. Essa ebbe però una continuità. Fu una sorta di melodia, ora malinconica ora tragica, che ne accompagnò le molte fasi. Il motivo unitario furono la profezia e l’iniziazione. La madre, Maria Drago, lo educò all’amore per l’Italia e all’etica del sacrificio, nel solco dei grandi spiriti che nei secoli ne avevano dato l’esempio, da Dante a Ugo Foscolo. A sedici anni vide i liberali piemontesi, sconfitti nel 1821, in partenza da Genova per l’esilio. Con quelle premesse, a ventidue anni Mazzini venne iniziato alla Carboneria, associazione segreta impregnata di religiosità e di patriottismo. Arrestato su delazione (13 novembre 1830) e incarcerato a Savona, decise che iniziatismo e profetismo andavano collocati su basi più solide. Posto dinnanzi alla scelta tra confino ed esilio (18 gennaio 1831), scelse l’espatrio. Dopo un soggiorno a Ginevra e a Lione, fondò a Marsiglia l’associazione segreta “Giovine Italia”. Essa escluse chi contasse più di quarant’anni, cioè chi fosse nato prima della Convenzione repubblicana francese del 1792, assunta a spartiacque della storia come già intuito da Goethe. La Giovine Italia segnò una cesura generazionale. Un bene? Una forzatura? Per dar vita a un nuovo corso Mazzini ruppe il legame con quanti avevano vissuto l’età napoleonica e la restaurazione con tutte le loro contraddizioni, i compromessi, i tentativi di conciliare il vecchio e il nuovo, il rosso e il nero. L'affiliando giurava di volere l’Italia “una, indipendente, libera e repubblicana” e di prestare obbedienza totale. Il tradimento era punito con pene severe, incluse la morte e la damnatio memoriae.
   Mazzini sublimò il suo rapporto con la famiglia originaria nell’appassionato carteggio con la madre. Non estraneo alle passioni naturali, da Giuditta Sidoli, a sua volta esule politica, vedova e già madre di quattro figli, ebbe un bimbo (Demostene Adolfo) che però non riconobbe e sempre trascurò. Preferì non sapere che morì di stenti. Non formò mai una famiglia propria, perché si sentiva votato a una missione universale.
   I primi tentativi di attuare il programma della Giovine Italia ebbero esiti catastrofici. Molti associati furono scoperti, arrestati, torturati, condannati alla pena capitale. Uno tra gli amici più cari di Mazzini, Jacopo Ruffini, si uccise in carcere per non cedere agli interrogatori e rivelare i segreti della setta. Nel 1834 la costosa invasione della Savoia, organizzata per suscitare l’insurrezione generale nel regno di Sardegna, naufragò miseramente. A Genova il ventisettenne capitano di marina Giuseppe Garibaldi, che doveva agire in concomitanza, si trovò solo all’appuntamento con l’insurrezione e scampò riparando in Francia, inseguito da condanna a morte. Alla prova del fuoco Mazzini non resse. Si smarrì. Tuttavia, malgrado il cocente insuccesso, alzò il tiro con la fondazione della Giovine Europa. Il riscatto dell’Italia doveva accompagnarsi alla redenzione di tutte le nazioni oppresse. Rimase convinto che l’insurrezione e la proclamazione della repubblica anche in un solo villaggio avrebbe scatenato la rivoluzione generale: illusione che costò pesanti sacrifici ed esasperò la contrapposizione tra mazziniani e moderati, bollati come codardi. 
   Costretto a migrare dalla Svizzera alla Francia, ora arrestato ora espulso, nel 1837 Mazzini approdò a Londra. Dopo la “tempesta del dubbio”, una breve stagione di angoscia per i tanti fallimenti pratici, accentuò l’aspetto profetico della sua missione. Fondò il periodico “L’apostolato popolare” per educare, arginare il materialismo dilagante, la riduzione dell’uomo a profitto, sia come sfruttamento del lavoro sia come mera rivendicazione salariale. Molti pensarono che fosse foraggiato da governi o correnti politiche e gruppi religiosi, anzitutto inglesi, beneficiari della sua azione destabilizzatrice della Santa Alleanza. Altre iniziative ispirate dal suo magistero ebbero esito tragico. Fu il caso della spedizione guidata dai fratelli Attilio ed Emilio Bandiera. Arrestati, i due vennero fucilati con i loro seguaci nel vallone di Rovito a Cosenza (1844), assistiti da un sacerdote patriota come loro.
  Nel 1831 Mazzini aveva sfidato a prendere la guida dell’unificazione italiana il trentatreenne Carlo Alberto, appena asceso a re di Sardegna. Si dichiarò pronto a sacrificare l’opzione repubblicana all’obiettivo dell’unità dell'Italia. Altrettanto fece l’8 settembre 1847 con una lettera aperta a Pio IX. Nel 1848-49 cercò di sottrarre l’iniziativa politico-militare sia a Carlo Alberto, sceso in guerra contro l’Austria, sia al papa, il cui miglior ministro, Pellegrino Rossi, venne assassinato da pugnalata settaria.
   Accorso a Roma, ove il 9 febbraio 1849 era stata proclamata la repubblica, Mazzini fece parte del triumvirato di governo con Aurelio Saffi e Carlo Armellini (29 marzo) e vi pubblicò “L’Italia del Popolo”. Si dimise il 30 giugno, quando la Repubblica stava crollando sotto l’offensiva delle truppe inviate da Luigi Napoleone Bonaparte, principe-presidente della repubblica e poi imperatore.
La sua cospirazione conobbe altre tragiche pagine, come l’arresto e l’impiccagione di affiliati, incluso don Enrico Napoleone Tazzoli (Mantova, 1852), e il clamoroso insuccesso dell’insurrezione milanese del 6 febbraio 1853. Ancora una volta dubitò di se stesso, ma poi riprese il cammino. Non solo si oppose con toni lugubri e di pessimo augurio alla partecipazione del regno di Sardegna alla guerra franco-anglo-turca contro la Russia in Crimea, che consentì a Cavour di proporre la “questione italiana” alle grandi potenze, ma organizzò un'insurrezione a Genova. Fu pertanto condannato a morte, mentre il tentativo di Carlo Pisacane, ferocemente antimonarchico, di incendiare il Mezzogiorno con una spedizione rivoluzionaria fallì miseramente (1857).
   Schivato dalla Società nazionale, da Garibaldi e dalla maggior parte dei patrioti, nel 1859 Mazzini cospirò ai danni dell’alleanza franco-piemontese contro l’Austria, tentò di precedere i fiduciari del governo di Torino nelle terre poi annesse e nel 1860 cercò di dirottare l’impresa dei Mille di Garibaldi verso la proclamazione della repubblica, ma fallì. L’antico carbonaro, massone e patriota milanese, a lungo imprigionato allo Spielberg, Giorgio Pallavicino Trivulzio, presidente della Società Nazionale, il 3 ottobre 1860 gli intimò ruvidamente di lasciare Napoli perché “pur non volendolo, voi ci dividete”. Il 5 novembre 1860 Mazzini stilò a Caserta il programma dell’Associazione Unitaria Nazionale ma subito dopo lasciò l’Italia per Londra.
   Nel 1863 tramite Demetrio Diamilla Muller ebbe contatti con Vittorio Emanuele II per affrettare l’annessione del Veneto all’Italia, ma aveva ormai scarso seguito e modesta influenza. La nascita dell’Internazionale socialista ne accentuò l’isolamento. L'irridente Karl Marx  lo definiva “Teopompo”.L’ascesa militare della Prussia, la riorganizzazione dell’Impero d’Austria con il riconoscimento della corona di Ungheria e il declino di Napoleone quale promotore delle nazioni finirono per nuocere proprio al progetto mazziniano di un’Europa dei popoli. Dal 1864 l’influenza di Mazzini sulla sinistra democratica venne messa in discussione non solo da Garibaldi, che gli rimproverava di aver intralciato l’unità d’azione nelle fasi cruciali delle guerre per l’indipendenza, ma anche da Francesco Crispi, che nel 1864 proclamò alla Camera la sua adesione alle istituzioni: la monarchia univa mentre la repubblica avrebbe diviso. Nel 1866 Mazzini tentò ancora ripetutamente di ostacolare l’iniziativa regia, intralciando l’alleanza con la Prussia contro l’Austria e deprecando la conclusione della terza guerra d’indipendenza. L’insorgenza di Palermo non ne accrebbe il prestigio. In settembre pubblicò il manifesto dell’Alleanza repubblicana universale. La Camera annullò due volte la sua elezione a deputato per il collegio di Messina. Rieletto , rifiutò il seggio per non giurare ché fedeltà allo Statuto.
   Il crepuscolo incombeva. Visitò a Lugano Carlo Cattaneo poco prima della morte (2 febbraio 1869).Tentò ancora di riorganizzare i repubblicani, sia con un convegno nella città svizzera sia con un incontro a Genova, presieduto dal genero di Garibaldi, Stefano Canzio (marzo 1870). All’inizio della guerra franco-germanica (luglio 1870) partì per la Sicilia, deciso a suscitarvi un’insurrezione che avrebbe dissuaso il governo da aiutare Napoleone III, ma venne arrestato prima ancora di sbarcare. Imprigionato a Gaeta, fu amnistiato per la seconda volta in breve tempo (14 ottobre) e instradato verso il confine con la Svizzera. Transitò per Roma ma non volle uscire dalla stazione per uno sguardo alla Città Eterna. Ormai era annessa al Regno, con Vittorio Emanuele II al Quirinale e Pio IX in Vaticano. Due monarchie, una costituzionale, l’altra assoluta. La Repubblica? A Pisa sostò nella casa di Enrichetta Nathan Rosselli. A Genova si raccolse in meditazione sulla tomba della madre. Poi raggiunse Lugano e da lì nuovamente Londra. Sorvegliato, non ricercato.
Nel febbraio 1871 tornò a Lugano per organizzare il Patto di fratellanza tra le società operaie italiane, ufficialmente avversato dal governo di Roma, che nondimeno lo preferiva alla propaganda dell’internazionale rivoluzionaria, perché comunque poneva in primo piano l’Italia e gli italiani.
Moriar in Patria...
Il 6 febbraio 1872 Mazzini raggiunse Pisa in incognito, ospite dei Nathan-Rosselli. Informato, il governo ne garantì il sereno trapasso in patria. Morì il 10 marzo, vegliato da Sarina Nathan, Felice Dagnino, Agostino Bertani, capofila dei radicali, e da Adriano Lemmi, il “banchiere della rivoluzione”, che lo avvolse nello scialle già posto su Carlo Cattaneo morente, a suggello della continuità ideale della sinistra democratica avviata alla conciliazione con la monarchia costituzionale. 
  Imbalsamata, la sua salma fu solennemente trasferita in treno al cimitero di Staglieno (Genova), salutata a ogni tappa da folle commosse, come narra Sergio Luzzatto nel magistrale La mummia della Repubblica, 1872-1946 (Rizzoli). Meta di pellegrinaggio, la sua tomba rivaleggiò con il garibaldino Scoglio di Quarto quale simbolo del patriottismo italiano. Il giorno della sua morte fu adottato per la celebrazione dei defunti da parte della massoneria italiana, poi capitanata da Lemmi, sodale di Crispi e di Giosue Carducci, che lo elevò a gran maestro dell’“idea”, senza precisare quale questa fosse. Mazzini tuttavia non fu mai iniziato né frequentò alcuna loggia per la radicale diversità tra il suo programma, tutto politico, e il metodo massonico, transnazionale e compatibile con ogni forma di Stato, monarchia compresa.. 
  Nel 1871 aveva dato vita al settimanale “Roma del Popolo”, diretto da Giuseppe Petroni, per vent’anni prigioniero politico in Castel Sant’Angelo. Sin dal nome il giornale si contrapponeva alla Roma dei papi e a quella di Vittorio Emanuele II, che però anno dopo anno attrasse e coinvolse radicali e repubblicani transigenti nella costruzione dell’unità della patria e della concordia dei cittadini. Nel 1890, su proposta del governo presieduto da Francesco Crispi, il Parlamento deliberò l’erezione in Roma del monumento nazionale a Mazzini. La Nuova Italia lo riconosceva tra i suoi profeti, come spiegò alla Camera il ministro della pubblica istruzione, Michele Coppino, massone. Due anni dopo a Genova venne fondato il partito dei lavoratori italiani, poi partito socialista italiano, contrapposto al mazzinianesimo ma alimentato da società operaie di matrice mazziniana, come documentano le bandiere delle associazioni operaie. Dal canto suo il partito repubblicano italiano, nato nel 1897 con il motto “definirsi o sparire”, affiancò al pensiero di Mazzini quello di altri repubblicani, come Carlo Cattaneo, federalista anziché unitario.
   Mazzini fu dunque “uomo universale”, come scrisse l'esoterista Carlo Gentile. Le sue idee si propagarono ovunque. La sua immagine ascetica suscitò ammirazione. Col tempo venne dimenticata la catena sanguinosa dei suoi errori politici, emblema della speranza di tempi migliori e della necessità di impegnarsi per realizzarli. Mostrò che le idee si affermano attraverso la comunicazione: lettere, circolari, manifesti, volantini, giornali, associazioni, leghe, partiti... e lo studio della storia. Religioso nell’età del materialismo, profeta di sentimenti contro l’aridità dell’affarismo, Mazzini fu il maggior romantico del Risorgimento ma nella costruzione della Nuova Italia venne eclissato da due passionali di buon senso, Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II. Umberto I decretò l'erezione del monumento nazionale alla sua Persona, Vittorio Emanuele III, con l’Edizione dei suoi scritti, quello alle sue idee. La monarchia non ridusse Mazzini a un francobollo commemorativo come oggi accade. Lo volle carne della propria carne, Maestro della Terza Italia, come lo cantò Giosue Carducci e lo rievocò in Campidoglio Ernesto  Nathan, sindaco di Roma, presente il Re. O gran bontà de li sovrani antichi... 
Aldo A. Mola

DIDASCALIA:
Ritratto di Giuseppe Mazzini giovane, di G. Isola, 1830. Da G.Mazzini, Scritti politici, a cura di Terenzio Grandi e Augusto Comba, Torino, Utet, 1972. Grandi fece parte della Commissione per l'Edizione Nazionale degli scritti di Mazzini con il Vittorio Parmentola, Bianca Montale, Franco Della Peruta e altri.

EUROPA? MORÌ IN CULLA
LE SCELTE DA DE GASPERI A FANFANI


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 27 febbraio 2022, pagg. 1 e 6.

 Missile Jupiter. Nico Perrone ricorda analiticamente la dislocazione dei trenta missili Jupiter con testata nucleare “accampati” tra Puglia e Basilicata dal febbraio-settembre 1960, il loro potenziale offensivo e l'esposizione a “incidenti”. In caso di conflitto con armi strategiche avrebbero attirato sull'Italia la ritorsione nemica con missili ancor più  devastanti. La pace reggeva sull' equilibrio del terrore. E oggi? Quanto è ampio l'Ombrello e quante mani lo sorreggono quando tirano impetuosi venti di guerra? Italia a rischio attacco missilistico? Non da oggi
“Circa le possibili invasioni dell'Italia (da parte dell'Unione Sovietica, NdA), anche dopo il 18 aprile 1948, abbiamo oggi le testimonianze di autorevoli dirigenti di Paesi dell'est. Posso dirle che da parte della dirigenza governativa alla quale ho sempre partecipato si pensava che fosse del tutto improbabile una invasione unilaterale dopo il 1948. Era invece possibile che scoppiasse la guerra. E il pericolo reale vi fu nel 1950, nel 1956, nel 1962 (gravissimo, evitato per poche ore), nel 1968. In tal caso gli Stati Uniti non avrebbero usato la bomba strategica e sarebbe risultata inevitabile l'occupazione (sovietica, NdA) in Europa fino ai Pirenei e in Italia fino all'Aspromonte”. E' il brano di una lettera scritta il 21 settembre 1991 dal politico democristiano  Paolo Emilio Taviani allo storico Nico Perrone,  docente all'Università di Bari dl 1977 al 2006, che la pubblica nell'imminente libro Il realismo di De Gasperi. Fanfani invece vuole i missili americani (ed. BastogiLibri). Il 22 Taviani ribadì. “Il pericolo del 1962 era effettivamente legato alla vicenda dei missili di Cuba il 27-28 ottobre 1962: la mattina del 28 ottobre siamo stati a due ore dalla guerra, che sarebbe inevitabilmente scoppiata...”. Curiosamente, o non tanto, il 27 ottobre Enrico Mattei, scomodo stratega dell'ENI, morì nell'“incidente” dell'aereo che lo recava a Milano: un attentato terroristico, secondo Amintore Fanfani.
   La catastrofe fu scongiurata dall'accordo Kruscev-Kennedy: l'Urss rinunciò a installare missili a Cuba, gli Usa li avrebbe ritirati dalla Turchia. In quel momento (dichiarà tempo dopo Taviani in Senato) una divisione ungherese era pronta ad attraversare l'Austria per piombare in Lombardia, a ovest della base NATO di Vicenza, alla volta del Mezzogiorno.
   Taviani (Genova, 1912-Roma, 2001) scrisse quel che sapeva. Plurilaureato, economista, docente universitario, studioso insigne di Cristoforo Colombo, sottosegretario agli Esteri con De Gasperi, a lungo ministro di Difesa, Finanze, Tesoro, Interno, Cassa per il Mezzogiorno, Programmazione economica, eletto senatore nel 1976 e nel 1991 nominato sentore a vita da Francesco Cossiga, per mezzo secolo fu protagonista della storia.
Anni difficili: 1943-1947
Perrone perlustra gli anni dal 1947 al 1962, a partire dal viaggio di Alcide De Gasperi negli Stati Uniti d'America e all’adesione alla Nato. In soli tre lustri si susseguirono diciotto diversi governi, tutti incardinati sulla Democrazia cristiana, affiancata dai partiti “centristi”: liberali, repubblicani, socialdemocratici.
   Il 1° gennaio 1948 la Carta repubblicana enunciò il nuovo titolare della sovranità, il “popolo”, che “la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. “Sovranità” significa dominio di sé, della politica estera e conseguentemente di quella militare che ne è la proiezione necessaria. Quali passi condussero l'Italia alla cessione di sovranità dopo la sconfitta nella seconda guerra mondiale e nella successiva condizione geopolitica di “terra di frontiera”? 
   Nella lunga età del bipolarismo USA/URSS campeggiano De Gasperi (originariamente Degasperi, come usava firmarsi); Giulio Andreotti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e dal 1959 al 1966 ministro della Difesa, ma anche (ed è questa tra le novità del libro) non solo interprete ma influente “suggeritore” di Pio XII negli anni delle scelte cruciali, dall'accostamento agli Stati Uniti alla “scomunica” dei comunisti; e infine Amintore Fanfani.
   Prominenti emergono due personalità meno studiate ma determinanti: Alberto Tarchiani, “fratello” dal 1920, militante in “Giustizia e Libertà”, poi nel Partito d'azione, ambasciatore dell'Italia a Washington; e Randolfo Pacciardi, segretario del partito repubblicano italiano, tenuto ai margini del Comitato di Liberazione Nazionale, ma dai robusti legami con ambienti statunitensi e rafforzato dalla confluenza nel PRI di esponenti di spicco del dissolto Partito d'azione come Ugo La Malfa.
  Per far comprendere l'importanza storica della svolta del marzo 1949, i suoi sviluppi, interpretazioni e declinazioni e quella successivamente assunta da Fanfani, Perrone evidenzia la profonda differenza della loro formazione politica e culturale. Per intenderlo giova ripercorrere sinteticamente i tre anni dalla liquidazione del ventennale governo Mussolini (monocolore dal 1924) al referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946, seguito dalla fine dei governi di coalizione nazionale.
A riposizionare l'Italia nella Comunità internazionale in piena seconda guerra mondiale furono Vittorio Emanuele III e i suoi fiduciari, militari e diplomatici, nel luglio-ottobre 1943: dalla sostituzione di Mussolini con Badoglio alla dichiarazione di guerra contro la Germania (13 ottobre), passando attraverso la “resa senza condizioni” (Cassibile-Malta, 3-29 settembre).
Pur mortificante, la resa scongiurò la debellatio dello Stato, perché il Comando supremo alleato riconobbe il “governo del re” quale garante della sua esecuzione. Inoltre gli anglo-americani agirono “nell'interesse delle Nazioni Unite” ma senza informare preventivamente l'URSS, che dal canto suo realisticamente non aveva mai aspirato a esercitare sovranità diretta sull'Italia. La Corona garantì la continuità dello Stato e, per quanto in limiti circoscritti, fu la base della ripresa di iniziativa diplomatico-militare, come emerge dai verbali delle conversazioni svolte durante la firma della resa. Con la “cobelligeranza” del 13 ottobre 1943 il “governo del re” segnò un punto fondamentale a vantaggio dell'Italia, perché lo abilitò a divenire interlocutore anche di Stalin, irritato dall'essere stato tenuto ai margini della Commissione alleata di controllo sull'Italia.
A indebolire la Corona e il governo Badoglio fu semmai il Comitato centrale di liberazione nazionale (CCLN) costituito in Roma da esponenti di sei partiti dalla ancora labile consistenza: comunisti, socialisti, partito d'azione, democratici del lavoro, democristiani e liberali. Divisi sugli obiettivi ultimi, furono unanimi sino all'aprile 1944 nel rifiuto di collaborare con il governo Badoglio, nella pretesa di rappresentare gli italiani e di decidere le sorti della monarchia, con la richiesta dell’immediata abdicazione di Vittorio Emanuele III e la rinuncia alla successione da parte del principe ereditario, Umberto di Piemonte, a beneficio del figlio Vittorio Emanuele, di soli sette anni e quindi sotto tutela di un Reggente di nomina politica. Gli anglo-americani ignorarono il CCLN ma trassero vantaggio dalle sue polemiche: indebolivano immagune e sostanza del Paese e il valore politico della resistenza militare e civile contro tedeschi e fascisti repubblicani.
   Il libro ricorda quanto spesso è dimenticato. Il governo esarchico presieduto da Ferruccio Parri, insediato il 19 giugno 1945 in successione a Ivanoe Bonomi, capo di due governi dalla diversa e litigiosa composizione partitica, il 15 luglio dichiarò guerra al Giappone. Fu una decisione dal valore meramente simbolico, quasi captatio benevolentiae delle Nazioni Unite che nella Conferenza di San Francisco il 26 giugno precedente avevano varato la Dichiarazione di principi e lo statuto dell'ONU. Essa fu coerente con la dichiarazione di guerra contro la Germania del 13 ottobre 1943, e anticipò persino quella dell'URSS, deliberata da Stalin l'8 agosto 1945, tra l'uno e l'altro dei due lanci di bombe atomiche americane su Hiroshima e Nagasaki.
  All'indomani della guerra nei partiti di massa, democristiani inclusi, prevalse l'opzione per la neutralità, anche dopo la denuncia della “cortina di ferro” sovietica scesa da Stettino a Trieste pronunciata il 5 marzo 1946 da Churchill a Fulton alla presenza di Harry Truman, presidente degli USA. Per comunisti e socialisti (da anni uniti nel patto di unità d'azione) la neutralità conferiva l'abito del pacifismo all'ostilità pregiudiziale nei confronti dei Paesi “capitalistici”; per i democristiani, come De Gasperi, essa era la versione aggiornata dell'“inutile strage” deplorata da Benedetto XV nel 1917. Per i liberali essa costituiva la premessa per riprendere il cammino verso la Federazione europea prospettata da Luigi Einaudi e da Giovanni Agnelli sin dal corso della Grande Guerra.
   A differenza di quanto ritenuto o sperato da chi aveva fatto della monarchia il capro espiatorio della sconfitta, il cambio della forma dello Stato non incise affatto sulle condizioni riservate all'Italia dal Trattato di pace. De Gasperi non ne ottenne alcuna modifica sostanziale. A comprendere e a indicare la via nuova furono appunto Andreotti e gli “uomini di Curia” che misero da canto le pregiudiziali nei confronti degli USA, fortilizio di un '“Occidente” non cattolico ma cristiano, di quel cristianesimo aperto e adulto di lì a poco benedetto da Croce.
Fratellanze occidentali
   Perrone coniuga l'esperienza maturata da De Gasperi dai suoi esordi di politico militante nell'impero asburgico, multietnico, plurireligioso e dalle diverse lingue ufficiali e ufficiose (l'italiano era tra le ultime, perché ottusamente Vienna non concesse mai un’Università a sud dell'arco alpino) con quella sino di presidente del Consiglio di un Paese collocato nell'ambito dell'impero statunitense prima che la generalità della dirigenza partitica italiana se ne rendesse pienamente conto. Lo intuirono i siciliani spintisi a proporre l'inclusione della Trinacria negli USA e vennero condotti a migliori consigli con lo statuto speciale, varato a beneficio perpetuo della loro isola (un po' meno per l'Italia), anche per “disarmare” il separatismo e l'Evis.
   La svolta di De Gasperi maturò nel suo viaggio negli Stati Uniti d'America (1947). A margine dei colloqui “politici”, al segretario della Democrazia cristiana fu impartito un corso accelerato di “occidentalizzazione”. Arthur H. Vandenberg gli spiegò che il Rotary Club Internazionale (approdato in Italia nel 1923 e costretto all'autoscioglimento nel 1938 per scongiurare la repressione da parte di Mussolini, ormai smarrito nelle nebbie della campagna d'opinione contro la “borghesia”) non era una congrega di assatanati. Non lo erano neppure e logge massoniche, come a De Gasperi fu poi ribadito da influenti massoni italo-americani quali Frank Gigliotti e Charles Fama quando la Costituente approvò la libertà di associazione e vietò le “società segrete”, formula riecheggiante l'antimassonismo clerico-fascista e la massonofobia mussoliniana.
   A convincere anche ambienti ecclesiastici conservatori che non era più tempo di crociate contro l'Occidente concorsero i molti italo-statunitensi che praticavano il blando cattolicesimo delle loro terre d'origine, compatibile con i riti gnostici di Giordano Gamberini, futuro gran maestro del Grande Oriente d'Italia, e con lo scozzesista Manlio Cecovini, come documenta un imminente libro curato da Luca G. Manenti per Rubbettino. Quei cattolici italo-americani costituirono anche efficace alternativa alle predilezioni di molti anticlericali italiani per l'Inghilterra, anglicana, con robusti inneschi metodisti e presbiteriani, irriducibilmente ostili nei confronti della chiesa di Roma.
   Due volte massone era il repubblicano Randolfo Pacciardi, che ebbe ruolo fondamentale in vista della seduta del governo che l'11 marzo 1949 approvò l'adesione dell'Italia alla Nato. Come documenta Aldo G. Ricci nell'edizione critica dei Verbali del governi De Gasperi curata per la Presidenza del Consiglio, per quanto paradossale i ministri approvarono senza neppure avere sotto gli occhi il testo sul quale erano chiamati a pronunciarsi. Esso venne letto dal presidente nella versione italiana.
E Fanfani volle i missili
Data l'importanza della delibera per il seguito della storia d'Italia, tale procedura può parere sconcertante; ma lo è meno di quella poi adottata da Amintore Fanfani che, dopo la sua visita negli USA (28-31 luglio 1958), ricambiata da quella di Eisenhower in Italia (3-6 dicembre 1959), sollecitò l'installazione in Italia di missili di medio raggio “Jupiter”, muniti di testate nucleari e distribuiti su suolo nazionale (concretamente trenta “vettori” allocati in Puglia e Basilicata, tre dei quali sempre pronti a operare, ma senza adeguate protezioni). L'“accordo” (25 marzo 1959) non ebbe la preventiva approvazione del Parlamento, in violazione della Carta costituzionale. Se ne discusse solo “a cose fatte”. L'Italia repubblicana fece un balzo all'indietro rispetto a quanto a suo tempo perentoriamente chiesto (ma mai ottenuto) da Giovanni Giolitti: la fine della diplomazia segreta (altra cosa dal segreto diplomatico) tessuta alle spalle del Paese, tenuto all'oscuro ma destinato a pagare le conseguenze di decisioni di Poteri sovrannazionali.
  Nella lunga e intricata vicenda emerge la coerenza di De Gasperi: come negli anni della sua formazione politica aveva concepito gli italofoni quale parte integrante dell'Impero asburgico, così nel secondo dopo guerra vide l'Italia come “provincia” del nuovo impero, incardinato sull'egemonia militare degli USA. Lo enunciò il 30 novembre 1948 alle “Grandes conférences catholiques” di Bruxelles: l'Italia era “pronta ad imporsi quelle autolimitazioni di sovranità che la rendano sicura e degna collaboratrice di un'Europa unita in libertà e democrazia”. Nella grande svolta del 1948-1949 lo statista trentino poté contare sull'Italia del Risorgimento (liberali e repubblicani) e sui socialisti democratici, “euro-occidentali”, disprezzati e combattuti con ogni arma dal Fronte popolare nel quale era confluita l'ala massimalistica del disciolto Partito d'azione. Quella stessa compagine nelle elezioni politiche del 1953 fece fallire la riforma elettorale che avrebbe garantito stabilità di governo e autorevolezza allo Stato d'Italia.
Quando l'Europa non nacque (e perché non c'è)
Purtroppo anche in altri lembi del Vecchio Continente tanti politici camminavano con la testa rivolta al passato remoto. Fu così che la possibile Federazione Europea morì in culla. La Comunità Europea di Difesa (CED), perno dell'Europa mai nata, venne bocciata dall'Assemblea Nazionale francese il 30 agosto 1954, mentre l'impero coloniale di Parigi andava in frantumi. Fu la grande occasione perduta, che rese e rende l'Europa priva di identità propria e subalterna alla NATO (Istituzione diversa dall'anglo-americana Alleanza Atlantica). L'Euratom rimase a sua volta una insegna su un edificio sempre fermo alle fondamenta.  
   Memori di quel passato occorre alzare lo sguardo da minute cronache partitico-elettorali nostrane, spacciate come alta politica, e volgere l'attenzione ai fondamentali della Storia. Non lo ha fatto l'Unione Europea che ha aumentato a dismisura il numero dei suoi componenti (grandi, medi, minimi) senza il correttivo necessario: sostituire il vincolo dell'unanimità con il voto a maggioranza, almeno per le decisioni di rilievo vitale. Urge riflettere mentre nel différend tra Federazione russa e Ucraina la Nato mira a spostare i suoi arsenali sempre più a ridosso dell'antico impero russo, obliando l'impegno assunto con Gorbacev (Cremlino, 9 febbraio 1990, poco conta se scritto o meno: la lealtà è caposaldo nei rapporti tra gli Stati come tra persone, diversamente vigono l'anarchia e la “legge del più forte”): il “sì” della Russia alla riunificazione tedesca in cambio dell'impegno della Nato a non spostare di un solo pollice la sua giurisdizione verso est.
   Dal panorama globale tornando all'“aiuola che ci fa tanto feroci”, se è vero che “la sovranità appartiene al popolo” è altrettanto vero che esso può esercitarla solo se effettivamente informato di tutti i vincoli derivanti dalla cessione di sovranità, in specie in politica estera e militare, e abilitato a pronunciarsi sulla propria sicurezza nella sede deputata: il Parlamento.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Missile Jupiter. Nico Perrone ricorda analiticamente la dislocazione dei trenta missili Jupiter con testata nucleare “accampati” tra Puglia e Basilicata dal febbraio-settembre 1960, il loro potenziale offensivo e l'esposizione a “incidenti”. In caso di conflitto con armi strategiche avrebbero attirato sull'Italia la ritorsione nemica con missili ancor più  devastanti. La pace reggeva sull' equilibrio del terrore. E oggi? Quanto è ampio l'Ombrello e quante mani lo sorreggono quando tirano impetuosi venti di guerra? 

CENTENARIO DEL GOVERNO FACTA
1922: LA FRANA
COME I PARTITI AFFOSSARONO L'ITALIA


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 20 febbraio 2022, pagg. 1 e 6.

 Luigi Facta (Pinerolo, 13 settembre 1861 – 5 novembre 1930), un presidente del Consiglio “per caso”.Giovani in piazza
“Abbasso il Parlamento!” fu il grido di centinaia di giovani, in gran parte fascisti, sotto la Prefettura di Bologna il 10 febbraio 1922. Poco prima avevano protestato per la condanna di loro “compagni di fede”, colpevoli di violenza privata ed altri reati. La magistratura non faceva favori ma il proprio dovere: applicare le leggi a difesa dello Stato. Poi raggiunsero il Comando d'Armata urlando “Dittatura!”. Il fatto (o “fattaccio”, secondo i punti di vista) fu ignorato dai principali giornali ma “Il Popolo d'Italia”, quotidiano di Benito Mussolini, lo segnalò come “prima manifestazione pubblica, alla quale molte altre potrebbero far seguito, per il sempre più acuto senso di disgusto che l'attuale regime parlamentare provoca e per la vasta e sempre più inconfessata aspirazione delle popolazioni per un governo che sappia governare”. Da tre anni l'Italia chiedeva un esecutivo stabile e capace. Perciò “il grido dei dimostranti fascisti di Bologna” sarebbe divenuto “il coro formidabile ed irresistibile dell'intera Nazione”, proprio per esorcizzare la “dittatura militare”, “una carta suprema, giocata la quale o ci si risana o si piomba nel caos”.
La spirale “marcia su Roma-insorgenza rossa-repressione militare” si era già affacciata nell'ottobre 1919 quando gli “scalmanati” da quasi due mesi accampati a Fiume al seguito di Gabriele d'Annunzio, fallita l'immediata annessione della città, decisero di spostare la crisi irrompendo in Italia. Mussolini fu tra i primi a prendere le distanze dall'avventura dei Legionari e del loro Comandante. Altrettanto fece il gran maestro del Grande Oriente d'Italia, Domizio Torrigiani, al termine di una sorta di burrascoso “consiglio di guerra” tenuto a Trieste per stabilire sino a che punto convenisse assecondare il Comandante. Ne hanno scritto Raffaella Canovi nel pregevole libro su “D'Annunzio e il fascismo, eutanasia di un'icona” (ed. Bbliotheka) e Antonio Binni, Valerio Perna, Giorgio Sangiorgi e altri in “L'impresa di Fiume tra mito e realtà, 1919-1920” (ed. Etabeta, 2022). Contro il parere di “fratelli” repubblicani, come Oddo Marinelli, decisi a dar fuoco alle polveri, prevalse  la saggezza. Se i legionari avessero tentato di incendiare il Paese, nella sola Lombardia sarebbero scesi in campo 300.000 socialisti. A quel punto la parola sarebbe passata ai militari, pronti a spazzare via eversivi e sovversivi e a far quadrato in difesa della Corona. Le elezioni del 16 novembre 1919 mostrarono i veri rapporti di forza. I socialisti ottennero 156 seggi su 508. Altri 100 ne ebbe il Partito popolare italiano fondato da don Luigi Sturzo. Sommando ai loro quelli dei repubblicani, metà della Camera risultava nelle mani di forze anti-sistema.
Nella palude
Nel febbraio 1922 lo scenario politico italiano rimaneva in bilico. A legge elettorale invariata (la “maledetta proporzionale” introdotta da Nitti nell'agosto 1919), il rinnovo della Camera voluto dal settantottenne presidente del Consiglio Giovanni Giolitti nel maggio 1921 aveva aumentato i gruppi parlamentari da undici a quattordici. Il governo rimase esposto a imboscate di gruppi e gruppetti e persino alle rivalse di singoli parlamentari, tanto alla Camera quanto al Senato dove (ricordò Benedetto Croce), un “pater” fresco di nomina si produsse in un veemente discorso contro il governo.
A Giolitti, dimissionario dal 24 giugno 1921, il 4 luglio seguì Ivanoe Bonomi (Mantova, 1873 – Roma, 1951), già ministro della Guerra e del Tesoro. Era convinto di durare a lungo, se non per forza propria perché le opposizioni erano divise. Accontentò i popolari ignorando la nominatività dei titoli finanziari voluta da Giolitti e aborrita dal partito di don Sturzo e dal Vaticano; blandì i riformisti e, di concerto con Gasparotto, ministro della Guerra, chiuse gli occhi dinnanzi agli eccessi dello squadrismo fascista. Era stato rieletto deputato nel collegio di Mantova in una lista comprendente il “ras” di Cremona Roberto Farinacci, “il più fascista” (e anche un po' “fratello” ubiquo). 
La tumulazione del Milite Ignoto all'Altare della Patria, il 4 novembre 1921, parve annuncio di ritrovata unità nazionale attorno alla monarchia, incarnata da Vittorio Emanuele III. L'incantesimo durò pochi giorni. Gli scontri armati tra opposte fazioni crebbero di numero e in ferocia. Molti pensavano fosse “politica”. Come intuì padre Agostino Gemelli, era conseguenza diretta dello psicodramma vissuto da cinque milioni di cittadini ammassati nella “città militare” sul fronte della guerra tra il 1915 e l'inizio del 1919.
Nel gennaio 1922 il salvataggio della Banca di Sconto fece da detonatore del malcontento di gruppi parlamentari al soldo di interessi economici. Il 2 febbraio Bonomi si presentò dimissionario e, come di rito, rimase in carica per il disbrigo degli affari ordinari. Lo stesso giorno Dino Grandi prospettò nel “Popolo d'Italia” la fusione tra fascisti e nazionalisti, benché diversi per genesi e identità. I nazionalisti erano sorti per reagire a mezzo secolo di “politica tenebrosa e decadente”; il fascismo come lotta contro il bolscevismo. Era giunto il momento di unire l'elaborazione dottrinale a quella pratica. Gli squadristi menavano le mani; i nazionalisti “pensavano”.
Nondum maturum erat 
Iniziate le consultazioni per dar vita al nuovo governo, il 4 febbraio 1922 Vittorio Emanuele III ricevette Mussolini. Il 9 il gruppo parlamentare fascista e la direzione del partito, in una riunione congiunta presieduta da Mussolini, deliberarono osservare con apparente distacco la frana dei partiti. Come i deputati del Partito comunista d'Italia (appena sedici, pilotati dalla Terza internazionale, ovvero da Lenin e poi da Stalin) erano un’esigua minoranza. Meglio attendere l'esito della rissa fra i socialisti, i popolari e la galassia caleidoscopica dei “liberali”, restando pronti a incunearsi nelle loro divisioni, a sparigliarne i giochi per ottenere qualche ministero.
Candidato alla successione di Bonomi era Giolitti. La prassi consolidata prevedeva che il re incaricasse un parlamentare; questi proponeva al re ministri di sua fiducia e il governo nominava i sottosegretari. Da decenni tutto avveniva secondo una sorta di “Manuale Cencelli” dell'epoca: ogni partito, corrente e clan notabilare aveva tacito diritto a una porzione di governo e sottogoverno, ma a condurre il gioco erano i sovrano e il presidente designato. Meno durava l'esecutivo, maggiori erano i ricambi e la possibilità di accontentare appetiti e ambizioni, senza ignorare le variegate aspettazioni delle diverse aree geopolitiche.
Se incaricato di formare il governo, Giolitti, come suo costume, avrebbe deciso in piena libertà chi chiamare a farne parte, sulla base delle competenze e dell'interesse del Paese, senza piegarsi a dettami di partiti. Erano sempre “politici” dall'alta caratura “tecnica”. A differenza dei Gruppi parlamentari, formati da deputati eletti ai sensi dello Statuto e quindi senza vincolo di mandato né degli elettori né di poteri estranei alla Camera, allora, come ora, i partiti non avevano un riconoscimento costituzionale: nascevano, si dividevano, morivano. Erano  associazioni di fatto.
Contro la designazione di Giolitti, don Sturzo, fondatore del partito popolare (biografato con partecipazione simpatetica dall'ex comunista Gabriele De Rosa), oppose il “veto” dei popolari. A suo giudizio il partito aveva diritto di decidere da chi farsi rappresentare al governo. Il quotidiano liberale “Il Giornale d'Italia”, benché ostile a Giolitti, denunciò il metodo del “prete intrigante e nefasto” e l'“atteggiamento sostanzialmente anticostituzionale del gruppo parlamentare o, più esattamente, di don Sturzo, che pretende di nominare i ministri e i sottosegretari e nega ogni libertà d'azione all'incaricato di formare il ministero”. A dirla tutta, il prete metteva in discussione le prerogative del re.
Anche “La Voce Repubblicana” stigmatizzò “don Sturzo arbitro dei destini d'Italia” e i “clerico-popolari che anelano gli abbracci di quelle sgualdrine delle sinistre, consumate dalla febbre della simonia”. Il nodo era ben noto: la legge sulla nominatività dei titoli e i diritti del fisco sulle trasmissioni ereditarie fra persone non legate da alcun vincolo di sangue, come i membri delle comunità religiose, ricchissime e potenti.
Invitati dal re a formare il governo, uno dopo l'altro fallirono Enrico De Nicola e Vittorio Emanuele Orlando. Due settimane dopo l'annuncio delle dimissioni, a Bonomi non restò che presentarsi alla Camera. Il 17 febbraio, sacro alla memoria di Giordano Bruno, fu travolto:  295 voti contrari contro 127. Un esito mortificante. Come nel gioco dell'oca, il re riprese le consultazioni. Fallita l'ipotesi di un governo Giolitti-Orlando-De Nicola fu ipotizzato ancora una volta l'incarico a Giolitti, che però ebbe la strada sbarrata dai popolari Alcide De Gasperi e Giovanni Gronchi, tenuti al guinzaglio dal “prete nefasto”. Per uscire dalla palude, per la prima volta dal 1848 il re chiamò a consulto due parlamentari in contemporanea, Orlando e De Nicola, che però presero atto dell'ostilità dei socialisti nei confronti dei costituzionali e del “veto” dei popolari, ribadito nel “Corriere d'Italia”.
Il quotidiano socialista “Avanti!” deplorò il caos del “mondo borghese”. “Il Resto del Carlino” denunciò la doppiezza del partito popolare che aveva governato con Giolitti e ora lo demonizzava. “La Tribuna”, diretta da Olindo Malagodi e molto vicina allo statista piemontese, rivelò che nel corso di un colloquio Giolitti aveva respinto la pretesa di Sturzo di sottoporre le decisioni dell’esecutivo al vaglio del partito. Il governo governa.
La Santa Sede (mentre a Benedetto XV subentrò Pio XI) percepì che la crisi politica avrebbe potuto compromettere il dialogo cautamente avviato per chiudere l'antica “questione romana”. Perciò l'“Osservatore romano” ricordò che il Vaticano era del tutto estraneo alla politica interna dell'Italia. Ma già aveva scosso l'opinione pubblica la decisione del Cardinale Tommaso Pio Boggiani che nella lettera pastorale “L'azione cattolica ed il partito popolare” aveva esortato i credenti a non cedere alla chimera materialistica del partito e tornare al Vangelo. Investito da pesanti critiche, aveva lasciato la diocesi di Genova per raccogliersi in un convento a Roma.
Il 25 febbraio 1922 la direzione nazionale del Partito fascista propose una legge elettorale ancora più rigidamente proporzionale di quella vigente, “affrancata dalle clientele e dagli arrembaggi personali”. Lo stesso giorno l'allora scapigliato Italo Balbo, futuro quadrumviro, poi mussoliniano pentito e massone, denunciò: “Il regime attuale si sfascia. Non resta che una collezione di statisti decrepiti che comunicano la loro paralisi al Parlamento e agli organi dello Stato. I prefetti non hanno più bussola. Noi fascisti ce ne curiamo poco”. Gli squadristi delle sue “bande” ignoravano i nomi dei ministri dimissionari e di quelli in carica.
I socialisti italiani erano alle prese con il garbuglio delle trattative in corso fra quattro Internazionali: la Prima, la Seconda, la “Due e mezzo” e, infine,  la Terza. La “politica” coinvolgeva partiti e sindacati effettivamente “di massa”, altra conseguenza della partecipazione alla Grande Guerra.
L'uomo di Pinerolo... Luigi Facta (Pinerolo, 13 settembre 1861 – 5 novembre 1930), un presidente del Consiglio “per caso”.
Il 26 febbraio, al termine di spossanti trattative, Vittorio Emanuele III conferì a Luigi Facta (Pinerolo, 1873 - 1930) l'incarico di formare il governo. Laureato in giurisprudenza a 18 anni, avvocato nello studio paterno, eletto deputato dal collegio di Pinerolo dal lontano 1892, sottosegretario alla Giustizia nel secondo governo Giolitti (1903-1905), confermato da Sandrino Fortis, poi all'Interno, ministro delle Finanze con Luigi Luzzatti e Giolitti nel 1910-1914 e della Giustizia con Orlando e ancora alle Finanze con Giolitti, durante la crisi del febbraio 1922 Facta si mise di traverso al possibile governo De Nicola-Orlando poiché costoro non avevano accettato Giolitti come presidente. La guerra intestina tra notabili liberali, come quelle dei popolari contro i liberali e dei socialisti contro tutti, si risolse nella frana del regime parlamentare. La parola passò alla “piazza”, a chi gridava “Abbasso il Parlamento” e invocava la dittatura.
Monarchico e liberale “senza se e senza ma”, sin dal 1908 Giolitti aveva spiegato a Facta perché l'Italia doveva tenersi alla larga dalla guerra che si stagliava sull'orizzonte d'Europa. Sarebbe stata lunga, costosa e di dubbio esito. Avrebbe assorbito tutte le risorse, interrotto gli investimenti a beneficio del Mezzogiorno e diviso il Paese a danno della monarchia. Non per caso a chiederla erano soprattutto i repubblicani, che soffiavano sul fuoco dell'irredentismo.
Nel governo varato il 27 febbraio Facta chiamò a raccolta liberali, democratici, demo-sociali e popolari di seconda fila. Parecchi erano i massoni: Carlo Schanzer agli Esteri, Giuseppe Beneduce, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giovanni Amendola alle Colonie, Arnaldo Dello Sbarba a Lavoro e previdenza sociale, Giovanni Antonio Colonna di Cesarò a Poste e telegrafi, come il suo successore Luigi Fulci… Il Partito popolare ebbe il monregalese Giovanni Battista Bertone alle Finanze e il calabrese Antonino Anile alla Pubblica istruzione, un tempo fortezza inespugnabile della cultura risorgimentale, quella di Francesco De Sanctis, Michele Coppino e Ferdinando Martini, tutti “fratelli”.
Guardato con rispetto anche dai nazionalisti (il suo unico figlio maschio era caduto nella Grande Guerra), Facta sembrava poter durare in nome della tregua d'armi già ventilata dalla “pacificazione” tra fascisti e socialisti mesi prima abbozzata da Tito Zaniboni e Giacomo Acerbo. Ma l'Europa stava virando a destra. In Gran Bretagna i conservatori vinsero le elezioni. Alla conferenza economica di Genova l'Italia si accodò alla Francia nel rifiuto di aprirsi alla Russia dei soviet.
Proprio perché rimasto all'opposizione, il Partito fascista ebbe buon gioco ad alzare il livello dello scontro. Pose al centro la questione istituzionale. Vittorio Emanuele III rimase isolato. All'inaugurazione della legislatura aveva chiesto ordine, disciplina, restaurazione dello Stato e vaste riforme sociali. Ma con scarsa eco. Lo ricordò lo storico Gioacchino Volpe: “La borghesia italiana ha lasciato solo il re, si è curata poco del re, come poco, in fondo, degli interessi veramente nazionali. Molti domani tradirebbero re e monarchia per poco che i loro particolari interessi apparissero meglio realizzabili con una repubblica di banchieri o di avvocati e di arricchiti di guerra”. Altrettanto fecero i partiti, che dal febbraio 1922 spodestarono Corona e Parlamento, salvo trovarsi pochi mesi dopo in balia di un gruppo minoritario qual era il fascista.
Non fu Vittorio Emanuele III a “passare la mano”. Ne scrisse Bonomi in un articolo del 1948, con riferimento alla crisi del primo governo Facta, costretto alle dimissioni dopo soli cinque mesi, il 20 luglio 1922. Dopo giorni di convulse consultazioni, Bonomi aveva ottenuto l'appoggio esterno di Turati a un governo di liberali e democratici orientato a sinistra. Illustrò il progetto al re che “si mostrò contentissimo” e “uscendo dal consueto riserbo” gli augurò “calorosamente di riuscire”. Altro che “re fascista” come poi si disse e si ripete. Sennonché Turati fu sconfessato dai suoi colleghi di partito, disponibili ad approvare solo singole proposte di legge, ma senza un impegno pieno e durevole. Per di più, don Sturzo oppose il secondo e ancor più drastico veto al ritorno di Giolitti. Fu così che l'Italia imboccò la strada verso il partito unico...: passo dopo passo, sempre con leggi votate non dalla Fata Morgana ma dalla Camera dei deputati, eletta dai cittadini a suffragio universale. Quale capo di Stato rigorosamente costituzionale, il re firmò le leggi via via approvate dal Parlamento. Altrettanto fa oggi, il Presidente della Repubblica. Magari oborto collo.
Sono passati cent’anni… meminisse iuvat?
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Luigi Facta (Pinerolo, 13 settembre 1861 – 5 novembre 1930), un presidente del Consiglio “per caso”.

75° del Trattato di Pace
LA MANNAIA SUL CONFINE ITALO-FRANCESE


Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 13 febbraio 2022, pagg. 1 e 6.

La borgata di Saretto (Acceglio) con la Rocca Provenzale. I monti uniscono chi li sa percorrere.Una sconfitta strategica perpetua
Neppure per il Piemonte il 10 febbraio 1947 fu giorno di festa. Per gli italiani di Venezia Giulia, Istria, Fiume e Dalmazia la firma del Trattato di pace suggellò la tragedia in corso da due anni. L'epurazione politica ed etnica attuata ai danni degli italiani e l'esodo forzato di circa 350.000 persone in fuga dal regime comunista di Tito sono documentati e (con ovvie eccezioni di nemici in patria) fanno ormai parte della memoria nazionale. Pressoché dimenticata è invece la rettifica della frontiera italo-francese imposta dal diktat sottoscritto a Parigi con la propria stilografica dall'ambasciatore Antonio Meli Lupi di Soragna: meno catastrofica sotto il profilo umanitario, ma altrettanto odiosa sul piano morale, poiché ispirata non già a una visione lungimirante della Nuova Europa ma dal tardivo neo-nazionalismo che animava il governo francese di Charles De Gaulle che aveva dichiarato nullo l'armistizio di Villa Olgiata e ancora in atto la guerra contro lo Stato d'Italia, quale ne fosse la forma.
I termini della rettifica delle frontiere risalenti al 1° gennaio 1938 sono elencati dall'art. 2 del Trattato: il confine fu spostato a est per una profondità dai due ai cinque chilometri nelle zone del Piccolo San Bernardo, del Moncenisio e del Monte Tabor-Chaberton. Molto più afflittiva fu la nuova demarcazione nelle valli della Vésubie e della Roja.
La descrizione dettagliata della rettifica fu affidata all'allegato II del Trattato. In sintesi la Francia inglobò Tenda e quasi tutto il territorio di Briga, che (previo plebiscito confermativo) erano rimaste italiane dopo la cessione della contea di Nizza e della Savoia da parte di Vittorio Emanuele II a Napoleone III a compenso dell'alleanza politico-militare che aveva condotto alla vittoriosa guerra per l'indipendenza (aprile-luglio 1859) e all'acquisizione al regno di Sardegna della Lombardia (Mantova esclusa) e, in seguito, dell’Emilia-Romagna (Ducati padani e Legazioni pontificie) e del Granducato di Toscana.
Il progetto di revisione dei confini rimase a lungo sotto traccia, quasi fosse pressoché irrilevante. In realtà era imbarazzante. Nelle “Dichiarazioni” rese al Consiglio dei ministri degli Esteri riuniti a Parigi in preparazione dei trattati di pace, il 3 maggio 1946 (un mese prima della celebrazione del referendum istituzionale e dell’elezione dell'Assemblea Costituente) Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri dall'11 dicembre 1945, non fece alcun cenno alla frontiera italo-francese. Dopo l'assunzione arbitraria delle funzioni di Capo dello Stato (13 giugno) e il suo esercizio sino all'elezione di Enrico De Nicola a presidente provvisorio della Repubblica italiana, lo stesso De Gasperi il 10 agosto 1946 annunciò alla Conferenza di Parigi che l'Italia avrebbe presentato tramite suoi delegati il proprio punto di vista sulle linee di confine in corso di definizione. ll 28 seguente lo fece il socialista Giuseppe Saragat, ambasciatore d'Italia a Parigi. Premessa la “volontà di andare incontro alle domande francesi” e di riconquistare l'amicizia franco-italiana “anche al prezzo dei più pesanti sacrifici” Saragat, antico allievo dell'Istituto Germano Sommeiller di Torino, concluse che “né il sentimento degli abitanti, né la lingua, né delle ragioni geografiche ed economiche giustifica(va)no in alcun modo la rettifica pretesa da Parigi”. Però le sue osservazioni non mutarono di una virgola il testo del Trattato. Per l'Italia il danno politico ed economico fu poca cosa rispetto all'umiliazione e al senso di frustrazione. Gli articoli 46 e 47 del Trattato previdero lo smantellamento di tutte le fortificazioni esistenti a 20 chilometri dalla frontiera e la loro smilitarizzazione perpetua. A differenza di quanto era avvenuto nei secoli dei secoli, sul fronte occidentale l'Italia si mise “in condizione di non nuocere”: una sconfitta strategica di portata storica permanente.
Quando venne ignorato il concorso dell'Italia alla Liberazione
A pagare in quei termini era innanzitutto il Piemonte, che aveva dato un alto contributo alla guerra di liberazione in tutte le sue fasi e componenti, sin dal primo Comitato militare del CLN subalpino, capitanato dal generale Giuseppe Perotti (catturato, torturato, condannato a morte e fucilato al Martinetto di Torino), e forte di numerose formazioni partigiane di orientamento monarchico, guidate da uomini di fegato come Edgardo Sogno, biografato da Luciano Garibaldi. Per saperne di più basta sfogliare La Riscossa di Raffaele Cadorna e Formazioni autonome nella Resistenza a cura di Gianni Perona (FrancoAngeli,1996).
Quel Piemonte poteva guardare negli occhi i neo-nazionalisti transalpini. Bastino due esempi. Il 19 dicembre 1943 si riunirono clandestinamente esponenti della cultura autonomistica e approvarono la Dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine. I monti uniscono, per chi li sa percorrere. Erano Emilio Chanoux, Ernesto Page, Gustavo Malan, Giorgio Peyronel e Mario Alberto Rollier. Cattolici e valdesi. Accadde a Chivasso ove, quando divenne autonomo, l'Istituto Magistrale non per caso fu intitolato all'“Europa Unita”, nel ricordo di quel Convegno i cui propositi, a cominciare dal decentramento di poteri alle regioni, entrarono nella Costituzione di una Repubblica che li ignorò per decenni, arroccata nel recinto di miopi nostalgie.
L'altro possibile “vanto” del Piemonte erano gli “accords” raggiunti tra partigiani italiani e francesi nel maggio 1944: una delle pagine più interessanti e neglette della lotta per la liberazione dell'Europa dalle tossine del totalitarismo nazionalistico e dei suoi ingredienti e, più ancora, del totalitarismo comunista sovietico, da taluno ancora oggi venerato come panacea contro tutti i mali del mondo.
Settantacinque anni dopo la firma del Trattato di pace del 10 febbraio 1947, duramente e stolidamente punitivo contro l'Italia, merita ricordare la Grande Illusione che animò i loro promotori e attori, miranti a una libertà capace di instaurare pace effettiva tra i popoli e la loro federazione democratica non inchiodata a interessi finanziari prima ancora che economici.
A idearli e a crederci fu anzitutto Tancredi Olimpio Galimberti (“Duccio”), figlio di un deputato originariamente garibaldino/radicale, giolittiano, antigiolittiano, filofascista, inventore del mito di Cuneo come culla della libertà, senatore del regno, uomo del Risorgimento. Risorgimentale fu anche “Duccio”, militante del Partito d'Azione. Pronunciato dal balcone di casa il celebre discorso all'indomani della revoca di Mussolini da capo del governo, costretto alla clandestinità dopo la resa incondizionata, fondatore della banda “Italia Libera” a Madonna del Colletto il 12 settembre 1943, ferito in circostanze aggrovigliate, nel maggio 1944 egli avviò i primi contatti con esponenti della resistenza francese, su suggerimento di amici e d'intesa con Ferruccio Parri, comandante delle formazioni “Giustizia e Libertà”. Obiettivo? Nella certezza che gli anglo-americani avanzassero finalmente verso Roma e (come ingannevolmente avevano fatto intendere) sbarcassero in Liguria, occorreva fare fronte comune. Mussolini, capo della Repubblica sociale italiana, intimò ai giovani di presentarsi alla leva entro il 24 maggio 1944 e minacciò l'offensiva contro i “partigiani” anche con carri “ippotrainati”. L'estate era alle porte. L'aviazione anglo-americana era padrona dei cieli. Non vi erano dubbi sull'esito finale. In quel clima, dopo un contatto al Sautron narrato da Giorgio Bocca, avvenne il primo colloquio a Barcelonette il 22 maggio 1944 tra Galimberti e Lecuyer, rappresentante dei combattenti francesi.
Il passo successivo e concludente ebbe luogo a Saretto, frazione di Acceglio, in alta Valle Maira, il 30-31 maggio. Come poi ricordò Max Juvénal, protagonista per parte francese con l'avvocato Jean Lippmann e Maurice Plantier, “senza direttive né aiuto dei rispettivi governi”, le due delegazioni si trovarono attorno alla tavola di una locanda, ricordata dalla lapide murata sulla sua facciata e conservata qual era da Marta Arrigoni, che ne serba e arricchisce la memoria. Il 30 dovettero riparare all'addiaccio nel timore di un'imboscata. L'indomani, riprese le conversazioni firmarono le “dichiarazioni”, retrodatate e ricordate dai francesi come “accords” e dagli italiani come “Patti di Saretto”.
Benché noto, quelle “dichiarazioni” meritano di essere ricordate nei tratti essenziali, pubblicati da Dante Livio Bianco in “Venti mesi di guerra partigiana nel Cuneese” (Cuneo, Panfilo, 1946) e ripetutamente rievocate sino al 2014 quando vennero celebrate dalla presidente della Provincia di Cuneo, Gianna Gancia, ora europarlamentare della Lega. Soddisfatti dell'intesa, i rappresentanti dei due movimenti dichiararono che “i popoli francese e italiano non avevano alcuna ragione di risentimento e di urto per il recente passato politico e militare, che impegnava la responsabilità dei rispettivi governi”. Affermarono la piena solidarietà nella lotta contro i fascismo e il nazismo e tutte le forze della reazione, preliminare per l'instaurazione delle libertà democratiche e della giustizia sociale in una libera comunità europea. Riconobbero inoltre che la miglior forma “de gouvernement” per assicurare le libertà democratiche e la giustizia sociale è quella repubblicana. Prospettarono infine la collaborazione militare.
La discorde concordia...
Nulla si sa di eventuali diatribe interne per la parte francese; molto invece risulta per la parte italiana. Quelle intese furono invero precedute e seguite da faide intestine tra gli esponenti apicali del partito d'azione. Occorre ricordarlo per comprendere come anche i più nobili propositi possano essere vulnerati alla base da personalismi meschini e da calcoli pseudopolitici di bassissimo conio. Obiettivo precipuo di Giorgio Agosti, mente politica del Partito d'Azione piemontese, fu di escludere dalla “scena finale” delle “conversazioni” italo-francesi Galimberti, sospettato di ambire a ruoli politici nel dopoguerra anche grazie al vasto seguito personale. Fra altro, a differenza di Bianco, Duccio non era mai stato iscritto al Partito nazionale fascista ed era anche l'autore del “Progetto di costituzione confederale europea ed interna”, scritto a quattro mani con Antonino Repaci, magistrato a Cuneo. In esso il diritto di voto era riservato ai “cittadini maschi alfabeti, maggiorenni”; era “garantita la libertà di pensiero ma vietata la costituzione di partiti politici”.
L'“accordo” comunicato trionfalmente da Bianco risultò subito impresentabile. Il governo Badoglio, costituito a Salerno con i rappresentanti di tutti i partiti del CLN, comunisti inclusi, si fondava sull'impegno dei ministri (e rispettivi partiti) a non interferire nella “questione istituzionale”. La lotta di liberazione era come quella di Stalin: “guerra patriottica”. Il “documento” di Saretto finì nelle nebbie dei buoni propositi. Lo stesso accadde per il versante militare. Nelle lettere agli amici partigiani cuneesi Galimberti irrise al comandante partigiano Ezio Aceto (“Napoleone”) e ai due compagni partito, Agosti e Bianco (“Cavour I” e “Cavour II”) che tra loro si scambiavano perfidi sarcasmi su di lui, persino sulla sua “gloriosa ferita”. Difficile pensare che su quelle basi davvero nascesse l'Europa dei popoli liberi.
Poi avvenne quanto né gli uni né gli altri avevano messo in conto. Gli americani (con modesta “scorta” francese e nessun inglese, per non turbare gli umori gallici) anziché in Liguria sbarcarono in Provenza. Le bande partigiane italiane che ripararono oltralpe vissero sempre peggio. Spesso vennero impegnate o si avventurarono in missioni difficili.
La Francia di De Gaulle mirava a tutelare i suoi interessi nazionali permanenti. Era stata l'Italia a dichiararle guerra. Alla vigilia dello “sfascio finale” (aprile 1945) il colonnello inglese J.M. Stevens avvertì i partigiani: in caso di conflitto con i francesi avrebbero avuto torto anche quando avevano ragione. Dovevano salvaguardare gli impianti produttivi essenziali. I francesi svalicarono e giunsero ovunque possibile. Confidavano in Richelieu, Luigi XIV, Buonaparte/Bonaparte e nel principio arcaico “uti possidetis”. Pinerolo e Cuneo erano state a lungo assediate e dominate. Da lì si controllano Torino e la via verso la Liguria.
A ben vedere il Diktat del 10 febbraio 1947 fu umiliante, ma sarebbe potuto andare peggio. Nei primi giorni della Liberazione non mancarono incidenti incresciosi tra militari francesi, partigiani italiani e popolazione  civile. Le “conversazioni” o “colloqui” del Sautron e di Barcellonette e le Dichiarazioni di Saretto vennero narrati in versioni postume come “Accords” e persino quali “Patti” e ancora così vengono enfaticamente ricordati. Al pari dell'“arrangement” di Londra con il quale il 26 aprile 1915 l'Italia aderì alla Triplice Intesa, spacciato per “Patto di Londra”. Le mistificazioni linguistiche però non cambiano la dura realtà dei fatti. A difendere l'italianità di Tenda provarono l'allora giovane storico Giorgio Beltrutti in un'opera  ripetutamente aggiornata e ristampata, Vittorio Badini Confalonieri, i liberali e i monarchici. Gli altri, molto più numerosi, rimasero in seconda fila e esortarono a “prendere atto”. All'indomani dell'entrata in vigore del Trattato, il 12 ottobre 1947 il plebiscito confermativo bene orchestrato da Parigi attribuì 1445 “si” a favore della Francia contro 76 “no” in Tenda e 759 “si” contro 26 “no” a Briga (ormai divenuta La Brigue).
È questa la lezione che, al di là della retorica, impartisce il 75° anniversario del Trattato di pace, figlio della “resa senza condizioni” del 3-29 settembre 1943: chi dichiara guerra ha il dovere di vincerla; se la perde, ne paga le conseguenze.
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: La borgata di Saretto (Acceglio) con la Rocca Provenzale. I monti uniscono chi li sa percorrere.

IL QUIRINALE 
LA STORIA OLTRE LE QUINTE 

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 6 febbraio 2022, pagg. 1 e 6.

Quirinale. Orologio bronzeo dorato. Il Tempo passa per tutti. Passò per l'Antica Roma e quella medievale, per Cola di Renzo, per i papi-re e per i re d'Italia.
In principio furono i Romani, poi i Papi, Vicari di Gesù Cristo. Di seguito arrivarono i Re d'Italia. Infine i presidenti della Repubblica Italiana (quando l'Italia da sostantivo venne declassata ad aggettivo). I Papi edificarono. I Re unificarono. I Presidenti trovarono tutto fatto. Ma lì sta il bello della Città Eterna.“Tout passe, tout lasse, tout...”.
Dietro le quinte, la Storia
Anche il film più noioso può riuscire attrattivo. Se non per la trama e gli interpreti, a volte scontati, per la scenografia, i costumi, gli addobbi e qualche nota o parola di fondo. L'insediamento di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica ha avuto il pregio di proporre ancora una volta all'attenzione l'insuperabile bellezza di Roma, frutto di una storia millenaria, senza paragoni con qualunque altra capitale dell'universo mondo.
La vettura sulla quale il Presidente è sceso dal Quirinale a piazza Monte Citorio rimarrà in memoria per il suo statuario automedonte, dalla divisa sgargiante come quello che accompagnò lo zar Nicola II a Racconigi il 23 ottobre 1909. Rimarrà per i corazzieri della scorta, in motocicletta e a cavallo e la cagnolina imbardata. Arcaico? Barocco?    
Si sa, ma conviene ricordare che il Palazzo, la Piazza e i Giardini ove risiede per la seconda volta Sergio Mattarella hanno richiesto nei secoli tanti quattrini e altrettanti ne richiedono per il decoro dello Stato d'Italia. Architetti geniali da Martino Longhi il Vecchio a Domenico Fontana, Flaminio Ponzio, Carlo Maderno, Gianlorenzo Bernini e via proseguendo furono messi all'opera da una sequenza imponente di Pontefici. Si lasciarono alle spalle il saccheggio di Roma del 1527 e la lacerazione della chiesa d'Occidente. Con il Concilio di Trento la chiesa cattolica apostolica romana prese le distanze da “riformatori” quali Lutero (solitamente “molesto” e costantemente antiebraico) e da “evangelici” come Giovanni Calvino, che in nome della tolleranza fece bruciare vivo il “dissidente” Serveto.
Sede papale da Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini, 1592-1605, morto durante la disputa fra Grazia e Libero arbitrio), per quasi tre secoli il Palazzo fu decorato da artisti quali Pietro da Cortona, abbellito e arredato all'interno secondo il gusto raffinato dei successori di Pietro, con gioielli quali la Cappella Paolina (dalle misure identiche alla “Sistina”), mentre l'esterno veniva “inquadrato” da reperti tratti dalle Terme di Costantino il Grande (i Dioscuri) e dal Mausoleo di Augusto (l'obelisco). Quella Roma visse ripetutamente drammi: l'effimera repubblica del 1798, la debellatio di papa Pio VII, imprigionato e deportato nei confini dell'Impero dei Francesi da Napoleone I, che proclamò suo figlio re di Roma, la repubblica del febbraio-luglio 1849 e infine l'irruzione del corpo di spedizione dell'Esercito Italiano comandato da Raffaele Cadorna il Venti settembre 1870. 
Per 76 anni il Palazzo dei Papi divenne sede (non banale “residenza”) dei re d'Italia, che, fatto eseguire scrupolosamente l'inventario dei suoi “arredi”, gli dedicarono altrettante cure nella piena consapevolezza del suo valore simbolico. Altrettanto avvenne per gli altri Palazzi della Città Eterna, papale, imperiale (Palazzo Madama, poi sede del Senato del Regno) e delle grandi famiglie pontifice, come Palazzo Chigi, a lungo ministero degli Affari Esteri prima della costruzione della sontuosa “Farnesina”, quando il governo era accampato al Viminale e la presidenza del Consiglio in quattro a Palazzo Braschi, due passi dal “mamozzo” del Pasquino. All'epoca contava cinque o sei funzionari e impiegati di cncetto, contro le migliaia d'oggidì. 
Monte Citorio d'antan
In poche centinaia di metri il corteo presidenziale, costeggiato Palazzo Chigi, ha condotto al Palazzo di Monte Citorio, iniziato da Gianlorenzo Bernini per i Ludovisi e proseguito per papa Innocenzo X (Giovanni Battista Pamphili, 1644-1655: la cui villa fu teatro delle sceneggiate di un ex presidente del Consiglio) che intendeva farne reggia per suoi parenti. Sontuosa sede di uffici di giustizia con papa Innocenzo XII (donde la denominazione di Curia innocenziana) e prefettura in età napoleonica, nel 1870 venne scelto quale sede della Camera dei deputati. Nell'adeguarlo e ornarlo gareggiarono l'architetto Ernesto Basile e il pittore Giulio Aristide Sertorio che istoriò un canto all'italianità con la raffigurazione allegorica delle virtù dell'“Itala gente da le molte vite”: Giustizia, Fortezza e Costanza; Ardimento, Forma e Fede, in controcanto con la rappresentazione di Rinascimento, Umanesimo, Arte, Scoperte geografiche, l'Età Classica e quella della Cavalleria.
Come accadeva nelle chiese medievali, i cui affreschi parietali erano Bibbie per gli analfabeti, così all'interno del Palazzo di Montecitorio, a edificazione dei rappresentanti della nazione, a quel tempo coltissimi, il ciclo pittorico dell'aula ricordò invasioni barbariche, liberi comuni ed epopea risorgimentale. È sintetizzata dal tricolore nazionale sollevato dal Piemonte a incitamento della gioventù italica, accorrente alle bandiere per l'indipendenza della Patria. “In illo tempore” gli studenti si sacrificavano a Curtatone e Montanara, non per chiedere sconti agli esami di maturità (niente latino per i licei classici, niente matematica agli scientifici, diploma e reddito di esistenza in vita per tutti...: forse “non sanno quello che si fanno” come disse Qualcuno; o sanno di non sapere?). Mentre all'esterno di Monte Citorio lo scultore Domenico Trentacoste raffigurò i pilastri portanti della monarchia rappresentativa, la grazia di Dio e la volontà della nazione, all'interno Sartorio evocò la partecipazione del movimento popolare, i “volontari” incitati dall'inno di Garibaldi: “Si scopron le tombe/ si levano i morti/ i martiri nostri/ son tutti risorti”. Tanto tempo fa.
Italia dalle belle forme
Il discorso pronunciato dal Presidente Mattarella e i battimani dei parlamentari (chissà perché citati dai “media” come “standing ovation” anziché “applausi prolungati”, come si legge nei Verbali delle sedute parlamentari) non hanno distratto l'osservatore paziente da fermare l'occhio sulla possente Figura vegliante sulle tre cariche supreme dello Stato d'Italia raccolte sullo scranno presidenziale dell'Aula di Monte Citorio.
Nell'altorilievo bronzeo, realizzato auspice Vittorio Emanuele III, lo scultore subalpino Davide Calandra (1856-1915) istoriò la Monarchia con la fronte ornata dalla Corona Ferrea, simbolo della regalità “in” e “sull”'Italia. Alta, solenne, opulenta stringe fra le mani la Carta dello Statuto, “legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della monarchia” da consultiva mutata in “rappresentativa”. Al suo cospetto il re, come si conviene alla “fons honorum”, monta un destriero sellato e staffato che solleva la zampa sinistra e china la testa in reverente omaggio all'“Idea dell'Italia”. Mentre impugna le briglie con la sinistra, con la destra Vittorio Emanuele III regge il berretto militare di comandante delle forze di terra e di mare. Avvolto nel tricolore ondeggiante ripete la cerimonia di insediamento sul trono: il giuramento di fedeltà allo Statuto, come da articolo 22 della Carta albertina. Chiunque pretendesse alla successione dovrebbe fare altrettanto in forme rituali e al cospetto dei depositari della Tradizione.
Ritratto nell'anno del conferimento del diritto di voto politico a tutti i maschi maggiorenni alfabeti che avessero prestato servizio militare o trentenni anche se analfabeti, il Re ritratto da Calandra è quello delle grandi riforme del primo quindicennio del Novecento. È il sovrano orgoglioso dei nove secoli che avevano condotto la sua Casa dalla Savoia a Roma, da una contea transalpina a un regno che vantava colonie affacciate sul Mar Rosso, sulla costa orientale dell'Africa e sugli immensi spazi di Tripolitania e Cirenaica. Era il re della Terza Italia che nel 1911 aveva celebrato il primo mezzo secolo di unità nazionale (ma appena un quarantennio dall'annessione di Roma), sempre attento a tenere distinti (che non vuol dire separati o incomunicabili) lo Stato e la sua vita privata in seno alla Famiglia.
Con la guida del severo Governatore Egidio Osio, “Re Vittorio” aveva studiato a fondo le otto settimane durante le quali Carlo Alberto aveva partecipato ai lavori del Conseil de Conférence che in sole 12 sedute tra il 7 gennaio e il 4 marzo 1848 preparò la svolta coronata con la promulgazione dello Statuto. Poco fiduciosi nella maturità dei regnicoli, i sette “primi segretari di Stato” suoi componenti (Borelli, Avet, di Revel, Des Ambrois, Di San Marzano, Broglia e Cesare Alfieri) decisero che occorreva precorrere “la piazza” con la concessione della costituzione. Meglio concedere che rischiare di cedere. A quel modo sarebbe stata salva la Dignità del Potere: “dignità” che è tutt'uno con la Gerarchia e la meritocrazia come ha fatto intendere Mattarella.
Il Regno, il Re...
Flessibile, anziché rigido qual è la Costituzione della Repubblica, così difficile da armonizzare con i mutamenti culturali e sociali dettati dal fluire dei decenni, lo Statuto albertino fissò i capisaldi dello Stato, delegando “il resto” a commissioni di saggi. Fu il caso della legge elettorale. Lo Statuto si limitò a dichiarare che “la Camera elettiva è composta di Deputati scelti dai Collegi elettorali conformemente alla legge”. Toccava al Parlamento farla. Allo scopo il 17 febbraio venne nominata una commissione presieduta da Cesare Balbo, futuro presidente del Consiglio dei ministri, e formata dal meglio dei migliori: Giacinto Gallina, Federico Sclopis, Camillo Cavour, Riccardo Sineo... Poi le leggi elettorali furono pascolo del Parlamento, proprio come oggi. Non è colpa dei cittadini se funzionano alla meno peggio e a volte producono una dirigenza da mettersi le mani sulla testa. Andava meglio con i collegi monocamerali, eventualmente a doppio turno: dove tutti si conoscono, a differenza di quando prima o poi si andrà alle urne con esiti che nessun indovino sa prevedere.  
Lo Statuto entrò anche nel delicato terreno della separazione (non era mera “distinzione”) tra beni dello Stato, dotazione della corona e beni propriamente privati del sovrano e della sua famiglia. La questione è recentemente balzata all'attenzione per la richiesta, del tutto ragionevole, degli eredi di Umberto II di ottenere in restituzione i cosiddetti “Gioielli della Corona”, fatti recapitare in custodia provvisoria alla Banca d'Italia il 5 giugno 1946 e accolti da Luigi Einaudi che pare abbia domandato a Falcone Lucifero: “Ma perché non se li porta via?”. Al riguardo suscita stupore la dichiarazione perentoria del presidente dell'Unione monarchica italiana, Alessandro Sacchi: secondo lui quei Gioielli “non appartengono ai Savoia”. E allora? Chi pensava che la “più antica associazione monarchica” difendesse a spada tratta i diritti dei discendenti di Umberto II sarà rimasto di stucco. Un monarchico “doc” contro Casa Savoia (tutti i frami compresi...)? Il preopinante adduce a sostegno l'articolo 19 dello Statuto.
Per chiarire se abbia ragione o meno, è bene leggerlo come venne scritto e approvato da Carlo Alberto e rimase in vigore sino al 31 dicembre 1947. Esso recita: “(...) Il Re continuerà ad aver l'uso dei Reali palazzi ville, giardini e dipendenze, nonché di tutti indistintamente i beni mobili spettanti alla Corona, di cui sarà fatto inventario a diligenza di un ministro responsabile. (...)”.
Ma ben più importante è l'articolo 20 che, forse nella fretta di confutare i diritti della Famiglia Savoia, il preopinante Sacchi trascurò. Esso sancisce: “Oltre i beni che il Re attualmente possiede in proprio, formeranno il suo patrimonio ancora quelli che potesse in seguito acquistare a titolo oneroso o gratuito, durante il suo regno. Il Re può disporre del suo patrimonio privato sia per atti fra vivi, sia per testamento, senza essere tenuto alle regole delle leggi civili, che limitano la quantità disponibile.”
Il Re, insomma, aveva pur diritto di cambiare la camicia, comperare un quadro, fare beneficienza (e quanta ne fecero i sovrani sabaudi e le loro Consorti), passare quattrini agli irredentisti tramite emissari segreti (come attestò Ernesto Nathan), senza che lo Stato avesse titolo per chiedergliene conto. E così aveva titolo per donare un libro, un ninnolo o una gemma o per conservarla.
L'Orologio della Storia
Le forme dello Stato passano. L'Italia ne ha cambiata una nel 1946. Secondo molti la Carta vigente le sta stretta. Dopo due rielezioni di uno stesso presidente e mentre molti, come nulla fosse, chiacchierano di “semipresidenzialismo di fatto”, dalla piazza del Quirinale bello è vedere il Cupolone di San Pietro e gettare l'occhio verso il Gianicolo.
A Pietro Gesù Cristo disse:“Non canterà oggi il gallo che tu tre volte avrai negato di conoscermi” (Luca, 22, 34). Gesù fondò la Chiesa su Pietro, crocefisso in Roma a testa all'ingiù ove (si dice) sorge il Tempietto di San Pietro in Montorio. 
I traditori sono ovunque, come il fico al quale (si narra) Giuda si impiccò. Era un apprendista che, invido, odiò il Maestro.       
Aldo A. Mola

DIDASCALIA:  Quirinale. Orologio bronzeo dorato. Il Tempo passa per tutti. Passò per l'Antica Roma e quella medievale, per Cola di Renzo, per i papi-re e per i re d'Italia.

ORDO AB CHAO?
CORONA FERREA O DI SPINE?

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 30 gennaio 2022, pagg. 1 e 6.

La Corona Ferrea conservata nella Basilica di San Giovanni Battista, Duomo di Monza.In principio era il Caos, ma...
… giovedì 14 marzo 1861 il primo parlamento nazionale, nato come VIII legislatura del regno di Sardegna e radunato in un'aula molto provvisoria allestita nel cortile di Palazzo Carignano a Torino, proclamò Vittorio Emanuele II re d'Italia. Fu la svolta di portata secolare. La legge venne pubblicata dalla Gazzetta Ufficiale domenica 17, giorno poi assunto come data di nascita dello Stato d'Italia. Il suo 150° nel 2011 è stato celebrato con enfasi dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, comunista, repubblicano, non insensibile alle radici sabaude dell'Italia contemporanea da Mazzini e Garibaldi ad Azeglio, Cavour e ai quattro re, linfa vitale sino a Umberto II. Poiché la “tempesta magnifica” ebbe protagonisti anche il teologo torinese Vincenzo Gioberti e un lungo elenco di ecclesiastici (come l'abate di Montecassino) favorevoli all'immediata “conciliazione” tra il Sacro Soglio e il Regno, il 150° un tempo ritenuto frutto di un complotto satanico fu concelebrato dal Segretario di Stato vaticano, il salesiano Tarcisio Bertone, e dal presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Angelo Bagnasco. Fu un anno che pareva irripetibile. Invece il miracolo si riaffacciò con il convegno italo-vaticano di tudi storici nel centenario di Porta Pia, l'1-2 ottobre 2020 (gli Atti saranno presto disponibili presso la Libreria Editrice Vaticana).
   La nascita del regno d'Italia fu l'unica novità statuale importante dell'Ottocento nell'Europa bloccata dal Congresso di Vienna e dalla Santa Alleanza (1815). Nulla a che vedere con l'Impero di Germania, alla cui proclamazione nel Salone degli Specchi del Castello di Versailles nel gennaio 1871 (un indimenticabile ceffone alla Francia) non presenziarono i re di Sassonia e di Baviera e altri principi germanici. L'impero degli Hohenzollern accorpò attorno al regno di Prussia, vincitore su Napoleone III e la Terza repubblica di Francia, stati e staterelli tedeschi, i cui sovrani non deposero affatto le loro plurisecolari insegne.
   Il regno d'Italia, invece, scaturì dalla concatenazione di insorgenze popolari (poco conta se eterodirette e promosse da società segrete, oggi scioccamente demonizzate), richiesta di annessione da parte di assemblee frettolosamente elette e plebisciti popolari che confermarono di volere Vittorio Emanuele II (di Savoia) loro re costituzionale. Mentre l'impero di Germania nacque dalla guerra vittoriosa dei sassoni contro i franchi (una delle tante scatenate nel corso di un millennio: altre due divamparono nella nuova Guerra dei Trent'anni che stremò l'Europa fra il 1914 e il 1945) la Nuova Italia sorse per processo interno e liberazione dallo straniero. Nacque insomma dalla volizione popolare di far coincidere confini geografici, politici, linguistici, costumali e “storici”.
Perciò il Regno fu lo Stato d'Italia, forte di simboli unificanti (anzitutto lo scudo sabaudo posto al centro del tricolore nazionale) e di riti capaci di collegare la realtà nuova all'età romana e preromana, la Terza Italia alle epoche precedenti: quella dei Comuni e delle Signorie (tutt'uno con Umanesimo e Rinascimento) e l'altra, dei consoli e dei Cesari, dei magici Etruschi.
   Per emblema del nuovo Regno venne scelta la Corona Ferrea, che non era mai stata di un principe “locale” né di papi o cardinali. Essa venne utilizzata per l'incoronazione dei sacri romani imperatori di nazione germanica dagli Ottoni a Corrado il Salico, da Federico Barbarossa a Carlo V d'Asburgo, per la cui consacrazione (1530), officiata da papa Clemente VII (de' Medici, domesticato con il sacco di Roma nel 1527), venne recata a Bologna.  Non la calcò il marchese Arduino d'Ivrea (955-1015), episcopicida, consacrato re d'Italia dal vescovo di Pavia in San Michele Maggiore nel 1002, ma aspramente avversato dall'arcivescovo di Milano e dal marchese Bonifazio di Toscana che chiesero al sacro romano imperatore germanico di spazzarlo via. Anziché far quadrato in difesa dell'Italia, le cui coste meridionali (e non solo quelle: ne sapevano qualche cosa la Liguria e le valli del Piemonte) subivano scorrerie di “saraceni”, islamici, a danno di tutti gli abitanti, si rivolsero al nemico storico d'Oltralpe e continuarono a farlo sino a Federico Barbarossa. Preferivano la regola “Signore lontano, briglie sciolte”. 
    Con quei precedenti non stupisce che la Corona Ferrea sia poi transitata dall'uno all'altro imperatore, sino a quando il 26 maggio 1805 Napoleone I la volle per sé e la impose quale emblema del regno d'Italia (Lombardo-Veneto, Emilia e altre terre annesse), affidato al ventiquattrenne figlio adottivo Eugenio di Beauharnais col titolo di viceré. Non era un regno vero, autocefalico, ben inteso. Quello era solo una gemma dell'impero dei Francesi, ma “parlava di Italia”. Sull'inizio furono in molti a scommettere sulla possibilità di farne scaturire uno Stato davvero indipendente. Quando da Maria Luisa d'Asburgo ebbe l'atteso figlio maschio Francesco Carlo Napoleone, destinato alla successione, Napoleone gli conferì il titolo di Re di Roma, a conferma della debellatio del potere temporale dei papi: una decisione che non ha mai portato soverchia fortuna (fu il caso di Casa Savoia).
   A Regno d'Italia proclamato, Vittorio Emanuele II rivendicò e nel 1866  ottenne da Francesco Giuseppe d'Asburgo la restituzione all'Italia della Corona Ferrea, consustanziale alla regalità, tramite il generale Luigi Federico Menabrea, che la recò a Torino. 
    Restituita al Duomo di Monza, sua “teca” originaria dai leggendari tempi della bavara Teodolinda, regina dei Longobardi, e assurta per universale sentire a espressione della sacralità del regno d'Italia, la Corona Ferrea fu recata a Roma per le solenni esequie di Vittorio Emanuele II. Altrettanto avvenne per i funerali di Umberto I, assassinato a Monza il 29 luglio 1900. I Re d'Italia, che non un proprio mausoleo e per “salire in trono” giuravano fedeltà allo Statuto a capo scoperto, furono seguiti dalla Corona Ferrea per la loro tumulazione provvisoria nel Pantheon di Roma, in attesa che venisse completato il Vittoriano, concepito quale Mausoleo dei sovrani secondo progetti concatenanti le loro spoglie con la Dea Roma che accoglie i capi di Stato stranieri e nostrani, anche cattolici osservanti, in visita “religiosa” all'Altare della Patria.
   Lo Stato d'Italia resse alle scosse telluriche più devastanti: non solo quelle “naturali” di Casamicciola o di Messina e Reggio di Calabria, ma anche le altre e peggiori, opera di uomini, quali lo sconquasso politico-partitico all'indomani della Grande Guerra, l'eclissi del sistema parlamentare, l'avvento del regime di partito unico e quanto ne seguì tra il 1926 e il 1943.
   Il Regno sopravvisse anche alla catastrofe del suo intervento nella seconda Grande Guerra europea (1939-1945) dal 1941 divenuta mondiale: una decisione azzardata, seguita da scelte caotiche, spesso dissennate, destinate a trascinare il Paese nella sconfitta nel volgere di un anno dalla dichiarazione di guerra agli Stati Uniti d'America (dicembre 1941). Nel novembre 1942 gli anglo-americani sbarcarono in Marocco e Algeria e sette mesi dopo mossero all'assalto della Sicilia e dell'Italia meridionale, strategica per il controllo del Mediterraneo e base del lungo assedio alla Germania e dell'offensiva finale: irrompere nel suo territorio con l'obiettivo, mancato nel 1918, di sfasciarne l'unità politica, spostandone i confini a piacere delle “Nazioni Unite” vincitrici.
    L'Italia sorta nel 1861 e cementata dalla vittoria nella Grande Guerra sopravvisse anche alla resa senza condizioni del 3-29 settembre 1943 e alle sue pesantissime conseguenze, inclusa l'imposizione del Governo militare alleato. Gli anglo-americani, come anche l'Unione sovietica, compresero che a tenere insieme i “popoli d'Italia” era lo Stato sorto dal Risorgimento. La sua unità era la garanzia del rapido ritorno tra le democrazie parlamentari, come l'Italia era stata da Camillo Cavour e Quintino Sella a Giovanni Giolitti. Lo ricordò Benedetto Croce quando ruvidamente corresse Ferruccio Parri, secondo il quale prima dell'avvento di Mussolini l'Italia non era stata una vera democrazia. L'improvvida affermazione dell'ex comandante delle formazioni “Giustizia e Libertà” costituiva un immeritato regalo retroattivo a Mussolini, il cui successo nel 1922-1924 era stato appunto legato all'irrisione dell'“Italietta” e alla svalutazione dell'età liberale: la stessa poi ripresa e proseguita dalla storiografia anglo-dipendente. Fu il caso del veneratissimo Denis Mack-Smith, che ridusse l'età liberale a “dittature parlamentari”, a beneficio della retorica vetero-gramsciana e intrinsecamente anti-patriottica secondo cui la redenzione dell’Italia era ed è affidata al Nuovo Principe: il “partito di massa” vindice della “rivoluzione mancata”. Da quell'humus scaturirono il “proletariato senza rivoluzione” e le tante e sempre verdeggianti fiabe del sessantottismo perenne, che accomuna tutte le ideologie anti-sistema, incluso il cattolicesimo anti-nazionale e anti-curiale.
   Quando, oltre un anno dopo la fine della guerra in Europa, mentre stava sperimentando il ritorno all’elettività delle cariche (introdotta dallo Statuto albertino del 4 marzo 1848) ed era confortata dall'introduzione del voto femminile per decreto firmato da Umberto di Piemonte, Luogotenente del regno d'Italia, la quieta evoluzione del “sistema-Italia” all'insegna della continuità subì la profonda e mai cicatrizzata ferita. Il governo formato con il benestare degli Alleati (era tra le clausole della resa) avocò arbitrariamente le funzioni del capo dello Stato e ne conferì l'esercizio al democristiano presidente del Consiglio Alcide Degasperi (questa, ricorda Nico Perrone in un saggio di imminente pubblicazione per BastogiLibri, è la grafia originaria del suo cognome, corrotto in De Gasperi quando venne annotato nell'elenco dei deputati alla Dieta di Vienna).
   Era il 13 giugno 1946. Lo Stato d'Italia si trovò inopinatamente con due Capi: Umberto II, subentrato il 9 maggio al padre Vittorio Emanuele III e riconosciuto dalla Comunità internazionale (si vedano, per conferma, i Documenti diplomatici internazionali), e, appunto, De Gasperi. Il Paese rischiò il caos, scongiurato di misura dalla sofferta decisione di Umberto II di lasciare il suolo patrio.
   Poiché oggi circolano chiacchiere sgangherate sulla legittima richiesta dei suoi eredi di verificare a chi spettino i “Gioielli della Corona”, va ricordato che il Re non solo non li portò con sé (come pure avrebbe potuto fare, anche secondo Luigi Einaudi, governatore della Banca d'Italia) ma per fronteggiare la vita all'estero (dall'Assemblea Costituente tramutata in condanna all'esilio) chiese un prestito in denaro a Pio XII, contro deposito di suoi beni personalissimi. Debito puntualmente saldato.
   In principio della Repubblica, dunque, vi fu il caos dei poteri. Gli atti pubblici continuarono a risultare “in nome di Umberto II, Re d'Italia” sino al 19 giugno (un mercoledì, sacro a Mercurio, protettore degli imbrogli), quando finalmente la “Gazzetta Ufficiale” pubblicò i risultati del referendum istituzionale del 2-3 precedenti, “certificati” a maggioranza dalla Corte suprema di Cassazione alle 18 del giorno precedente, con un colpo di stato contro la lingua italiana, giacché per votanti vennero intesi i voti validi anziché gli elettori recatisi alle urne.
   La decisione del governo del 13 giugno fu il punto di arrivo della consorteria dei partiti che lo componevano. Essi non erano affatto espressione della nuova Camera ma dei componenti del Comitato di Liberazione Nazionale, l'“esarchia” che risaliva all'agosto 1943, quando i suoi animatori, raccolti nella casa romana del democristiano Giuseppe Spataro, decisero di essere gli unici autentici depositari della “volontà popolare” e di non riconoscere il governo presieduto da Pietro Badoglio su nomina di Vittorio Emanuele III. Ma quel “concerto a sei voci” (come Giulio Andreotti intitolò un gustoso “memoriale”) era un coro armonico? I vincitori (anglo-americani da un canto, stalinisti all'altro) li tenevano sotto controllo e li spingevano gli uni contro gli altri in una guerra fratricida destinata a indebolire l'Italia, già provata dalla sconfitta militare, da due anni di guerra civile e sotto l'incubo del trattato di pace punitivo. Chissà come verrà ricordato nel suo 75° anniversario, il prossimo 10 febbraio 2022 dal successore di Sergio Mattarella. Confidiamo non si risolva nell'ennesima mano tesa verso chi ha occupato le terre redente nella guerra del 1915-1918 a prezzo dei tanti sacrifici ricordati nel centenario della tumulazione del Milite Ignoto all'Altare della Patria lo scorso 4 novembre, in un clima di concordia civile che a pochi mesi di distanza già pare dissolto.
    Nessuno stupore, dunque, se l'elezione del Capo dello Stato avviene come avviene: non all'insegna della Corona Ferrea ma della corona di spine che “cinge la chioma” dell'Italia nata dal gesto rivoluzionario del 13 giugno 1946.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: La Corona Ferrea conservata nella Basilica di San Giovanni Battista, Duomo di Monza.

LA PARABOLA FERDINANDEA
Quante bandiere sull'Isola che non c'è.

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 23 gennaio 2022, pagg. 1 e 6.


Una suggestiva immagine della leggendaria isola Ferdinandea (1831).Terra del primo che passa?
Nel giugno 1831 la piattaforma continentale tra la Sicilia meridionale e Pantelleria venne squassata da un fortissimo terremoto. L'onda sismica raggiunse Palermo, nella rassegnata indifferenza della popolazione. Dieci anni prima la Sicilia aveva visto di peggio. Com'è come non è, tra il 10 e l'11 luglio un'ennesima scossa fu seguita da un'eruzione vulcanica e, sorpresa, emerse un'isola avvistata da un paio di marittimi siciliani, che ne dettero avviso senza che nessuno ci facesse troppo caso. Un capitano inglese, invece, navigando nelle acque tra Sciacca e Pantelleria, ebbe un sobbalzo: nel bel mezzo del mare (37,11 latitudine nord e 12,44 longitudine est) era spuntata una “terra” di cui nessuno sapeva niente. Miracolo? Senza perdere tempo ne prese possesso, come accade di qualunque relitto abbandonato, sino a un attimo prima “res nullius”. Il 24 agosto fece piantare la bandiera inglese sulla “escrescenza” da lui denominata “Graham”. La Francia era da poco passata da Carlo X (che aveva avviato la conquista dell'Algeria) a Luigi Filippo d'Orléans. Parigi non voleva intromissioni di terzi in un mare che considerava suo. Pertanto il 26 settembre arrivò in vista dell'isola il brigantino francese “La Flèche” con tanto di tricolore, un geologo, Constant Prévost, portato di scorta sull'esempio della spedizione di Napoleone Bonaparte in Egitto (1798) e, in mancanza di macchine fotografiche e di videocamere, un pittore, Edmond Joinville, al quale si debbono splendide “panoramiche” dell'isola che non c'era. Naturalmente il comandante fece issare il tricolore francese sul cacumine dell'isola, ribattezzata “Julia” dal mese della sua emersione.
Però il geologo scrollò il capo. Era inutile contendere agli inglesi una “panna montata” da un estemporaneo moto tellurico: come era sorta, così si sarebbe dissolta, tra mareggiate e intemperie, poiché la natura fa il suo corso, al di là della presunzione degli ominidi di modificarla a propria irsuta immagine e somiglianza.
   Il “montrucco” non era né la Rocca di Gibilterra né Malta, però Ferdinando II di Borbone (1830-1859), da poco re delle Due Sicilie in successione a Francesco I (1825-1830), non poté rimanere muto spettatore a cospetto di quello sventolio di vessilli stranieri sul tronco di cono scaturito nel bel mezzo del “suo” canale di Sicilia. Perciò spedì a prenderne possesso il capitano Corrao, che era stato tra i primi a vederla affiorare e a darne notizia. Detto fatto, questi andò, piantò la bandiera borbonica sull'isola tremolante e la battezzò “Ferdinandea”. Sembrava fatta. Sennonché si stagliò sull'orizzonte una fregata. Inglese. Il suo capitano, Jenhouse, ne rivendicò la sovranità di sua maestà britannica. La disputa rimase aperta.
   Accorsero anche geologi e vulcanologi a dire la loro. Carlo Gemmellaro, docente all'Università di Catania, pubblicò la scrupolosa “Relazione dei fenomeni del nuovo vulcano sorto dal mare fra la costa di Sicilia e l'isola di Pantelleria nel mese di luglio 1831”. La contesa aveva però altre motivazioni. La monarchia borbonica era “sotto osservazione” da quando Ferdinando IV era fuggito da Napoli, travolto dalla rivoluzione sobillata da agenti francesi e da illuministi e giacobini partenopei e si era trincerato in Sicilia sotto protezione degli inglesi, che più tardi con lord Bentinck gli imposero l'emanazione di una costituzione (bicamerale, per non contrariare i “baroni”), l'allontanamento della sovrana Maria Carolina (da nessuno rimpianta) e lo restaurarono a Napoli ove assunse titolo di re delle Due Sicilie, per umiliare i fedifraghi partenopei. 
   Mentre le cancellerie di mezza Europa discettavano su chi ne avesse la sovranità, in pochi mesi da tre miglia di circonferenza l'isola si ridusse a uno e mezzo. Anche la sua altezza via via scemava. A novembre superava di poco il pelo dell'acqua. A dicembre era ormai invisibile. Come un'orca marina riaffiorò nel 1846, due anni prima della rivoluzione indipendentistica della Sicilia, sanguinosamente repressa dal Borbone, e nel 1863, tre anni dopo la garibaldina impresa dei Mille. Nel 1968, in linea con i moti studenteschi, ebbe un (per ora) ultimo sussulto, in coincidenza con il catastrofico terremoto che devastò la valle del Belice.
   Per scongiurare nuove rivendicazioni straniere, sul suo fondale fu calata una targa (poi forse casualmente distrutta ma prestamente rinnovata) che recita “Questo lembo di terra una volta isola Ferdinandea era e sarà sempre del popolo siciliano”. Non “italiana”? Sia come sia, con i suoi nove crateri vulcanici il Banco Graham, dal quale emerse e sul quale tornò in quiescenza, è monitorato dall'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia. Si confida che le sagome qui è là stagliate sui suoi fondali non vengano più scambiate per sottomarini libici e colpite da missili sganciati da aerei in rotta verso/contro la Libia (come accadde in un passato neppure tanto remoto).
Garibaldi e Cavour sotto tutela franco-britannica
La “Ferdinandea” è una “metafora”, anzi una “parabola”. Insegna che appena nasce un lembo di Nuova Italia subito accorrono bandiere straniere a rivendicarne la sovranità con seguito di scienziati chiamati a dar manforte, come Friedrich Hoffmann, docente all'Università di Berlino, che fu tra i primi ad avvicinarsi e a studiare l'“isola senza futuro”, sorta e sprofondata quasi per burla.
La sua vicenda rispecchia quella della spedizione di Garibaldi del maggio 1860. Salpati da Genova perché Francesco Crispi imbrogliò le carte e incoraggiò l'“eroe” assicurandogli che la rivoluzione in Sicilia stava vincendo, mentre era dispersa dai lealisti, i due vapori che trasportarono i (circa) “Mille” (tutti maschi, meno la moglie di Crispi, poi ripudiata) attraccarono a Marsala indisturbati. Tra loro e le navi borboniche, pronte a cannoneggiarli, s’interposero gli inglesi. Nelle prime righe delle Memorie Garibaldi non mancò di ringraziarli come santi protettori perpetui. I britannici avevano motivo di propiziarne la vittoria. Temevano che, in cambio dell'aiuto francese nella conquista/annessione dell'Italia settentrionale e del Granducato di Toscana (che voleva dire il porto di Livorno), con sommo cinismo Vittorio Emanuele II e Camillo Cavour cedessero a Napoleone III non solo la Savoia e la contea di Nizza, ma anche valichi alpini rotabili tutto l'anno, l'intera Liguria e magari persino la Sardegna, così lontana da Torino, povera e selvaggia.
La partita era aperta. Garibaldi in Sicilia sparigliava i giochi di Torino: costringeva il “Piemonte” a scrollarsi di dosso la dipendenza da Parigi e a prendere atto del peso dell'Inghilterra nel Mediterraneo, da Gibilterra a Malta e al Vicino Oriente. Nel volgere di poche settimane il garbuglio divenne sempre più intricato. L'“Italia” dell'estate 1860 fu la nuova “Ferdinandea”. Emerse da secoli di dominazioni straniere e di sovrani dipendenti da Vienna, Madrid o Parigi e innalzò il tricolore nazionale (quello proposto a Reggio Emilia da don Giuseppe Compagnoni, che aveva temporaneamente deposto la talare). Ma al tempo stesso prese atto delle bandiere che britannici e francesi piantavano ben salde ai lati del suo cammino. Indicavano la rotta e ipotecavano il futuro, come facevano le banche franco-britanniche, larghe nell'elargizione di prestiti ai sovrani d'Italia (papa Pio IX compreso), quanto rigide nell'esazione dei debiti. Lo confermò Napoleone III quando ai messaggeri di Vittorio Emanuele III recatisi a informarlo che il re doveva scendere in armi nel Mezzogiorno per tagliare la strada di Roma a Garibaldi rispose laconicamente: “Fate, ma fate in fretta”. L'Europa andava posta dinnanzi ai “fatti compiuti”, completi di quelli “irreversibili”, ovvero l'eliminazione fisica dei nemici irriducibili. In pochi mesi si stava cambiando la carta politica d'Europa con blande proteste dei sovrani spodestati. Il re di Sardegna avanzò attraverso Marche e Umbria e, senza dichiarazione di guerra, forzato il passo del Macerone, irruppe in Campania e divenne re “d'Italia”. Dal canto suo Londra tenne sotto sorveglianza Giuseppe Mazzini, Carlo Cattaneo e tutti gli antagonisti e i nemici della monarchia sabauda accorsi a Napoli e disseminati nell'ormai dissolto regno delle Due Sicilie. Le ultime roccaforti borboniche, da Gaeta a Civitella del Tronto, erano capitoli di un libro chiuso ma, al tempo stesso, pagine d’esordio di uno nuovo.
Il magma vulcanico permanente
Il regno unitario nacque con tre malanni: la contrapposizione tra “volontari” ed esercito regolare, tra fautori del nuovo regime e suoi avversari strenui (sette anni di “grande” e piccolo “brigantaggio” e una repressione dal costo che avrebbe sfiancato uno Stato secolare, figurarsi quello appena nato) e infine la “scomunica maggiore” fulminata da Pio IX contro Vittorio Emanuele II, il suo governo, parlamentari, prefetti, militari, diplomatici, funzionari, ecc. ecc.: tutti agenti del complotto satanico ordito ai danni del Vicario di Cristo. Riesce difficile comprendere il peso della scomunica in tempi, come gli attuali, di secolarizzazione e di “cattolici adulti”; ma all'epoca la condanna perpetua alle pene dell'Inferno costituiva un incubo di portata immensa.
   Della scomunica papale poco importava alla regina Vittoria e ai governi britannici, da secoli indifferenti nei confronti del primato spirituale dei pontefici; meno ancora essa turbava gli spiriti magni della Francia di allora, come Jules Michelet e Victor Hugo. Motivo ulteriore perché la Nuova Italia drizzasse sempre più la barra verso le due potenze dominanti, Francia e Gran Bretagna. Esse non erano solo signore del Canale di Suez, prossimo all'apertura e, per conseguenza, dell'intero bacino mediterraneo, ma soprattutto delle coscienze, delle lettere e delle arti.
A quella luce si comprende l'affanno della cultura propriamente “nazionale” post-unitaria, di quanti mirarono a emancipare l'idea e l'immagine dell'Italia dal debito nei confronti dei suoi nuovi dominatori e puntarono sulla Germania per recuperare medio evo e romanità classica. Fu il tormento della bolognese Alma Mater Studiorum, con il geografo Celestino Peroglio, il latinista Giambattista Gandino, il germanista Emilio Tesa e il sommo Giosue Carducci, che si mise a studiare forsennatamente il tedesco e non mise mai piede né a Parigi né in Inghilterra.
   Come novella isola Ferdinandea, l'Italia sognata dai suoi artefici risorgimentali prese via via cognizione che i marosi, i venti e gli imprevedibili movimenti tellurici avrebbero potuto eroderla. “Stare nella storia” divenne sempre più oneroso. Lo annotò con amarezza il coltissimo Ferdinando Martini quando prese a scrivere il “Diario” mentre divampava la Conflagrazione europea: “L'Italia non può fare la guerra e non può non farla”. Era incatenata al remo della storia. Nel 1915-1918 resse la durissima prova. Messasi da sé sulla china sbagliata con l'intervento del 10 giugno 1940 a fianco della Germania di Hitler, negli anni seguenti non fece altrettanto. Si affossò.
  Dal 1848 in poi il regno di Sardegna e quello d'Italia vissero col fucile permanentemente al piede e passarono da una all'altra dichiarazione di guerra: 1866 contro l'impero d'Austria, 1894 contro l'Etiopia, 1911 contro l'impero turco-ottomano, 1915 contro Austria-Ungheria, 1916 contro la Germania (con motivazioni irrisorie), 1935 contro l'Etiopia, 1939 contro l'Albania, 1940 contro Francia e Inghilterra,1941 contro l'Unione sovietica e addirittura gli Stati Uniti d'America, 1943 contro la Germania... Non era ancora finita la seconda guerra mondiale che, sulla scia della “cobelligeranza” ideata da Pietro Badoglio (13 ottobre 1943), il governo presieduto dall'antico interventista Ferruccio Parri dichiarò guerra all'impero del Giappone, prima ancora che lo facesse l'Unione Sovietica di Stalin.
   Fu l'ultima volta. Anche perché l'Italia era vincolata dalla “resa senza condizioni” sottoscritta il 3-29 settembre 1943: così umiliante che venne tenuta segreta. Come segrete furono a lungo le clausole del cosiddetto Trattato di pace del 10 febbraio 1947, che misero l'Italia mani e piedi legati dinnanzi ai vincitori. I quali le imposero la rinuncia alle colonie, la demilitarizzazione di una fascia di 20 chilometri dalle nuove frontiere, l’eradicazione di terre italianissime da appena vent'anni congiunte alla Patria. Non bastasse, il Diktat sottoscritto di malavoglia da parte dell'Italia asserì che a rovesciare Mussolini da capo del governo il 25 luglio 1943 erano stati chissà quali “democratici”, anziché (come invece avvenne) Vittorio Emanuele III, unico vero protagonista di quei mesi difficili, come gli anglo-americani avevano esplicitamente  riconosciuto proprio negli strumenti di resa. A quel modo, col Trattato di pace  i “vincitori” avallarono il “gesto rivoluzionario” compiuto dal governo De Gasperi-Togliatti-Nenni  il 13 giugno 1946, quando Umberto II fu costretto a  l'Italia per non attizzarvi una nuova guerra civile. 
Ora e sempre “Ferdinandei”?
Perché mai rinvangare in questi giorni quel passato apparentemente remoto? Perché esso non è passato affatto. Incombe. Nessuno può scandalizzarsi se a pilotare l'elezione del quattordicesimo presidente dello Stato d'Italia siano anche le Cancellerie straniere e i quotidiani finanziari e politici di Londra e degli USA, in aggiunta ad ambienti di Bruxelles (più defilati perché privi di munizioni “da fuoco e da bocca”, indispensabili per “fare storia” come insegna lo storico militare Oreste Bovio), cioè di chi regge le dande economiche e finanziarie dell'Italia e si attende che siano rispettati i patti e vengano pagati i debiti senza intralcio per le “basi” che il Paese ospita in linea con la sua adesione alla Nato deliberata dal governo l'11 marzo 1949, senza neppure conoscerne lo statuto, almeno in sunto. 
   Mentre giace otto metri sotto il livello del mare, l'antica isola Ferdinandea dal Banco di Graham sussurra all'Italia ventura che non si elude la Storia. Conoscerla non significa certo poterla cambiare. È un lenitivo per viverci, confidando che altre scosse telluriche, lì o nel Tirreno ove sonnecchia il vulcano Marsili, non costringano a distogliere lo sguardo dalle vanità delle vanità.
  L'Italia sognata da Santorre di Santarosa, Andrea Vochieri, Ciro Menotti, don Enrico Tazzoli, padre Ugo Bassi, i fratelli Attilio ed Emilio Bandiera e  via continuando (non per caso tutti nomi distintivi di logge massoniche) doveva ergersi una, indipendente, libera... non fatta di pietra pomice, atta a levigare margini di ferite antiche, bensì blocco di marmo senza scalfitture.  
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Una suggestiva immagine della leggendaria isola Ferdinandea (1831).

L'ETÀ DELL'ACQUARIO
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 15 gennaio 2022, pagg. 1 e 6.


DIDASCALIA: Sandro Botticelli, La Primavera (Firenze, Museo degli Uffizi”). Gli Acquariani non hanno inventato proprio nulla. Nel Rinascimento li anticipò  Lorenzo il Magnifico (1449-1492) nel “Trionfo di Bacco e Arianna”: “Quant'è bella giovinezza/ che si fugge tuttavia!/ Chi vuol esser lieto sia/ del doman non v'è certezza.//Quest' Bacco e Arianna,/belli e l'un de l'altro ardenti:/perché 'l tempo fugge e 'nganna/ sempre insieme stan contenti// Ciascun suoni, balli e canti!/Arda di dolcezza l core!/ Non fatica, non dolore! Quel c'ha esser, convien sia...”. Due anni dopo la sua morte in Italia piombò Carlo VIII di Valois e iniziarono secoli di guai e di servitù, mentre i grandi navigatori italiani varcavano gli Oceani per conto dei Re di Spagna, di Portogallo e di Francia.Zodiaco e vecchi merlotti

Il 2021 si è chiuso in maniera convulsa. La legge di bilancio (prendere o lasciare), gufate a non finire, niente neve a sciovie aperte, isole tropicali fuori portata, previsioni attendibili zero sul Presidente della Repubblica di là da venire. Un disastro, ma poi...

... ecco, ora finalmente trionfa l'Età dell'Acquario. Era stata annunciata con anticipo sulla fine del Novecento. In vista del fatidico 1° gennaio dell'Anno Duemila (che tale è solo con riferimento alla nascita di Gesù Cristo, datata su calcoli notoriamente errati), interi scaffali furono inondati da libri profetici sul suo avvento. Mentre echeggiavano languide musiche e cantilene speranzose, vennero contrapposti i (mai esistiti ) timori dell'anno Mille alla fiduciosa attesa del Terzo Millennio, promessa di prosperità, di fratellanza e di bontà “h24”.
Accolta da entusiasmo frenetico e da brindisi alla eterna giovinezza, l'Età dell'Acquario durò a lungo nell'immaginario collettivo di un Occidente accoccolato su un tappetino di erba artificiale, immerso nella contemplazione del vuoto e assorto nell'oblio della Storia. Prima del Presente, nulla. Solo “innocenza”. 
  Pochi anni sono bastati per il brusco risveglio. La prevedibile bolla finanziaria esplose appena un lustro dopo lo scoccar dei tappi e galoppò per anni con effetti devastanti. Rimase agghiacciante l’immagine della frotta di impiegati che mestamente uscivano dai grattaceli del “potere” con lo scatolone degli “effetti personali”. L'onda della crisi si mosse, lenta ma inesorabile. Anziché perdere forza, divenne via via più violenta e infine si abbatté sull'Europa. Paesi indebitati sino al collo per acquisto di armamenti aggiuntivi rispetto al già costosissimo sistema difensivo che doveva garantirne l'incolumità senza oneri ulteriori precipitarono nella miseria nera, quella antica, che attanaglia le viscere e scava le occhiaie. Pochi chilometri a est dell'Italia fu la tragica sorte della Grecia, che non è solo sfarfallio di isole per vacanze incantevoli, quale all'epoca veniva percepita dai turisti dell'Europa centro-occidentale in ripiegamento dalla leggendaria Thailandia.
Come stupirsi se per risalire la china, perduta la sovranità effettiva, anche popoli dalla grande storia abbiano ceduto alla Repubblica popolare cinese i gioielli di famiglia, come han fatto i greci col porto del Pireo? Pechino è il Monte dei Pegni globale per Stati stretti alla gola dal debito pubblico straripante e prima o poi costretti ad arrendersi al mercato planetario. Tornano in memoria gli ultimi profetici versi del “Meminisse horret” di Giosue Carducci: “su 'l gran Campidoglio, si scigne le gonne/e nuda su l'urna di Scipio si dà”.
   Bello era sognare l'Età dell'Acquario. Il ricordo della decennale disastrosa guerra nel Vietnam era così lontana che l'“Occidente” ne imboccò un'altra, ventennale: l'intervento militare contro i talebani in Afghanistan, per “esportarvi la democrazia”, come se questa sia un corso di danza o di cucina anziché il frutto maturo di lotte plurisecolari condotte da esigue minoranze per l'avvento di principi civili quali libertà, uguaglianza dei diritti e solidarietà sociale, duri da capire e ancor più da praticare. Valgono poco o nulla se rimangono scritti nei “catechismi” e non sono abito quotidiano di un ampio numero di cittadini (il consenso totale è un mito pericoloso).
Non si accorsero i devoti cultori della New Age che la “guerra”, come il Serpente della Genesi, anno dopo anni si stava lentamente avvicinando all'Europa, illusa di aver saldato il conto della storia con la frettolosa e caotica decolonizzazione della seconda metà del Novecento. Identica miopia imperversò a cospetto della Primavera araba, volta al plurale quando ci si avvide che la Tunisia non è l'Egitto e che per motivi geopolitici e storici il Cairo  (di Nasser, di Mubarak o di al-Sisi) non poteva e non può permettersi di lasciare via libera ai Fratelli Mussulmani. Lo spiegò per anni (e ne conversammo a lungo, anche all'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici) l'oggi dimenticato Igor Man (1922-2009).
L'età dei Pesci, durata 2155 anni, spiegarono i turibolanti nunzi dell'Età dell'Acquario, era stata dominata “dal dolore, dal fanatismo, dallo scetticismo, dal conformismo e dalla tendenza a guardare al passato invece che al futuro”: mali necessari, questi, per temprare l'Uomo Nuovo. Vittoriosi su ignoranza, paura ed egoismo gli acquariani avrebbero guidato l'Umanità per altri 2155 anni sulla via che conduce a felicità eterna, libertà infinita e giustizia assoluta (tutte maiuscole, che qui risparmiamo), grazie allo sviluppo dell'Astrobiologia e del firmamento di scienze sperimentali, deduttive, di controllo e di armonizzazione (come psicoterapia, elettroterapia, ipnotismo, magnetismo, omeopatia, agopuntura, taumaturgia, pranoterapia e naturismo, con o senza olii e creme). Fu così che uno studioso vigile e capace di ironia, come Massimo Introvigne, aprì i riflettori del Centro studi sulle nuove religioni da lui fondato e diretto.
Il Portolano della miriade di covi che mescolavano occultismo, esoterismo, ermetismo, magia, alchimia, cabala e panteismo, senza trascurare gli Ufo, il neopaganesimo e le “culture” underground e alternative, portavano diritti filati alla macrobiotica, alla “medicina differente”, all'etologia e, guarda un po', all’ecologia, quando Greta T. era ancora di là da venire a giudicare i plasticomani. In quel fervore di rinnovamento etico un editore milanese contro l'invio di 500 lire in francobolli spediva un poderoso catalogo di articoli e libri per “prepararsi al futuro che l'ignoto nasconde”.
Nel 1975 i precursori dell'Età dell'Acquario promisero l'aurora della “pace perpetua” (che invero non sempre suona di buon augurio) anche con la consolazione della musica. Per sole 6.120 lire una Casa di Firenze vendeva cinque dischi di “voci della speranza” propizianti l'Età Novella con note “di alta religiosità”. Lugubre.
Tra le molte, una fotografia sintetizzò quell'epoca di ardimenti umanitari vagamente onusiani. Ritrae l'attualmente novantasettenne Jimmy Carter, presidente degli USA, che a Camp David il 26 marzo 1979 stringe tra le sue le mani del presidente dell'Egitto Anwar es-Sadat (affiliato alla benemerita e a torto vituperata loggia “Propaganda massonica” n. 2) e dell'israeliano Begin. A quattro anni dalla catastrofica fuga degli americani da Saigon, era l'annuncio della pace dopo 25 anni di guerre nella zona militarmente più torrida del pianeta. Sennonché, detto fatto, Sadat venne platealmente assassinato da fondamentalisti islamici e il 4 novembre 1994 Yitzhac Rabin, primo ministro e ministro della Difesa dello Stato di Israele, fautore dell'accordo di Oslo con Yasser Arafat, appena dichiarato che era giunta l'ora della pace, fu ucciso da un israeliano non meno fanatico.
L'Età dei Barracuda...
L'Acquario, però, non è solo simbolo zodiacale ed estatico annunzio dell'Era sin qui evocata, popolata di novelli Principi Rosa+Croce, Neo-templari, Illuminati, Elevati, Arrampicati, Equilibristi e via fantasticando. È anche la Grande Vasca nella quale guizzano pesci multicolori. A volte gli Acquari sono giganteschi serbatoi di specie marine rare e affascinanti. Si muovono come natura loro detta per la meraviglia dei visitatori, che non sempre si domandano come essi si cibino. Se homo homini lupus, non da meno sono i pesci che si pascono a vicenda secondo una catena alimentare che non dovrebbe suscitare scandalo. I barracuda, per esempio, sono come certi partiti e gruppi parlamentari. Luminescenti, dalla vista aguzza e dai denti che non perdonano si muovono in gruppo in acque fangose, circondano la preda come fossero in piazza del Duomo a Milano e poi divorano.
Come più non suscita scandalo nel cittadino-spettatore lo spettacolo oggi fornito da certi movimenti dalle dimensioni più varie e dai colori fantasmagorici che si aggirano instancabili nell'Acquario della “politica” italiana per risolvere l'enigma della partita tripla incombente: elezione del capo dello Stato (non nomina, come invece scrivono e dicono illustri editorialisti), conferma dell'attuale valentissimo presidente del Consiglio dei ministri (previe dimissioni di rito) o nomina di un chissà quale suo successore; scioglimento più o meno anticipato di Camere brancolanti nel vuoto, in perenne attesa che dal Cielo discenda su di loro la fiammella della legge elettorale che non sanno darsi da sé.
Affascinato sino allo smarrimento dal luccichio delle squame di movimenti e partiti, di gruppi e sottogruppi, pescecani di lungo corso e pesciolini dall'aria impaurita, come il leopardiano pastore errante dell'Asia volgendo gli occhi al cielo si domandava “A che tante facelle”, così il cittadino-spettatore odierno s'interroga sul senso di questo gran daffare politico-partitico “h24” e comincia a sospettare che forse tanti “non sanno quello che si fanno” e, peggio ancora, quel che “ci fanno”. 
Il dubbio che qualche congegno del regime instaurato il 1° gennaio 1948 davvero non regga più, come accade a tutti gli “impianti” usurati dal tempo, mai sottoposti a verifica e ammodernati, va oltre il sistema parlamentare e lambisce la soglia del Palazzo dei Papi, più noto come Quirinale. Ne parlammo a lungo e ripetutamente con l'inascoltato e sempre rimpianto Marco Pannella, precursore delle “picconate” di Francesco Cossiga, “provocatore” non per il gusto di demolire ma per ridestare il Paese che fu “culla del diritto” ma (come mi ripete un insigne giureconsulto e storico) a furia di cullarcisi “si è addormito”. Valga, a conferma, l'immobilismo di Istituzioni, come il CSM, sui quali le richieste corali di “aria, luce e pulizia” sono come rugiada sulla catena dell'Himalaia. Ma la Primavera (nostrana) del 2022 se non altro porterà con sé il referendum, se lo scioglimento delle Camere non lo rinvierà... sine die.
  Stanco di inseguire le piroette dei barracuda, il cittadino-spettatore lentamente sposta l'attenzione dalla bolgia dei pesci alle paratie dell'acquario. Esse costituiscono un blocco unico, senza suture, e sono spessissime. Dopo averle a lungo guardate improvvisamente egli le vede e comprende che sarebbe vano tentar di influire su chi vi sguazza, esprimendo la propria opinione e magari recandosi alle urne. Il mondo del cittadino-spettatore e l'Acquario sono separati da una paratia impenetrabile. Chi sta all'esterno ha il diritto di guardare, senza porre domande fastidiose. Deve bastargli di “rimanere all'asciutto”.
...e dei decreti con effetto immediato.
Un altro rovello assale il cittadino-spettatore dinnanzi all'Acquario multicolore. Ma se davvero per fronteggiare la pandemia occorrono misure drastiche e immediate e se, come da tempo sentenziato e finalmente capito anche “in alto”, i famigerati Decreti del presidente del Consiglio dei ministri evocano i pesi peggiori vissuti dagli italiani dal 1945 a oggi, perché mai per combatterla il governo attuale che vanta una maggioranza vastissima è ricorso a un decreto-legge, immediatamente esecutivo dalla controfirma del presidente della Repubblica ma da approvare entro 60 giorni dalla sua emanazione? Perché non ha portato direttamente in Aula un disegno di legge di poche e chiare parole anziché una cassata di sei articoli articoli (introdotti da dodici “visto”, due “considerato”, due “ritenuta” e un altro “visto”) con seguito di quater, quinques, sexies...? Chi dice che, con gli scossoni che si annunciano, le Camere approveranno il decreto legge nei tempi previsti? E che cosa accadrà dei provvedimenti nel frattempo eseguiti e subìti, sanzioni incluse? Alla fin fine chi si deciderà una buona volta a distinguere tra “non vaccinati” e “no vax”? La differenza filosofica, culturale e giuridica è abissale. Richiede il “discernimento” insegnato dai padri della Compagnia di Gesù.
Queste considerazioni non sono polemiche astruse. Sono domande tanto ovvie quanto necessarie. Com’è necessario domandarsi se esista una legge che obbliga i cittadini a disprre e saper usare un cellulare di nuova generazione, un tablet, un personal computer per ricevere messaggi dalle “autorità competenti” su quel che debbono o non debbono fare. Abbiamo visto qual è il loro uso da parte di aziende che licenziano in tronco i dipendenti con un “messaggino”. In un Paese nel quale gli uffici comunali impiegano mesi a consegnare (a pagamento) la carta d'identità elettronica (e non tutti sono in grado di farlo), mentre sempre rapidissime arrivano addirittura come “atti giudiziari” le contravvenzioni per eccesso di velocità di 2,5 km l'ora, la contraddizione è stridente e il fastidio è crescente. 
  Levatosi dalla contemplazione dell'Acquario e tornando al “travaglio usato” il cittadino-spettatore, che un po' si sente passero solitario e anche un po' uccellato, mentre ascolta l'ennesima retorica celebrazione dell'Unione Europea una domanda si pone: ma se davvero essa fosse cosa seria, se davvero esistesse non solo per indebitare figli e nipoti, com'è che dopo due anni di pandemia ogni suo “membro” va per i fatti propri e adotta le misure che più gli aggradano per ottenere il consenso dei suoi cittadini? Non è che sotto la maschera di una miriade di competenze e di una pletora di ben remunerati, e a volte strambi, funzionari questa '“Europa” rimane solo una finzione?
Scrollatosi di dosso l'anno passato e preoccupato assai per quello appena iniziato, il cittadino-spettatore apre, un po' sconsolato, l'Almanacco Zodiacale e ha un trasalimento. L'Acquario viene prima dei Pesci, che sono seguiti dall'Ariete. Quando annunciarono la fine dell'età dei Pesci e l'inizio della loro, gli Acquariani dunque avevano “sbroccato”? Non ci si può proprio fidare? E allora, come dicevano gli antichi, “crepi l'Astrologo”?
Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Sandro Botticelli, La Primavera (Firenze, Museo degli Uffizi”). Gli Acquariani non hanno inventato proprio nulla. Nel Rinascimento li anticipò  Lorenzo il Magnifico (1449-1492) nel “Trionfo di Bacco e Arianna”: “Quant'è bella giovinezza/ che si fugge tuttavia!/ Chi vuol esser lieto sia/ del doman non v'è certezza.//Quest' Bacco e Arianna,/belli e l'un de l'altro ardenti:/perché 'l tempo fugge e 'nganna/ sempre insieme stan contenti// Ciascun suoni, balli e canti!/Arda di dolcezza l core!/ Non fatica, non dolore! Quel c'ha esser, convien sia...”. Due anni dopo la sua morte in Italia piombò Carlo VIII di Valois e iniziarono secoli di guai e di servitù, mentre i grandi navigatori italiani varcavano gli Oceani per conto dei Re di Spagna, di Portogallo e di Francia.

BENEDETTO CROCE
LA SOLITUDINE DELLA CULTURA

Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 09 gennaio 2022, pagg. 1 e 6.


Benedetto CroceItinerarium mentis.... allo “storicismo assoluto”.
Ricorrono settant'anni dalla morte di Benedetto Croce (Pescasseroli, L'Aquila, 25 febbraio 1866-Napoli, 20 novembre 1952), il maggior pensatore italiano del secolo scorso. La sua “iniziazione” alla vita fu tragica. Il 25 luglio 1883 sopravvisse al terremoto di Casamicciola (Ischia) in cui perse i genitori e la sorella Maria. Il cugino di suo padre, Silvio Spaventa (patriota perseguitato e incarcerato dal re Borbone, deputato, ministro, senatore  dal 1889 e studioso insigne di Hegel) ne assunse la tutela e lo prese con sé a Roma. Iscritto a Giurisprudenza nel 1884 preferì seguire le lezioni di Antonio Labriola, unico socialista italiano apprezzato da Friedrich Engels. Tornato nella sua Napoli nel 1886, dopo approfonditi studi di economia e viaggi in Europa nel 1895 pubblicò Materialismo storico ed economia marxistica. Con impegno immane nel 1900 intraprese  la pubblicazione della Filosofia dello Spirito, una concezione sistemica nuova, fondata sulla “distinzione” tra vero, bello, buono e utile e risolta nello storicismo assoluto, scevro da ogni “trascendenza”. Avversario del positivismo e della riduzione dell'uomo a somma di “bisogni”, con la rivista “La Critica” (fondata nel 1903) promosse il rinnovamento della vita culturale italiana, in dialogo con molti prestigiosi pensatori europei.
Non temeva di andare contro corrente. Rispettoso delle religioni ma estraneo ai loro culti, compreso il cattolico, interrogato dall'“Idea nazionale” su che cosa pensasse della massoneria (all'epoca ritenuta potente) rispose che “a cagione del suo cerimoniale e del suo segreto” essa incontrava “a ogni istante il ridicolo e il sospetto”. Anni prima l’aveva liquidata come “cultura ottima per commercianti, piccoli professionisti, maestri elementari, avvocati, mediconzoli, perché cultura a buon mercato; ma perciò stesso pessima per chi deve approfondire i problemi dello spirito, della società, della realtà. Pessima non solo mentalmente, ma anche moralmente”. Non spiegò, tuttavia, perché massoni fossero stati e fossero anche Francesco De Sanctis, Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli, tanti illuministi da lui venerati, i protomartiri del Risorgimento italiano e i promotori del pacifismo, allarmati dalla corsa dei maggiori Stati del mondo a incrementare gli armamenti e dal dilagare di nazionalismo, razzismo, antisemitismo e pulsioni anarco-sindacalistiche, massimalistiche e irrazionali, da lui aborriti ma osservati con occhio talora divertito.
   Quando da quella polveriera scaturì la conflagrazione europea Croce fu tra quanti sperarono che l'Italia non entrasse nella fornace ardente. Nominato senatore da Vittorio Emanuele III (26 gennaio 1910) su proposta di Sidney Sonnino (che con Antonio Salandra fu responsabile dell'intervento nella Grande Guerra), Croce visse appartato dalla vita pubblica. Completò la sua opera filosofica nel 1917 con Teoria e storia della storiografia. Fu tra i pochi grandi pensatori europei che non bruciarono incensi all'“interventismo intervenuto”. Saggiò la solitudine.
   La guerra, col seguito di rivoluzioni, crollo di Stati secolari, dispendio di vite e di risorse, oscuramento morale, degrado civile, abbrutimento e squilibrio psicologico delle masse, gli si rivelò in tutta la sua negatività. Uso a valorizzare gli aspetti positivi di ogni fase storica del passato prossimo e remoto, sospese il giudizio su quel presente. Pur confidando nel riscatto della coscienza europea dopo i traumi della catastrofe bellica, deluso dai trattati di pace punitivi imposti dai vincitori al Congresso di Versailles fu preoccupato dalle nuove pulsioni destabilizzanti, come l'impresa di d'Annunzio a Fiume e la dissennata condotta del partito socialista italiano.
Al governo con Giolitti (1920-1921)
   Nel giugno 1920, quando aveva ormai conquistato meritata fama universale di “uomo di pensiero”, la sua vita ebbe la svolta. Incaricato dal re di formare per la quinta volta il governo, il settantottenne Giovanni Giolitti (1842-1928) lo volle ministro della Pubblica istruzione. Sollecitato dall'amico Olindo Malagodi, direttore giolittiano di “La Tribuna”, di recarsi subito a Roma per assumere il portafoglio, come annotò poi nel 1944 a Sorrento, Croce visse “un'ora di turbamento e smarrimento, pensando al carico che si sarebbe rovesciato sulle sue spalle e alla sua nessuna esperienza della burocrazia di quel ministero e della Camera dei deputati”. Inoltre non si era mai occupato di pedagogia, né di problemi scolastici, didattici ed educativi, pur così fervidi in Italia tra Otto e Novecento, anche per opera di pedagogiste come Maria Montessori. Fu sua moglie, Adele Rossi, a confortarlo: “Se questo è il dovere a cui sei chiamato, devi accettarlo”. Glielo ripeté l'indomani Giolitti: “L'Italia è in tale travaglio che tutti dobbiamo sforzarci (e non so se riusciremo) a salvarla”. Poiché bisognava andare in giornata a prestare giuramento, Croce gli confidò di non avere con sé un abito nero. Lo statista piemontese gli rispose che “il re non badava a cotesti formalismi di etichetta”. 
   Vittorio Emanuele III era al timone dell'Italia da quando il 29 luglio 1900 suo padre Umberto I era stato assassinato a Monza dall'anarchico Gaetano Bresci, che certo non aveva fatto tutto da solo, come sapeva proprio Giolitti, che a lungo fece indagare la vendicativa Maria Sofia di Borbone, ex regina delle Due Sicilie. Chi credeva nell'unità nazionale quale valore supremo doveva fare la sua parte, “per il re e per la patria”.
Croce si mise dunque all'opera. Nel programma del governo – come poi sintetizzò – “al dicastero dell'istruzione era assegnato il compito di introdurre nelle scuole l'esame di Stato”. Serviva a valutare non solo gli studenti ma anche gli insegnanti. Le loro cattedre andavano rimesse a concorso ogni dieci anni, per costringerli ad aggiornarsi. Lasciate ai margini le dispute sull'insegnamento della religione nella scuola (venne poi introdotta da Giovanni Gentile, ministro nel governo Mussolini), Croce lavorò di bulino e di cesello per migliorare l'esistente perché non v'erano mezzi per varare chissà quali riforme e perché i suoi progetti dovevano passare al vaglio preventivo della Commissione parlamentare, affollata da “maestrucoli elementari socialisti” (come egli scrisse) e da deputati che lo inondavano di “sollecitazioni” a favore dei propri elettori. Tra i tanti, uno esclamò ad alta voce: “Egli non risponde alle nostre lettere, e noi bocceremo i suoi disegni di legge”. Tra i suoi avversari più polemici Croce ricordò Giacomo Matteotti, che lo accusò di pensare “a Hegel, alla dialettica, al cielo metafisico” mentre in un'aula scolastica della sua plaga erano stipati settanta alunni (però non seppe precisare né il nome della scuola né quello del comune).
  Anche in Senato il ministro ebbe vita dura perché promuoveva economie, si opponeva a spese inutili e rifuggiva dalla retorica, come, per esempio, impartire educazione “patriottica”, che non è “catechismo” imparaticcio ma tutt'uno con il senso del dovere del cittadino. Vedendolo all'opera, Giolitti osservò: “Ma questo filosofo ha molto buon senso!”. Fu ricambiato da Croce che così ne sintetizzò il programma liberale: “Spontaneamente parteggiava sempre per le classi umili, indistintamente, fossero anche i parroci di campagna; e non ho colto sulle sue labbra altra antitesi che quella di ricchi e poveri; e il suo appoggiare costantemente i poveri contro i ricchi. Gli speculatori e i profittatori di guerra detestava con sincera rivolta morale, e in Senato, rispondendo a un fiorito discorso di opposizione di uno di costoro, che più aveva dato scandalo con un lusso smodato, accennò con disprezzo a quelli che la voce pubblica ha denominato pescecani e le loro femmine”.
  Dura era la sua vita quotidiana anche al Ministero, all'epoca allogato all'ex convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, due passi dal Pantheon. Il personale riluttava a prestare servizio anche nel pomeriggio e, per polemica, non si levava il cappello quando lo incrociava, tanto che Croce ne licenziò uno in tronco “per educarne cento”. Non per sé, ma per la dignità dell'Istituzione e quindi dell'Italia e del personale stesso, che doveva esser compreso della sua missione e del suo privilegio di pubblico dipendente, con tutti i vantaggi che ne conseguivano in anni di grandi difficoltà per tutti.
   Come ha ricordato Nicola Matteucci nel profilo di Croce pubblicato nel volume IX di Il Parlamento Italiano, 1861-1992 (ed. Nuova Cei), prima della guerra il filosofo “non amò l'età giolittiana, ritenendola priva di valori e di ideali”. Chiamato al ministero della Pubblica istruzione comprese e condivise appieno i propositi del presidente del Consiglio: elevare l'obbligo scolastico dagli undici ai quattordici anni e promuovere l'istruzione tecnica per raccordare la formazione scolastica professionale con la dinamica economica postbellica.
   I suoi trentasei discorsi parlamentari, pubblicati a cura di Emilia Campochiaro e saggio introduttivo di Michele Maggi (il Mulino, 2002), illuminano l'impegno del filosofo chiamato a servire lo Stato. Il 17 marzo 1921 Croce si dichiarò convinto che gli insegnanti italiani avevano “chiara coscienza della loro dignità” e si sarebbero opposti agli appelli a scioperare lanciati da singoli individui o da particolari gruppi. Se mai fosse accaduto, il ministero avrebbe assunto i necessari provvedimenti, in linea con la ventennale politica di Giolitti: libertà degli scioperi “economici”, ma non nei pubblici servizi e nelle “aziende di Stato”, quali ferrovie, poste e telegrafi. Era l'Italia che varò la legge sulla cittadinanza e l'obbligo dell'istruzione, indispensabile corollario del diritto di voto, che deve essere “bene informato”.
In difesa dalla dignità dell'Italia
Nella Storia d'Italia dal 1871 al 1915, conclusa nel novembre 1927 e pubblicata l'anno seguente dal “suo” editore e amico Giuseppe Laterza (in tempo per farla leggere dall'ottantaseienne Giolitti ormai volgente al trapasso), Croce ritrasse vividamente il cammino compiuto dalla Patria in meno di mezzo secolo di unità politica all'insegna della libertà, grazie a una classe dirigente nel suo insieme animata da alto senso dello Stato. Non era affatto l'“Italietta” poi irrisa dal fascismo. All'opposto, essa promosse l'incivilimento e avviò l'integrazione tra le diverse aree del Paese: un programma che poteva proseguire nel tempo solo contenendo le spese militari. Non per caso, come Giolitti fece notare, a chiedere guerra erano “ragazzini in pantaloni corti” e repubblicani.
  Di quell'Italia Croce difese l'opera in discorsi memorabili. Almeno tre meritano di essere rievocati. Anzitutto quello del 20 novembre 1925. Anche a nome di alcuni colleghi annunciò la sua astensione (che valeva voto contrario) sul progetto di legge sulla “Regolarizzazione delle Attività delle Associazioni, Enti ed Istituti”, meglio noto come “legge contro la massoneria”. Lo bocciò perché era “parte integrante di un unico tutto di leggi antiliberali”. Pur senza rinnegare le sue posizioni pregresse, sentì “l'alto dovere di non venir meno alla propria coscienza, che avverte che il presente non è qual era il passato”, come già aveva ampiamente chiarito nella risposta al “Manifesto degli intellettuali fascisti” (nota erroneamente come “Manifesto degli intellettuali antifascisti”: “intellettuali”, infatti, era vocabolo per lui urticante, come già per Carducci). Il secondo fu il suo netto “no” all'approvazione del Trattato e del Concordato tra la Santa Sede e l'Italia” (24 maggio 1929). Lo concluse con la frase famosa: “Accanto o di fronte agli uomini che stimano Parigi valer bene una messa, sono altri pei quali l'ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza. Guai alla società, alla storia umana, se uomini che così diversamente sentono, le fossero mancati o le mancassero”. Fu il suo ultimo discorso in Senato. Era sempre più solo. Lo era ancor di più il Re, privo di interlocutori nelle Aule parlamentari e nelle “accademie”.
  Nominato membro della Consulta Nazionale, il 27 settembre 1945 Crice respinse l'affermazione di Ferruccio Parri, del presidente del Consiglio,  secondo il quale non potevano essere definiti democratici i governi prefascisti. Dichiarò “la coscienza vivissima del debito che tutta l'Italia presente ha verso quel passato”. Del pari mostrò apprezzamento di storico e di cittadino verso monarchia di Savoia che aveva condotto l'Italia a indipendenza, unità e libertà e per la cui conservazione, come Luigi Einaudi, si pronunciò nel referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946. La sua ventilata elezione a presidente provvisorio della neonata Repubblica ebbe il veto della Santa Sede. Prevalse il trinomio De Nicola-De Gasperi-Togliatti, suggellato dall'inclusione dei Patti Lateranensi nell'articolo 7 della Costituzione.
  Angosciato dalle prospettive aperte dal secondo conflitto mondiale e dal lancio delle due bombe atomiche sul Giappone (che per lui non fu un “fatto d'armi” ma un lancinante interrogativo morale sul confine tra scienza e destini dell'umanità) il 24 luglio 1947 votò contro l'approvazione del Trattato di pace imposto all'Italia il 10 febbraio 1947, con un un discorso che fu anche testamento di “figlio dell'Italia che non muore”. “Noi siamo stati vinti, ma noi siamo pari, nel sentire e nel volere, a qualsiasi più intransigente popolo della terra”.
   Nel 70° della sua morte Benedetto Croce non va “rievocato” con un francobollo e qualche discorsetto di circostanza. Va riletto, studiato e compreso nella sua complessità. Insegnò che la “alta politica” è radicata nella “alta cultura” e che quanti la coltivano non devono aver paura della solitudine come non l'hanno della morte.
Aldo A. Mola

CONTRO LA RATIFICA DEL TRATTATO DI PACE
DEL 10 FEBBRAIO 1947

Dal 23 al 31 luglio 1947 l'Assemblea Costituente discusse il disegno di legge recante “Approvazione del Trattato di pace fra le potenze Alleate ed Associate e l'Italia firmato a Parigi il 10 febbraio 1947”. Il presidente del Consiglio dei ministri, Alcide De Gasperi, e il ministro degli Esteri, Carlo Sforza, ne propugnarono l'approvazione di concerto con i deputati dei partiti al governo: democristiani, socialdemocratici, repubblicani e liberali. I più autorevoli esponenti del pre-fascismo (Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti, Meuccio Ruini...) pur con riserve votarono a favore. Votò a favore anche Einaudi, secondo il quale la pace, per quanto amara, apriva la strada alla federazione europea, da lui auspicata sin dalla Grande Guerra. I comunisti uscirono dall'Aula senza votare. Il Trattato fu approvato da una minoranza: 262 “si”contro 68 “no” e 80 astenuti (i socialisti) su 555 “costituenti”.
  Il discorso pronunciato nell’occasione da Benedetto Croce merita di essere letto per intero. Qui ne riproduciamo alcuni brevi passaggi:
“Io non pensavo che la sorte mi avrebbe, negli ultimi miei anni, riserbato un così trafiggente dolore come questo che provo nel vedermi dinanzi il documento che siamo chiamati ad esaminare. [...] Noi italiani abbiamo perduto una guerra, e l'abbiamo perduta tutti, anche coloro che l'hanno deprecata con ogni loro potere, anche coloro che sono stati perseguitati dal regime. [...] Il documento che ci viene presentato non è solo la notificazione di quanto il vincitore, nella sua discrezione o indiscrezione, chiede e prende da noi, ma un giudizio morale e giuridico sull'Italia, e la pronunzia di un castigo che essa deve espiare per redimersi e innalzarsi e tornare a quella sfera superiore in cui, a quanto sembra, si trovano con gli altri popoli, anche quelli del Continente nero. E qui mi duole di dover rammentare cosa troppo ovvia, cioè che la guerra è legge eterna del mondo. [...] Un'infrazione della morale qui indubbiamente accade, ma non dalla parte dei vinti, sì piuttosto dei vincitori, non dei giudicati ma degli illegittimi giudici. [...] Noi italiani, che non possiamo accettare questo documento, perché contrario alla verità, e direi alla nostra più alta coscienza, non possiamo accettarlo né come italiani curanti dell'onore della Patria né come europei, due sentimenti che confluiscono in uno perché l'Italia è tra i popoli che più hanno contribuito a formare la civiltà europea e per oltre un secolo ha combattuto per la libertà e l'indipendenza sua. [...]  Non vi dirò che coloro che questi tempi chiameranno antichi, le generazioni future dell'Italia che non muore, i nipoti e pronipoti ci terranno responsabili e rimprovereranno la nostra di aver lasciato vituperare, avvilire e inginocchiare la nostra comune Madre a ricevere mestamente un iniquo castigo. [...] Occorre un atto di volontà, un esplicito No.”
Quella di Benedetto Croce, applaudita in Aula, bocciata al voto e infine dimenticata, suonò quale “vox clamantis in deserto”.

VARIANTE BIZANTINA 2022?
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 02 gennaio 2022, pagg. 1 e 6.


Didascalia: Il Quirinale. Palazzo dei Papi e, in continuità, dei Capi dello Stato d'Italia: quattro re nel volgere di 76 anni, tra il 1870 e il 1946 (Vittorio Emanuele II, Umberto I, Vittorio Emanuele III e Umberto II) e le presidenze di Enrico De Nicola, Luigi Einaudi, Giovanni Gronchi, Antonio Segni, supplito da Cesare Merzagora, Giuseppe Saragat, Giovanni Leone, Sandro Pertini, Francesco Cossiga, Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Campi, Giorgio Napolitano, Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella: quattordici in 75 anni, come ricorda Tito Lucrezio Rizzo in “Parla il Capo dello Stato”. Altri, come Alfredo Orioli, riducono le Presidenze ai loro dodici titolari, sicché il prossimo sarebbe il numero 13. Di buono o di cattivo augurio? L'ombra lunga di Bisanzio...
Narrano le cronache che mentre erano assediati da Maometto II i Bizantini disputavano sul sesso degli Angeli. Il 29 maggio 1453 l'antica Costantinopoli venne espugnata. In nome del loro dio clemente e misericordioso i turchi menarono l'orribile strage narrata con enfasi poetica da Tursun Bey. L'ultimo imperatore della Seconda Roma, la sua famiglia, i difensori e i notabili furono sterminati. Il sultano ordinò che i popolani “fossero lasciato vivi per essere sfruttati per lavoro”. All'apice del racconto il cronista osservò: “Al mondo Iddio  ha creato con la sua Potenza  la gemma più bella, lo strumento della ragione.  Come fa il re giudizioso a sottrarsene?”. Maometto II “ragionò” e vinse. L'imperatore no; e fu spazzato via. I turchi continuarono ad avanzare: Atene (1458), Trebisonda (1461), l'Albania (1478), invano difesa dal valoroso Giorgio Castriota, “Scanderbeg”. All'indomani della Grande Guerra, divisi su tutto tranne che nel rifiuto di accesso della Russia al Mediterraneo, i vincitori lasciarono Bisanzio alla Turchia, che continuano a dominare “Cospoli” e ora la islamizzano a tappe forzate, nel silenzio di un'Europa più strabica che distratta quando è l'ora del coraggio.
Nel timore di far la fine di Bisanzio, nel 1454 i cinque Stati all'epoca prevalenti in Italia (Venezia, Milano, Firenze, Roma e Napoli) concordarono a Lodi una “pace”' minata alla radice da riserve mentali, diffidenza, calcoli spacciati come astuzie. Nel 1480 i turchi assalirono Otranto e ne martirizzarono la popolazione. Avvolti nei sontuosi anni del Rinascimento, i Principi italioti continuarono a battere l'antica strada, lastricata di divisioni, congiure, lotte intestine, sino a quando il re di Francia Carlo VIII di Valois invase la penisola e in pochi mesi giunse a Napoli, accolto quale “liberatore” da nobili e plebei che (annotarono i cronisti) quando non arrivavano a baciargli la mano o i piedi baciavano la terra ove passava.
La “politica” sopraffina era il “sesso degli Angeli” dell'Italia dell'epoca. Ammirata e soggiogata, studiata e “messa all'indice”, come accadde a Niccolò Machiavelli. 
…si allunga sino al Colle più alto?
Le dispute che da mesi infervorano le cronache partitico-parlamentari rievocano quei tempi andati. A ormai poche settimane dall’elezione del presidente della Repubblica divampa il dibattito più inattuale del mondo: se non sarebbe meglio che il capo dello Stato fosse eletto direttamente dai cittadini anziché dal migliaio di parlamentari e di delegati delle regioni che tra un mese affollerà l'Aula di Montecitorio. Anziché essere ignorato per manifesto anacronismo, il quesito vede scendere in campo costituzionalisti (come Gustavo Zagrebelsky) e docenti di dottrina politica, “provocati” dalla bislacca ipotesi di installare al Quirinale una personalità capace di pilotare velatamente il governo tramite un suo diadoco, così instaurando un presidenzialismo “di fatto” a scapito dell'equilibrio dei poteri previsto dalla Costituzione vigente.
   Destinato a durare e forse a incattivirsi, il dibattito richiede qualche attenzione di merito e di metodo perché mette a nudo la crisi di sistema che investe le istituzioni, sia nei loro princìpi cardinali sia, persino, nei dettagli della votazione destinata a calamitare i telespettatori più del festival di Sanremo o del mondiale di calcio. Bastino le elucubrazioni sulla “cabina” attraverso la quale, salvo diversa decisione del presidente Roberto Fico, passeranno i “grandi elettori” per scrivere la scheda (e magari, si sospetta, fotografarla col cellulare). 
Come i Costituenti tagliarono i panni del Presidente 
Premesso che sic stantibus rebus l'elezione è dettata dalla Carta costituzionale, giova ricordare come il 21 e 22 ottobre 1947, 75 anni addietro, l'Assemblea Costituente discusse e definì gli articoli 83-91 che configurano il Presidente della Repubblica. La forma dello Stato era stata decisa col referendum del 2-3 giugno 1946. La Repubblica aveva ottenuto circa 12.700.000 suffragi su 28.000.000 di aventi diritto al voto: una minoranza, dunque. Ma la monarchia ne aveva raccolti due milioni di meno. Alle 0.15 del 13 giugno la contesa fu risolta non nel rispetto della legge, incarnata dalla Corte suprema di cassazione, ma con un “atto politico”: il conferimento delle funzioni di capo dello Stato al presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, da parte del governo, con il voto contrario del solo ministro Leone Cattani. Umberto II rispose al “gesto rivoluzionario” lasciando l'Italia da Re. L'imposizione del trattato di pace (10 febbraio 1947), la sua approvazione da parte dell’Assemblea Costituente (con soli 262 voti favorevoli su 555: una minoranza) e la sua esecuzione fissarono la cornice entro la quale la Costituente doveva tracciare il triangolo dei poteri: il legislativo (le Camere), l'esecutivo (il governo) e il presidente della Repubblica. È appena il caso di ricordare, per inciso, che la Magistratura non è un “potere” ma un “ordine autonomo e indipendente” (art. 104 della Costituzione), soggetto soltanto alle leggi e demandato ad amministrare la giustizia in nome del popolo” (art. 101).
  Alla definizione del profilo del Capo dello Stato anche i più repubblicani d'Italia giunsero senza una visione maturata e condivisa nel tempo. Colpisce che non se ne trovi cenno nelle due “Basi programmatiche” del Partito d'Azione.  
Il dibattito in seno alla Commissione dei Settantacinque, incaricata di approntare la bozza della Carta, e in Aula scartò la proposta di elezione popolare diretta del presidente. Questa venne propugnata da Umberto Nobile, che propose di affiancargli un Consiglio supremo della repubblica. A sua volta l'autorevole costituzionalista Costantino Mortati propose un’elezione di tipo misto di secondo grado, con la partecipazione di parlamentari e di rappresentanti delle forze sociali (eco del corporativismo caro ad Amintore Fanfani). A favore dell'elezione popolare si schierarono anche i deputati Roberto Lucifero, Francesco Colitto e Ottavio Mastrojanni per “tenere il Presidente al di fuori dei partiti e al di sopra delle fazioni”. A sostegno dell'elezione popolare diretta si pronunciarono inoltre Francesco Maria Dominedò, Romano e Guido Russo Perez. Francesco De Vita avvertì che solo a quel modo gli sarebbe stata assicurata l'«indipendenza necessaria all'esercizio di funzioni gravi, come lo scioglimento delle Camere».
  A lungo venne dibattuta la sua durata in carica. Alcuni proposero sei anni, altri cinque. Reduce da lungo auto-esilio a Parigi, Francesco Saverio Nitti esortò ad adottare il modello degli Stati Uniti d'America: quattro anni, con rieleggibilità. La brevità doveva «dargli la sensazione che il suo ufficio non è duraturo, perché soltanto questa sensazione lo avvicina alla realtà». Gli venne però fatto osservare che negli USA il presidente, eletto con suffragio diretto, è anche capo dell'esecutivo, mentre in Italia la sua durata in carica doveva essere diversificata da quella delle Camere proprio per rafforzarne l'indipendenza dai suoi elettori e soddisfare «l'esigenza di una certa permanenza, di una certa continuità nell'esercizio delle pubbliche funzioni».
   Lo ammettessero o meno, i costituenti riecheggiavano lo Statuto emanato il 4 marzo 1848 da Carlo Alberto di Savoia-Carignano, re di Sardegna, poi fatto proprio dal regno d'Italia (14-17 marzo 1861). Lo si constatò quando venne discusso l'articolo 87 della Carta, che suona: «Il Presidente della repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale». Lo Statuto diceva: «Il Re è il Capo supremo dello Stato». La nazione era appena sull'orizzonte.
Ruini e i suoi Fratelli
   Bartolomeo (Meuccio) Ruini, presidente della Commissione dei Settantacinque, nella Relazione di presentazione alla Costituente della bozza della Carta repubblicana delineò il profilo del presidente: «Non è l'evanescente personaggio, il motivo di pura decorazione, il maestro di cerimonie che si volle vedere in altre costituzioni. Mentre il primo ministro è il capo della maggioranza e dell'esecutivo, il Presidente della Repubblica ha funzioni diverse, che si prestano meno ad una definizione giuridica di poteri. Egli rappresenta ed impersona l'unità e la continuità nazionale, la forza permanente dello Stato, al di sopra delle fuggevoli maggioranze». Il Capo dello Stato è, deve essere, «il grande consigliere, il magistrato di persuasione e di influenza, il coordinatore di attività, il capo spirituale, più ancora che temporale, della Repubblica. Ma perché possa adempiere queste funzioni essenziali – concluse Ruini – deve avere consistenza e solidità di posizione nel sistema costituzionale». Come già il Re , anche il presidente doveva fungere da Pontifex   e Sommo Sacerdote.
  Affiliato massone nella loggia “Rienzi” di Roma il 5 maggio 1901, Ruini (Reggio Emilia, 14 dicembre 1877 - Roma, 6 marzo 1970) aveva alle spalle una lunga militanza politica e culturale. Avvocato, deputato dal 1913, volontario e decorato nella Grande Guerra, sottosegretario al Lavoro nel governo presieduto da Vittorio Emanuele Orlando (1917-1919), ministro delle Colonie con Nitti, promotore dell'Unione nazionale per la Nuova Democrazia, nel 1943 fondò il Partito democratico del lavoro, con Ivanoe Bonomi e altri maggiorenti formati nel solco delle riflessioni di Domizio Torrigiani, gran maestro del Grande Oriente d'Italia, per ricostruire il Paese dopo il trauma della guerra e arginare gli opposti estremismi: il bolscevismo e il fascismo. Ministro senza portafoglio nel primo governo Bonomi (1944) e per la Ricostruzione in quello presieduto da Ferruccio Parri (1945), deputato alla Costituente, senatore di diritto nel 1948, nel 1953 presiedette il Senato durante la violentissima discussione della riforma elettorale che avrebbe garantito la stabilità del governo ma venne spacciata e combattuta come “legge truffa”. In quell'occasione fu persino bersaglio di oggetti scagliati dalle sinistre. In perfetta coerenza con la sua storia, Ruini presiedette il Consiglio nazionale dell'Economia e del Lavoro (CNEL), poi ridotto a ectoplasma da tracotanti interessi di parte.
  «Il capo dello Stato non governa – aggiunse Ruini nella Relazione ai costituenti- . La responsabilità dei suoi atti è assunta dal primo ministro e dai ministri che li controfirmano ma le attribuzioni che gli sono specificamene conferite dalla Costituzione e tutte le altre che rientrano nei suoi compiti generali gli dànno infinite occasioni di esercitare la missione di equilibrio e di coordinamento che gli è propria».
L'eredità dello Statuto albertino
   Mutatis mutandis il nuovo capo dello Stato era la “variante repubblicana” del re costituzionale, quale, più ancora del padre e del nonno, era stato Vittorio Emanuele III, vincolato a controfirmare le leggi votate dal Parlamento. Per meglio assicurarne la libertà, i costituenti aggiunsero però che «prima di promulgare la legge» il Presidente possa «con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione». Ma, «se le Camere approvano nuovamente la legge, questa deve essere promulgata». A tale proposito non è superfluo ricordare il dramma vissuto nell'autunno 1938 da Vittorio Emanuele III, privo di qualunque appiglio statutario per disinnescare leggi ai suoi occhi disgustose, ma approvate dal Parlamento.
   Vittorio Emanuele Orlando deplorò che se nel regime monarchico il sovrano era un “Re travicello” in quello repubblicano il presidente «non rappresentava più nulla». Gli era stata sottratta l'“iniziativa legislativa”, prevista dal rimpianto Statuto albertino. «Ora, – osservò Orlando – nell'iniziativa si afferma per di più la natura giuridica del capo dello Stato e si giustifica l'intervento dell'autorità di esso come di colui che, stando al vertice della vita di un popolo, deve avere la sensibilità più acuta e più pronta di un bisogno nel campo della politica, del diritto, dell'economia di un Paese».
  Molti altri erano però i problemi non risolti dalla Costituente. In particolare il comando delle Forze Armate. Al riguardo lo Statuto Albertino era chiaro: il re «comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra; fa i trattati di pace, d'alleanza, di commercio ed altri...”. I costituenti ribadirono che il presidente della Repubblica «ha il comando delle forze armate, presiede il consiglio supremo di difesa costituito secondo la legge, e dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere», correttivo quest'ultimo introdotto molto tardivamente rispetto alla proposta avanzata da Giovanni Giolitti nel 1919 di trasferire dal re al Parlamento (non all'esecutivo ma al legislativo) il potere di dichiarare guerra. Solo Francesco Cossiga volle che fosse sciolto l'interrogativo sul comando effettivo in caso di conflitto.
  Infine non va scordato l'articolo 90 della Carta, in forza del quale «il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione»: un capo d'accusa usato da una fazione proprio contro Cossiga. Lo Statuto prevedeva, invece, che il re si trovasse «nella fisica impossibilità di regnare» (perché inguaribilmente ammalato, caduto prigioniero...): una condizione ricalcata dalla Carta repubblicana, il cui articolo 86 recita: «Le funzioni del Presidente della Repubblica, in ogni caso che egli non possa adempierle, sono esercitate dal Presidente del Senato». È quanto accadde allorché Cesare Merzagora esercitò con pieno merito la lunga supplenza di Antonio Segni. «In caso di impedimento permanente, di morte o di dimissioni del Presidente della Repubblica, il Presidente della Camera indice le elezioni del nuovo presidente della Repubblica entro quindici giorni, salvo il maggiore termine previsto se le Camere sono sciolte o manca meno di tre mesi alla loro cessazione»: un groviglio che impegnò in una spossante discussione i costituenti, assillati dall'incubo del Presidente-Sovrano, di un Capo dello Stato abilitato a impedire la confisca della politica da parte dei “partiti” che, per definizione, sono “fazioni”, basate su ideologie, dottrine o persino “filosofie” e magari anche “teologie”, cosmogonie e altre fantasie più o meno utili a provvedere ai bisogni quotidiani di milioni di persone che però votano sempre meno perché si sentono privati della sovranità vera: la libera scelta dei rappresentanti anziché la ratifica di candidati imposti da congreghe di potere.
Mala tempora currunt
Nel 2022 non figurano dunque “all’ordine del giorno” le modalità di elezione del presidente della Repubblica. Esse sono quelle che sono e, al pari dei poteri del Capo dello Stato, non vengono certo cambiate “in corsa” né, tanto meno, da un Parlamento agonizzante qual è l'attuale. Le Camere talora lamentano di avere poco spazio per la discussione di leggi importanti, ma hanno sciupato mesi in dibattiti futili ed essersi fatte esautorare su questioni fondamentali, come le misure sulla sanità pubblica e le discusse limitazioni delle libertà costituzionali.
  Nondimeno questo Parlamento qualcosa di memorabile ha fatto: in un raptus “alla Origene” ha approvato quasi all'unanimità il drastico “taglio” dei componenti delle Camere venture. I problemi incombenti sono immensi. Lontanissimi dalla piccola gara fra i tre o quattro partiti che si disputano la palma di chi primeggi con un misero 20% dei voti di quel 60% di cittadini che ancora si recano alle urne. Uscita rovinosamente sconfitta dalla guerra del 1940-1945, completa di atroce guerra civile, per la saggezza di alcuni suoi “Maggiori” l'Italia odierna è a sovranità limitata e quindi non corre soverchi rischi. Però, come nel passato, può farsi e si fa  molto male da sé. Per esempio continuando a discutere sul sesso degli angeli mentre servirebbe l'Arcangelo Michele con la spada fiammeggiante.
  Non è più tempo di bizantinismi ma di concretezza, per dimostrare la consistenza del regime instaurato dalla Costituente. L'alternativa è una Costituente nuova, che richiede tempo, pazienza e competenze: non proposte infantili, come il conferimento del diritto di voto ai sedicenni e l'identità dei corpi elettorali delle due Camere, in barba alla auspicata differenziazione delle loro funzioni. 
Aldo A. Mola
 
Didascalia: Il Quirinale. Palazzo dei Papi e, in continuità, dei Capi dello Stato d'Italia: quattro re nel volgere di 76 anni, tra il 1870 e il 1946 (Vittorio Emanuele II, Umberto I, Vittorio Emanuele III e Umberto II) e le presidenze di Enrico De Nicola, Luigi Einaudi, Giovanni Gronchi, Antonio Segni, supplito da Cesare Merzagora, Giuseppe Saragat, Giovanni Leone, Sandro Pertini, Francesco Cossiga, Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Campi, Giorgio Napolitano, Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella: quattordici in 75 anni, come ricorda Tito Lucrezio Rizzo in “Parla il Capo dello Stato”. Altri, come Alfredo Orioli, riducono le Presidenze ai loro dodici titolari, sicché il prossimo sarebbe il numero 13. Di buono o di cattivo augurio? 

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